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disquisizione socio-economico-culturale sulla televisione e la moderna monetocrazia.

Una mattina d’estate a Palermo può capitare che, se ti fermi in un bar a prendere una granita e una brioche, anche se hai con te un buon libro, il dialogo con uno sconosciuto potrebbe rivelarsi ancora più interessante di ciò che leggi.

Lui è un signore alto e distinto, con i capelli bianchi e un sigaro in mano; siede al tavolino vicino al mio, legge il giornale e beve un caffè.

Io leggo un libro che mi è stato consigliato e che si è rivelato di una squisita bellezza.

“I libri sono il migliore amico dell’uomo”.

Smetto di leggere e lo guardo.

Non parlo perché una persona che ti interrompe mentre leggi non ha voglia di ascoltarti ma di farsi ascoltare.

E io so che lui sta solo cominciando e sono molto curiosa di ascoltarlo perché ho l’occhio lungo per le persone interessanti e non mi stanco mai di incontrarne.

È un ingegnere ma si giustifica subito dicendo che legge Rousseau, continuo ad ascoltare.

Adesso, nella recita a soggetto di quella mattina, è il turno della mia battuta e la pronuncio sorridendo perché so che è l’assist che cerca: “la cultura salverà il mondo”.

Ed è successo qui che la conversazione è sbocciata.

Da questo punto in poi ha inizio il motivo per il quale ho deciso di scrivere questo articolo.

In una fresca mattina d’estate, da un tavolo all’altro di un bar decentrato, iniziamo a parlare della analfabetizzazione della società e del ruolo dei media in questo panorama.

Però questa deprecatio temporis acti, questa continua lamentela sui tempi che viviamo che viene ripetuta fino ad oggi da quando Aristofane già nel 400 a.C. faceva dire al suo Eracle: “Quei non più sono e i vivi son cattivi”, non è forse proprio del tutto vera o, meglio, io non ho voglia vederla così perché dà alla imminente rovina che ci sta piombando addosso un sapore di ineluttabilità che io non voglio buttar giù.

Seguitemi nel mio ragionamento e ditemi se vi convince o se è, a vostro parere, da correggere (non è un modo di dire: mi interessa davvero conoscere la vostra riflessione in merito, scrivetela pure nei commenti).

Il fatto è che, onestamente, se proviamo a tornare indietro con la memoria, ricorderemo che all’inizio del ‘900 le persone in grado di saper leggere e scrivere erano molte meno che oggi.

Anzi, su questo versante, la televisione ha apportato un contributo molto importante (un esempio per tutti le lezioni di “Non è mai troppo tardi” condotto dal prof. Manzi).

Sempre in quegli anni, con l’inserimento dei programmi di intrattenimento, il palinsesto televisivo proponeva le messe in scena dei grandi romanzi permettendo cosi alla letteratura e alla cultura di arrivare a un numero ampio di telespettatori.

Ricordiamo a questo proposito che i romanzi dell’Ottocento erano concepiti per essere letti ad alta voce in famiglia piuttosto che, come oggi, nella propria solitudine.

Il romanzo era un momento di intrattenimento conviviale, da vivere nel proprio salotto all’interno del proprio nucleo familiare e sociale; era un momento di confronto che offriva alle persone la possibilità di accendere un dibattito, confrontarsi e maturare un’etica.

Interessante vedere come questo ruolo è stato perso dal romanzo ed è stato preso tempestivamente e di buon grado la televisione.

I grossi televisori a tubo catodico sostituivano e dislocavano via via sempre più quelli che erano stati fino a quel momento i salotti e i nuclei familiari.

Si creava in quegli anni, grazie a quello strumento rivoluzionario, la comune cultura di base cosa che, fino al quel momento, non c’era: non esisteva una cultura di base nazionale ma percorsi formativi divisi per classi, aree geografiche e ceti sociali.

La cultura cominciava a circolare agevolmente e senza troppo impegno da parte di chi la accoglieva e poteva essere percepita come nazionale o, addirittura, mondiale.

E, fino a qui, niente di male verrebbe da dire: è il progresso e il futuro che avanza.

E intanto, la televisione, arrivata in ogni casa, educava la morale e abituava alle mode.

Piano piano, nel modo più amabile, la televisione diventava la coscienza che entrava da una scatola in salotto piuttosto che nascere dall’anima di ciascuno.

Fatto questo, una volta acquistata la fiducia incondizionata del telespettatore, si è passati alla Fase2.

Dopo essere stata lo strumento di educazione e omologazione culturale, la televisione è passata a quella che il prof.Umberto Galimberti, parafrasando Flaubert, chiama “l’educazione sentimentale”.

Ovvero, dice sempre il prof. Galimberti, siamo al punto in cui la televisione e i suoi programmi ci stanno insegnando attraverso beceri esempi come provare emozioni: come innamoraci, come reagire alla gelosia, come essere tristi, come essere felici…

Questa codificazione non fa altro che renderci solo più privi di personalità e manovrabili.

Ecco, verrebbe da dire che, nonostante un inizio che prometteva benissimo, siamo arrivati a un punto preoccupante; dalla missione di alfabetizzazione sociale, si è arrivati all’obiettivo della analfabetizzazione sistematica.

Ma non è un attacco allo strumento ma all’utilizzo che se ne fa.

“che lavoro fa?”

“Sono laureata in materie umanistiche”

“Ah, un tempo, quando mi sono laureato io, chi aveva la passione si iscriveva a lettere e filosofia e chi invece non aveva voglia di studiare e non voleva avere nulla a che fare con la cultura, si iscriveva ad economia.

La cosa incredibile è che oggi loro sono loro quelli che stanno stabilendo tutte le regole e decidono attraverso il denaro le vite di tutti noi.

La cosa incredibile è che siamo governati da quella che aveva tutti i presupposti di essere una categoria di uomini ignoranti e aridi”.

Al di là dell’approccio campanilistico questa frase mi ha fatto molto riflettere e questo è il pensiero che porto a casa da quella mattina.

Rifletto e penso che il mio gradevole interlocutore abbia ragione.

Non so quanto sia vero o soggettivo lo scherno riservato agli studenti di economia di allora ma, se così fosse, il paragone reggerebbe.

Non me ne vogliano i laureati in economia (sto prendendo la seconda laurea in economia anche io) ma l’ascesa sociale nella nostra scala dei valori svolta dal danaro

e il potere acquisito in breve tempo da chi del denaro detta le regole, è un segno e una causa del nichilismo dei nostri tempi.

Non sono pensieri miei, non sono così intelligente anche se mi piacerebbe esserlo, cercate pure cosa dice il prof. Umberto Galimberti a proposito del nichilismo moderno e sarà tutto chiaro.

Il nichilismo dei nostri giorni è la sindrome del direttore del lager che giustifica le centinaia di morti sulla propria coscienza con la frase “io facevo il mio lavoro”.

È l’esaltazione dei freddi doveri lavorativi a scapito dell’umano e palpitante discernimento.

È la concentrazione verso l’essere un uomo ricco piuttosto che un uomo di valore.

La tendenza all’Avere piuttosto che all’Essere come diceva Eric Fromm, all’apparire (ciò che gli altri vogliono che tu sia) rispetto all’essere ciò che non sappiamo di essere.

È l’eccentricità del nuovo equilibrio per il quale la nuova divinità si chiama “soldo” e, come ogni rituale richiede sacrifici e vittime.

È quella che Raimonundo Panikkar chiamava la “monetocrazia” ovvero il potere dittatoriale della moneta.

Per quanto fino a qualche anno fa questa delocalizzazione della morale poteva sembrarci aberrante, oggi è affascinante notare che, anche attraverso il mezzo di propaganda sociale che è la televisione e di propaganda delle coscienze che è la rete, è diventato perfettamente plausibile.

E così, in questi giorni, rifletto su questo tema e ne parlo con gli amici e uso le lenti di questa riflessione per guardarmi attorno e scoprire cosa si vede.

Il mio interlocutore, a suo dire, su quanto detto e qui riportato, aveva un approccio “pessimista”, non credeva cioè che ci fosse via di uscita da questa degradazione.

Io però farò appello alla differenza di anni che separano la mia età dalla sua e userò il tempo che mi resta per colmare il divario, per ribellarmi con i pensieri e le azioni a questa corrente e dare il mio contributo affinché la cultura e la bellezza possano salvare il mondo.

Ps: Il mio nuovo amico mi ha raccontato anche di sua nonna Andromaca e di come essa diceva che gli occhi siano concupiscenza oltre quello che in realtà possono contenere ma di lei, forse, scriverò in un altro articolo.


Puoi leggere altri post di Chiara Sparacio su https://chiarasparacio.wordpress.com

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