Sono afascista e me ne vanto!

Fascista a chi!?

Dopo aver  esaurito le manifestazioni di rito per celebrare il 25 Aprile ed aver risposto nelle cantine le bandierine, i vessilli, fazzoletti rossi e chi più né abbia, più ne metta; finalmente anche questa volta si gira pagina e si torna alla vita vera di tutti i giorni ,con le incombenze che  ahinoi, preoccupano gli italiani.

Però, rimane, come tutti gli anni, il solito amaro in bocca, per chi come me, non capisce, non tanto la parola “fascista”, studiata sui libri di scuola (scritti dai vincitori), ma quella “antifascista”.

Perché chi non si riconosce e non sente il legittimo bisogno di partecipare e festeggiare il 25 Aprile, debba essere tacciato di fascista tout court? 

Ecco, questo atteggiamento mentale è sicuramente fascista!

Soprattutto perché viene da quel mondo di sinistra che avrebbe dovuto, Costituzione alla mano, garantire tutti i cittadini, anche quelli che, non necessariamente si riconoscono e si riconoscevano, non negli ideali democratici, ma repubblicani.

Perché dover estromettere i monarchici o gli stessi anarchici, che comunque sono a tutti gli effetti cittadini italiani?

Il pensiero illuministico, che molti intellettuali di sinistra, hanno abbracciato e né sono fecondi dei principi rivoluzionari, non dovrebbe permettere di non essere d’accordo con quello che dici, ma dare la propria vita affinché si possa dissentire!

Frase falsamente attribuita a Voltaire, che però, sorprende nello scrivere il trattato sulla tolleranza del 1763.

Opera importante e cruciale che costituisce e approfondisce temi della ” intolleranza”, in una società avanzata fine settecentesca, che si accingeva a vivere quella sanguinosa rivoluzione francese.

Voltaire scrisse della intolleranza bigotta e fanatica ( quella clericale), ma che è sostituibile con un’altra altrettanto intolleranza bigotta laica e “rossa” :” Siamo tutti figli della fragilità e inclini all’errore, non resta quindi che perdonarci vicendevolmente la nostra follia. È questo il principio di tutti i diritti umani”.

Che cosa significa quindi, oggigiorno, essere fascista o in predicato/ aspirante ad esserlo o diventarlo?

Soprattutto per una generazione come la mia nata nel ‘ 68, dove si masticava nelle università o luoghi di legalità  e parlamentari, altre idee contrapposte, al punto tale che potevi incorrere in pesanti pestaggi anche se solo non ti mostravi accondiscendente al pensiero rosso dominante.

Scriveva Mino Maccari, amico di Flaiano a cui erroneamente  fu’ attribuito l’originalità della frase, che: “i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti propriamente detti e gli antifascisti.”

La stessa Oriana fallaci commentando questa esemplare frase, scrisse: “l’Italia ancora mussolinesca, dei fascisti neri e rossi che ti inducono ad adottare la tremenda battuta del Flaiano!”.

Giuseppe Berto, un altro  illustre, giornalista, scrittore  e drammaturgo, rimasto nell’ombra  per troppo tempo e, anche lui come Scurati, ma in tempi e temi diversi,  e con giurie ” diverse”, vincitore nel ’64 del premio Viareggio e Campiello  con il male oscuro; Lui disse: “io non sono fascista, ma non sono nemmeno antifascista. Sono venuto qui appunto per difendere il mio diritto di non esser perseguitato come fascista soltanto perché non voglio dichiararmi antifascista.

Dico di non essere né fascista né antifascista.

Allora, cosa sono?

Da anni ormai io amo definirmi afascista, fascista con un’alfa privativa davanti.

Lo faccio non per lo snobismo d’introdurre una parola nuova, ma perché questa parola, afascista, secondo me esprime qualcosa di nuovo, e cioè un’avversione al fascismo così intima e completa da non poter tollerare l’antifascismo, il quale, almeno così come viene praticato dagli intellettuali italiani, è terribilmente vicino al fascismo.

Il fascismo, dicono, è autoritarismo violento, coercitivo, retorico, stupido.

D’accordo: il fascismo è violento, coercitivo, retorico, stupido.

Però, come lo vedo io, l’antifascismo è del pari, se non di più, violento, coercitivo, retorico, stupido.

Di quest’ultima idea se ne è resa ben conto la maggioranza degli italiani per i quali i problemi sono altri: l’inflazione, la guerra alle porte, la crisi bancaria, il debito pubblico, lo statalismo soffocante e la burocrazia invasiva (i peggiori retaggi del fascismo che però nessuno nei fatti combatte).

Solo per citarne alcuni.

Non se ne sono accorti solo gli esponenti della sinistra che nascondono la mancanza di idee e programmi con l’ossessione verso un fascismo che non c’è.

E di contro non riescono neppure a condannare con altrettanta forza il comunismo che invece c’è ed opprime uomini e donne in varie parti del globo.

Non si dicono anticomunisti ma pretendono dagli altri che si definiscano antifascisti.

Quindi, al suffisso “anti”, preferirei, ove fosse possibile, l’alfa privativo che accontenta tutti, sia quelli che si credono ” i buoni” della storia e hanno la patente di democratico a tutti gli effetti, sia quelli che come me ,prendendo in prestito  una frase di una bella canzone  di un acerbo Guccini, non certo etichettabile a destra, in Dio è morto:

“Mi han detto
Che questa mia generazione ormai non crede
In ciò che spesso han mascherato con la fede
Nei miti eterni della patria e dell’eroe
Perché è venuto ormai il momento di negare
Tutto ciò che è falsità
Le fedi fatte di abitudini e paura
Una politica che è solo far carriera
Il perbenismo interessato, la dignità fatta di vuoto
L’ipocrisia di chi sta sempre
Con la ragione e mai col torto.”!

Ecco! Io mi sento di stare con chi a torto, e se c’è da mostrare il petto per qualche pallottola infame venite a prendermi.. sempre meglio che nascondersi da vigliacchi perbenisti dietro le quinte di un teatrino buono per le campagne elettorali di quel partito che non è un partito cosiddetto Democratico che, pur di raggranellare qualche voto, non sa più chi candidare, da il caporale nero Sumahoro ,alla picchiatrice seriale Ilaria Salis, dalla luciferina Elena Cecchettin e alla Bortone sempre brava  a usare arte televisiva “del parlare sopra o parlare addosso”!

Questi campioni di antifascismo fanno ben sperare, per non parlare di un Antonio Scurati che dopo quest’altra  finta protesta, né vedrà benefici sia elettorali che editoriali, con la saga della sua trilogia a Mussolini …

solo che, a sbarcare sul palco della festa del 1° maggio, non sarà un dark Fener vestito di nero, ma vestito di rosso, con buona pace di tutti; dagli sfaticati giovinastri contenti di Panem et circenses, dediti a bere e fumare cose imprecisate, agli intellettuali di sinistra che, ancora una volta, sanno che la sedia sotto il c…o, importante e pagata bene, non gliela leva nessuno.

 

 

Quando parlare di antifascismo è apologia di reato

Fascismo: fu vera gloria? ai posteri onesti l’ardua sentenza…

L’Italia e l’ultradestra




La penna e la spada, chi vince oggi?

Il detto “la penna è più potente della spada” esprime un concetto profondamente radicato nella consapevolezza collettiva, sottolineando come le parole e le idee abbiano un impatto più duraturo e profondo rispetto alla forza bruta.

Questa metafora risale al drammaturgo inglese Edward Bulwer-Lytton nel 1839, nel suo dramma “Richelieu; Or the Conspiracy”.

La frase sottolinea il potere della comunicazione e della persuasione rispetto alla violenza fisica.

Tuttavia, questo concetto affronta una sfida cruciale nel contesto moderno, dove l’alfabetizzazione e le abilità di lettura stanno subendo trasformazioni significative, in particolare tra i giovani.

L’importanza della lettura è insostituibile per lo sviluppo intellettuale, la maturazione personale e la partecipazione attiva alla vita democratica di una società.

Attraverso la lettura, si acquisiscono non solo conoscenze ma anche strumenti critici per interpretare il mondo e agire su di esso.

In un’epoca dominata dall’immagine e dalla rapidità dell’informazione digitale, il calo delle competenze di lettura approfondita può rappresentare un rischio serio per il mantenimento di una cittadinanza informata e critica.

Il fenomeno del declino della lettura tra i giovani, spesso descritto in termini di “crisi dell’alfabetizzazione”, va visto in un contesto più ampio di cambiamenti socio-culturali e tecnologici.

Le nuove generazioni si trovano immerse in un flusso costante di informazioni brevi e visivamente accattivanti, come i post sui social media, che richiedono un impegno cognitivo diverso rispetto alla lettura prolungata di testi complessi.

Questa evoluzione può portare a una preferenza per le forme di comunicazione che richiedono minor sforzo interpretativo e critico.

Di fronte a questa sfida, è fondamentale riconoscere il valore della formazione all’alfabetizzazione critica come parte essenziale dell’educazione moderna.

Istruire i giovani non solo a leggere in modo funzionale ma anche critico è una necessità impellente.

Questo include la capacità di analizzare e valutare le fonti, comprendere contesti più ampi, riconoscere bias e presupposti, e formulare argomentazioni coerenti.

Inoltre, le scuole e le altre istituzioni educative hanno il dovere di adattare le metodologie didattiche per renderle più attinenti al mondo digitale in cui i giovani crescono.

Ciò potrebbe includere l’uso didattico dei media digitali per insegnare competenze di lettura critica, non solo attraverso libri di testo ma anche tramite piattaforme online, videogiochi educativi, e altre risorse digitali che possano stimolare l’interesse e l’engagement dei giovani.

In sintesi, mentre la penna può ancora essere più potente della spada in un mondo ideale dove le parole informano, educano e ispirano, la realtà attuale pone sfide significative a questo ideale.

Se i giovani perdono l’abilità o l’interesse nella lettura profonda, la società potrebbe trovarsi di fronte a problemi seri, come il deterioramento del dialogo pubblico e una minore capacità di affrontare questioni complesse in modo riflessivo e informato.

Per mantenere viva l’efficacia della penna, è cruciale investire nell’alfabetizzazione avanzata e critica delle nuove generazioni.

Ma chi deve fare questo sforzo di recupero sui giovani, solo la   scuola? 

la Famiglia?

Credo fermamente che questa sia una importante sfida per tutta la platea intellettuale italiana, dagli accademici ai politici, è necessario ripensare l’educazione dei giovani ma anche rivedere come stiamo proponendo ai giovani le strade per il loro futuro.

Come dico sempre non è che lavoro faremo che ci darà una buona vita, ma come lo faremo e chi saremo nel farlo.

 

 




la fossa comune

Le fosse comuni sedimentano l’orrore nell’immaginario globale: sono l’abuso definitivo ma difficilmente rimangono nell’immaginario collettivo.

La loro sotto-rappresentazione è una delle unità di misura delle due guerre attualmente in atto, sul fronte ucraino e sul fronte medio-orientale, ma il genere umano non è nuovo a questa pratica, da sempre.

Quando esse finiranno, si camminerà sui cadaveri.

Le fosse comuni gelano il sangue, sedimentano la morte inflitta, la sua umiliazione, l’oltraggio di un oblio senza dignità.

Ma tutto ciò non risuona nel sistema mediatico occidentale, dove la violenza semantica serve a giustificare quella concreta; con la rimozione del contesto storico, con l’intelligenza artificiale usata per anestetizzare i massacri, niente è raccontato nella sua reale misura dai media.

Una simile sotto-rappresentazione ricade su di noi ed è il prodromo di altre violenze.

Fa riflettere che lo stesso sistema mediatico stia ancora balbettando, alla ricerca di parole, di concetti, di frasi da stemperare in mille rivoli di distinguo.

Fa riflettere, perché tutto, in realtà, sarebbe molto semplice da dire, o meglio, da urlare.

 




25 aprile

Ammettiamolo, nonostante il rituale della convocazione istituzionale, non è facile pensare un 25 aprile difficile come questo.

Il calendario si conferma il solito luna-park.

Che siano week libresche, o apericene sensoriali, sul piano culturale e politico sembra di essere sul set di plastica di una fiction sul mondo nuovo.

Piuttosto mal riuscita.

Se questo è il quadro, dove opposizione e dissenso possono esistere solo ritagliandosi momenti di solitudine, lo spazio pubblico e anche le cene tra amici ormai sono divenuti luoghi della rimozione, parliamo forse di guerra?

come è possibile che giovedì prenda forma la prima grande manifestazione popolare contro tutti i massacri in corso e futuri?

Sarà certamente un corteo disunito, forse litigioso e rancoroso, speriamo senza censure o auto censure, che è anche peggio.

E del resto la crisi della rappresentanza da anni è palpabile proprio in questa occasione.

Ecco perché c’è uno strano silenzio attorno a questo settantanovesimo anniversario della Liberazione.

Ne riparleremo dopo il 25, le elezioni europee sono alle porte.

La sensazione che il corso degli eventi segua una logica inesorabile è forte e prevalgono sentimenti di impotenza e rassegnazione.

E un sentimento diffuso di sgomento e paura.

Paura per la guerra, per la postura guerrafondaia delle élite europee che genererà nuovi conflitti e per tragedie che non riusciamo nemmeno a nominare.

Ma in questa occasione, che ogni anno celebra la liberazione, nessuno può dare lezioni su come bisogna starci e con quali «parole d’ordine», perché la democrazia è anche conflitto e dissenso.

La Storia con tutti i suoi orrori non si cancella ma se c’è il sole, e non farà tanto freddo, noi che possiamo permettercelo, saremo anche un po’ felici.

 

#realtaaumentata di Barbara de Munari

 




Matteotti sapeva cose che non è riuscito a dire?

alla vigilia di un 25 aprile A.D 2024, mi accingerei, in un clima alquanto pirandelliano di finti o improbabili censure Rai, di scrittori mossi da esigenze vittimistiche di partito, a raccontare, forse, qualche altra visione possibile rispetto a tutto il “raccontato” o il “raccontabile” in decenni di servizi e cronache più o meno fantasiosi.

Evocando tutto e il contrario di tutto, dicevo, a proposito dello Scurati e della sua ricostruzione del delitto Matteotti, usato a modi clava unicamente per colpire il Governo e nello specifico il Presidente del Consiglio On. Meloni, assai mediocre e servizievole di suo, mi accorgo di quanti fatti storici non siano mai stati voluti veramente portati a conoscenza ai più, alle persone comuni non avvezze a letture di atti processuali o biografie varie.

Mi riferisco al caso o affare “Sinclair oil”, per dir sì voglia, legato a filo doppio con il barbaro assassinio dell’On. Giacomo Matteotti.

Si è scritto in lungo e in largo del delitto del povero Matteotti, ma glissando sempre sul movente e sui contorni torbidi che lo avvolgevano.

Non sarò certo io a poter e dover palesare tali avvenimenti, in quanto autorevolissimi storici e giornalisti lo hanno fatto egregiamente meglio di come potrei farlo io, ma una cosa mi sento di evidenziare:

come mai una Corporate, come la Sinclair oil, già potente nel 1924 e facente capo ad un’altra che lo era molto di più come la Standard Oil, di proprietà di John Davidson Rockefeller, tentò, di corrompere con una lauta mazzetta, si parla di almeno 5 milioni di lire, il capo del governo in persona Benito Mussolini e ciò che rappresentava o avrebbe dovuto rappresentare in termini di ideologia fascista e tutto quello che ne doveva seguire?

Cosa aveva indotto, nel caso, il Duce a declinare in quel caso gli ideali a cui si dichiarava assolutamente fedele?

Magari si era di fronte ad una scelta di campo già obbligata da schieramenti delineati in una scacchiera geopolitica, che riguarda va anche la Real casa Savoia, dove ad oriente il bolscevismo leninista e poi stalinista, lasciava poco spazio, insieme ad un impero britannico ad occidente  invasivo, con gli Stati Uniti d’America non ancora del tutto coscienti di essere super potenza; in mezzo quell’Europa ancora frastornata da una guerra devastante con una Germania esausta e affamata da eccessive sanzioni.

E perché, alla vigilia del famoso discorso che Matteotti avrebbe dovuto tenere alla camera il 30 maggio 1924 su questi temi scandalosi di tangenti, lui stesso girò giorni prima, toccando prima Bruxelles e poi quella Londra dove lo attendevano esponenti sia socialisti nostrani riparati lì per auto-esilio, che labouristi governativi, molti dei quali appartenenti alla Fabian Society ed ambienti massonici?

E poi perché incontrare in segreto la concorrenza commerciale della nazionalizzata British Petroleum?

Quella stessa Standard Oil che deteneva la Sinclair Oil del New Jersey e che aveva partecipazioni importanti, tra l’altro, nella Ig Farben, ovvero quella azienda che durante la seconda guerra mondiale produceva lo Zyclon- b, insetticida tanto caro al regime nazista e ad Hitler per eliminazione degli ebrei nelle camere a gas.

Evidentemente si era mossi non solo da risentimento ideologico e politico, ma da un piano artefatto anzitempo e strategie oscure di predazione non solo del territorio e suolo estrattivo italico, ma soprattutto riguardante quello delle colonie italiane in africa orientale e cirenaica, con contratti ridicoli e favorevolissimi sia ad una compagnia che all’altra d’oltre oceano.

Non può essere che nel suo giro Matteotti fosse venuto a conoscenza di piani anche sul governo e sulla Real casa?

E forse questi argomenti avrebbe dovuto includere nel suo discoro del 30 maggio?

Tutto questo spiegherebbe ulteriormente la figura di Matteotti ed il suo assassinio, figura che rimarrà quella di un grande uomo politico, ma sicuramente sia lui come altri in egual misura, condizionato a posizionamenti contrapposti di appartenenza che non lasciavano spazi di trattativa, e dove i morti erano a destra quanto a sinistra, assassini eseguiti da quegli anarchici altrettanto abili alle armi, vedi il delitto del giornalista fascista Nicola Bonservizi realizzato dall’anarchico Ernesto Bonomini rimasto poi quasi impunito.

In questa nuova luce, si dovrebbe indagare e riscrivere anche quella storia,

Fatta anche da un Re, Vittorio Emanuele terzo, che temeva più che il fascismo, un bolscevismo e un liberalismo già pronti alla secessione parlamentare in Aventino con la conseguente perdita di potere di Casa Savoia.

Falcone diceva segui i soldi, follow the money e scoprirai la verità!

Purtroppo non c’è riuscito, come non c’è riuscito neanche  Borsellino, lasciando la famosa agenda scomoda come le carte mai ritrovate di Matteotti o di Aldo Moro e di Enrico Mattei che furono anch’essi prosecutori.




Sinclair Oil Affaire.

L’affare Sinclair Oil si riferisce a una serie di controversie e scandali politici che emersero negli Stati Uniti nei primi anni ’20, culminati nel cosiddetto “Scandalo Teapot Dome”.

Questo scandalo fu uno dei più gravi e noti casi di corruzione all’interno del governo degli Stati Uniti fino a quel momento, coinvolgendo alti funzionari del governo e importanti compagnie petrolifere, tra cui la Sinclair Oil Corporation.

Durante gli anni ’20, il governo degli Stati Uniti possedeva riserve di petrolio che erano state designate esclusivamente per l’uso della Marina in caso di emergenza nazionale.

Queste riserve includevano il famoso campo petrolifero di Teapot Dome nel Wyoming, così come altri in California e Oklahoma.

L’amministrazione del presidente Warren G. Harding, entrata in carica nel 1921, era caratterizzata da un approccio politico favorevole agli affari e all’industria, il che portò a una serie di nomine di funzionari propensi a politiche pro-business.

Il segretario dell’Interno, Albert B. Fall, fu il protagonista dello scandalo Teapot Dome.

Fall autorizzò in segreto la locazione delle riserve petrolifere a compagnie private senza il processo di gara pubblica, che era la prassi standard.

La Sinclair Oil e la Mammoth Oil (una filiale della Standard Oil) furono le beneficiarie di queste concessioni.

In cambio delle concessioni lucrative, Fall ricevette prestiti e regali significativi da parte delle compagnie petrolifere, compresa la Sinclair Oil.

Questi prestiti erano essenzialmente tangenti, anche se Fall tentò di mascherarli come prestiti legittimi.

Lo scandalo fu scoperto e divenne pubblico dopo un’indagine iniziata da senatori preoccupati per la mancanza di trasparenza nelle transazioni.

L’indagine rivelò la corruzione di alto livello e portò a una grande indignazione pubblica.

Il caso raggiunse la Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso “United States v. Fall”, dove Fall fu trovato colpevole di corruzione e condannato alla prigione, diventando il primo membro del Gabinetto degli Stati Uniti a essere incarcerato per reati commessi in carica.

Il presidente Harding morì nel 1923, prima che lo scandalo esplodesse completamente.

Il suo successore, Calvin Coolidge, ordinò un’indagine federale, rafforzando il suo impegno a pulire il governo.

Lo scandalo Teapot Dome fu ampiamente pubblicizzato dai giornali dell’epoca e divenne un simbolo di corruzione governativa.

Le ramificazioni dello scandalo Teapot Dome furono profonde, influenzando la percezione pubblica del Partito Repubblicano e della politica degli affari del governo.

Contribuì inoltre a catalizzare una maggiore regolamentazione delle pratiche commerciali e a rafforzare le procedure di gara pubblica per le risorse naturali gestite dal governo.

Questo scandalo illustra l’eterna tensione tra affari e politica, e le sfide che emergono quando gli interessi privati si intrecciano troppo strettamente con quelli pubblici.

Nonostante le continue esternazioni, non ci sono evidenze storiche dirette che collegano Benito Mussolini personalmente a tangenti o corruzione specificamente con la Sinclair Oil Corporation.

Tuttavia, il regime fascista di Mussolini, così come molti governi dell’epoca, era noto per una certa permeabilità agli interessi commerciali e industriali, compreso il settore energetico.

Durante il regime fascista, Mussolini mostrò un interesse marcato nel controllare e sviluppare l’industria energetica italiana, compreso il settore petrolifero, che era visto come vitale per l’autosufficienza economica e militare dell’Italia.

Mussolini perseguì politiche di nazionalizzazione di alcune risorse e promosse accordi internazionali per assicurare forniture di petrolio, ma questi sforzi erano più orientati alla strategia industriale e geopolitica che non a guadagni personali diretti tramite tangenti.

Nonostante non ci siano accuse specifiche di corruzione tra Mussolini e la Sinclair Oil, il regime fascista non era esente da pratiche di corruzione e nepotismo.

La corruzione era spesso manifesta in forme di clientelismo e nell’assegnazione di contratti governativi a compagnie amiche.

Anche se Mussolini proiettava un’immagine di efficienza e ordine, sotto la superficie il regime aveva le sue quote di affari loschi e gestione discutibile delle risorse dello stato.

In contesti diversi, come quello italiano, simili dinamiche potrebbero non essere legate a un singolo scandalo, ma piuttosto a un sistema di governance che integrava interessi industriali e politici in modi che potevano sfociare in corruzione.

In conclusione, mentre Mussolini stesso non sembra essere stato coinvolto personalmente in scandali di corruzione con la Sinclair Oil, il suo regime evidenziava una complessa interazione tra governo e interessi industriali che, in altri contesti, avrebbe potuto facilmente condurre a pratiche corrotte simili a quelle osservate nel caso del Teapot Dome.

Il caso Sinclair Oil rimane un caso di studio importante per comprendere la corruzione politica e i suoi effetti sulla fiducia pubblica e sulla governance.




Lontani da quegli anni…

Dalla Liberazione a Scurati

 

A Milano il 25 aprile 1945 il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, CLNAI, presieduto da Alfredo Pizzoni, diede inizio alla fase di governo che la portò alla costituzione della Repubblica.

 

In quel giorno, infatti, i membri del CLNAI Luigi Longo, Emilio Sereni, il futuro Presidente della Repubblica Sandro Pertini, Leo Valiani, Rodolfo Morandi, Giustino Arpesani e Achille Marrazzo emanarono i decreti che davano la prima forma di governo allo Stato italiano che si stava formando e proclamarono l’insurrezione generale in tutti i territori ancora occupati dai nazifascisti con il fine di obbligare questi alla resa incondizionata.

 

Fu Sandro Pertini a proclamare lo sciopero generale con le seguenti storiche parole “Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire”.

 

In queste ore, da giorni, giorni di tensioni che evocano la guerra mondiale e che vedono una Italia piegata da una assai pesante situazione economico finanziaria, si parla pressoché a reti unificate del testo sul 25 aprile del professor Antonio Scurati a cui non è stato concesso di andare in onda sulla televisione pubblica.

 

Ebbene andiamo a vedere cosa il professore avrebbe detto per celebrare il 25 aprile.

 

L’incipit sarebbe stato “lo attesero sotto casa in cinque, tutti squadristi venuti da Milano, professionisti della violenza assoldati dai più stretti collaboratori di Benito Mussolini”

 

Il professore di letterature comparate e scritture creative all’università IULM di Milano Antonio Scurati non avrebbe aperto il suo intervento per riportare alla memoria degli italiani il giorno in cui i rappresentanti delle formazioni partigiane riunitisi nel CLNAI avevano dato l’ultima spallato al fascismo ed alla tragica occupazione nazista bensì parlando dall’onorevole Matteotti leader del Partito Socialista Unitario.

 

Certamente, come ricorda il professore nel suo intervento censurato, “ultimo che in Parlamento ancora si opponeva a viso aperto alla dittatura fascista” ma, questo il mio pensiero, di certo non unico simbolo di quei 250mila combattenti partigiani che combatterono armati contro il nazifascismo.

 

Per chiarezza è lo storico comunista della guerra partigiana Gianni Oliva a dichiarare che in tutto furono 250mila i combattenti partigiani divisi in diverse componenti, non tutte socialiste e vicine a Matteotti.

 

Citiamole tutte per onorarne i loro caduti nella guerra di liberazione partigiana.

– Brigate Garibaldi, GAP e SAP, organizzati dal Partito Comunista Italiano.

– formazioni di Giustizia e Libertà, coordinate dal Partito d’Azione.

– formazioni Giacomo Matteotti, del Partito Socialista di Unità Proletaria

– Brigate Fiamme Verdi, che nascono come formazioni autonome per iniziativa di alcuni ufficiali degli alpini, e si legano poi alla Democrazia cristiana, come le Brigate del popolo

– Brigate Osoppo, autonome e legate alla DC e al PdA

– formazioni azzurre, autonome ma politicamente monarchiche e badogliane

– piccole formazioni legate ai liberali e ai monarchici, come la Franchi di Edgardo Sogno, o quelle trotskiste, come Bandiera Rossa, e anarchiche, come le Bruzzi-Malatesta.

 

Come si può notare non tutti di sinistra e, successivamente, contrari al Patto Atlantico o filo sovietici.

 

Come, soprattutto in queste ore di guerra in terra di Ucraina, non ricordare l’avversità di Pertini all’adesione alla NATO della nostra Italia?

 

Come non chiedersi se, in era di guerra fredda e di Patto di Varsavia, quella scelta sarebbe stata corretta per la giovane democrazia italiana?

 

Socialista Matteotti, socialista Pertini.

 

Il Professor Scurati, sempre nel suo intervento in memoria della liberazione, continua con “In questa nostra falsa primavera, però, non si commemora soltanto l’omicidio politico di Matteotti; si commemorano anche le stragi nazifasciste perpetrate dalle SS tedesche, con la complicità e la collaborazione dei fascisti italiani, nel 1944”.

 

In realtà il 25 aprile commemora la democrazia italiana raggiunta con il sacrificio delle politicamente variegate brigate partigiane da un lato e dal numericamente assai più rilevante sacrificio dei militi delle truppe alleate che hanno letteralmente portato la democrazia in Italia.

 

Come non condividere, almeno io sono fra quelli che lo condividono, quanto il professore dichiara allorquando dice “il fascismo è stato lungo tutta la sua esistenza storica, non soltanto alla fine o occasionalmente, un irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista”.

 

Fino a questo punto, pur se si notano delle omissioni nei confronti dei combattenti partigiani vicino alle culture non di sinistra e nei confronti del’ imprescindibile ruolo delle truppe alleate, furono 465mila i fanti statunitensi sbarcati solo in Sicilia, quanto il professor Scurati riporta al centro della memoria è importante ed utile per dare un senso alle origini della nostra repubblica.

 

Dimenticanze, buchi di memoria, quelle del professore. Docente che ha indubbiamente dedicato quattro romanzi a Mussolini ma che, in questa occasione, avrebbe potuto e dovuto, probabilmente in questo caso non sarebbe stato censurato, parlare dei partigiani e dei loro alleati piuttosto che occupare uno spazio pubblico per strumentalizzare ai fini di mera polemica politica, un momento alto della nostra storia, patria.

 

Strumentalizzazione della televisione pubblica, infatti, la conclusione dell’intervento del professor Scurati allorquando dice: “lo riconosceranno, una buona volta, gli eredi di quella storia? Tutto, purtroppo, lascia pensare che non sarà così. Il gruppo dirigente post-fascista, vinte le elezioni nell’ottobre del 2022, aveva davanti a sé due strade: ripudiare il suo passato neo-fascista oppure cercare di riscrivere la storia. Ha indubbiamente imboccato la seconda via. Dopo aver evitato l’argomento in campagna elettorale, la Presidente del Consiglio, quando costretta ad affrontarlo dagli anniversari storici, si è pervicacemente attenuta alla linea ideologica della sua cultura neofascista di provenienza: ha preso le distanze dalle efferatezze indifendibili perpetrate dal regime (la persecuzione degli ebrei) senza mai ripudiare nel suo insieme l’esperienza fascista, ha scaricato sui soli nazisti le stragi compiute con la complicità dei fascisti repubblichini, infine ha disconosciuto il ruolo fondamentale della Resistenza nella rinascita italiana (fino al punto di non nominare mai la parola “antifascismo” in occasione del 25 aprile 2023)”.

 

Egregio professore, da nipote e figlio di combattenti antifascisti, da cristiano liberale membro di una famiglia di origini ebraiche, la prego di provare ad essere realmente democratico e di non permettersi mai più di sporcare la festa della liberazione con la sua propaganda di parte.

 

Egregio professore impari a scindere gli alti momenti della repubblica con la demagogia di una parte.

 

Egregio professore mi permetta di dirle che l’ultima parte del suo intervento, nell’alzare il dito dalla televisione pubblica contro la Premier Meloni, ha infangato, buttandola in politica di parte, la memoria di chi ha combattuto, in alcuni casi perdendo la vita, per permettere anche a Lei di essere libero avversario della Premier italiana pro tempore Giorgia Meloni.

 

Egregio Professore mi permetta, infine, di farle notare che l’Italia, oggi ancor più che a quel tempo, ha enorme necessità di pensiero alto e realmente, pragmaticamente, democratico e non di “momenti da bar” come, a mio personale e sommesso avviso, avrebbe fornito lei con un attacco alla Premier in un momento che sarebbe dovuto essere “istituzionale” e non “partitico”.

 

In memoria di chi è morto per dare a noi la libertà.

 

Uomini veri.

 

Uomini che combattevano rischiando la vita, non demagoghi.

 

Ignoto Uno




Matteotti: non sono solo antifascista, mi dipingono così!!!

La figura di Giacomo Matteotti, sebbene frequentemente associata all’opposizione al fascismo a causa del suo tragico assassinio nel 1924, presenta delle sfumature ideologiche che lo distanziano da un’etichetta rigidamente “antifascista” secondo l’accezione più comune del termine.

Matteotti, in effetti, emerge come un sostenitore fervente della democrazia parlamentare, posizionandosi criticamente sia contro il fascismo di Mussolini sia contro il comunismo.

Matteotti era membro del Partito Socialista Unitario, una scissione del Partito Socialista Italiano che si opponeva alla direzione rivoluzionaria e comunista di Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci nel Partito Comunista d’Italia.

La sua critica al comunismo era radicata nella sua fedeltà alla democrazia parlamentare come metodo di governo e nel suo rifiuto delle tattiche rivoluzionarie e della dittatura del proletariato promosse dai comunisti.

Questa posizione si riflette chiaramente nel suo approccio alla politica, dove privilegiava la legislazione e il dibattito parlamentare come mezzi per realizzare cambiamenti sociali e politici.

In parallelo, Matteotti si opponeva vigorosamente al fascismo, ma la sua opposizione era centrata sulla difesa delle istituzioni democratiche e parlamentari piuttosto che su una contrapposizione ideologica all’intero corpus delle idee fasciste.

Matteotti vedeva il fascismo, soprattutto dopo l’ascesa al potere di Mussolini, come una minaccia diretta alla democrazia parlamentare attraverso la sua tendenza autoritaria e il suo disprezzo per il pluralismo politico.

Il suo famoso discorso del 1924, poco prima del suo rapimento e assassinio, denunciava i brogli elettorali e le violenze perpetrate dai fascisti, evidenziando la sua ferma posizione a favore di un sistema politico democratico e trasparente.

È interessante notare che sia Mussolini che Matteotti provenivano da una matrice socialista.

Mussolini, prima della sua adesione al nazionalismo e alla creazione del fascismo, era un importante esponente del Partito Socialista Italiano, dal quale fu espulso per le sue posizioni interventiste nella prima guerra mondiale.

Questo passato socialista di Mussolini era tuttavia caratterizzato da una propensione per l’azione diretta e una certa predisposizione alla violenza, aspetti che si accentuarono enormemente nel suo percorso verso il fascismo.

In conclusione, Giacomo Matteotti può essere meglio descritto non certo come un antifascista nel senso stretto e militante del termine, quanto piuttosto come un difensore della democrazia parlamentare, il cui impegno politico mirava alla preservazione delle istituzioni democratiche e al rifiuto sia del fascismo autoritario di Mussolini che del comunismo rivoluzionario.

Il suo assassinio divenne un simbolo della lotta contro la soppressione della democrazia in Italia, consolidando la sua immagine come martire della libertà e della giustizia politica.

L’interpretazione di Giacomo Matteotti come figura antifascista, predominante oggi in particolare nel discorso pubblico sia accademico che politico, riflette spesso una visione semplificata, molto limitante e simbolica che non coglie pienamente la complessità del suo pensiero politico e del suo senso di stato, facendo così un torto assoluto alla figura di Matteotti.

La rappresentazione di Matteotti come un eroe antifascista è stata, in parte, una costruzione postuma, enfatizzata in particolare dopo la Seconda Guerra Mondiale, con la rinascita democratica in Italia e la condanna universale del fascismo.

Dopo il suo assassinio nel 1924, Matteotti divenne un simbolo del sacrificio per la libertà e la democrazia.

Il suo martirio fu utilizzato sia dai partiti di sinistra che da quelli centristi per mobilitare l’opinione pubblica contro il regime fascista.

Questa trasformazione di Matteotti in un’icona antifascista può essere vista come un’opportunità per vari gruppi politici di presentarsi come eredi legittimi dei valori democratici che Matteotti difendeva.

Giacomo Matteotti possedeva un profondo senso di stato che si manifestava nel suo impegno per la democrazia parlamentare e nel suo rifiuto delle soluzioni autoritarie e totalitarie, sia di destra (fascismo) che di sinistra (comunismo).

Il suo approccio era fortemente ancorato ai principi di legalità e di rappresentanza politica, visti come pilastri indispensabili per la governance di uno stato moderno e civile.

Matteotti credeva nella necessità di un governo che agisse nell’interesse del popolo, attraverso le istituzioni democraticamente elette, e non tramite il dominio di un singolo partito o leader.

La narrazione che disegna Matteotti come puramente antifascista tende a sovrapporre la lotta contro il fascismo alla più ampia difesa delle istituzioni democratiche e del pluralismo politico.

Questa semplificazione serve a consolidare una certa narrativa storica, ma rischia di appiattire la complessità del suo pensiero e delle sue azioni.

Nonostante la sua chiara opposizione al fascismo, Matteotti era principalmente mosso da una visione positiva del governo, basata sulla legalità e sulla partecipazione democratica, piuttosto che da una contrapposizione ideologica totale verso il fascismo in sé.

Il modo in cui la classe politica ed universitaria italiana ha trattato la figura di Matteotti ha spesso riflettuto le esigenze del presente più che una fedele interpretazione storica.

L’enfasi sull’antifascismo deve essere vista come un tentativo di costruire una memoria collettiva condivisa di resistenza al totalitarismo, utile per consolidare l’identità democratica post-bellica dell’Italia, ma non certo una vera identificazione dello spirito del politico e nemmeno dei valori che lo stesso incarnava.

Tuttavia, questa enfasi oscura il suo autentico impegno per una democrazia parlamentare e la sua critica tanto al fascismo quanto al comunismo.

In realtà, mentre Matteotti viene celebrato come antifascista, è essenziale riconoscerne e comprendere il suo impegno più ampio per la democrazia e il suo senso di stato, che trascendono la semplice opposizione al fascismo, abbracciando una visione più completa e complessa del governo e della politica.

Pertanto, come sempre in questo paese, gli eroi vengono creati a secondo dell’interesse delle fazioni e mai per il vero senso della storia.




Fallire educa. Lo dice anche il capitano Kirk.

Come possono i docenti essere d’aiuto per preparare gli studenti e le studentesse ai test d’ammissione all’università?

La prima cosa da fare è aiutarli a vincere la parte ansiogena che inevitabilmente questo tipo di prova porta con sé.

C’è un’ansia di fondo in chi si prepara ad affrontare un test, soprattutto nel caso in cui le materie non siano perfettamente conosciute o magari nemmeno finite.

Cito uno studio di Betapress.it, l’80% delle défaillance nei test d’ammissione non è dovuta alla mancanza di preparazione, ma all’ansia che subentra in fase di esame.

Questo è quindi il primo aspetto sul quale intervenire.

Partendo dal fornire ai giovani alcuni metodi di studio.

La nostra memoria è regolata dal sistema limbico che ci permette di apprendere grazie a quello che viene definito l’imprinting.

Una delle prime regole è capire che l’apprendimento avviene per pressione e memorizzazione (imprinting) all’interno del sistema nervoso centrale di quello che i ragazzi e le ragazze studiano in quel momento.

Applicarsi solo in una materia e di seguito solo in un’altra è, per esempio, un errore grave in fase di apprendimento.

Tant’è che i programmi dei licei sono interattivi e dispersi sugli anni.

Questi sono tutti temi da affrontare e integrare in una didattica particolare.

Quando cerchiamo di aiutare i giovani ad affrontare le prove, dobbiamo tenere presente che il ragazzo o la ragazza sono sottoposti a un meccanismo ansioso collegato a tanti fattori, in primo luogo la preparazione, ma anche l’ansia di prestazione.

E questo stato non permette loro di essere sereni durante il compito.

La scarica di adrenalina attiva tutte le funzioni fisiche (per esempio il battito cardiaco), ma spesso abbassa il ragionamento del cervello e ne attiva la funzione difensiva e tutto questo non permette alla persona di essere performante durante i test.

Bisogna quindi aiutare i ragazzi a programmare lo studio perché una corretta pianificazione consente loro di essere più calmi e interagire con la fase di stress durante il test.

È molto importante anche spiegare bene ai ragazzi come funzionano i test, come sono composti, che tipo di esperienza si troveranno a vivere perché per loro è una prima volta.

Bisogna aiutarli a capire la semantica dei test, non tutti sanno per esempio che questi quesiti sono costruiti secondo algoritmi, secondo una semantica che, se conosciuta, permette ai ragazzi di affrontare il test e ragionare sulla domanda in tempi più brevi.

Un consiglio ai docenti, in questa direzione, è quello di preparare i compiti in classe a guisa di test d’ingresso.

Scomponendo la materia e “costringendo” gli studenti ad affrontarla in modo diverso, magari anche su risposte multiple, il compito in classe diventa un valido aiuto in vista dei test.

È un modo per farli studiare in maniera più logica e con una diversa semantica dello studio.

Per fare tutto questo, durante l’anno scolastico, diventa opportuno programmare attività di laboratorio.

Passando invece a una seconda fase, dobbiamo insegnare ai ragazzi e alle ragazze a gestire un eventuale fallimento.

Come?

Convertendolo in una strategia di successo per scegliere la propria strada.

Insegnando ai ragazzi che non c’è fallimento quando si sceglie, perché la scelta presuppone l’errore e l’errore, a sua volta, è un aiuto per affinare la scelta.

Facendo loro capire che il percorso individuale è importante.

La scelta è una componente del percorso che ogni ragazzo o ragazza fa. Insegnare ad accettare lo sbaglio può essere un metodo educativo.

Nel mio lavoro spesso mi capita di andare a supporto dei docenti e spesso metto in pratica la pedagogia dell’errore perché i giovani di oggi non sono abituati.

In questo approccio la famiglia ha un peso incalcolabile, nel momento in cui capiamo come si comportano i genitori possiamo ritarare il nostro approccio pedagogico-educativo nell’obiettivo del bene dell’alunno.

Ed è un percorso che si fa insieme, studenti, docenti, genitori, psicologi. Lo psicologo ha un ruolo importantissimo ma non deve essere lasciato da solo, ci deve essere una rete intorno che fa sentire i giovani sicuri nel loro percorso.

Gli studenti di oggi che a noi sembrano così sicuri di sé sono in realtà i più insicuri, la depressione giovanile è aumentata del 120% negli ultimi dieci anni, i suicidi in età giovanile del 180% negli ultimi vent’anni.

Sono dati tragici.

Per questo serve un cerchio, l’organicità dell’azione.

La preparazione ai test d’ammissione può diventare la prima occasione per portare questi ragazzi e queste ragazze a sperimentare il fallimento.

Porto un esempio: ho somministrato in varie classi un test molto complesso, l’ho chiamato il test di Star Trek perché ho preso il concetto dal noto telefilm.

Il test della Kobayashi Maru, introdotto nell’universo di “Star Trek”, rappresenta un esemplare punto di riflessione sia nel contesto narrativo che nell’ambito della formazione del carattere e della leadership.

Questo scenario simulato, impostato nell’Accademia della Flotta Stellare, è stato concepito come un test di comando irrisolvibile, destinato a valutare le reazioni dei cadetti di fronte a una situazione senza via d’uscita, dove il fallimento è inevitabile.

L’obiettivo principale di questo test non è tanto la soluzione del problema presentato, quanto piuttosto l’osservazione delle modalità di gestione dello stress, delle decisioni etiche e della leadership sotto pressione estrema.

La Kobayashi Maru è una nave civile senza armi, che, nel contesto del test, invia un segnale di soccorso da una zona controllata dal nemico.

Il cadetto in prova deve decidere se infrangere il trattato di pace per tentare un salvataggio quasi certamente fallimentare, mettendo a rischio la propria nave e l’equipaggio, oppure lasciare la Kobayashi Maru al suo destino.

Il test è truccato per assicurarsi che ogni possibile azione porti a un esito negativo, esplorando così la capacità del cadetto di affrontare una situazione senza speranza.

Il test della Kobayashi Maru insegna una lezione fondamentale sull’accettazione del fallimento come componente inevitabile della vita e, in particolare, della leadership. In un mondo che spesso premia solo il successo, il test offre una prospettiva realistica e umile sulla possibilità di incontrare sfide insormontabili.

Il modo in cui un cadetto reagisce al fallimento – con integrità, coraggio e preservando i valori etici – diventa così importante quanto ottenere la vittoria.

Questo approccio incoraggia la resilienza, la capacità di affrontare le avversità mantenendo un comportamento etico e morale.

Attraverso l’esplorazione dei limiti personali e dell’accettazione del fallimento, il test della Kobayashi Maru funge anche da catalizzatore per la crescita personale e la ricostruzione della personalità.

Confrontandosi con la propria impotenza, i cadetti hanno l’opportunità di valutare e rafforzare il proprio carattere, le proprie priorità e i valori fondamentali. Il test sfida i futuri leader a riflettere sulla natura delle decisioni difficili e sulle qualità necessarie per guidare con saggezza e compassione anche nelle situazioni più disperate.

Il caso di James T. Kirk, il solo cadetto noto per aver “superato” il test modificando il suo programma per renderlo vincibile, introduce un ulteriore strato di complessità all’interpretazione del test della Kobayashi Maru.

Kirk rifiuta di accettare il fallimento come unica conclusione possibile, dimostrando sia la sua ineguagliabile audacia che una potenziale mancanza di accettazione dei limiti imposti dalla realtà.

Questo comportamento solleva interrogativi sulla natura dell’innovazione e della leadership: fino a che punto è giustificabile alterare le regole per raggiungere il successo?

La decisione di Kirk riflette un approccio non convenzionale ai problemi, enfatizzando l’importanza dell’adattabilità e dell’ingegnosità.

Il test della Kobayashi Maru, quindi, va oltre una semplice valutazione delle capacità di comando, trasformandosi in uno strumento pedagogico profondo per l’indagine sulla natura umana, sull’etica della leadership e sulla gestione delle crisi.

Attraverso l’accettazione del fallimento e la ricostruzione della personalità, il test mira a preparare individui capaci non solo di guidare con competenza, ma anche di fare i conti con le proprie vulnerabilità e limiti, promuovendo così un modello di leadership più umano e riflessivo.

Nelle classi in cui abbiamo introdotto questo esperimento, ovvero un test irrisolvibile salvo truccare il test, è risultato che solo il 15% dei ragazzi è stato in grado di gestire correttamente il fallimento al test, dato abbastanza deprimente, nessuno ha pensato di truccarlo e la maggior parte dopo il fallimento ha minimizzato l’errore dicendo che tanto era il test che era sbagliato.

Gestire il fallimento è una componente fondamentale dello sviluppo personale, specialmente nei giovani.

Il fallimento non solo è inevitabile nella vita di tutti ma offre anche opportunità uniche per l’apprendimento e la crescita personale.

Aiutare i ragazzi a gestire il fallimento, ed a capirlo, richiede un approccio olistico che coinvolga educatori, genitori e la comunità nel suo complesso.

Alcune strategie basate su principi pedagogici, psicologici e di sviluppo personale possono essere così riassunte:
A. La creazione di un ambiente sicuro e di supporto è essenziale. I giovani dovrebbero sentirsi liberi di esplorare, sperimentare e fallire senza timore di giudizio o punizione. Un ambiente che celebra il tentativo tanto quanto il successo incoraggia i giovani a uscire dalla loro zona di comfort e a vedere il fallimento come parte del processo di apprendimento.
B. La resilienza, ovvero la capacità di rimbalzare indietro dopo il fallimento, è una skill cruciale. I ragazzi possono essere istruiti sulla resilienza attraverso esempi storici, letterari o contemporanei di individui che hanno affrontato e superato fallimenti significativi. Le discussioni in classe o le attività di gruppo possono concentrarsi su come questi individui hanno gestito le loro situazioni, sottolineando l’importanza della perseveranza e della flessibilità mentale.
C. Insegnare ai giovani a valutare i propri fallimenti in modo costruttivo è fondamentale. Questo implica incoraggiarli a riflettere sulle cause del fallimento, su cosa hanno imparato e su come possono migliorare in futuro. L’autocritica costruttiva dovrebbe essere equilibrata con il riconoscimento delle proprie capacità e successi, per mantenere l’autostima e la motivazione.
D. L’intelligenza emotiva, la capacità di riconoscere, comprendere e gestire le proprie emozioni e quelle degli altri, è cruciale nel processo di gestione del fallimento. Attraverso il dialogo aperto e le attività di gruppo, i ragazzi possono imparare a esprimere le loro frustrazioni in modo sano e a offrire supporto ai coetanei che affrontano difficoltà simili.
E. Le abilità di problem-solving possono aiutare i ragazzi a vedere il fallimento sotto una nuova luce. Invece di percepire il fallimento come un vicolo cieco, possono imparare a vederlo come un problema da risolvere. Questo approccio li incoraggia a cercare soluzioni creative e a vedere il fallimento come un’opportunità per apprendere nuove strategie.
F. Il supporto dei genitori e della comunità è fondamentale per rafforzare il messaggio che il fallimento è un aspetto normale e utile del processo di apprendimento. I genitori possono essere incoraggiati a condividere le proprie esperienze di fallimento e recupero con i figli, fornendo modelli di resilienza e ottimismo. La comunità, comprese le scuole e le organizzazioni giovanili, può offrire risorse e programmi dedicati a sviluppare competenze di vita che aiutano a gestire il fallimento.

In definitiva, aiutare i ragazzi a gestire il fallimento richiede un approccio multiplo che incoraggi l’accettazione del fallimento come parte integrante dell’apprendimento e della crescita.

Promuovendo la resilienza, l’autocritica costruttiva, l’intelligenza emotiva, e il problem-solving in un ambiente di supporto, possiamo preparare i giovani ad affrontare le sfide della vita con fiducia e ottimismo.

Questo processo non solo li aiuta a gestire il fallimento ma li equipaggia con le competenze necessarie per prosperare in un mondo in continua evoluzione.

 




Il Tentativo di Limitare la Libertà di Stampa da Parte del Governo passa per l’intimidazione?

Nel recente clima politico italiano, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha pubblicamente dichiarato il suo impegno a garantire la libertà di stampa, un pilastro fondamentale della democrazia.

Tuttavia, queste affermazioni sembrano contraddittorie rispetto alle azioni del suo governo, in particolare in relazione al trattamento riservato a Betapress e ad altre testate giornalistiche.

La contraddizione tra le dichiarazioni di Meloni e le azioni del suo governo è palpabile.

Mentre Meloni proclama il suo sostegno alla libertà di stampa, un suo ministro, ad esempio, sembra essere coinvolto in azioni che minerebbero direttamente questo principio.

Nel caso di Betapress, ad esempio, l’ingerenza governativa ha sollevato preoccupazioni significative riguardo alla capacità dei media di operare senza interferenze.

Questo comportamento include pressioni sui giornalisti, tentativi di influenzare la pubblicazione o l’omissione di specifici articoli, e la minaccia di ritorsioni finanziarie o legali contro organi di stampa o i direttori che critichino l’operato del governo.

La coerenza tra le dichiarazioni pubbliche e le azioni politiche è essenziale per mantenere la fiducia pubblica.

In democrazia, i leader sono tenuti a rispettare non solo la lettera ma anche lo spirito delle leggi, comprese quelle che proteggono la libertà di stampa.

Quando le azioni di un governo non corrispondono alle sue dichiarazioni, ciò può minare la credibilità non solo dei singoli politici ma dell’intero sistema politico.

Il caso Betapress non è soltanto un problema interno, ma ha anche implicazioni internazionali.

La percezione della libertà di stampa in Italia influisce sulla reputazione del paese a livello internazionale, specialmente nei confronti di organizzazioni come l’Unione Europea e il Consiglio d’Europa, che hanno stabilito chiari standard di libertà di stampa per i loro membri.

A livello domestico, l’effetto moltiplicatore di una stampa libera è fondamentale per un dibattito pubblico informato e vivace, che è essenziale per il funzionamento di una democrazia sana.

Affinché le dichiarazioni di Giorgia Meloni sulla libertà di stampa siano credibili, è necessario che le azioni del suo governo riflettano questi stessi valori.

Il caso Betapress rappresenta un momento cruciale per l’Italia nel mostrare al mondo che le sue istituzioni possono difendere i diritti fondamentali anche contro le pressioni interne.

Se il governo Meloni desidera veramente salvaguardare la libertà di stampa, deve assicurare che tutti i ministri e le agenzie governative agiscano in modo trasparente, equo e libero da qualsiasi tentativo di manipolazione mediatica.

Solo allora le sue affermazioni potranno essere prese sul serio sia in patria che all’estero.

La libertà di stampa è un pilastro fondamentale delle società democratiche.

Tale diritto, garantito in molte costituzioni in tutto il mondo, rappresenta non solo la libertà di informare tramite il giornalismo, ma anche il diritto dei cittadini di essere informati.

Pertanto, quando un governo tenta di limitare questa libertà, si pone in diretto conflitto con i principi stessi di democrazia e trasparenza.

Recenti manovre governative di alcuni stati hanno visto tentativi di soffocare la critica e di controllare l’informazione mediante l’intimidazione di figure chiave nell’ambito dei media, come i direttori di giornale.

Questi attacchi possono assumere varie forme: dalla minaccia di azioni legali alla sorveglianza, dallo smantellamento della credibilità professionale all’esclusione da eventi ufficiali.

Queste tattiche non solo mettono a rischio la carriera dei giornalisti, ma instaurano un clima di paura e autocensura tra coloro che dovrebbero agire come custodi della verità.

Limitare la libertà di stampa è un atto che va ben oltre la censura di un articolo o l’intimidazione di un editore; rappresenta un attacco diretto ai diritti fondamentali dell’uomo e ai principi di trasparenza e responsabilità.

Un governo che sceglie di percorrere questa strada minaccia non solo i media ma degrada l’intero tessuto democratico della società.

Questo impedisce ai cittadini di fare scelte informate, essenziali per il funzionamento di qualsiasi democrazia sana.

Nel corso degli anni, abbiamo visto numerosi esempi di governi che hanno cercato di limitare la libertà di stampa.

Un esempio emblematico è stato quello della Turchia, dove numerosi giornalisti sono stati arrestati e media chiusi sotto l’accusa di diffusione di “propaganda terroristica”.

Anche in Ungheria, le leggi sui media sono state criticate per aver concentrato il controllo dei media nelle mani di alleati del governo, in Italia un movimento simile avviene invece per apparentamenti!

La comunità internazionale, comprese le organizzazioni come l’ONU e l’OSCE, ha spesso condannato tali azioni, sottolineando come violino gli accordi e le convenzioni internazionali sui diritti umani.

È essenziale che la comunità internazionale, le organizzazioni non governative e i governi democratici si uniscano in difesa della libertà di stampa.

Devono essere implementate sanzioni e misure punitive contro quei paesi che violano consapevolmente questo diritto fondamentale.

Inoltre, è vitale supportare i giornalisti e i media che operano in condizioni ostili, fornendo loro le risorse necessarie per mantenere la loro operatività e sicurezza.

La lotta per la libertà di stampa è una lotta continua in molte parti del mondo.

È una lotta che va oltre la salvaguardia dei diritti dei giornalisti; è una battaglia per la conservazione del nostro stesso sistema democratico.

Intimidire i direttori di giornale è un tentativo chiaro di minare questi principi, e ogni tentativo in tal senso deve essere fermamente respinto da tutte le forze che sostengono la democrazia e i diritti umani universali.

Ogni cittadino, in ogni nazione, ha il diritto di essere informato liberamente e onestamente, e questo diritto deve essere difeso con ogni mezzo necessario.

 

La libertà di stampa

Betapress sotto ATTACCO!!! Acqua in redazione.

Lupi di stato contro l’articolo 21