Il dolore che annienta

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A metà degli anni sessanta, Martin Seligman e un allegro gruppo di altri psicologi sperimentali, hanno fatto un esperimento simpatico come il pizzicotto sulla guancia da parte dello zio ridanciano quando eri piccolo.

Il curioso gruppetto, mise un cane in una grande gabbia e ne elettrificò una parte.

In poco tempo il cane capì il trucco è si spostò sul lato opposto.

Una volta che il cane aveva capito, invertirono i settori di elettrificazione 

ma il cane, che non era stupido e sapeva che doveva scappare dalle scosse, 

sì riadattò sull’altra parte della grande gabbia.

Gli psicologi non erano ancora contenti ed elettrificarono l’intera prigione.

Non trovando scampo, il cane si rassegnò e si sdraiò adattandosi al dolore.

A questo punto, il gruppetto di scienziati aprì la porta della gabbia aspettandosi che il cane sarebbe fuggito spinto dall’istinto di sopravvivenza.

Ma non fu così.

Abituato al dolore, il cane si era arreso e non cercava più scampo.

——–

Ed ecco

alle volte capita pure a noi.

Alle volte ci troviamo in una gabbia 

e ci sbattiamo tanto per trovare il punto in cui non ci arrivano le torture.

Lo troviamo e lo ritroviamo ogni volta 

finché poi però non esiste più punto franco

e ci rassegnamo.

Tanto che quando possiamo fuggire non lo facciamo.

Questo succede quando siamo vittime di un lavoro che non ci soddisfa,

quando stiamo con una persona che ci maltratta,

quando vogliamo stare con amici che ci tradiscono.

Su di noi nessuno fa esperimenti 

ma qualcuno vuole fare prove di forza.

Non permettiamogli di vincere.

Non adattiamoci al dolore ma vegliamo sempre e stiamo reattivi in attesa della possibilità di fuga.

Non c’è vergogna nel lasciare una gabbia

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