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Un fenomeno del quale si parla molto in questo periodo è l’autolesionismo. 

Sembra che l’autolesionista non intenda distruggere completamente il suo corpo, ma usi il dolore fisico per gestire meglio quella che è una sofferenza psichica.

Con la pelle si comunica ed è la pelle a svolgere una funzione di contenimento nell’ammortizzare quelle tensioni che provengono sia dall’ambiente esterno sia dal mondo interiore.  

Secondo Freud la pelle può essere configurata come una superficie di inscrizione del senso e così si esprime nel suo testo del 1923 “L’Io e l’Es”:

“L’Io è in definitiva derivato da sensazioni corporee, soprattutto dalle sensazioni provenienti dalla superficie del corpo. Esso può dunque venir considerato come una proiezione psichica della superficie del corpo…”

Secondo Charmet molti giovani si sentono inadeguati e reagiscono a ciò con modalità differenti.

Vi sono gli autolesionisti che attaccano e manipolano il proprio corpo nel tentativo di ferirlo, inciderlo e scottarlo. 

Un’altra categoria è quella dei cosiddetti ritirati sociali che sono spesso dipendenti anche da Internet.

Assistiamo in quest’ultimo caso al ritiro dalla scuola e dal gruppo dei pari.

Il loro rifugio diviene la stanza.

Nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali denominato DSM-5, rileviamo che per autolesionismo intenzionale (Deliberate Self-harm – DSH) o autoferimento intenzionale (Self-injury Behaviour – SIB) si intende un comportamento che causa un danno o una lesione al proprio corpo o ad alcune parti di esso ed è contrassegnato da intenzionalità, ripetitività, assenza di intento suicidario, aumento della tensione e sensazione di sollievo successiva alla messa in atto dell’agito autolesivo.

È stato osservato come tale disturbo sia prevalente nella fascia d’età compresa tra i 12 ed i 14 anni.

Inoltre, le modalità autolesive più frequentemente utilizzate sono il tagliarsi, il bruciarsi, lo scarnificarsi, il mordersi, l’interferire con il processo di cicatrizzazione delle ferite, l’inserirsi oggetti sotto la pelle e sotto le unghie.

Anche nel mondo dell’arte sono stati spesso presenti comportamenti  autolesionistici.

Possiamo citare come esempio Gina Pane, artista francese della Body Art nata nel 1939 a Biarritz e morta nel 1990 a Parigi, famosa per aver realizzato performances procurandosi tagli sul corpo con pezzi di vetro e lamette fino a ricoprirsi di sangue e a sperimentare un intenso dolore mescolato ad un piacere assimilabile a quello provato dall’autolesionista.

Tra le sue performances ricordiamo “Psyché” del 1974 in cui infierisce sulla pelle producendo quattro tagli disposti a forma di croce intorno all’ombelico.

È evidente che l’artista intende l’arte come un’esperienza esistenziale basata sul dolore fuso con il piacere. Ella comunica questa sua sensazione in maniera immediata ed efficace ad un pubblico esterrefatto e stupito per il gesto compiuto.

Invece, un artista che comunica sul piano del simbolico la tematica dell’autolesionismo è Lucio Fontana che divenne celebre per i suoi tagli su tela.  

I suddetti tagli, realizzati minuziosamente e con estrema precisione, sono posti uno di fianco all’altro e segnano l’opera con ricercati effetti di luce.

Essi possono essere interpretati come ferite o squarci assimilabili a quelli dell’autolesionista ed in quest’ottica possiamo sostenere che Fontana utilizza la tela come se fosse pelle.

Il quadro diviene così per l’artista estensione del proprio corpo.

Sia per l’artista sia per l’autolesionista il taglio assume la valenza di superamento di un limite.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’arte come compensazione della disabilità fisica

 

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