SOCIALITA’ Ed AUTORITA’

 

Il dinamismo associativo

 

La vita associativa è costituita da relazioni permanenti di convivenza e collaborazione nell’ambito di una comunità, in ordine al conseguimento dei fini specifici diversi nelle diverse comunità: comunità domestica per la propagazione della specie e l’integrazione psico-somatica, spirituale e giuridica della coppia umana e della prole; comunità civile e politica, per il bene e benessere temporale; comunità religiosa per il bene spirituale ed eterno.

La società è una comunità in cui tali relazioni trovano una adeguata strutturazione e organizzazione di servizi sulla base del diritto che fissa e distribuisce compiti, doveri, oneri, benefici, per garantire e promuovere l’ordine sociale.

Vi è infatti un dinamismo evolutivo delle relazioni umane che dà luogo alle varie forme associative (o aggregati sociali), definite dai sociologi in base alla diversità della loro costituzione e dei fini a cui tendono. Si distinguono così:

a) folla: aggregato ordinato ma senza avere relazioni tra i suoi componenti e senza uno scopo ben determinato per tutto l’insieme; esso non adempie una funzione particolare ma semplicemente occupa uno spazio fisico: unico elemento di unione, di compattezza, può essere costituito da un grado elevato di emotività;

 

b) massa: aggregato disorganizzato e discontinuo, che può diventare una sistematica combinazione di gruppi e persone (classe, società), ma intanto è una composizione eterogenea di individui, non istituzionalizzata, non strutturata, nella quale i singoli componenti tendono ad azioni e posizioni di natura individualistica;

 

c) gruppo: collettività identificabile, strutturata e permanete, nella quale le singole persone svolgono con reciproco interesse dei ruoli che seguono norme e si ispirano a valori sociali per conseguire fini comuni;

 

d) comunità: gruppo omogeneo di persone che sono in mutua relazione su un determinato territorio o in base ad altri vincoli permanenti (nazionalità, spiritualità, religione, oltre a quelli familiari) e che si servono di mezzi comuni per il perseguimento dei fini comuni;

 

e) società: collettività organizzata e giuridicamente costituita di persone che vivono insieme su di un comune territorio o si uniscono secondo altri vincoli permanenti, e cooperano mediante i gruppi che compongono nel loro dinamismo evolutivo per soddisfare i loro bisogni sociali fondamentali, così da formare una nuova e superiore.

Si può fare anche una ulteriore classifica degli aggregati sociali fondata sulla forma psicologica dei legami dei gruppi: gruppi fortuiti (folla, pubblico ecc.); gruppi naturali (famiglia, clan, nazione ecc.), gruppi di somiglianza psicologica (classi, partiti, professioni ecc.), gruppi di interesse (Stato, società, sindacati, corporazioni, organizzazioni professionali ecc.), gruppi di ideale (religione, cultura, sollievo ecc.).

 

COMUNITA’ E STRUTTURA SOCIALE

 

La comunità nasce per impeto spontaneo intorno a valori comuni, che quasi istintivamente vengono abbracciati, sentiti, cercati. Sorgono così la famiglia, che nasce da un impulso di armonica integrazione di qualità e esigenze diverse di ordine fisico, psicologico, morale; la nazione che si forma per il bisogno di salvaguardare e incrementare certi valori comuni, quali la lingua, la razza, la cultura, la religione ecc., a cui sono legate molte persone che intendono vivere insieme e coordinare la loro attività in ordine a quei valori; la comunità religiosa – o chiesa – in cui i credenti si associano per il raggiungimento dei valori comuni etici e spirituali in vista del fine ultimo, il bene eterno, sulla base di una dottrina che abbracciano con fede.

Per raggiungere i propri scopi e affermare i valori che le premono, la comunità ha bisogno di strutturarsi, incrementando e disciplinando così le attività che concernono tali valori, per tradursi in bene comune, fine ultimo della vita associativa.

 

L’ AUTORITA’ COME PRINCIPIO UNIFICANTE

 

Ogni struttura implica un principio unificante, un punto di consistenza della sua unità Ogni “tutto” organico ha bisogno di un principio generico e ordinativo di tutte le sue parti.

Nella vita associativa tale principio è l’autorità, come forza morale che nelle comunità più grandi prende forma giuridica per disciplinare le attività poste liberamente nella vita associativa in ordine al bene comune. Le azioni individuali si disperderebbero e forse anche si annullerebbero mutualmente, ne potrebbe esservi convivenza umana, se non ci fosse una guida superiore che indirizzi tutti ad uno scopo unico: appunto l’attuazione del bene comune.

In realtà la comunità esiste solo quando tutto il complesso molteplice e vario di energie tendenti ad un unico fine riceve una sua strutturale, organica e dinamica unificazione da un principio direttivo capace di realizzare e garantire quelle generali condizioni di ordine e di socialità nelle quali i singoli possono operare per raggiungere con dignità di persone e solidarietà di gruppo la loro finalità.

 

LE FORME DI ATTUAZIONE DELL’ AUTORITA’

 

L’ autorità svolge la sua funzione di propulsione, coordinazione e regolazione dell’attività sociale mediante le leggi e il governo. Essa interviene in tutto lo svolgersi della vita economica, sociale, culturale per garantire l’ ordine, favorire la libertà, impedire lotte, sopraffazioni e torti reciproci, favorire l’equilibrio nel rispetto dei diritti e nell’adempimento dei doveri, per orientare e sostenere gli individui e i gruppi, secondo i loro bisogni e le loro legittime aspirazioni, verso la perfezione da raggiungere non solo nell’ambito dei beni economici ma anche e soprattutto di quelli spirituali ( cultura, moralità, religione)..

L’ azione sociale ordinata e coordinata secondo le leggi per raggiungere il bene comune, è la politica intesa nel suo senso più comune.

Ma si noti: le norme date per lo svolgimento dell’attività sociale in ordine al bene non attraggono talmente i membri della società da ottenere infallibilmente il giusto adempimento dei loro doveri.

Inoltre è inevitabile che sorgano contese intorno all’ entità, all’ estensione e al rapporto dei doveri e dei diritti. In caso di inadempimento o addirittura di attività contraria al bene della società, scatta nei singoli e nella comunità un istintivo movimento che applica al comportamento sociale un giudizio di valore: la conformità alla norma è di solito connessa con l’approvazione dei propri simili, e la non conformità con la disapprovazione.

Però questo meccanismo non è sufficiente a ottenere l’adempimento, o a riparare l’ordine sociale violato con la trasgressione, e in ogni caso a conferire efficacia alle leggi, se queste non sono accompagnate dalla sanzione e quindi dal giudizio nei casi di lesione dell’organicità e dell’unità sociale mediante l’infrazione.

Questo è appunto l’effetto sociale della violazione delle leggi: essa sconvolge il fondamento stesso della vita associata; perciò la cura del bene comune esige che si facciano osservare le leggi e si puniscano i loro trasgressori per salvaguardare la consistenza della società, meglio ottenendo la coesistenza e lo sviluppo armonico delle libere attività individuali in ordine al bene comune.

Oltre a questa funzione di difesa sociale, la sanzione ha anche per i singoli nil valore di una pena per l’azione commessa; e più ancora la funzione pedagogica di educazione o rieducazione sociale e comunitaria.

Di qui la necessità dell’autorità giudiziaria nella società

 

L’ AUTORITA’ COME SERVIZIO AL BENE COMUNE

 

La funzione dell’autorità nella società è un servizio che tocca anche ni singoli cittadini, perchè li subordina alla legge, alle esigenze del bene comune, all’ ordine, e adegua la loro attività personale alla dinamica dello sviluppo sociale, ma vale soprattutto per la comunità come tale, che nel suo insieme deve essere retta e diretta in ordine al bene comune.

La direzione delle azioni sociali e il contenimento e la sanzione delle trasgressioni dei singoli; l’azione propulsiva delle capacità operative di tutti; la difesa e l’incremento delle libertà civiche sono compiti dell’autorità che si commisurano a finalità che concernono il bene di tutti.

Nel mondo moderno si è sempre meglio messa in luce la necessità di questo intervento dell’autorità come organo che contribuisce positivamente a promuovere, assicurare e sviluppare, nella tranquillità dell’ordine, il progresso morale e economico della società ben al di là di una semplice funzione di tutela dei diritti dei singoli e dello stato. Tutta la dinamica evolutiva della società deve essere interpretata, servita, favorita e canalizzata dall’ autorità, proprio per la sua natura di vice-gerenza del popolo e di servizio al bene comune.

In realtà il bene comune è la ragion d’ essere come della società così dell’autorità. L’ autorità è lo strumento principale di cui si avvale la società per raggiungere il suo fine, che è l’attuazione del bene comune. Di conseguenza il bene comune deve pur essere il fine dell’autorità. Esso è dunque anche il criterio della costituzione dell’autorità e del suo esercizio, della sua legittimità e della sua efficienza.

 

L’ AUTORITA’ COME MAGISTERO

 

L’ autorità in ordine al bene comune svolge anche una funzione di formazione e di guida morale delle persone umane.

E’ vero che il fine comune di per sè dovrebbe polarizzare gli intenti e le azioni dei componenti la società, i quali, per la loro stessa tendenza naturale alla socialità, dovrebbero sentire l’obbligo morale di adoperare i mezzi necessari per il conseguimento del bene comune. Ma per il contrasto che ogni uomo porta in sè, tra passione e ragione, e per le facili deviazioni e reazioni antisociali a cui porta la passione così spesso prevalente sui dettami della ragione, s’ impone la necessità dell’ autorità come organo che per mezzo del diritto cerca di orientare e di contenere le attività di tutti nel giusto ordine al bene comune, evitando ogni discriminazione arbitraria e favorendo l’ armonizzazione di tutti gli interessi, sicchè in questo modo è di aiuto anche alla realizzazione del valore morale dell’ azione libera, armonizzata con la disciplina secondo le esigenze del bene comune.

 

Don Walter Trovato




Dove va la chiesa?

Che strada prenderà la “Chiesa sinodale”

voluta da Papa Francesco?

 

Oggi nel mondo “progressista” l’imperativo culturale è di essere nell’ordine: ”inclusivi”, “resilienti”, “sostenibili”, “green”, “accoglienti”, “politically correct”, ovviamente “antifascisti” e – se vogliamo essere al top del progressismo – anche “democratici” con tanto di tessera. Un tocco di cultura “woke”, giusto per utilizzare un termine esterofilo, non guasterebbe, ma da noi in Italia è ancora poco conosciuta, anche se c’è da ritenere che arriverà presto.

Con una simile carta d’identità si può stare certi che si finisce sulle pagine dei principali quotidiani di sinistra, come pure nei dibattiti delle variegate reti televisive presenti sul mercato. Infatti, nel nostro incompiuto bipolarismo odierno abbiamo: da una parte coloro che si ritengono “progressisti”, cioè i depositari del futuro luminoso già intravvisto da Marx, Lenin, Stalin, Mao, Pol Pot e da tutti gli epigoni delle svariate e sanguinarie rivoluzioni comuniste. Dall’altra i più modesti e moderati “conservatori”, alcuni dei quali non sempre sinceri, con le loro sfaccettature di centro, centro-destra e destra fino alle ali più estreme, ali che esistono del resto anche a sinistra.

Perché tutta questa premessa su destra-sinistra in un articolo che dovrebbe parlare del Papa? Perché legittimamente sempre più cattolici italiani, ma anche di tutto il mondo, si stanno interrogando se il pontefice attuale, Francesco, al secolo Jorge Maria Bergoglio, sia un po’ troppo “progressista” e se abbia intenzione di cambiare dall’interno, in maniera radicale, la Chiesa a lui affidata come successore dell’apostolo Pietro.

Non vorremmo essere irriverenti verso questo pontefice venuto “da molto lontano”, che nei fatti, sin dai primi giorni, si è dimostrato “rivoluzionario” se non addirittura eversore della tradizione apostolica cui eravamo abituati a conoscere con Giovanni Paolo II e con Benedetto XVI. Infatti ha concesso interviste al direttore di Repubblica, Scalfari, che non registrava ma mandava a memoria le sue risposte e poi le proponeva “molto liberamente” in lunghissime interviste non smentite dall’autore. Forse per questo sono iniziate a fare capolino affermazioni deflagranti che ci hanno stupito.

Saltando il “chi sono io per giudicare”, riferito a un gay “che cerca Dio”, Francesco non ha aggiunto che per evitare il peccato mortale e il rischio di “finire all’Inferno” sia opportuno che lo stesso gay smetta di compiere atti di amore omosessuale. Sembra del resto, non avere ricordato ai fedeli che la “castità” è un valore che si riferisce a tutti, eterosessuali e omosessuali, donne e uomini, sposati e single, consacrati o semplici credenti. Per lo più, il Papa evita di richiamarlo apertamente, così che sembra che la castità sia scomparsa dal “radar” ecclesiale. Ebbene, muovendo verso l’oggi dopo la follia della adorazione in Vaticano della Pachamama, una sorta di divinità delle tribù amazzoniche, davanti alla quale scandalosamente si sono inchinati preti e vescovi, prelati e semplici chierici. Nessuno si è dimenticato della “apertura” alle coppie irregolari, dove in pratica la situazione di evidente e aperto adulterio viene accettata e giustificata visto che possono prendere la comunione. Come anche la “benedizione delle coppie omosessuali” fatta di nascosto, senza ufficialità ma comunque fatta da un prete, una specie di preludio alla accettazione futura del matrimonio omosessuale perché “Dio accetta tutti tutti tutti, così come sono”,

Queste le parole spesso usate dal Numero uno in Vaticano verso gli LGBTQ+ …

E che dire della benedizione delle politiche green, come pure dei vaccini per il Covid definiti da Francesco un “atto d’amore”? Oppure del sostegno aperto alle tesi del World Economic Forum con le politiche antiumanistiche sul “grande reset”? E, andando avanti con le stranezze verso le quali Francesco ci ha abituato, come valutare le scelte accomodanti con la Cina tramite l’accordo bilaterale col quale, di fatto, il governo cinese mette becco sulla scelta di vescovi potendo imporre quelli “amici” del regime?

La novità più recente, e forse più importante, è quella odierna che riguarda la terza fase del Sinodo dei vescovi che si terrà in ottobre.

Orbene, anche qui la novità grossa è che Francesco sta imponendo una “agenda” ecclesiale basata sul concetto che la mentalità “sinodale” dovrebbe essere quella che regge e orienta la Chiesa del futuro, secondo la quale, il ruolo della gerarchia “Papa, Cardinali, Vescovi, Parroci ecc.” viene ridotto quasi a, e dove a imperare in una sorta di nuovo “parlamento ecclesiale” è appunto l’assemblea sinodale all’interno della quale tutti possono dire la loro. Curiosamente, quasi si arriva a utilizzare il principio grillino dell’ “uno vale uno”, nel senso che l’ultimo dei fedeli potrebbe essere portatore di una visione di valori e di istanze reputate equivalenti o superiori a quelli espressi dalla stessa gerarchia, la gestione dei fedeli potrebbe essere affidata a una sorta di assemblea di base all’insegna di un inedito “politically correct” ecclesiale.

Perché ci soffermiamo su questi aspetti? Perché la visione di Francesco, almeno ciò che si lascia intuire, è quella di spostare l’asse culturale e gerarchico della Chiesa cattolica verso una sorta di “progressismo inclusivo e resiliente”, dove si prefigurano senza dirlo apertamente, una nuova struttura ecclesiale in stile protestante, con il Papa non più apertamente considerato Vicario di Cristo in terra e coi pieni poteri a lui conferiti “Ciò che legherai in terra sarà legato nei cieli, ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”, ma una sorta di primus inter pares, che dialoga con luterani, ortodossi, evangelici e similari quasi alla pari, rinunciando nei fatti all’autorità conferita a Pietro e ai suoi successori un paio di migliaia di anni fa da Gesù in persona.

Sarà giusta questa interpretazione progressista della Chiesa di Francesco? Oppure la sua “Chiesa sinodale” è una forzatura riduttiva e snaturante della Chiesa tradizionale che abbiamo sin qui conosciuto? Lo “strumento di lavoro” del Sinodo varato nei giorni scorsi lascia aperte molte domande su questioni quali ruolo della gerarchia, assemblee sinodali, ruolo delle donne, accoglienza e integrazione dei gay e di tutte le minoranze possibili e immaginabili. Nel frattempo con i riottosi che cercano di resistere alle sue novità, definite “processi”, Francesco ci va giù pesante e con chi non “si allinea”, è forse un esempio mons. Viganò e diversi istituti religiosi maschili e femminili “tradizionalisti”, arrivano scomuniche, espulsioni dallo stato religioso, confisca dei beni dei monasteri, riduzione sul lastrico di interi gruppi di suore o religiosi colpevoli di essere legati ai loro carismi all’ “antica”.

Per i credenti “normali”, come probabilmente molti di noi sono, il momento è molto preoccupante ma anche promettente.

O la Chiesa prende coscienza che qualcosa di profondo sta avvenendo, oppure c’è il rischio che fra qualche anno o decennio ci sveglieremo e scopriremo che quella istituzione spirituale voluta da Gesù si sia trasformata in una specie di gigantesca Ong, se non peggio ….

Molti lo temono, altri sono fiduciosi che non accadrà.

Non praevalebunt, ovvero le porte degli inferi non prevarranno.

Il Credente




“Cosa ti piace davvero?”

Se lo sai, hai un Destino!

Un “destino” di nome Roberta

“Din!” Tintinna la notifica di whatsapp all’arrivo di un nuovo messaggio. È un aggiornamento di Roberta Callegari, titolare della libreria Wälti e organizzatrice di eventi culturali a Lugano. Ho un tuffo al cuore. Le rispondo prontamente che ci sarò, e che mi piacerebbe intervistare lo Scrittore. Presto fatto. In pochi minuti mi conferma l’appuntamento per il giorno dopo. 

Igor Sibaldi ritorna in Città per presentare uno dei suoi ultimi libri, pubblicato a maggio di quest’anno per Mondadori: “Ribellarsi al destino – Impara a non rassegnarti e prendi sul serio i tuoi desideri”. Sono queste parole a risuonare in me, come accade fra diapason tarati alla stessa frequenza. Un “destino” di nome Roberta ci permette di incontrarci in una saletta del LAC, affacciata sul chiostro della Chiesa Santa Maria degli Angioli.

È la prima volta che lo incontro di persona e, seduta accanto a lui, non posso non notare il colore cangiante e rarissimo dei suoi occhi. 

“Perché Suor Soubrette?” Mi chiede con un sorriso. 

Gli rispondo porgendogli una copia del mio libro, che avevo portato con me completo di dedica personalizzata. “Igor”, così mi fa sapere di voler essere chiamato, è un uomo “down to earth”. Semplice e schietto. Mi sento a mio agio. Gli anticipo cosa ho pensato di scrivere a mo’ di introduzione all’articolo. È d’accordo. Ed ecco, in sintesi, di cosa parleremo. 

Sommario

Cos’è il Destino? Nel Sibaldi pensiero è una sorta di gabbia dorata – l’immagine è mia, nel tentativo di esprimervi il suo messaggio in metafora – posata su certezze assolute imposte da famiglia, società, sistema educativo, psicologia, morale, progresso… Le sbarre sono costituite da limitazioni sia interiori, sia collettive. Chiusi lì dentro, ci si è assuefatti a un linguaggio intriso di “Devi… Non devi… Puoi… Non puoi…” e il tremendissimo “bisogna”, con cui non ce la si può prendere perché non c’è nessuno con cui confrontarsi. Bisogna e basta. Ecco. Nella prigione dorata del Destino, definito dall’Autore come “sensazione che una qualche forza sconosciuta stia limitando la mia libertà”, vivono, anzi, sopravvivono gli “adeguati”. Questi ultimi sono, purtroppo, la maggioranza silenziosa di chi non osa farsi domande, né mettere alcunché in discussione.

Ed ecco che Igor porge una chiave a chiunque desideri rispondere al suo appello: “Puoi uscire di lì, a patto che tu risponda alla domanda: ‘Cosa ti piace DAVVERO?’”. 

E qui, la massa si divide in due gruppi: quelli che rispondono con certezza, in pochi secondi, hanno un destino, cioè avvertono una sensazione di limitatezza, accorgendosi di desiderare qualcosa che ancora non sono, non fanno, non hanno… Gli altri, quelli che ci pensano troppo, si chiedono se possano o non possano, debbano o non debbano, desiderare alcunché al di fuori della gabbia dei puoi, devi e bisogna.

La chiave comunque è stata offerta a chiunque voglia trovare, al di fuori del sistema, un’autentica libertà.

Ma c’è un prezzo da pagare: per intraprendere il suo viaggio dell’Eroe alla conquista del vero Sé e dei propri Desideri, il “disadeguante” deve trovare la forza per mollare tutto e, se necessario, ripartire da zero. E dove può ricavare questa energia? Secondo Igor nei suoi “difetti”, che assurgono al ruolo di Mentori.

Gli avversari invece sono sempre i suoi limiti, auto o etero imposti che siano.

Il premio finale, il “successus”, è dell’Eroe che rinuncia a chi era ed è, per lasciar posto a chi sarà. L’importante è che, durante il suo non facile percorso, impari a fidarsi di ciò che gli può accadere. E qui, Igor mette in evidenza come il verbo inglese “happen”, accadere appunto, condivida la sua radice con il sostantivo “happiness”, felicità. Come a dire: sei felice se non ti accontenti e ti fidi di ciò che ti può succedere.

Incontro con Igor Sibaldi

J.L.: Cosa vuol dire “desiderare”?

I.S.: Il contrario di “considerare”. Considerare vuol dire “tener conto delle autorità”. Desiderare vuol dire “non mi importano le autorità”. Le autorità possono essere i governi, la massa, la tradizione, i genitori. Considerare vuol dire “Io considero tutto, sono una persona prudente e attenta.” De-sidero, De-siderare: “Me ne vado via, ignoro le autorità e ragiono con la mia testa.” 

J.L.: Da dove vengono i desideri?

I.S.: Dal futuro. 

J.L.: Possiamo considerarli indizi di chi siamo realmente?

I.S.:. No. Di chi saremo. 

J.L.: In che modo hanno a che vedere con la nostra chiamata?

I.S.: La nostra chiamata è il futuro nostro che comincia a battere un po’ i piedi: “Insomma, arrivi o non arrivi?” Tutti pensano che il futuro non ci sia, ma il futuro c’è eccome! Ci sono tanti futuri. E il futuro più importante è quello che si chiama di solito “chiamata”, che ispira i desideri. 

J.L.: Che cosa intendi qui per difetti?

I.S.: I difetti sono, secondo me, le proteste all’adeguamento. La massa dice: “Bisogna fare questo e quest’altro sennò non vai bene, sennò non sei normale.” Difetto è dire: “No, io non sono normale e neppure voglio esserlo.”

J.L.: Chi ha stabilito siano difetti? 

I.S.:  La tradizione. E la morale. Morale nel senso: usi e costumi di una determinata epoca… Che naturalmente sono diversi dagli usi e costumi dell’epoca precedente e di un’epoca futura. 

J.L.: In base a quali parametri di riferimento?

I.S.: In base al criterio di adattamento. Quella che si chiama “pressione selettiva”. O sei così, o non ti prendo in considerazione. Se hai ancora il Nokia, non ti guardo neanche. È un difetto avere un Nokia, naturalmente. 

J.L.: (in un sospiro gli confido di averne uno, appena acquistato)

I.S.: (sorride)

J.L.: C’è chi ha fatto dei difetti un pretesto per inseguire un ideale di perfezione… Un’altra prigione?

I.S.: Purtroppo sì. Perché l’ideale di perfezione, se uno lo precisa prima di raggiungerlo, è ancora passato. C’è un passo bello della Bibbia, Genesi capitolo 12, in cui Dio si rivolge ad Abramo che è già anziano, e gli dice: “Cambia vita”. Gli dice: “Vieni e ti porterò in un paese che io ti indicherò quando sarai partito. Cioè, non partire per un programma già pronto, altrimenti non mi interessi.” Il problema degli ideali è che sono basati su quello che uno sa adesso, e sono delle preclusioni a tutte le possibilità future. 

J.L.: Chi e cosa sono gli avversari interiori?

I.S.: Sono numerosissimi. Tutti quelli che popolano il nostro passato. Quasi tutti, naturalmente. Possiamo benissimo elencare ai primi posti i nostri genitori. Gli amici, i fidanzati, gli insegnanti… E così via… Poi, naturalmente, tutte le persone che gli altri rispettano e che noi pensiamo di dover rispettare. Il peggiore di tutti, il più cattivo, non è una persona, non è una figura umana, ma è il senso di colpa. 

J.L.: Conviene affrontarli, combatterli e vincerli o conviene piuttosto ignorarli? 

I.S.: Ignorarli è impossibile. Bisogna per forza venirne a capo. Tanto per citare ancora la Bibbia, c’è questa interpretazione consueta della storia di Caino e Abele, che vuole che Caino sia un contadino e che Abele sia un pastore. Nel testo originale non è scritto così. Nel testo originale Caino è un esploratore, e Abele è un costruttore di recinti. E sono fratelli. E Caino non sopporta di avere come punto di riferimento, come personalità critica che lo giudica, un costruttore di recinti. E l’unica possibilità di disfarsene è, secondo la Bibbia, eliminarlo. Tanto non si elimina mai Abele. Ritorna sempre. La cosa curiosa è che, dopo l’assassinio di Abele, Caino non chiede scusa. (Ride) E Dio non lo punisce. 

J.L.: Non lo punisce?

I.S.: No. Anzi. “Vai via da qua”, gli dice. Caino ha preso dalla mamma, che è Eva. Che è quella che ha disobbedito. E quella volta Yahveh dice: “Fuori di qui.” E loro (Adamo ed Eva ndr) han detto: “Va bene. Non vedevamo l’ora di uscire. Non ne potevamo più di stare qui dentro, in questo giardino sbarrato…” E con Caino fa lo stesso, lo manda via. E poi Yahveh ci pensa e dice: “Speriamo che nessuno lo superi, Caino, perché se incontra uno più forte di lui, quello lì sarà ancora peggiore.” Allora spara un incantesimo su Caino, che nessuno può superare la disobbedienza di Caino perché sennò, diventa troppo preoccupante. “Che nessuno tocchi Caino!” Di solito si pensa che voglia dire: “Nessuno se la prenda con il criminale!” Non è questo, è un’altra cosa. La Bibbia è piena di sorprese. 

J.L.: Potremmo fare dei nostri avversari interiori dei mentori? Degli alleati, invece che dei nemici?

I.S.: No. Sono draghi. I draghi sono animali interessantissimi, nella mitologia. Talmente interessanti che sono gli unici animali fantastici che compaiono nelle leggende dei santi. Vedi San Giorgio… Non ci sono unicorni, non ci sono fate, non ci sono gnomi, elfi… I draghi ci sono. Sono veramente una grande scoperta dell’umanità, i draghi. Inspiegabile. La paleontologia è del diciottesimo, diciannovesimo secolo. Cioè fino a fine Settecento e inizio Ottocento non sapevamo come fossero i dinosauri. La paleontologia è recentissima, come scienza. I draghi, nel Medioevo, addirittura nell’età greca, erano già “dinosauri”. Li avevan già visti! Ma come han fatto gli antichi a immaginare un dinosauro se i dinosauri sono scomparsi decine di milioni di anni prima che comparisse l’uomo? Questo è un bel problema che nessuno ha risolto… Interessante dal punto di vista mitologico è che il drago rappresenta sempre il passato. Il passato che non vuole passare. L’eroe a un certo punto deve uccidere questo drago. E quando uccide il drago, trova i tesori. Un tesoro lo trova Sigfrido, subito, nell’invulnerabilità. Uccide il drago e diventa invulnerabile. Il drago di Tolkien è seduto su un tesoro. Se uno riesce a eliminare il passato, trova un tesoro. È difficilissimo d’altra parte…

J.L.: Quali sono gli avversari collettivi e come possiamo riconoscere, combattere e vincere anche loro? 

I.S.: I peggiori di tutti – è una cosa che nessuno conosce – ne parlo tanto, ma vedo che non prende, questo argomento, anche se secondo me è appassionantissimo – è il conscio collettivo. Si parla tanto di inconscio collettivo. In Svizzera c’era Jung, che scopre l’inconscio collettivo. Il conscio collettivo è peggio. Il conscio collettivo è quello che si pensa di solito. È quello che è bene sapere per essere presenti, contemporanei. Non solo sapere ma anche pensare, ragionare, considerare… Questo è il conscio collettivo. Il conscio collettivo è un nemico potentissimo. Il conscio collettivo è fatto di “noi”. Il noi ha una caratteristica come pronome culturale: ha un nemico che non può tollerare, un nemico mortale del noi, mortale nel senso che il noi lo fa sempre fuori, che è l’io. Cioè il noi non tollera l’io. Il conscio collettivo è un noi. E l’io deve fare i conti con questo noi. Di solito resiste un pochino durante l’adolescenza, e poi cede e diventa un noi. L’io diventa come loro. Cioè io non sono più io, ma io divento una parte di un noi, che può essere tradizionalista, contestatario, innovatore, ribelle, però è sempre un noi. È una mentalità plurale, in cui l’io non è sopportabile. Il noi è quello che fa le guerre… Ci sono grandi esempi. L’esempio principale è nei Vangeli di Gesù, che continua a ribadire l’importanza dell’io… I Vangeli sono un romanzo di lotta fra l’io e il voi. Gesù ha sempre qualcuno che chiama “voi”. Voi, voi, voi, voi… Poi è venuto San Paolo che è molto più politico: “Sì, ‘io’ fino a un certo punto, l’io deve formare una bella rete di ‘noi’, che io dirigo…” (ride)

J.L.: … E ha posto le basi della chiesa, come la conosciamo oggi.  

I.S.: “Trasumanar significar per verba non si poria” – dice Igor, citando Dante nel primo canto del Paradiso – “Trasumanare” non si può dire per parole. Ma se uno l’ha provato, capisce quello che sto dicendo. È bello quel passo del Paradiso. Dice: “Io non te lo posso spiegare. Ti dò l’idea. Però se non l’hai provato lasciamo stare, fai finta di niente. Se l’hai provato però, ci capiamo bene. Quello che non ti posso spiegare neanche tu puoi spiegarlo, ma se l’hai provato ci capiamo.” Si comunica sempre nonostante le parole. Prima speravo che si comunicasse attraverso le parole, adesso si comunica nonostante le parole. Si comunica sempre per una forma di telepatia. Durante le conferenze… In tutte le forme d’arte è così. Se uno legge un libro, sono una serie di parole messe su una pagina. Se non c’è un pochino di telepatia, se non c’è un contatto che passa non attraverso le parole, ma nonostante le parole, non c’è dialogo. 

J.L.: “Adeguàti”. Si nasce con questa predisposizione all’adeguamento, o ci si adegua nel tempo? 

I.S.: Nooo… Cinque anni di elementari. Tre anni di medie… Cinque anni di superiori… Sono tredici anni di addestramento. Nessun animale ha un addestramento così lungo. Il gatto dopo un anno sa già tutto quello che c’è da sapere. L’uomo ha bisogno di tredici anni di ammaestramento. Tredici anni, per farlo diventare “adeguato”. Evidentemente c’è una resistenza terribile. Altrimenti le scuole durerebbero due anni, tre anni al massimo…

J.L.: E ribelli, si nasce o si impara a esserlo?

I.S.: Si nasce, come dimostra qualsiasi conversazione con un bambino che abbia meno di tre anni, basata sul “perché”. L’adulto fa resistenza. Una persona ribelle o rivoltosa è una persona che chiede perché. Quelli che non chiedono, si sono adeguati. Un bambino chiede perché. Poi comincia ad adeguarsi quando si accorge che l’adulto non è che non risponde perché non sa, non risponde perché non capisce. Prima grande delusione verso i tre, quattro anni. Poi verso i cinque, sei anni un’altra scoperta triste è che le parole del linguaggio comune non sono sufficienti. Non sono sufficienti a dire tutto quello che si potrebbe dire. Il vocabolario attivo di una certa epoca, specialmente della nostra, è scarso. Quindi per descrivere certe sfumature di sentimento, certe sfumature di percezione, non basta. È una scoperta molto rattristante, molto triste, che vuol dire che non potrò mai esprimermi… A meno che non diventi un artista. Però non tutti sanno che c’è questa scappatoia. Dopo comincia l’addestramento della scuola, e tutto il resto.  

J.L.: Come possiamo imparare a ribellarci al nostro destino?

I.S.: Si tratta di imparare, perché nessuno dei corsi attualmente immaginabili, scolastici, universitari e così via, tratta di questo argomento. Sono tutti corsi che si basano sull’adeguamento a qualcosa. Il destino può essere il destino collettivo, che è quello della maggioranza delle persone, o può essere il destino personale. Ci sono sempre i limiti. Limiti condivisi o limiti non condivisi. Le persone per bene, le persone non disturbate diciamo, tendono ad adeguarsi, all’inizio, per evitare problemi. Poi bisogna per forza reimparare, da adulti, quello che si sapeva già da bambini. Che si può chiedere perché. E i perché più utili sono quelli che non hanno risposta. Il grosso problema sono le domande che hanno già risposta… A scuola ti fanno domande che hanno la risposta pronta, e lo stesso quando sei tu a fare domande. Questo, dal punto di vista intellettuale, è una sciagura… Uno vince, fa punti, quando trova domande che non hanno risposta. Per ora. E ci vuole qualche settimana, qualche mese… E durante qualche settimana, qualche mese uno cresce tantissimo, grazie al fatto che ha trovato la domanda che finalmente non ha risposta. I cosiddetti “ribelli” al proprio destino e al destino collettivo, sono quelli che trovano le domande migliori. Naturalmente hanno una trappola, che è una qualche ideologia già pronta, che strumentalizza i ribelli. Cioè, c’è gente che fa domande domande domande, e c’è chi dice: “Ti dò io le risposte… Ma tu devi votare me. Devi seguire me, comperare i miei libri e i miei gadget.”

J.L. Come possiamo imparare a fidarci di ciò che ci può succedere?

I.S.:  Difficilissimo. Fidarci di quello che i latini chiamavano “successus”, quello che gli Inglesi chiamano “happiness”: essere in buoni rapporti col verbo “happen”, il verbo succedere. Difficilissimo. Tutti gli animali lo sanno fare. Gli animali, avendo una memoria molto spaziosa e non facilmente offendibile, si fidano di quello che può succedere. Devono cacciare, non hanno il supermercato… L’uomo, l’umanità, specialmente oggi, teme tantissimo quello che può succedere. Solo che è bene sapere che la parola “fortuna” viene dal vocabolo “forse”, che è lasciare un’incertezza sul futuro. Se uno non lascia e non ama questa incertezza, di fortuna non ne ha. E poi naturalmente se non si fida di quello che può succedere gliene capitano di tutti i colori. Perché deve dimostrare a se stesso che ha ragione a non fidarsi. E allora mi fido, ed ecco che mi dimentico le chiavi della macchina da qualche parte. Mi sono fidato, ed ecco che mi fidanzo con quella là. Ma porca miseria, se non mi fossi fidato… E sono tutte strategie di auto delusione per dimostrarci che è vero il modo di dire che chi lascia la strada vecchia per la nuova, sa quello che perde, non sa quello che trova. 

J.L.: Come facciamo a capire se siamo autenticamente liberi?

I.S.: Se sorridiamo. Naturalmente, non per cortesia. C’è una contrazione dei muscoli involontari dei muscoli delle guance, che porta al sorriso. Quello lì è un riflesso fisiologico, un sintomo di libertà. 

J.L.: Successo e essere felici vanno di pari passo o può anche essere che la felicità non sia, necessariamente, inclusa nel pacchetto “successo”?

I.S.: Ma… Dipende, perché in Italiano essere felici è una forma di contentezza. La felicità non è contentezza. Filologicamente non c’entra niente. Contento è uno che decide di farsi contenere, nella sua situazione. E tanti si rassegnano a essere contenti e pensano di essere felici. Invece felice sarebbe una persona che non si rassegna, che non si lascia contenere, che vuole sempre molto, molto di più ed è entusiasta di volere questo molto di più. 

J.L.:  Qual è il ruolo della mente, in questo viaggio eroico di uscita dalla morsa del Destino?

I.S.: Consigliera. 

J.L.: Qual è il ruolo giocato dalla fede?

I.S.: Grande freno. 

J.L.: Ok. Mettiamola su questo piano. A me piace molto e mi ispira distinguere sempre la spiritualità dalla religiosità. La spiritualità, perlomeno nella mia sensazione, è qualcosa che puoi sperimentare se non ti sei adeguato. La religiosità, invece, è qualcosa alla quale ti attieni magari per non sentirti in colpa o per mille altri motivi, quando ti adegui. Quindi, parlando di fede spirituale e non religiosa, dici lo stesso che è un grande freno?

I.S.: Sì. La differenza tra spiritualità e religiosità è una differenza di concretezza. La religione è chiara. La parola è chiara. Il verbo “religare” vuol dire “legare” la vite al sostegno. Che cresca lì e non cresca altrove. Chiaro. Spiritualità è molto vago. Spiritualità è vaghissimo, come termine. Perché si basa sulla parola spirito e nessuno che io conosca conosce il significato della parola spirito, nessuno per esempio sa definire la differenza tra spirito e anima. Dire “spiritualità” è come dire “nuvolette”. Il termine è volutamente modesto per motivi editoriali. Perché dire “spiritualità” è più evocativo. In realtà quello che sarebbe spiritualità, sarebbe filosofia. Solo che se uno dice filosofia come genere letterario, i lettori si scoraggiano. E allora si chiama “spiritualità”. Spiritualità è un po’ più disimpegnato di religione, bisogna vedere che cosa intendono le persone per spiritualità. Spiritualità vuol dire, penso, interesse per realtà che una persona può sperimentare da sola, per conto suo, senza maestri o con maestri temporanei. Allora questo va bene. Naturalmente la fede diventa un’ancora, l’ancora è utile quando si vuole stare in porto. Quando uno vuole stare in porto la fede è utilissima. Quando una persona si stufa di stare in porto, allora la fede diventa un intralcio. 

J.L.: Quali sono, secondo te, i valori più importanti con i quali equipaggiarci per uscire dalla morsa del destino… Se credi che possano esserci d’aiuto… 

I.S.: Ce n’è uno solo. La scoperta.

J.L.: E il ruolo del coraggio e della paura, nel risvegliarsi e rendersi conto che qualcosa andrebbe cambiato? 

I.S.: Coraggio è una parola molto sopravvalutata. È un epifenomeno. La paura scatta quando uno si trattiene. Basta non trattenersi e non c’è neanche bisogno di coraggio. 

J.L.: Come possiamo trovare la forza – uso questo termine per evitare la parola “coraggio”, che mi hai appena smontato – di mollare tutto? Su cosa si può fare leva se si vuole offrire a un essere umano l’opportunità di conquistare questa autentica libertà di cui si è parlato all’inizio? 

I.S.: Una volta avevo un amico molto caro, che era un pittore, anziano. È molto interessante parlare coi pittori mentre dipingono. Sono intelligentissimi in quel momento. Così come sono ispirati nel pennello, sono ispirati nelle parole. E gli chiedo: “Ennio – si chiama Ennio Toniolo – perché non ho il coraggio di guardare le nuvole? A me piacciono tantissimo le nuvole, però se le guardo dopo qualche secondo abbasso lo sguardo. Come mai..?” “Perché non sei abbastanza. Nuvole sono, tu non sei abbastanza…Ovvio.” Mi dice. “E come si fa a essere?” Lui mi dice, dipingendo: “Non si fa. Si è.” (Ride). 

J.L.: E questo essere è in continuo divenire…”

I.S.: Sì, essere vuol dire sentire che ti manca qualcosa. Quando una persona “è”, qualsiasi cosa sia, non c’è dubbio che appena accetta l’idea di essere qualcosa, si accorge che è troppo poco. E quindi comincia a divenire. 

J.L.: Come sei riuscito tu, a ribellarti al tuo destino? Sei nato in un contesto che ti ha permesso più libertà in questo senso? 

I.S.: Un po’ sicuramente il contesto. Perché metà famiglia russa, metà famiglia italiana… Avere due patrie vuol dire non averne nessuna, per essere fatalmente diversi. E poi la noia. La grande amica. Appena arriva la noia, è un regalo. Se una persona è sensibile alla noia, è salva. 

 




Avulso

Avulso

di Cassandra è figlio erede di commedie, arti 
oracolo certamente
scomodo e disprezzato
  Nemico della gente..
Invidiato e all’indice tenuto.
Sacerdote  laico a suo modo di retorica poetica  e di ambiente.
Non voglio cerimonie
Non voglio facce lavate e lavate  di faccia
  Date retta, L’incenso risparmiate.
Tanto lo so che morto  mi volevate..
Tanto lo
so’ che appena giravo l’angolo si facevano grasse risate
E dicevano:”
Perché devi essere meglio di me?
Perché devi avere più di me?
Non ho io …e non devi avere nemmeno te!.
Ti preferivo quando eri  uno dei tanti
innocuo  tra gli inconcludenti
quando ti potevamo controllare quando non ti montavi la testa e  volevi scrivere cose amare…
Quando non scrivevi cose che suscitano interesse e ammirazione
Togliendo protagonismo a tutta la popolazione..:
“Mio figlio si è laureato con 110  e lode
Adesso è magistrato
Anch’io ho  ho preso il master e sono ricercato ..”.
“E tu che cosa hai fatto ? Che cosa hai partorito?
Hai solo pubblicato parole alla rinfusa
Inconcludente dissennato!”
  miserabili maestri  di voi stessi
Accademia  unica dell’illazione,
dell’ingiuria, del sarcasmo vigliacchetto del non sono stato io…
Del fuori luogo,
infelice infelicitante
occhiante…
Bisbiglio tagliente meditato …
Del non detto ,dell’approssimato …
Del trattenuto tra i denti…
serrati e impenitenti.
sì… come la propria esistenza
ombra maligna  decisa
di chi è solo un povero ignorante.
…ma chi ti credi di essere non sai niente…
Baci di giuda e abbracci di rito a coronamento
Sorriso di circostanza simulato miserabile e forzato ma dovuto per apparire .. congiurante
Ora sono morto
In quelle pagine c’è tutto il mio torto
Quello fatto a voi… Naturalmente…
essenza del mio creato
Ma Sento e vedo tutto
Non a caso
Vedo Chi vivo non mi  poteva vedere e morto non si pareva a saziare.
Ma a tutti dico …
Io… A differenza vostra ,
ho amato.
E mo’…. come state?!
E mo’… Che non ci son più… Che fate?!.
E quando la barba allo specchio ogni mattina vi farete
Vedrete l’immagine di un Dorian Gray a cui  appartenete
Vergognandovi un pochino
Di quel che siete …




“Tutte per Donna Sufì”

Sophia Loren a sedici anni.
Ritratto di Sophia Loren, attrice italiana dall’aspetto glamour. Indossa un abito senza spalline, una collana e orecchini di diamanti. Su sfondo bianco, scattato intorno al 1950. (Photo by Silver Screen Collection/Getty Images)

Tutte le strade portano alla realizzazione di un Sogno

Chi non ha avuto almeno un sogno da bambino? 

Poi, strada facendo, c’è chi se ne è scordato, chi lo ha perso fra i grovigli dei più urgenti impegni quotidiani, chi ne ha fatto un hobby preferendogli un lavoro “vero”, chi invece lo ha inseguito fino a raggiungere la vetta del successo e da lì, brillando, illumina il sentiero di chi è ancora in viaggio.

La storia che sto per raccontarvi vede per protagoniste cinque donne, ciascuna nel proprio ruolo, tutte impegnate nello stesso bellissimo progetto: celebrare in un radiodramma lo splendore di una stella di prima grandezza del migliore cinema italiano e internazionale: Sophia Loren. 

Lei, che il suo Sogno lo vive da decenni, può ispirare i sognatori che ambiscano a distinguersi nell’arte cinematografica.

Ed ecco i nomi dei personaggi coinvolti in quest’opera, in ordine di apparizione.

Francesca Giorzi: Responsabile della fiction radiofonica della RSI, la Radio della Svizzera Italiana con sede a Lugano.

Jasmine Laurenti: (la scrivente) giornalista culturale per betapress.it, scrittrice nonché “voce” di Nunziatina, cameriera dell’attrice Sophia Loren nella sua residenza ginevrina.

Francesca Quattromini: attrice amatoriale napoletana, mia provvidenziale “coach” in accento partenopeo.

Margherita Coldesina: Attrice e scrittrice di poesie nonché autrice, regista e coprotagonista del radiodramma dedicato all’intramontabile figura di Sophia Loren.

Mariangela D’Abbraccio: nota e pluripremiata attrice italiana di cinema e teatro, “voce” della Signora Loren.

La cosa che più amo del mestiere di attrice è il suo sorprendermi in modi sempre nuovi e arricchenti.

Questo radiodramma, scritto, diretto e interpretato per la Radio Svizzera Italiana dall’artista ticinese Margherita Coldesina, ne è un esempio. Intorno al suo bellissimo lavoro dedicato a Sophia Loren, ci siamo riunite nello studio otto, presso la sede di Lugano Besso, il 23 aprile scorso; ciascuna con il proprio bagaglio esperienziale, ciascuna in cammino verso la realizzazione del proprio Sogno.

La Chiamata

Ma andiamo per ordine. 

Tutto comincia, per la sottoscritta, il 19 marzo, quando ricevo una chiamata da Francesca Giorzi, responsabile della fiction radiofonica della RSI a Lugano.

“Jasmine, c’è questo personaggio carino, una cameriera napoletana… Come sei messa con l’accento partenopeo?”

“Grazie per aver pensato a me! Sai Francesca, il dialetto napoletano non rientra fra le mie specialità. Temo di non potervi aiutare, stavolta…” 

“Le battute non sono tante, e poi hai più di un mese per prepararti…”

“Vabbè, dai, ci provo.” E mentre lo dico, mi vedo lanciarmi fra le braccia di un tanghero argentino, io, che del tango ignoro pure i passi base. 

Il Mentore

Comincio a passare in rassegna le donne di Napoli che conosco. Mi viene in mente Chiara Sparacio, vicedirettore di Betapress.it, che è di origine siciliana ma vive a Napoli. È lei a mettermi in contatto con la giovane attrice Francesca Quattromini. Quest’ultima si presta gentilmente ad aiutarmi. Le propongo di lasciarmi un vocale su whatsapp, mentre legge le mie battute con accento partenopeo. Il gioco è fatto. Ho la sua traccia. Mi metto subito a “studiare”. Tanto, ho tutto il tempo che mi serve. 

Le Compagne di Viaggio

E arriva il grande giorno, alla radio.

Nella grande sala dove si registrano i radiodrammi, Margherita Coldesina è in postazione nelle vesti di autrice dell’opera, regista e attrice coprotagonista nella parte di… Se stessa!

Sin dalla più tenera età, lei scrive e recita. Il suo sogno è realizzarsi come attrice nel grande cinema. Come chi mira all’eccellenza, prende ispirazione da un’icona del cinema internazionale: Sofia Costanza Brigida Villani Scicolone, in arte Sophia Loren.

Ha appena sedici anni quando, sullo scaffale più alto di una videoteca, “incontra” la sua ignara mentore. Consuma, letteralmente, il nastro delle videocassette di novantatré su centoundici film, che vedono la sua stella polare brillare sul set accanto ad altri astri di fama mondiale.

Accanto a lei c’è Mariangela D’Abbraccio: stimata attrice napoletana, figlia e nipote d’arte, ha lavorato coi migliori in ambito cinematografico e teatrale. È lei che darà voce a “Donna Sufì”.

Da parte mia, Nunziatina, ce l’ho messa tutta per calcare le intonazioni suggeritemi da Francesca Quattromini nel suo vocale. Mi sento abbastanza pronta, ma l’incognita è grande. Margherita ha avi partenopei, Mariangela è un’attrice napoletana verace, Francesca pure… In “scova l’intruso” individuarmi è un gioco da ragazzi. 

E va bene, lo confesso: sono un’infiltrata, veneta da parte di padre e di madre. Non ho scampo, ma farò del mio meglio. Sudo freddo. 

La trama del radiodramma

Il radiodramma, che ha il sapore di un sogno lucido, profuma di caffè e ragù come si fanno a Napoli. Si svolge a Ginevra, nell’abitazione della mitica Sophia. Accanto a lei c’è la cameriera, “Nunziatina Esposito nata a Pozzuoli di anni sessantasette”, intenta a preparare il pranzo. 

A un certo punto suona il campanello e, per andare ad aprire, lascia il ragù sul fuoco. Trova una ragazza riversa sul pianerottolo, a “quatt’e bastune”: Margherita, appunto, nei panni della fan della celebre attrice. Le è bastato suonare il campanello e sentire la voce della domestica in arrivo per svenire, letteralmente, per la troppa emozione. Svenimento provvidenziale, il suo: la Loren, per consentire alla giovane donna di riprendersi, non solo decide di accoglierla in casa, ma anche di invitarla a pranzo.

Segue un divertente dialogo fra Sophia e Nunziatina la quale, scocciata per l’imprevisto che l’ha costretta a lasciare incustodito il suo ragù, se ne ritorna in cucina. 

Quindi serve a tavola e lascia le due donne a conversare, gustando il loro piatto di pasta. Tra una forchettata e un sorso di buon vino, Sophia e Margherita si scambiano memorie e aneddoti, via via arricchiti da dettagli inediti rivelati dalla Loren alla sua sempre più entusiasta ammiratrice.

Alla ricerca della Verità

Prima di registrare si fa una prova.

In sala nello studio otto siamo in tre: Margherita nei panni di se stessa, Mariangela nel ruolo di Sophia e la sottoscritta come Nunziatina. 

No, non va: il mio accento suona eccessivo, caricaturale. Ed è così che accade con i non nativi: per fingere di esserlo, si sforzano. Del resto, è quello a cui ci siamo abituati nel teatro goldoniano. Se gli attori non sono veneti, fingono di esserlo e si sente. Insomma: dobbiamo escogitare qualcos’altro. Un lieve accento francese? Un po’ mi dispiace, lo ammetto, per l’impegno che ci ho messo e anche per l’attrice di Napoli, Francesca Quattromini, che tanto gentilmente mi aveva aiutata. Del resto, comprendo che l’obiettivo è la naturalezza, non l’accento napoletano a tutti i costi. Così, si arriva alla conclusione che è meglio accennarlo appena. Interiorizzarlo, addirittura. Il risultato è più che dignitoso. Margherita è felice. Mariangela, sorridente e rilassata, annuisce. Francesca Giorzi entra in sala e ci scatta delle foto, immortalando la nostra avventura.

Funziona. Tiro un sospiro di sollievo. 

Mentre torno col pensiero a quei momenti, realizzo che noi donne eravamo spettatrici del graduale manifestarsi del sogno di Margherita.

L’Autrice infatti, come nelle migliori favole, aveva posto le premesse per avverare ben tre desideri: scrivere per la radio, incontrare di persona il suo Mito e, calcandone le orme, imporsi all’attenzione del grande cinema. 

Le auguro di cuore di seguire il brillìo della sua Stella fino a prenderne il testimone, sulla Vetta riservata a pochi eletti.

Mentre il suo viaggio è in corso, la raggiungo per un’intervista. 

 

L'attrice e scrittrice ticinese Margherita Coldesina

Il Sogno di Margherita Coldesina: “Non c’è nessuna porta”

J.L.: Chi è Margherita, oltre le parole che scrive e interpreta?

M.C.: È quella persona che la sta aspettando alla fermata successiva a quella in cui scende sempre.

J.L.: Qual era il suo sogno da bambina?

M.C.: Fare l’attrice oppure il falegname.

J.L.: A che punto è della sua realizzazione?

M.C.: Il falegname dell’anima sta scolpendo tutte le facce dell’attrice, compresa quella vera, incorruttibile anche dall’arte o dalle richieste di interpretare questo e l’altro personaggio.

J.L.: Aldilà del fatto che sia la leggenda vivente del cinema italiano e internazionale, perché proprio Sophia?

M.C.: Mi ha scelto lei, lei intesa come parte del tutto. Sophia è il frammento di un universo che ho conosciuto intimamente in altre vite, è un espediente incaricato di ricordarmi chi sono e perché sono qui sulla Terra con questa brama di calarmi in ruoli senza cinture di sicurezza allacciate. Quando entro in qualcosa, io ci entro del tutto, mi sporgo da me stessa e rischio tutto.

J.L.: Nella fiaba a lieto fine della tua icona, quali sono i momenti della sua vita privata e professionale che più ti ispirano nei momenti più sfidanti del tuo percorso?

M.C.: È nata sbagliata, con un padre che non l’ha riconosciuta. E invece di subire gli eventi conseguenti a un’infanzia fatta di miseria e fame, ha imbrigliato la sua sofferenza con le redini della disciplina e ha liberato il purosangue che sentiva intuitivamente di essere. E prima o poi, se sei un purosangue, corri talmente veloce che cambi il mondo e chi assiste alla tua corsa. Il coraggio, quando è incarnato, sconvolge, cambia le persone.

J.L.: So che, per poter scrivere di lei, hai passato in rassegna circa tremila tra giornali dell’epoca, riviste, rotocalchi e documenti d’archivio. E poi, le ore che hai trascorso a guardare novantotto dei suoi più che cento film e non una, ma più volte. Infine, ti ci sono voluti due anni per trovare il suo indirizzo di casa a Ginevra. Quanto è importante la perseveranza, nella realizzazione di un sogno?

M.C.: Direi che è l’unico requisito. Ma prima viene il talento. E la cosa bella è che ognuno ne ha uno. Una cosa in cui brilli ce l’hai tu, lui, la barista, quel bambino che gioca a calcio, la signora imbronciata qui vicino che beve un Martini. E col talento, se lo addestri, diventi un supereroe.

J.L.: E se il radiodramma fosse un modo per profetizzare il tuo incontro con Sophia nella vita reale? 

M.C.: Ne sono convinta. Ma, come dicono i saggi: “Tua è l’azione, ma non il frutto dell’azione.” Vedremo.

J.L.: Nell’opera riveli, di Sophia, l’aver vissuto il trauma del non riconoscimento da parte del padre. Se, come ipotizzi, è stato il dolore per quel rifiuto primordiale a spingerla sulla scala di un Successo planetario… Cos’è a spingere te a raggiungere la vetta del tuo successo?

M.C.: Anche io ho un Edipo consistente, mettiamola così. È sempre tutta una faccenda d’amore impastata con la tragedia, la vita. È come venire al mondo: funesto ed epifanico, no?

J.L.: A un certo punto, mentre si rivolge alla cameriera che minaccia di buttare il ragù rimasto a cuocere troppo a lungo, attribuisci alla Loren la frase: “Non l’hai patita tu la fame come me e mia sorella… E zia Dora, e mamma che cercava disperatamente tutto il giorno qualcosa da mangiare per noi, e mica si arrendeva.” E ancora: “Non un mito, ma una diva, sì. Coi piedi bene a terra, perché ho conosciuto la povertà, quella vera, ma ho anche vissuto un mondo dello star system che oggi ve lo sognate.” Sono parole che rendono l’idea di un’infanzia così umile e dura, che sembrerebbe impossibile poter soltanto immaginare, per la protagonista, un radioso futuro. Quanto può incidere e in che modo, secondo te, un critico esordio, sul buon esito di un destino? 

M.C.: Se non hai fame, non seminerai la terra, e non raccoglierai; se ti arrendi a soggiornare nella parte di te più diurna e ti rifiuti di sbirciare cosa c’è nascosto nel precipizio che ogni giorno ti sussurra all’orecchio le emozioni più violente, e le paure, e ciò che è inammissibile per te confessare, allora la vetta che ti è dato conquistare sarà rassicurante come una collinetta, al massimo un monte. Io punto alle stelle: quando arriverò in cima all’Everest cercherò una scala per il cielo e mi appenderò alla coda di un astro.

J.L.: Ecco, come vedi la tua ascesa nello Star System? Ritieni che al giorno d’oggi sia ancora possibile, per un’attrice, cogliere delle Opportunità, pur rimanendo fedele a se stessa e ai propri valori?  

M.C.: Credo che non esistano le epoche, esistono le proprie oscurità dalle quali emanciparsi; e non esistono le opportunità, esiste l’autolegittimazione a illuminare col proprio talento il mondo.

J.L.: Se il primo giro di boa artistico Sophia l’ha fatto grazie al sodalizio con il regista Vittorio De Sica, qual è il regista con cui stringeresti il tuo sodalizio artistico, per il tuo giro di boa?

M.C.: Se fossero vivi: Cassavetes e Visconti. Amo Woody Allen e Carlo Verdone, per restare sulla Terra. Ma anche centinaia di altri. Non è questione di registi, è questione di missione: so che mi verrà incontro chi favorirà l’esercizio di questo mandato che sento di avere.

J.L.: Quanto è importante, per te, il riconoscimento pubblico, come lasciare l’impronta delle proprie mani sulla Walk of Fame o l’assegnazione di un prestigioso premio? 

M.C.: Il mio piccolo io dice tantissimo, non vedo l’ora; il mio sé evoluto sorride. Indovina quale dei due è lecito ascoltare? Quale dei due ti rende più grande (e, di conseguenza, magicamente, artisticamente una bomba)?

J.L.: Sai, ho un debole per la mia bimba interiore. L’ho trascurata troppi anni per non tifare per lei. Oggi è a lei che dò la precedenza. E alla voce del Creatore, che tuona quando serve. Ma torniamo a Margherita. Riusciresti a conservare la tua semplicità, nonostante il Successo? 

M.C.: Chi mi conosce dice di sì. Vedremo, magari comprerò quattro limousine e girerò malvestita purché griffata, diventerò arrogante e smetterò di leggere i grandi maestri d’Oriente. Ma sospetto di no…

J.L.: La scena madre de “La Ciociara”, quella in cui Sophia, nei panni di Cesira, inveisce contro gli stupratori della figlia, è stata girata una volta sola. Com’è immedesimarsi in un ruolo al punto da viverne le emozioni in modo così vero, da non dover ripetere la scena una seconda volta? Come si fa a interpretare un ruolo in modo così autentico?  

M.C.: La bravura di un attore non è frutto di magia: è, banalmente, direttamente proporzionale al suo progresso spirituale in quanto essere umano, tutto lì.

J.L.: Nel tuo radiodramma Sophia dice: “Niente rende una donna più bella della convinzione di essere bella. Te lo devi sentire dentro, qui, nel petto.” Sono parole effettivamente sue, o gliele hai attribuite tu e se sì, in che modo rispecchiano il tuo approccio nei confronti dell’aspetto esteriore di una donna?

M.C.: Sono parole che le ho messo in bocca io, perché Sophia – se la guardi nelle interviste in TV appare in maniera eclatante – è così luminosa e ammantata di fascino perché dentro di sé ha costruito un edificio virtuoso. Una donna bella è bella solo perché è bella dentro, “sennò non ti innamori”. A dispetto di ciò che appare in superficie, la bellezza è meritocratica.

J.L.: Sophia, per te, non è soltanto il trionfo di curve e istinto: è l’emblema dell’incontro fra intelligenza e cuore: lì dove si incontrano il talento e l’opportunità. Come si fa a mettere d’accordo intelligenza e cuore?

M.C.: Avendo coraggio.

J.L.: E come si fa a riconoscere l’Opportunità della vita, quando si presenta?

M.C.: È ineludibile, suppongo. Io di sicuro la riconoscerò come riconoscerei un figlio.

J.L.: Per Sophia il coraggio è – parlando di Picasso – “Sapere di poter corrispondere perfettamente a ciò che vuole il costume dell’epoca – nel suo caso il realismo, e lui disegnava perfettamente – e decidere di spingersi oltre.” Cos’è il coraggio per Margherita?

M.C.: Avere una fede incrollabile nella missione che sento albergare in me. Esserne all’altezza. Proseguire, qualsiasi cosa (non) accada.

J.L.: Alla Loren fai dire: “Il cinema, cosa credi? Non è mica una passeggiata. Il cinema pretende; dà tanto, ma pretende.” A che cosa Margherita è disposta a rinunciare, per amore del suo Sogno?

M.C.: Alla versione di me che ha un minimo dubbio.

J.L.: Prima di lasciarci, vorrei tu dedicassi un pensiero a tutte le donne che stanno avanzando verso la realizzazione del proprio Sogno. 

M.C.: “La chiave è che non c’è nessuna porta.” È una delle mie ultime poesie, sicuramente una fra le mie preferite, ed è anche la frase-guida di un progetto di danza che sto sviluppando insieme a mia sorella Alessia, meravigliosa ballerina, donna e mamma.

J.L.: Ecco, appunto! Stai lavorando a nuovi progetti dietro le quinte? Ti va di anticiparci qualcosa?

M.C.: Quanto tempo abbiamo??!

J.L.: Eh, mi sa che è ora che raggiunga Francesca! (Saltando sul treno per Napoli) Ne parliamo la prossima volta, se ti va! (Esclamo, con voce portata, dal finestrino del treno in corsa).

 

Margherita Coldesina: Attrice, Scrittrice e Autrice di Radiodrammi per la Radio Svizzera Italiana

Il Sogno di Francesca Quattromini: “Illuminare il mondo”

Come già detto, a Francesca ho affidato le battute di Nunziatina, affinché le leggesse con accento napoletano in un vocale da inviarmi su whatsapp.

Riascoltando il suo messaggio più volte, sono riuscita – proprio io, veneta dal paleolitico da parte di padre e di madre – a interpretare il ruolo di una nativa di Pozzuoli che, in Svizzera da decenni, conserva ancora un’ombra delle proprie origini, nel modo di parlare spiccio e ironico.  

Attrice “non professionista” come tiene a precisare, recita da quando aveva tredici anni. Oggi va per i trentotto, ed è sempre attiva nel teatro amatoriale e nella produzione di audio fiction. Per lei la gavetta è quasi più importante del raggiungimento della… Vetta. 

La raggiungo per una breve chiacchierata e, visto che ci sono, le chiedo se ha un Sogno nel cassetto. Tutto quello che so, al momento, è che il 9 giugno prossimo, al Teatro Il Piccolo a Fuorigrotta (Napoli), sarà protagonista della commedia in due atti di Salvatore Barruffo “Un mistero al cimitero”. 

J.L.: A tredici anni hai preso parte a un laboratorio teatrale e da lì, non hai più smesso di recitare…

F.Q.: A undici anni, con le mie amiche, giocavo a interpretare i personaggi di alcuni film. È da lì che è nata, in me, la voglia di recitare. Poi un giorno mia madre venne a sapere che, vicino a dove abitavamo, si svolgeva un laboratorio teatrale. È lì che si è accesa in me la passione per il teatro, che amo con tutta me stessa.

J.L.: Hai preso parte a delle audio fiction con Yuri Salvatore (figlio dello scomparso artista napoletano Federico Salvatore, famoso per la sua canzone “Sulla Porta” ndr). Cosa ti ha lasciato questa esperienza come “voce”? Ti ha aiutata a crescere anche come attrice teatrale e se sì, in che modo?

F.Q.: Sono contentissima di aver preso parte a due audio fiction di Yuri Salvatore. Ha fondato la compagnia “Le Voci di Dentro”, di cui fanno parte attori di tutta Italia. Ogni attore manda a Yuri la registrazione della propria voce, così che possa essere aggiunta alle altre nella creazione dell’audio fiction. Aver potuto collaborare con lui mi ha arricchita tantissimo. Per noi attori, infatti, abituati ad avvalerci della gestualità e della mimica facciale per esprimere emozioni, riuscire a farlo con la voce soltanto è cosa non da poco. E poi, tieni conto che “Le Voci di Dentro” è nato proprio nel 2020, nel periodo più difficile per noi artisti, che non potevamo fare praticamente niente. Il suo è stato un modo per non far morire l’arte.

J.L.: Che consiglio daresti a chi volesse fare l’attore teatrale?

F.Q.: Il consiglio che gli darei è di non correre e fare la gavetta. Purtroppo i giovani d’oggi, anche per colpa dei talent, vogliono tutto e subito. Ma non funziona così. Se vuoi fare teatro, ad esempio, devi cominciare da zero e, magari, portare il caffè agli attori bravi cercando di carpire loro, dietro le quinte, i segreti del mestiere. Poi, pian pianino, iniziare con parti piccole e andare avanti, un passo alla volta, fino ad arrivare in cima. Se parti dalla vetta non impari nulla e “ti bruci”.

J.L.: So che sei stata scelta come protagonista di “Un Mistero al Cimitero”, commedia in due atti scritta e diretta da Salvatore Barruffo, in cartellone il prossimo 9 giugno al Teatro Il Piccolo a Fuorigrotta (NA).

F.Q.: Sì, reciterò il 9 giugno nella commedia “Un Mistero al Cimitero” del maestro Salvatore Barruffo, che recita da oltre quarant’anni – ha preso parte a “Un Posto al Sole” e a “La Squadra” – ha scritto moltissime commedie ed è autore di libri come “Cercasi cuore disperatamente” e “Tre casi per casa”.

J.L.: È la prima volta che reciti da protagonista?

F.Q.: No, non è la prima volta, ho interpretato il ruolo di Lisetta nella versione di Gianfranco Gallo della Lisistrata, “Quartieri Spagnoli”. Stavolta però è diverso, il personaggio di Lucia in “Un Mistero al Cimitero” è più importante… 

J.L.: Importante al punto di farti cambiare idea riguardo al tuo futuro come attrice di professione?

F.Q.: No, non cambio idea su questo. Non mi interessa né guadagnarci, né partire per le tournée. Sono felice della mia vita privata e disposta a tutto pur di proteggerla. A maggior ragione, ringrazio il maestro Salvatore Barruffo per avermi dato questa opportunità: lui ha visto e vede in me tante qualità. Lo ringrazio dal profondo del mio cuore, ma sto bene così. 

J.L.: Prendendo a pretesto il radiodramma scritto e diretto per la Radio Svizzera dall’attrice Margherita Coldesina, abbiamo parlato di sogni e del nostro viaggio verso la loro realizzazione. Qual è il tuo Sogno?

F.Q.: Il mio sogno è mantenere accesa, in me, la luce del mio amore per il teatro, che amo immensamente ed è una parte di me, e un’altra luce più grande: l’amore che sento per le persone che mi circondano e per la mia famiglia, mio figlio e mio marito. Il mio sogno è rimanere una fonte di positività per chi mi sta accanto e, per grazia di Dio, essere una brava persona. Mi auguro di riuscirci. 

J.L.: Grazie ancora Francesca, per avermi aiutata ad acquisire una prosodia partenopea! 

F.Q.: Grazie a te Jasmine ♥

 

 

 




La penna e la spada, chi vince oggi?

Il detto “la penna è più potente della spada” esprime un concetto profondamente radicato nella consapevolezza collettiva, sottolineando come le parole e le idee abbiano un impatto più duraturo e profondo rispetto alla forza bruta.

Questa metafora risale al drammaturgo inglese Edward Bulwer-Lytton nel 1839, nel suo dramma “Richelieu; Or the Conspiracy”.

La frase sottolinea il potere della comunicazione e della persuasione rispetto alla violenza fisica.

Tuttavia, questo concetto affronta una sfida cruciale nel contesto moderno, dove l’alfabetizzazione e le abilità di lettura stanno subendo trasformazioni significative, in particolare tra i giovani.

L’importanza della lettura è insostituibile per lo sviluppo intellettuale, la maturazione personale e la partecipazione attiva alla vita democratica di una società.

Attraverso la lettura, si acquisiscono non solo conoscenze ma anche strumenti critici per interpretare il mondo e agire su di esso.

In un’epoca dominata dall’immagine e dalla rapidità dell’informazione digitale, il calo delle competenze di lettura approfondita può rappresentare un rischio serio per il mantenimento di una cittadinanza informata e critica.

Il fenomeno del declino della lettura tra i giovani, spesso descritto in termini di “crisi dell’alfabetizzazione”, va visto in un contesto più ampio di cambiamenti socio-culturali e tecnologici.

Le nuove generazioni si trovano immerse in un flusso costante di informazioni brevi e visivamente accattivanti, come i post sui social media, che richiedono un impegno cognitivo diverso rispetto alla lettura prolungata di testi complessi.

Questa evoluzione può portare a una preferenza per le forme di comunicazione che richiedono minor sforzo interpretativo e critico.

Di fronte a questa sfida, è fondamentale riconoscere il valore della formazione all’alfabetizzazione critica come parte essenziale dell’educazione moderna.

Istruire i giovani non solo a leggere in modo funzionale ma anche critico è una necessità impellente.

Questo include la capacità di analizzare e valutare le fonti, comprendere contesti più ampi, riconoscere bias e presupposti, e formulare argomentazioni coerenti.

Inoltre, le scuole e le altre istituzioni educative hanno il dovere di adattare le metodologie didattiche per renderle più attinenti al mondo digitale in cui i giovani crescono.

Ciò potrebbe includere l’uso didattico dei media digitali per insegnare competenze di lettura critica, non solo attraverso libri di testo ma anche tramite piattaforme online, videogiochi educativi, e altre risorse digitali che possano stimolare l’interesse e l’engagement dei giovani.

In sintesi, mentre la penna può ancora essere più potente della spada in un mondo ideale dove le parole informano, educano e ispirano, la realtà attuale pone sfide significative a questo ideale.

Se i giovani perdono l’abilità o l’interesse nella lettura profonda, la società potrebbe trovarsi di fronte a problemi seri, come il deterioramento del dialogo pubblico e una minore capacità di affrontare questioni complesse in modo riflessivo e informato.

Per mantenere viva l’efficacia della penna, è cruciale investire nell’alfabetizzazione avanzata e critica delle nuove generazioni.

Ma chi deve fare questo sforzo di recupero sui giovani, solo la   scuola? 

la Famiglia?

Credo fermamente che questa sia una importante sfida per tutta la platea intellettuale italiana, dagli accademici ai politici, è necessario ripensare l’educazione dei giovani ma anche rivedere come stiamo proponendo ai giovani le strade per il loro futuro.

Come dico sempre non è che lavoro faremo che ci darà una buona vita, ma come lo faremo e chi saremo nel farlo.

 

 




25 aprile

Ammettiamolo, nonostante il rituale della convocazione istituzionale, non è facile pensare un 25 aprile difficile come questo.

Il calendario si conferma il solito luna-park.

Che siano week libresche, o apericene sensoriali, sul piano culturale e politico sembra di essere sul set di plastica di una fiction sul mondo nuovo.

Piuttosto mal riuscita.

Se questo è il quadro, dove opposizione e dissenso possono esistere solo ritagliandosi momenti di solitudine, lo spazio pubblico e anche le cene tra amici ormai sono divenuti luoghi della rimozione, parliamo forse di guerra?

come è possibile che giovedì prenda forma la prima grande manifestazione popolare contro tutti i massacri in corso e futuri?

Sarà certamente un corteo disunito, forse litigioso e rancoroso, speriamo senza censure o auto censure, che è anche peggio.

E del resto la crisi della rappresentanza da anni è palpabile proprio in questa occasione.

Ecco perché c’è uno strano silenzio attorno a questo settantanovesimo anniversario della Liberazione.

Ne riparleremo dopo il 25, le elezioni europee sono alle porte.

La sensazione che il corso degli eventi segua una logica inesorabile è forte e prevalgono sentimenti di impotenza e rassegnazione.

E un sentimento diffuso di sgomento e paura.

Paura per la guerra, per la postura guerrafondaia delle élite europee che genererà nuovi conflitti e per tragedie che non riusciamo nemmeno a nominare.

Ma in questa occasione, che ogni anno celebra la liberazione, nessuno può dare lezioni su come bisogna starci e con quali «parole d’ordine», perché la democrazia è anche conflitto e dissenso.

La Storia con tutti i suoi orrori non si cancella ma se c’è il sole, e non farà tanto freddo, noi che possiamo permettercelo, saremo anche un po’ felici.

 

#realtaaumentata di Barbara de Munari

 




PERSONA E COMUNITA’

 

L’uomo persona

 

Certamente l’individuo è sostanza, cioè realtà completa esistente e chiusa in se stessa, incomunicabile nel suo essere concreto, distinto da ogni altro.

Fra tutte le altre sostanze, gli individui di natura razionale ricevono il nome di persona “per sé una”, “hypostasis”, soggetto sussistente, e insomma, sostanza individuale di natura razionale. L’individualità, nella definizione di persona, designa il modo particolare di essere che conviene alla persona, cioè l’esistere conseguentemente l’agire autonomo.

La persona è dunque una sostanza individua, cioè una realtà interiormente indivisa e distinta da ogni altra (altrimenti l’uomo non sarebbe un essere uno, ma un aggregato di elementi, facoltà e atti, che resterebbero slegati tra di loro), ma allo stesso tempo, per la comunanza di natura tra gli individui umani, per la solidarietà istintiva che si forma tra di loro, per l’ordinamento di tutti a una finalità comune, si rivela come eminentemente sociale. Anzi la persona, qualunque sia la ricchezza del proprio essere e delle proprie facoltà, ha una connaturale tendenza ed esigenza di associarsi con gli altri allo scopo di potenziare l’azione e l’efficienza propria ed altrui.

Vi è una tendenza naturale, quasi incontenibile degli esseri umani, che li porta ad associarsi per il raggiungimento di obiettivi che pur essendo da ciascuno desiderati superano la capacità di cui possono disporre i singoli individui.

L’uomo, nella storia, non si presenta mai come un solitario, nemmeno agli albori della sua esistenza quali ci risultano dalla preistoria.

Anzi la Bibbia, nell’offrire un racconto popolare della creazione, dice che Dio, vedendo l’uomo solo, come era uscito dalle sue mani, ritenne che ciò non era bene e cominciò a dargli una compagna simile a lui: primo germe della società.

Questa tendenza ad associarsi, che deriva dalla sua stessa natura e si sviluppa su ogni piano dell’esistenza, ha una duplice molla: a) il bisogno di reciproco aiuto, in quanto la persona, da sola, è normalmente incapace di soddisfare alle proprie necessità anche più elementari e inderogabili (società di necessità); b) il bisogno di espandersi e comunicare con i propri simili, nei quali l’uomo scopre la stessa natura e le stesse esigenze, per aiutarli a comunicare loro il proprio bene (società di amicizia). Anche quest’ultimo istinto, generalmente meno considerato, è una spinta alla società.

Purtroppo in questo naturale processo di espansione comunitaria interviene l’egoismo che contrasta con le istanze della socialità e della comunione, ma il senso più profondo e autentico della natura umana resta quello sociale.

Il messaggio, l’opera Redentrice di Cristo e l’azione del Cristianesimo intervengono nel dinamismo sociale dell’essere umano per ristabilire l’equilibrio, ricomporre l’unità e liberare gli uomini dalla tirannia dell’egoismo, dando nuovo vigore alle forze della società.

 

I raggruppamenti sociali

 

La vita associativa si articola pertanto in un certo numero di comunità e società (per ora non spieghiamo la distinzione di questi due termini): la società familiare; la società civile e politica, in seno alla quale si formano le associazioni professionali, economiche, culturali che perseguono fini particolari: scientifici, artistici, letterari, assistenziali, caritativi, industriali, sindacali ecc.; la società religiosa, che tende ad avere un suo rilievo distinto da quella politica, specialmente nel mondo cristiano, dove la Chiesa, comunità di origine e finalità soprannaturale, è fondata per riunire i credenti in Cristo e condurle al loro destino ultraterreno, trascendente ogni altra formazione di società umana, anche politica.

L’individuo umano integrandosi in queste varie forme di società, esce dalla propria solitudine, vince il proprio egoismo e stabilisce rapporti di collaborazione in una sinfonia di persone componenti la comunità. Questo processo di socializzazione nulla toglie alla persona umana, che nel suo associarsi e integrarsi conserva intatta la propria vocazione, il proprio essere, la propria autonomia di esistenza e di coscienza.

Essa non viene assorbita né soggiogata dalla società, ma conserva il suo primato sulle strutture e gli organi che la società, che non può mai prevalere sull’uomo, crea e impiega a suo servizio.

 

Persona e società

 

Il rapporto persona-società è sempre stato un punto critico dell’organizzazione e della vita della comunità politica. Per risolverlo nel mondo moderno si sono affrontate due correnti opposte: individualismo e socialismo (in senso generico), caratterizzate, come risulta dagli stessi nomi, dalla estrema affermazione o dall’individuo o della società, in senso esagerato ed esclusivista, come avviene in ogni forma di estremismo.

Le due posizioni hanno basi filosofiche che toccano la stessa natura dell’uomo.

Secondo la teoria individualista, l’essere sociale non è dovuto allo sviluppo di una virtualità insita nella natura umana, ma è il risultato di un contratto stipulato dai cittadini o per uscire da uno stato di egoismo e di guerra, conseguenza delle passioni di natura cattiva dell’uomo (Hobs), o per porre un freno alle funeste condizioni createsi tra gli uomini con l’allontanarsi dallo stato di bontà della natura, col progresso della cultura e delle scienze (Rousseau).

A questo gruppo individualista appartengono le teorie evoluzioniste, il liberalismo, sorto da una reazione all’assolutismo, e come posizione-limite, l’anarchismo, che intende realizzare l’ordine sociale su un terreno sgombro da ogni potere attualmente esistente.

Sulla sponda opposta, un accentuato e a volte esasperato sociologismo, che per varie vie deriva dal monismo evoluzionistico hegeliano, porta alla negazione dell’individuo in favore del primato della società, specialmente nel totalitarismo e nel collettivismo (a cui è legato il marxismo).

La società si organizza allora secondo le leggi di un meccanismo duro e oppressivo, dal quale l’uomo, ridotto quasi solo o principalmente ad agente economico, viene mortificato nelle sue esigenze e aspirazioni di ordine spirituale e specialmente nella sua libertà.

Da ricordare anche l’esistenzialismo, che partendo dall’affermazione dell’assoluta indipendenza della persona, del tutto libera al di sopra di ogni norma esterna, concepisce la vita sociale come una conseguenza del conflitto delle coscienze e delle concupiscenze degli individui, fino al punto di asserire: “gli altri ecco l’inferno” (Sartr).

 

Il personalismo cristiano

 

Contro l’individualismo ad oltranza e contro ogni concezione sociologica e totalitaria, si è sempre sviluppata la dottrina del personalismo cristiano, che getta le sue radici nell’antropologia di San Tommaso d’Aquino.

Ogni singolo uomo è per rapporto alla comunità come la parte verso il tutto, e dunque a questo titolo è subordinato al tutto; come persona, ha in se stesso una vita e dei beni, dei valori, che oltrepassano la sua ordinazione alla società: così la vita interiore, la vocazione, la libertà, i diritti fondamentali derivanti dalla stessa natura dell’uomo.

Il bene comune, che è oggetto e scopo del “tutto” sociale, non potrà mai risolversi in una sopraffazione o lesione del bene autenticamente umano della “parte”, anche se esige la cooperazione delle attività sociali di tutti i membri della comunità.

Così il personalismo contrappone all’idealismo e al materialismo astratti un nuovo realismo astratti un nuovo realismo, come appello alla pienezza spirituale dell’uomo singolo, punta e strumento della storia universale ma anche appello alla pienezza dell’umanità come un tutto da realizzare in ogni momento e atto, sicchè nessun problema può essere pensato e affrontato senza questo doppio riferimento.

Vita personale, vita privata e vita pubblica, senza confondersi in una volgarizzazione generale di ogni esistenza, devono offrire a tutti le loro diverse possibilità, senza intossicarsi nel proprio isolamento, ma fortificandosi mutuamente con l’intercomunicazione, rompendo quindi l’egocentrismo della vita individuale

Jacques Maritain a sua volta, contrappone un umanesimo integrale, alle varie forme di umanesimo carente dell’individualismo e del socialismo come messaggio e sistema che tende a rendere l’uomo integralmente umano e promuovere lo sviluppo delle capacità originali della sua natura, le sue forze creative, facendo partecipe di tutto ciò che può arricchirlo col patrimonio della cultura, della spiritualità e della civiltà umana con l’impiego delle forze del mondo fisico come strumenti della sua libertà.

E’ l’umanesimo plenario di cui parla Paolo VI nella Enciclica “Populorum Progressio”.

Oggetto ne è lo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini.

 

Oggettività di base

 

La dottrina sociale della Chiesa sul rapporto tra persona e società deriva dalla visione oggettiva dell’uomo, considerato come persona che mantiene tutto il suo proprio valore autonomo anche a far parte della società umana.

L’uomo per sua natura è ordinato alla vita sociale, ma non subordinato alla società in tutto se stesso.

La società pur avendo una sua finalità superiore agli interessi dei singoli individui deve servire all’uomo come mezzo per il raggiungimento del suo scopo ultimo.

La vita sociale non si svolge necessariamente sul filo di un antagonismo insolubile tra individuo e società, ma tende piuttosto all’armonizzazione di tutti i rapporti in un “tutto” che permetta il massimo incremento delle virtualità operative in ordine al progresso e all’elevazione della persona umana.

Don Walter Trovato




Lettera di un mobbizzato al suo aguzzino

Caro 

mi trovo a dover mettere nero su bianco pensieri e sentimenti che da troppo tempo mi gravano l’animo, nella speranza che queste parole possano non solo alleggerire il mio cuore, ma anche illuminare una realtà forse a te oscura.

Da sei mesi a questa parte, ho sopportato in silenzio le tue continue vessazioni, le tue parole taglienti non solo verso il mio operato professionale ma, cosa ancor più dolorosa, verso la mia persona.

Inizialmente, ho cercato di comprendere le tue azioni come espressioni di un rigore professionale forse troppo zelante, o come il risultato di pressioni esterne che io stesso non ero in grado di vedere.

Con il trascorrere del tempo, tuttavia, è diventato chiaro che le tue scelte non erano dettate da nessuna di queste motivazioni.

Le tue azioni, piuttosto, sembrano radicarsi in una profonda incapacità di gestire il tuo ruolo con la maturità e la responsabilità che questo richiede.

Nonostante il dolore e l’umiliazione che le tue azioni mi hanno inflitto, voglio che tu sappia che il mio spirito rimane intatto.

La mia indipendenza di pensiero e la mia libertà dell’anima non sono state scalfite dalle tue continue aggressioni.

Queste qualità, radicate nel profondo del mio essere, sono state il faro che ha illuminato i miei giorni più bui, ricordandomi chi sono e per cosa sto lottando.

È forse questa indomabilità dello spirito che ti ha spinto a intensificare i tuoi attacchi, nel vano tentativo di piegare ciò che percepisci come una sfida alla tua autorità.

Tuttavia, è proprio questa resistenza che dovrebbe servirti da specchio, riflettendo non solo la mia forza ma anche la tua debolezza.

La tua scelta di ricorrere al mobbing come strumento di controllo è la testimonianza più eloquente della tua incapacità di esercitare il potere in maniera costruttiva e del tuo fallimento nel riconoscere il vero valore delle persone che ti circondano.

Riconosco che il cammino per comprendere e ammettere questi errori può essere lungo e arduo. La stoltezza delle tue azioni, tuttavia, non deve diventare una catena che ti lega perennemente a questi comportamenti.

Anche tu hai la capacità di cambiare, di crescere oltre le tue attuali limitazioni e di imparare a valorizzare e rispettare gli altri non per quello che possono darti, ma per quello che sono.

Ti lascio quindi con una riflessione: ogni individuo ha il potenziale per influenzare positivamente la vita delle persone che lo circondano.

La vera grandezza non risiede nell’esercizio del potere su gli altri, ma nella capacità di elevarli, di ispirarli e di contribuire al loro benessere e alla loro crescita personale.

Spero che un giorno tu possa intraprendere questo cammino di trasformazione e scoprire la soddisfazione che deriva dal contribuire in modo positivo alla vita altrui.

In aggiunta a quanto già espresso, ritengo fondamentale sottolineare un aspetto che mi preme particolarmente: l’utilizzo dell’abuso di potere per sopprimere o eliminare colleghi che dimostrano competenza e bravura superiore è non solo moralmente riprovevole, ma denota anche una visione miope della leadership e del successo collettivo.

Questo modo di agire, purtroppo adottato da te nei miei confronti, riflette una concezione di potere estremamente riduttiva e, a dirla tutta, di basso livello. In un contesto lavorativo sano e produttivo, la presenza di individui talentuosi e competenti dovrebbe essere vista non come una minaccia, ma come una risorsa preziosa.

La vera abilità di un leader non risiede nella capacità di sovrastare o eliminare la concorrenza interna, ma nel saper riconoscere, valorizzare e sviluppare i talenti di ciascuno per il bene comune dell’organizzazione.

L’abuso di potere a fini personali o per la mera eliminazione della “concorrenza” interna è una dimostrazione di debolezza e di insicurezza.

Implica una mancanza di fiducia nelle proprie capacità di guidare e ispirare, ricorrendo invece a metodi coercitivi per mantenere una posizione di dominio.

Questo comportamento non solo danneggia individualmente chi ne è vittima, ma erode le fondamenta stesse dell’ambiente lavorativo, compromettendo la coesione di squadra, la motivazione e, in ultima analisi, la produttività e l’innovazione.

Riflettendo su queste dinamiche, è evidente che l’uso dell’abuso di potere per “eliminare” colleghi capaci sia un’autentica strategia perdente.

Non solo pregiudica il benessere e la crescita professionale dei singoli, ma limita gravemente il potenziale collettivo dell’organizzazione.

Una leadership veramente efficace è quella che sa riconoscere e coltivare i talenti di tutti, creando un ambiente in cui ciascuno può eccellere e contribuire al successo comune.

Solo così si può aspirare a costruire una realtà lavorativa che sia non solo produttiva, ma anche giusta e stimolante per tutti.

In conclusione, spero che queste riflessioni possano offrirti una nuova prospettiva su ciò che significa essere un leader e su come l’esercizio del potere dovrebbe sempre essere guidato da principi di giustizia, equità e rispetto reciproco.

È mio sincero auspicio che tu possa riflettere su queste parole e, magari un giorno, adottare un approccio più costruttivo e inclusivo, per il bene di tutti coloro che lavorano al tuo fianco.

 

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Betapress invita tutte le persone soggette ad atti di mobbing sul lavoro a ribellarsi ed a non soccombere, alzate la testa e scrivete a direttore@betapress.it, vi aiuteremo a reagire, anche tramite un supporto legale.

 




“Cambia le tue frequenze e tutto cambierà!”

"Onde Sonore": immagine di Mohammad Usman
Immagine di Mohammad Usman

In principio era il Suono

E se davvero la creazione avesse avuto origine da un suono?

E se la voce umana avesse il potere di “plasmare” il nostro destino, nel male o nel bene?

E se potessimo, grazie ad apposite frequenze, curare o addirittura guarire le malattie?  

È interessante notare come a queste domande si trovi risposta nelle Sacre Scritture, laddove si parla del Verbo per mezzo del quale tutto è stato fatto e, senza di lui, nulla è stato fatto di ciò che esiste.

Riguardo al potere creativo della voce umana, nel libro dei Proverbi è detto che “morte e vita sono in potere della lingua” mentre, sull’argomento salute, è scritto che “C’è chi, parlando senza riflettere, trafigge come spada, ma la lingua dei saggi procura guarigione.”

A quanto pare, nella dimensione spirituale si è sempre saputo che sono le frequenze a creare e trasformare il mondo che esperiamo.

Nel tempo anche la scienza è riuscita a dimostrare l’indissolubile legame tra le frequenze e la realtà che ci circonda. Oggi sappiamo che tutto è frequenza e non soltanto ciò che percepiamo come suono, musica, rumore o parola: immagini, pensieri e simboli hanno una loro propria vibrazione e così gli animali, i minerali, gli esseri umani… Ogni cosa, visibile o invisibile, ha il proprio suono. Insomma: il Creato è una magnifica, immensa Orchestra e noi, ne siamo i più o meno consapevoli strumenti.

 

Nella foto: Krisztina Nemeth

La voce che guarisce

Krisztina Nemeth, laureata all’Università di Musica ed Arti Rappresentative a Graz in Austria, dopo 23 anni di esperienza come cantante lirica internazionale, abbraccia la propria vocazione di “Healing Voice” e di “Intuitive Coach”.

È autrice di tre libri, dei quali il primo porta la prefazione del Dott. Masaru Emoto, lo scopritore della memoria dell’acqua. 

Come “Voce che guarisce”, la studiosa viene invitata a molti congressi internazionali ed è un punto di riferimento in diversi Paesi negli Stati Uniti, in Sud Africa, Svizzera, Austria, Grecia, Italia, Spagna, Tibet, India, Bali, Mauritius, Hawaii. 

Il Frequencies Congress

Affascinata dall’argomento, Krisztina ne promuove la divulgazione ideando e organizzando il “Frequencies Congress”. L’Evento, giunto quest’anno alla sua quarta edizione, riunisce i maggiori esperti di frequenze nei rispettivi campi di applicazione.

All’immancabile appuntamento previsto per domenica 13 aprile ad Ascona interverranno medici, ricercatori, musicisti e musico-terapeuti, operatori olistici, esperti in numerologia, artisti. Alcuni presenteranno i risultati delle loro ricerche, altri terapie e concetti innovativi, altri ancora coinvolgeranno il pubblico con video e immagini suggestive. Al termine dell’Evento si terrà un concerto meditativo per innalzare le frequenze dei partecipanti.

L’obiettivo è evidenziare l’importanza delle frequenze, del suono, delle energie e il loro impatto su tutto ciò che esiste.

I relatori

Sul palcoscenico del Teatro del Gatto si succederanno, nell’arco di un’intera giornata esperienziale: 

Mirto Ferrandino (Italia), specialista in Bio-Cimatica e presidente della International Cymatic Association. Nel corso del suo intervento mostrerà al pubblico come il suono crea forme nella materia. 

Winfried Leipold e Gudrun Wiesinger, maestri del suono terapeutico, ci faranno ascoltare le pietre sonore e l’impiego di altri strumenti musicali terapeutici.

Il Dottor Ulrich G. Randoll (Germania): medico, ricercatore e inventore della terapia “Matrix Rhythm”, ha ottenuto notevoli successi nel trattamento di una grande varietà di malattie e ha formato migliaia di partner “Matrix Health” in tutto il mondo.

Il Dottor Roberto Ostinelli (Svizzera), medico internista e studioso di medicina integrativa, terapie bioenergetiche e frequenziali, dal 2008 cura i suoi pazienti con innovative tecnologie biofisiche e un approccio psicoanalitico emotivo.

Ing. Rasmus Gauss Berghausen (Austria): per quindici anni collaboratore del Dott. Masaru Emoto e ricercatore in idroscienze. Oggi il suo lavoro è legato alla HRV (variabilità della frequenza cardiaca) e alla sua traduzione in suono e colore.

Alessandro Puccia (Italia): artista fotografico di gocce d’acqua congelate e osservate al microscopio, accompagnerà il pubblico in un viaggio nel profondo di un mondo invisibile a occhio nudo.

Niko Caruso e Michela Pivato (Italia): operatori olistici, ricercatori e divulgatori di frequenze a uso terapeutico, usano le frequenze dei Numeri e l’intuizione per supportare e potenziare l’evoluzione delle anime in cammino.  

Beatrice Lafranchi (Svizzera): terapeuta e organizzatrice di workshop ed eventi su argomenti nell’ambito della crescita personale, mindfulness, consapevolezza e connessione del cuore.   

Jasmine Laurenti (Svizzera): giornalista internazionale e scrittrice, nota al grande pubblico come doppiatrice cine televisiva, parlerà dell’impatto delle parole cariche di intenzioni ed emozioni sul livello qualitativo del dialogo interiore.

Come anticipato, a conclusione dell’Evento i partecipanti potranno immergersi nel concerto meditativo dei musicisti e terapeuti Krisztina Nemeth (Svizzera), pianoforte e voce, e Antonio Testa (Italia), artista che innesta la propria espressività su conoscenze approfondite di etnomusicologia e musicoterapia, oltre che autore e produttore musicale di fama internazionale.

Il “Frequencies Congress” avrà luogo ad Ascona, in Svizzera, il 13 aprile prossimo, al Teatro del Gatto in via Muraccio 21. L’evento inizierà alle 09:45 e terminerà alle 18:45.

Gli ultimi biglietti rimasti sono acquistabili entro il 31 marzo a un prezzo scontato (CHF 157) visitando il sito: www.frequenciescongress.com