Chi ha mangiato la mia carota!

“Chi ha mangiato la mia carota!” di Fabio Delibra: Un Nuovo Orizzonte nella Teoria della Motivazione

In un panorama editoriale spesso affollato da ripetizioni delle stesse teorie motivazionali, “Chi ha mangiato la mia carota!” di Fabio Delibra emerge come un faro di innovazione e profondità. Questo saggio non è solo una lettura interessante, ma una vera e propria rivoluzione nel modo in cui comprendiamo e applichiamo la motivazione nella vita quotidiana e professionale.

La Rivoluzione della Motivazione Laterale

Il concetto di “Motivazione Laterale” introdotto da Delibra rappresenta il cuore pulsante di questa opera. A differenza delle tradizionali teorie che si concentrano sulla motivazione intrinseca (guidata da interessi personali e piacere) ed estrinseca (guidata da ricompense esterne), la motivazione laterale si basa sul “non sé” e sull’”altro”. Questo approccio innovativo propone che la vera motivazione possa essere trovata non solo nel beneficio personale, ma anche nel contributo positivo verso gli altri e nel senso di responsabilità verso la comunità.

Un Approccio Umanistico e Filosofico

Fabio Delibra non si limita a presentare una nuova teoria; egli arricchisce il suo discorso con influenze filosofiche profonde. Tra queste, spiccano il buddismo e il pensiero di Emmanuel Lévinas, che infondono al libro una dimensione etica e spirituale. Questa fusione di psicologia, filosofia e pratica rende il saggio un’opera multidimensionale che invita i lettori a una riflessione più profonda sul significato e sul valore delle proprie azioni.

Struttura e Contenuto

Il libro è strutturato in modo chiaro e accattivante, guidando il lettore attraverso un percorso che parte dalle teorie motivazionali del XX secolo per arrivare all’elaborazione della motivazione laterale. Ogni capitolo è arricchito da esempi pratici e riflessioni personali, rendendo la lettura non solo informativa ma anche profondamente coinvolgente.

Pratiche di Autodifesa Mentale e Meditativa

Uno degli aspetti più apprezzabili del libro è la sezione dedicata alle pratiche di autodifesa mentale e meditativa. Delibra offre strumenti concreti per mantenere l’equilibrio interiore di fronte alle sfide quotidiane e alle emozioni negative. Queste pratiche non sono riservate a esperti di meditazione, ma sono accessibili a chiunque desideri migliorare il proprio benessere mentale e emotivo.

Applicabilità Universale

“Chi ha mangiato la mia carota!” si distingue anche per la sua applicabilità universale. Non è un libro riservato solo a manager o sportivi professionisti; è una guida per chiunque desideri vivere una vita più equilibrata e motivata. L’approccio umanistico di Delibra rende il libro un prezioso compagno per tutti coloro che cercano di mantenere la propria umanità e integrità morale in una società sempre più complessa e competitiva.

Un Invito a Guardare Oltre

In conclusione, “Chi ha mangiato la mia carota!” non è solo un saggio sulla motivazione, ma un invito a guardare oltre le ricompense immediate e a trovare ispirazione in un senso di dovere e responsabilità verso gli altri. Fabio Delibra ci offre una nuova visione che ha il potenziale di trasformare non solo il modo in cui ci motiviamo, ma anche il modo in cui viviamo le nostre vite.

Per chiunque sia interessato a esplorare nuove frontiere della motivazione e a scoprire strumenti pratici per una vita più soddisfacente e equilibrata, “Chi ha mangiato la mia carota!” è una lettura indispensabile. Questo libro rappresenta una ventata di aria fresca nel campo della motivazione e promette di lasciare un segno duraturo nei suoi lettori.




Le Radici del Male, la Scuola di Francoforte e il suo impegno nella distruzione della società

 

Joseph De Maistre (1753-1821), filosofo, giurista e padre del pensiero controrivoluzionario ci ha lasciato in eredità un aforisma che riesce a spiegare in poche parole ciò che accade in ogni angolo del mondo quando i malfattori prendono il potere: “Le false opinioni somigliano alle monete false, coniate da qualche malvivente e poi spese da persone oneste, che perpetuano il crimine senza saperlo.”

 

Bisogna tener presente che De Maistre era un profondo conoscitore della politica e dei suoi trucchi avendo fatto parte attiva della Massoneria per 15 anni e dunque avendo avuto modo di conoscere le logiche e i meccanismi dall’interno di quei centri di potere che fanno produrre gli eventi.

Sua è anche l’interessante considerazione, particolarmente in sintonia con il tempo corrente, su come possano liquefarsi le Nazioni:

“Fino ad oggi le Nazioni venivano spazzate via per conquista”, vale a dire mediante un’invasione. Adesso però si apre una domanda importante: “una Nazione può morire sul suo suolo, senza un’invasione o un ripopolamento, solo consentendo alle mosche della decomposizione di corrompere il nucleo fondante di quei principi costitutivi che l’avevano resa quella che è? “

 

De Maistre aveva vissuto e operato in un mondo preda della rivoluzione francese in cui l’utopia della nuova trinità liberté, egalité, fraternité, erano state coniate da malfattori e, da quel momento, spese in tutto il mondo da persone oneste che continuano a perpetuare il crimine senza sapere cosa in realtà queste tre parole stiano a significare veramente.

Dopo la rivoluzione francese c’era stata la rivoluzione romana del 48 che, in varie tappe nel corso dell’800, aveva prodotto l’unificazione dell’Italia in un’operazione di falsa liberazione e vera conquista da parte del Piemonte e della sua casata di regnanti massoni e senza Dio.

 

La rivoluzione bolscevica del primo 900 in Russia sembrava destinata a completare l’opera messa a punto nel corso dei secoli e a far dilagare il fenomeno socialista nel mondo intero, dato che i promotori erano quegli stessi massoni che da tempo sognavano la conquista del mondo…ma qualcosa, nel meccanismo, non aveva funzionato come sperato.

 

Nel tentativo di capire che cosa fosse andato storto nell’impresa epica della conquista del potere globale nel 1922, per iniziativa dello stesso Vladimir I. Lenin, si riunì a Mosca l’Internazionale Comunista.

L’operazione non aveva avuto il successo sperato perché non era stato dato spazio sufficiente al Marxismo culturale.

In cosa consiste il Marxismo culturale? La rivoluzione portata avanti con le armi della cultura, come profetizzato da Joseph de Maistre, e non con i mitra e con le bombe. La rivoluzione culturale prevede il sovvertimento dei principi cardine della civiltà occidentale, vale a dire il sovvertimento dei principi della civiltà cristiana.

 

E’, a partire dall’internazionale Comunista del 1922 che nasce l’idea di una scuola che propagandi il nuovo impegno rivoluzionario; quello culturale.

La Scuola di Francoforte nasce ad opera soprattutto di Georgy Lukacs (1875-1951), un aristocratico ungherese, figlio di un banchiere e convinto comunista, il cui principio cardine è stato messo in evidenza in “Eros e Rivoluzione”. Secondo il disegno della natura a cosa servono eros e sessualità? Alla conservazione della vita. Bene, da quel momento si cambiava paradigma, per cui eros e sessualità si tramutavano in arma di distruzione di massa.

Chi vuole contrastare il disegno del Creatore può solo agire per distruggere l’esistente dato che non è in grado di creare niente in autonomia se non il caos.

Accanto a Lukacs, operava anche un altro personaggio rivoluzionario di non poco conto, Willi Munzemberg (1889-1940), il quale era convinto assertore della necessità di “organizzare gli intellettuali e usarli allo scopo di rendere puzzolente la civiltà occidentale”. La dittatura del proletariato sarebbe stata instaurata solo dopo che tutti valori del mondo occidentale fossero stati corrotti e dopo aver reso impossibile la vita per tutti.

 

Alla morte di Lenin, nel 1924, con la presa del potere da parte di Stalin la situazione in Russia si trovava ad una svolta, il compagno Stalin infatti considerava le teorie di Lukacs e Munzemberg, come quelle di Trotsky, delle pericolose deviazioni del pensiero Marxista utili unicamente all’agenda degli ebrei.

Nel 1924, dopo il cambio di rotta impresso da Stalin alla rivoluzione russa, Georgy Lukacs fu costretto ad emigrare in Germania dove diede l’avvio al primo gruppo di sociologi orientati verso il comunismo, era un abbozzo dell’Istituto di Francoforte per la ricerca sociale che sfocerà nella Scuola di Francoforte.

Nel 1930 un altro ebreo, Marx Horkheimer, subentrò nella direzione dell’Istituto, con il convincimento che l’Istituto dovesse occuparsi unicamente delle teorie di Karl Marx.

Con l’avvento del nazismo in Germania, l’istituto e la scuola dovettero lasciare il paese e trasferirsi negli USA e da quel momento i suoi adepti andarono a colonizzare le principali Università americane: California, Columbia, Princeton, Berkley e Brandeis, dove continuarono a portare avanti la diffusione del progetto legato al Marxismo culturale.

La tensione che si era andata creando tra nazionalismi e socialismo internazionale sfociò nella seconda guerra mondiale con il suo tragico carico di morte e distruzione.

Alla fine della seconda guerra mondiale i rappresentanti della Scuola di Francoforte rientrarono in Europa, soprattutto in Francia, ed ebbero i loro rappresentanti di rilievo in Herbert Marcuse, Theodor Adorno e Max Horkheimer. I nuovi guru della rivoluzione culturale erano tutti ebrei e portavano in eredità la teoria della liberazione destinata a fornire la basi teoriche della liberazione sessuale e dunque il ripristino del programma di Georgy Lukacs: l’impiego di eros e sessualità come armi di distruzione di massa che ebbe il suo apogeo nella rivoluzione sessuale del 68.

La Scuola di Francoforte sosteneva, in sostanza, l’idea che fintanto che gli uomini si fossero cullati nell’illusione che la ragione potesse risolvere i problemi del mondo, la società non avrebbe mai raggiunto il grado di disperazione necessario per far prevalere la rivoluzione socialista globale. Il compito della scuola veniva dunque ribadito: bisognava minare alla base l’eredità culturale della civiltà giudaico-cristiana.

Per destabilizzare la società e metterla definitivamente in ginocchio bisognava produrre ogni sorta di crisi e di catastrofi con tutti i mezzi possibili. Nonostante i numerosi tentativi messi in opera, la società occidentale mostrava di avere ancora dei residui di ideali cristiani che le consentivano un residuo di vitalità, ragion per cui la scuola si impegnò nel mettere a punto un’agenda che doveva operare alla stregua di un virus che doveva infettare e distruggere il mondo intero con il nobile intento di creare un mondo migliore.

Ecco le dodici regole necessarie per ottenere un mondo migliore

1. creare offese di razzismo e leggi sui crimini d’odio

2. portare cambiamenti continui per creare confusione (nei curricula scolastici ad es.)

3. propagandare la masturbazione nelle scuole insieme all’omosessualizzazione dei bambini e la loro corruzione esponendoli alla pornografia nelle classi

4. minare sistematicamente l’autorità dei genitori e degli insegnanti

5. favorire l’immigrazione su vasta scala per distruggere l’identità nazionale e fomentare future guerre razziali

6. promozione in eccesso di alcool e droga

7. promuovere sistematicamente le devianze sessuali nella società

8. creare un sistema legale inaffidabile che nutra biasimo nei confronti delle vittime dei crimini

9. creare dipendenza dai sussidi statali

10. controllare e istupidire i media

11. incoraggiare la distruzione della famiglia

12. attaccare a tutto campo la Cristianità e svuotare le chiese

 

Qualcuno ravvisa delle similitudini con quanto sta accadendo adesso attorno a noi? Non preoccupatevi, stanno creando un mondo migliore.

Dina Nerozzi




SOCIALITA’ Ed AUTORITA’

 

Il dinamismo associativo

 

La vita associativa è costituita da relazioni permanenti di convivenza e collaborazione nell’ambito di una comunità, in ordine al conseguimento dei fini specifici diversi nelle diverse comunità: comunità domestica per la propagazione della specie e l’integrazione psico-somatica, spirituale e giuridica della coppia umana e della prole; comunità civile e politica, per il bene e benessere temporale; comunità religiosa per il bene spirituale ed eterno.

La società è una comunità in cui tali relazioni trovano una adeguata strutturazione e organizzazione di servizi sulla base del diritto che fissa e distribuisce compiti, doveri, oneri, benefici, per garantire e promuovere l’ordine sociale.

Vi è infatti un dinamismo evolutivo delle relazioni umane che dà luogo alle varie forme associative (o aggregati sociali), definite dai sociologi in base alla diversità della loro costituzione e dei fini a cui tendono. Si distinguono così:

a) folla: aggregato ordinato ma senza avere relazioni tra i suoi componenti e senza uno scopo ben determinato per tutto l’insieme; esso non adempie una funzione particolare ma semplicemente occupa uno spazio fisico: unico elemento di unione, di compattezza, può essere costituito da un grado elevato di emotività;

 

b) massa: aggregato disorganizzato e discontinuo, che può diventare una sistematica combinazione di gruppi e persone (classe, società), ma intanto è una composizione eterogenea di individui, non istituzionalizzata, non strutturata, nella quale i singoli componenti tendono ad azioni e posizioni di natura individualistica;

 

c) gruppo: collettività identificabile, strutturata e permanete, nella quale le singole persone svolgono con reciproco interesse dei ruoli che seguono norme e si ispirano a valori sociali per conseguire fini comuni;

 

d) comunità: gruppo omogeneo di persone che sono in mutua relazione su un determinato territorio o in base ad altri vincoli permanenti (nazionalità, spiritualità, religione, oltre a quelli familiari) e che si servono di mezzi comuni per il perseguimento dei fini comuni;

 

e) società: collettività organizzata e giuridicamente costituita di persone che vivono insieme su di un comune territorio o si uniscono secondo altri vincoli permanenti, e cooperano mediante i gruppi che compongono nel loro dinamismo evolutivo per soddisfare i loro bisogni sociali fondamentali, così da formare una nuova e superiore.

Si può fare anche una ulteriore classifica degli aggregati sociali fondata sulla forma psicologica dei legami dei gruppi: gruppi fortuiti (folla, pubblico ecc.); gruppi naturali (famiglia, clan, nazione ecc.), gruppi di somiglianza psicologica (classi, partiti, professioni ecc.), gruppi di interesse (Stato, società, sindacati, corporazioni, organizzazioni professionali ecc.), gruppi di ideale (religione, cultura, sollievo ecc.).

 

COMUNITA’ E STRUTTURA SOCIALE

 

La comunità nasce per impeto spontaneo intorno a valori comuni, che quasi istintivamente vengono abbracciati, sentiti, cercati. Sorgono così la famiglia, che nasce da un impulso di armonica integrazione di qualità e esigenze diverse di ordine fisico, psicologico, morale; la nazione che si forma per il bisogno di salvaguardare e incrementare certi valori comuni, quali la lingua, la razza, la cultura, la religione ecc., a cui sono legate molte persone che intendono vivere insieme e coordinare la loro attività in ordine a quei valori; la comunità religiosa – o chiesa – in cui i credenti si associano per il raggiungimento dei valori comuni etici e spirituali in vista del fine ultimo, il bene eterno, sulla base di una dottrina che abbracciano con fede.

Per raggiungere i propri scopi e affermare i valori che le premono, la comunità ha bisogno di strutturarsi, incrementando e disciplinando così le attività che concernono tali valori, per tradursi in bene comune, fine ultimo della vita associativa.

 

L’ AUTORITA’ COME PRINCIPIO UNIFICANTE

 

Ogni struttura implica un principio unificante, un punto di consistenza della sua unità Ogni “tutto” organico ha bisogno di un principio generico e ordinativo di tutte le sue parti.

Nella vita associativa tale principio è l’autorità, come forza morale che nelle comunità più grandi prende forma giuridica per disciplinare le attività poste liberamente nella vita associativa in ordine al bene comune. Le azioni individuali si disperderebbero e forse anche si annullerebbero mutualmente, ne potrebbe esservi convivenza umana, se non ci fosse una guida superiore che indirizzi tutti ad uno scopo unico: appunto l’attuazione del bene comune.

In realtà la comunità esiste solo quando tutto il complesso molteplice e vario di energie tendenti ad un unico fine riceve una sua strutturale, organica e dinamica unificazione da un principio direttivo capace di realizzare e garantire quelle generali condizioni di ordine e di socialità nelle quali i singoli possono operare per raggiungere con dignità di persone e solidarietà di gruppo la loro finalità.

 

LE FORME DI ATTUAZIONE DELL’ AUTORITA’

 

L’ autorità svolge la sua funzione di propulsione, coordinazione e regolazione dell’attività sociale mediante le leggi e il governo. Essa interviene in tutto lo svolgersi della vita economica, sociale, culturale per garantire l’ ordine, favorire la libertà, impedire lotte, sopraffazioni e torti reciproci, favorire l’equilibrio nel rispetto dei diritti e nell’adempimento dei doveri, per orientare e sostenere gli individui e i gruppi, secondo i loro bisogni e le loro legittime aspirazioni, verso la perfezione da raggiungere non solo nell’ambito dei beni economici ma anche e soprattutto di quelli spirituali ( cultura, moralità, religione)..

L’ azione sociale ordinata e coordinata secondo le leggi per raggiungere il bene comune, è la politica intesa nel suo senso più comune.

Ma si noti: le norme date per lo svolgimento dell’attività sociale in ordine al bene non attraggono talmente i membri della società da ottenere infallibilmente il giusto adempimento dei loro doveri.

Inoltre è inevitabile che sorgano contese intorno all’ entità, all’ estensione e al rapporto dei doveri e dei diritti. In caso di inadempimento o addirittura di attività contraria al bene della società, scatta nei singoli e nella comunità un istintivo movimento che applica al comportamento sociale un giudizio di valore: la conformità alla norma è di solito connessa con l’approvazione dei propri simili, e la non conformità con la disapprovazione.

Però questo meccanismo non è sufficiente a ottenere l’adempimento, o a riparare l’ordine sociale violato con la trasgressione, e in ogni caso a conferire efficacia alle leggi, se queste non sono accompagnate dalla sanzione e quindi dal giudizio nei casi di lesione dell’organicità e dell’unità sociale mediante l’infrazione.

Questo è appunto l’effetto sociale della violazione delle leggi: essa sconvolge il fondamento stesso della vita associata; perciò la cura del bene comune esige che si facciano osservare le leggi e si puniscano i loro trasgressori per salvaguardare la consistenza della società, meglio ottenendo la coesistenza e lo sviluppo armonico delle libere attività individuali in ordine al bene comune.

Oltre a questa funzione di difesa sociale, la sanzione ha anche per i singoli nil valore di una pena per l’azione commessa; e più ancora la funzione pedagogica di educazione o rieducazione sociale e comunitaria.

Di qui la necessità dell’autorità giudiziaria nella società

 

L’ AUTORITA’ COME SERVIZIO AL BENE COMUNE

 

La funzione dell’autorità nella società è un servizio che tocca anche ni singoli cittadini, perchè li subordina alla legge, alle esigenze del bene comune, all’ ordine, e adegua la loro attività personale alla dinamica dello sviluppo sociale, ma vale soprattutto per la comunità come tale, che nel suo insieme deve essere retta e diretta in ordine al bene comune.

La direzione delle azioni sociali e il contenimento e la sanzione delle trasgressioni dei singoli; l’azione propulsiva delle capacità operative di tutti; la difesa e l’incremento delle libertà civiche sono compiti dell’autorità che si commisurano a finalità che concernono il bene di tutti.

Nel mondo moderno si è sempre meglio messa in luce la necessità di questo intervento dell’autorità come organo che contribuisce positivamente a promuovere, assicurare e sviluppare, nella tranquillità dell’ordine, il progresso morale e economico della società ben al di là di una semplice funzione di tutela dei diritti dei singoli e dello stato. Tutta la dinamica evolutiva della società deve essere interpretata, servita, favorita e canalizzata dall’ autorità, proprio per la sua natura di vice-gerenza del popolo e di servizio al bene comune.

In realtà il bene comune è la ragion d’ essere come della società così dell’autorità. L’ autorità è lo strumento principale di cui si avvale la società per raggiungere il suo fine, che è l’attuazione del bene comune. Di conseguenza il bene comune deve pur essere il fine dell’autorità. Esso è dunque anche il criterio della costituzione dell’autorità e del suo esercizio, della sua legittimità e della sua efficienza.

 

L’ AUTORITA’ COME MAGISTERO

 

L’ autorità in ordine al bene comune svolge anche una funzione di formazione e di guida morale delle persone umane.

E’ vero che il fine comune di per sè dovrebbe polarizzare gli intenti e le azioni dei componenti la società, i quali, per la loro stessa tendenza naturale alla socialità, dovrebbero sentire l’obbligo morale di adoperare i mezzi necessari per il conseguimento del bene comune. Ma per il contrasto che ogni uomo porta in sè, tra passione e ragione, e per le facili deviazioni e reazioni antisociali a cui porta la passione così spesso prevalente sui dettami della ragione, s’ impone la necessità dell’ autorità come organo che per mezzo del diritto cerca di orientare e di contenere le attività di tutti nel giusto ordine al bene comune, evitando ogni discriminazione arbitraria e favorendo l’ armonizzazione di tutti gli interessi, sicchè in questo modo è di aiuto anche alla realizzazione del valore morale dell’ azione libera, armonizzata con la disciplina secondo le esigenze del bene comune.

 

Don Walter Trovato




Ordo ab Chao et post Tenebras Lux

 

Ormai il disordine regna sovrano ovunque e, come sempre, la fine di un ciclo storico vede come protagonista la guerra.

Giovan Battista Vico ci ha lasciato uno schema molto convincente del come i cicli storici tendano a ripetersi.

 

Quando il mondo è in preda al caos vuol dire che è in atto una transizione da un sistema che si è usurato ad uno alternativo che ancora non si è stabilizzato.

In guerra non si confrontano solo gli eserciti ma soprattutto due visioni del mondo, chi vince la partita determinerà le regole della nuova società e dunque la visione del mondo che si instaurerà con tutte le nuove regole.

 

Per riuscire a orientarsi nel caos che si è andato producendo, passo dopo passo, nel tempo e per capire quale sia la strada che vogliamo intraprendere bisogna ricominciare proprio dalle origini.

 

Il dilemma eterno che abbiamo davanti e che da sempre è alla base dei conflitti è il seguente:

 

Chi mette ordine nel caos? Dio o l’uomo? Anche se questo sembra un discorso poco adatto nell’epoca moderna in realtà, anche nel XXI secolo, tolte tutte le sovrastrutture accumulate nel corso del tempo, si arriva sempre alla stessa matrice.

 

Per cercare di trovare un punto d’incontro condiviso è necessario partire proprio dalle origini.

 

Nel racconto biblico Dio mette ordine nel caos separando la notte dal giorno, il buio dalla luce, le terre dalle acque per poi procedere alla Creazione di tutte le cose animate e inanimate esistenti in natura.

 

Ecco un primo assunto: l’uomo non ha creato il mondo, lo ha trovato già fatto… Forse su questo possiamo essere tutti d’accordo, anche senza credere nell’esistenza di un Dio Creatore.

E questo universo in cui siamo immersi ha anche un suo ordine prestabilito, i pianeti ruotano secondo regole che non sono state dettato dall’uomo, la vita sulla terra procede secondo regole che non hanno bisogno dell’intervento dell’uomo…forse possiamo essere d’accordo anche su questo altro punto.

 

Ecco già due verità che nessuno potrà mettere in discussione: l’uomo non ha creato l’universo e questo segue delle regole che prescindono dalla volontà dell’essere umano.

 

All’idea di un Dio Creatore, frutto di un pensiero primitivo secondo alcuni, è stata contrapposta una ipotesi “scientifica” quella dell’Evoluzionismo darwiniano secondo la quale la vita sarebbe sorta per caso dal nulla e da quel momento, sempre seguendo la regola della casualità, tutto si sarebbe evoluto fino a costituire il mondo come lo vediamo attualmente.

Ma anche il pensiero evoluzionista non ha potuto sciogliere l’enigma di base e cioè come si sia sprigionata la scintilla della vita che, dunque, resta ancora nel dominio del mistero.

Nonostante questa iniziale fondamentale manchevolezza, è stato costruito attorno all’evoluzionismo darwiniano tutto un castello di ipotesi “scientifiche” che giustificherebbero non solo il passato, ma soprattutto sarebbero in grado di orientare il progresso futuro in base al volere dell’uomo.

 

Forse possiamo dire, come terzo punto fisso, che né il Creazionismo né l’Evoluzionismo sono in grado di dare le prove “scientifiche” dell’origine dell’universo e della vita, almeno a tutt’oggi.

Quindi si può affermare che non esiste nessuna scienza consolidata che possa imprimere il suo sigillo di verità sull’origine della vita e del mondo.

Con queste basi condivisibili possiamo dire che nel momento in cui si affronta un qualsiasi problema sarebbe opportuno cercare di prendere in considerazione il principio di realtà, e cioè che siamo privi delle conoscenze di base, quindi possiamo dire, socraticamente, che sappiamo di non sapere.

Anche le verità scientifiche faticosamente accumulate possono eventualmente essere smentite davanti a nuove scoperte che mettono in crisi le labili certezze raggiunte.

 

Anche se la narrazione biblica dell’uomo nel suo paradiso terrestre dove tutto era disponibile, tranne il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, sembra essere lontana anni luce rispetto al mondo moderno, in realtà a ben guardare si scopre che essa è viva e ben presente anche ai nostri giorni.

 

E’ un dato di fatto che la natura ha fornito agli esseri umani tutto quello di cui hanno bisogno per poter vivere e tramandare la vita su questa terra, ma qualcuno ha pensato che l’opera di Dio, o della natura per chi lo preferisce, potesse essere migliorata, operazione che però prevede dei costi.

Chi si adopera per migliorare la condizione umana si aspetta in cambio un guadagno.

 

Anche oggi gli esseri umani ignorano spesso i doni offerti da madre natura andando alla ricerca di artifici nella speranza di migliorare la vita e ciò avviene solo perché qualcuno ha pensato di poter migliorare l’opera di Dio in cambio di denaro.

La formula che viene utilizzata a tale scopo prende il nome di progresso.

Qualche innovazione frutto dell’ingegno dell’uomo sicuramente è servita a migliorare la vita di tutti un esempio sono gli acquedotti che portano l’acqua pulita direttamente nelle case e con essa anche l’igiene che serve per tutelare la salute.

Qualche altra invenzione può essere considerata utile ma non indispensabile come lo è l’acqua, poi però esistono anche le invenzioni che sono decisamente dannose.

Basta pensare a come l’industria farmaceutica voglia portare in molti paesi dell’Africa prodotti genici sperimentali mentre ci sarebbe bisogno semplicemente di portare l’acqua, per parlare di quanto è accaduto con la recente pandemia da Covid 19.

La domanda che sorge allora è perché invece di dare alle popolazioni ciò di cui hanno realmente bisogno si cerca di dar loro cose inutili se non dannose?

Il tentativo di dare una risposta a questa interessante domanda riguarda tutti noi e ognuno può dare il suo contributo per capire il fenomeno.

Prof. Dina Nerozzi
Neuropsichiatra




Dove va la chiesa?

Che strada prenderà la “Chiesa sinodale”

voluta da Papa Francesco?

 

Oggi nel mondo “progressista” l’imperativo culturale è di essere nell’ordine: ”inclusivi”, “resilienti”, “sostenibili”, “green”, “accoglienti”, “politically correct”, ovviamente “antifascisti” e – se vogliamo essere al top del progressismo – anche “democratici” con tanto di tessera. Un tocco di cultura “woke”, giusto per utilizzare un termine esterofilo, non guasterebbe, ma da noi in Italia è ancora poco conosciuta, anche se c’è da ritenere che arriverà presto.

Con una simile carta d’identità si può stare certi che si finisce sulle pagine dei principali quotidiani di sinistra, come pure nei dibattiti delle variegate reti televisive presenti sul mercato. Infatti, nel nostro incompiuto bipolarismo odierno abbiamo: da una parte coloro che si ritengono “progressisti”, cioè i depositari del futuro luminoso già intravvisto da Marx, Lenin, Stalin, Mao, Pol Pot e da tutti gli epigoni delle svariate e sanguinarie rivoluzioni comuniste. Dall’altra i più modesti e moderati “conservatori”, alcuni dei quali non sempre sinceri, con le loro sfaccettature di centro, centro-destra e destra fino alle ali più estreme, ali che esistono del resto anche a sinistra.

Perché tutta questa premessa su destra-sinistra in un articolo che dovrebbe parlare del Papa? Perché legittimamente sempre più cattolici italiani, ma anche di tutto il mondo, si stanno interrogando se il pontefice attuale, Francesco, al secolo Jorge Maria Bergoglio, sia un po’ troppo “progressista” e se abbia intenzione di cambiare dall’interno, in maniera radicale, la Chiesa a lui affidata come successore dell’apostolo Pietro.

Non vorremmo essere irriverenti verso questo pontefice venuto “da molto lontano”, che nei fatti, sin dai primi giorni, si è dimostrato “rivoluzionario” se non addirittura eversore della tradizione apostolica cui eravamo abituati a conoscere con Giovanni Paolo II e con Benedetto XVI. Infatti ha concesso interviste al direttore di Repubblica, Scalfari, che non registrava ma mandava a memoria le sue risposte e poi le proponeva “molto liberamente” in lunghissime interviste non smentite dall’autore. Forse per questo sono iniziate a fare capolino affermazioni deflagranti che ci hanno stupito.

Saltando il “chi sono io per giudicare”, riferito a un gay “che cerca Dio”, Francesco non ha aggiunto che per evitare il peccato mortale e il rischio di “finire all’Inferno” sia opportuno che lo stesso gay smetta di compiere atti di amore omosessuale. Sembra del resto, non avere ricordato ai fedeli che la “castità” è un valore che si riferisce a tutti, eterosessuali e omosessuali, donne e uomini, sposati e single, consacrati o semplici credenti. Per lo più, il Papa evita di richiamarlo apertamente, così che sembra che la castità sia scomparsa dal “radar” ecclesiale. Ebbene, muovendo verso l’oggi dopo la follia della adorazione in Vaticano della Pachamama, una sorta di divinità delle tribù amazzoniche, davanti alla quale scandalosamente si sono inchinati preti e vescovi, prelati e semplici chierici. Nessuno si è dimenticato della “apertura” alle coppie irregolari, dove in pratica la situazione di evidente e aperto adulterio viene accettata e giustificata visto che possono prendere la comunione. Come anche la “benedizione delle coppie omosessuali” fatta di nascosto, senza ufficialità ma comunque fatta da un prete, una specie di preludio alla accettazione futura del matrimonio omosessuale perché “Dio accetta tutti tutti tutti, così come sono”,

Queste le parole spesso usate dal Numero uno in Vaticano verso gli LGBTQ+ …

E che dire della benedizione delle politiche green, come pure dei vaccini per il Covid definiti da Francesco un “atto d’amore”? Oppure del sostegno aperto alle tesi del World Economic Forum con le politiche antiumanistiche sul “grande reset”? E, andando avanti con le stranezze verso le quali Francesco ci ha abituato, come valutare le scelte accomodanti con la Cina tramite l’accordo bilaterale col quale, di fatto, il governo cinese mette becco sulla scelta di vescovi potendo imporre quelli “amici” del regime?

La novità più recente, e forse più importante, è quella odierna che riguarda la terza fase del Sinodo dei vescovi che si terrà in ottobre.

Orbene, anche qui la novità grossa è che Francesco sta imponendo una “agenda” ecclesiale basata sul concetto che la mentalità “sinodale” dovrebbe essere quella che regge e orienta la Chiesa del futuro, secondo la quale, il ruolo della gerarchia “Papa, Cardinali, Vescovi, Parroci ecc.” viene ridotto quasi a, e dove a imperare in una sorta di nuovo “parlamento ecclesiale” è appunto l’assemblea sinodale all’interno della quale tutti possono dire la loro. Curiosamente, quasi si arriva a utilizzare il principio grillino dell’ “uno vale uno”, nel senso che l’ultimo dei fedeli potrebbe essere portatore di una visione di valori e di istanze reputate equivalenti o superiori a quelli espressi dalla stessa gerarchia, la gestione dei fedeli potrebbe essere affidata a una sorta di assemblea di base all’insegna di un inedito “politically correct” ecclesiale.

Perché ci soffermiamo su questi aspetti? Perché la visione di Francesco, almeno ciò che si lascia intuire, è quella di spostare l’asse culturale e gerarchico della Chiesa cattolica verso una sorta di “progressismo inclusivo e resiliente”, dove si prefigurano senza dirlo apertamente, una nuova struttura ecclesiale in stile protestante, con il Papa non più apertamente considerato Vicario di Cristo in terra e coi pieni poteri a lui conferiti “Ciò che legherai in terra sarà legato nei cieli, ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”, ma una sorta di primus inter pares, che dialoga con luterani, ortodossi, evangelici e similari quasi alla pari, rinunciando nei fatti all’autorità conferita a Pietro e ai suoi successori un paio di migliaia di anni fa da Gesù in persona.

Sarà giusta questa interpretazione progressista della Chiesa di Francesco? Oppure la sua “Chiesa sinodale” è una forzatura riduttiva e snaturante della Chiesa tradizionale che abbiamo sin qui conosciuto? Lo “strumento di lavoro” del Sinodo varato nei giorni scorsi lascia aperte molte domande su questioni quali ruolo della gerarchia, assemblee sinodali, ruolo delle donne, accoglienza e integrazione dei gay e di tutte le minoranze possibili e immaginabili. Nel frattempo con i riottosi che cercano di resistere alle sue novità, definite “processi”, Francesco ci va giù pesante e con chi non “si allinea”, è forse un esempio mons. Viganò e diversi istituti religiosi maschili e femminili “tradizionalisti”, arrivano scomuniche, espulsioni dallo stato religioso, confisca dei beni dei monasteri, riduzione sul lastrico di interi gruppi di suore o religiosi colpevoli di essere legati ai loro carismi all’ “antica”.

Per i credenti “normali”, come probabilmente molti di noi sono, il momento è molto preoccupante ma anche promettente.

O la Chiesa prende coscienza che qualcosa di profondo sta avvenendo, oppure c’è il rischio che fra qualche anno o decennio ci sveglieremo e scopriremo che quella istituzione spirituale voluta da Gesù si sia trasformata in una specie di gigantesca Ong, se non peggio ….

Molti lo temono, altri sono fiduciosi che non accadrà.

Non praevalebunt, ovvero le porte degli inferi non prevarranno.

Il Credente




“Cosa ti piace davvero?”

Se lo sai, hai un Destino!

Un “destino” di nome Roberta

“Din!” Tintinna la notifica di whatsapp all’arrivo di un nuovo messaggio. È un aggiornamento di Roberta Callegari, titolare della libreria Wälti e organizzatrice di eventi culturali a Lugano. Ho un tuffo al cuore. Le rispondo prontamente che ci sarò, e che mi piacerebbe intervistare lo Scrittore. Presto fatto. In pochi minuti mi conferma l’appuntamento per il giorno dopo. 

Igor Sibaldi ritorna in Città per presentare uno dei suoi ultimi libri, pubblicato a maggio di quest’anno per Mondadori: “Ribellarsi al destino – Impara a non rassegnarti e prendi sul serio i tuoi desideri”. Sono queste parole a risuonare in me, come accade fra diapason tarati alla stessa frequenza. Un “destino” di nome Roberta ci permette di incontrarci in una saletta del LAC, affacciata sul chiostro della Chiesa Santa Maria degli Angioli.

È la prima volta che lo incontro di persona e, seduta accanto a lui, non posso non notare il colore cangiante e rarissimo dei suoi occhi. 

“Perché Suor Soubrette?” Mi chiede con un sorriso. 

Gli rispondo porgendogli una copia del mio libro, che avevo portato con me completo di dedica personalizzata. “Igor”, così mi fa sapere di voler essere chiamato, è un uomo “down to earth”. Semplice e schietto. Mi sento a mio agio. Gli anticipo cosa ho pensato di scrivere a mo’ di introduzione all’articolo. È d’accordo. Ed ecco, in sintesi, di cosa parleremo. 

Sommario

Cos’è il Destino? Nel Sibaldi pensiero è una sorta di gabbia dorata – l’immagine è mia, nel tentativo di esprimervi il suo messaggio in metafora – posata su certezze assolute imposte da famiglia, società, sistema educativo, psicologia, morale, progresso… Le sbarre sono costituite da limitazioni sia interiori, sia collettive. Chiusi lì dentro, ci si è assuefatti a un linguaggio intriso di “Devi… Non devi… Puoi… Non puoi…” e il tremendissimo “bisogna”, con cui non ce la si può prendere perché non c’è nessuno con cui confrontarsi. Bisogna e basta. Ecco. Nella prigione dorata del Destino, definito dall’Autore come “sensazione che una qualche forza sconosciuta stia limitando la mia libertà”, vivono, anzi, sopravvivono gli “adeguati”. Questi ultimi sono, purtroppo, la maggioranza silenziosa di chi non osa farsi domande, né mettere alcunché in discussione.

Ed ecco che Igor porge una chiave a chiunque desideri rispondere al suo appello: “Puoi uscire di lì, a patto che tu risponda alla domanda: ‘Cosa ti piace DAVVERO?’”. 

E qui, la massa si divide in due gruppi: quelli che rispondono con certezza, in pochi secondi, hanno un destino, cioè avvertono una sensazione di limitatezza, accorgendosi di desiderare qualcosa che ancora non sono, non fanno, non hanno… Gli altri, quelli che ci pensano troppo, si chiedono se possano o non possano, debbano o non debbano, desiderare alcunché al di fuori della gabbia dei puoi, devi e bisogna.

La chiave comunque è stata offerta a chiunque voglia trovare, al di fuori del sistema, un’autentica libertà.

Ma c’è un prezzo da pagare: per intraprendere il suo viaggio dell’Eroe alla conquista del vero Sé e dei propri Desideri, il “disadeguante” deve trovare la forza per mollare tutto e, se necessario, ripartire da zero. E dove può ricavare questa energia? Secondo Igor nei suoi “difetti”, che assurgono al ruolo di Mentori.

Gli avversari invece sono sempre i suoi limiti, auto o etero imposti che siano.

Il premio finale, il “successus”, è dell’Eroe che rinuncia a chi era ed è, per lasciar posto a chi sarà. L’importante è che, durante il suo non facile percorso, impari a fidarsi di ciò che gli può accadere. E qui, Igor mette in evidenza come il verbo inglese “happen”, accadere appunto, condivida la sua radice con il sostantivo “happiness”, felicità. Come a dire: sei felice se non ti accontenti e ti fidi di ciò che ti può succedere.

Incontro con Igor Sibaldi

J.L.: Cosa vuol dire “desiderare”?

I.S.: Il contrario di “considerare”. Considerare vuol dire “tener conto delle autorità”. Desiderare vuol dire “non mi importano le autorità”. Le autorità possono essere i governi, la massa, la tradizione, i genitori. Considerare vuol dire “Io considero tutto, sono una persona prudente e attenta.” De-sidero, De-siderare: “Me ne vado via, ignoro le autorità e ragiono con la mia testa.” 

J.L.: Da dove vengono i desideri?

I.S.: Dal futuro. 

J.L.: Possiamo considerarli indizi di chi siamo realmente?

I.S.:. No. Di chi saremo. 

J.L.: In che modo hanno a che vedere con la nostra chiamata?

I.S.: La nostra chiamata è il futuro nostro che comincia a battere un po’ i piedi: “Insomma, arrivi o non arrivi?” Tutti pensano che il futuro non ci sia, ma il futuro c’è eccome! Ci sono tanti futuri. E il futuro più importante è quello che si chiama di solito “chiamata”, che ispira i desideri. 

J.L.: Che cosa intendi qui per difetti?

I.S.: I difetti sono, secondo me, le proteste all’adeguamento. La massa dice: “Bisogna fare questo e quest’altro sennò non vai bene, sennò non sei normale.” Difetto è dire: “No, io non sono normale e neppure voglio esserlo.”

J.L.: Chi ha stabilito siano difetti? 

I.S.:  La tradizione. E la morale. Morale nel senso: usi e costumi di una determinata epoca… Che naturalmente sono diversi dagli usi e costumi dell’epoca precedente e di un’epoca futura. 

J.L.: In base a quali parametri di riferimento?

I.S.: In base al criterio di adattamento. Quella che si chiama “pressione selettiva”. O sei così, o non ti prendo in considerazione. Se hai ancora il Nokia, non ti guardo neanche. È un difetto avere un Nokia, naturalmente. 

J.L.: (in un sospiro gli confido di averne uno, appena acquistato)

I.S.: (sorride)

J.L.: C’è chi ha fatto dei difetti un pretesto per inseguire un ideale di perfezione… Un’altra prigione?

I.S.: Purtroppo sì. Perché l’ideale di perfezione, se uno lo precisa prima di raggiungerlo, è ancora passato. C’è un passo bello della Bibbia, Genesi capitolo 12, in cui Dio si rivolge ad Abramo che è già anziano, e gli dice: “Cambia vita”. Gli dice: “Vieni e ti porterò in un paese che io ti indicherò quando sarai partito. Cioè, non partire per un programma già pronto, altrimenti non mi interessi.” Il problema degli ideali è che sono basati su quello che uno sa adesso, e sono delle preclusioni a tutte le possibilità future. 

J.L.: Chi e cosa sono gli avversari interiori?

I.S.: Sono numerosissimi. Tutti quelli che popolano il nostro passato. Quasi tutti, naturalmente. Possiamo benissimo elencare ai primi posti i nostri genitori. Gli amici, i fidanzati, gli insegnanti… E così via… Poi, naturalmente, tutte le persone che gli altri rispettano e che noi pensiamo di dover rispettare. Il peggiore di tutti, il più cattivo, non è una persona, non è una figura umana, ma è il senso di colpa. 

J.L.: Conviene affrontarli, combatterli e vincerli o conviene piuttosto ignorarli? 

I.S.: Ignorarli è impossibile. Bisogna per forza venirne a capo. Tanto per citare ancora la Bibbia, c’è questa interpretazione consueta della storia di Caino e Abele, che vuole che Caino sia un contadino e che Abele sia un pastore. Nel testo originale non è scritto così. Nel testo originale Caino è un esploratore, e Abele è un costruttore di recinti. E sono fratelli. E Caino non sopporta di avere come punto di riferimento, come personalità critica che lo giudica, un costruttore di recinti. E l’unica possibilità di disfarsene è, secondo la Bibbia, eliminarlo. Tanto non si elimina mai Abele. Ritorna sempre. La cosa curiosa è che, dopo l’assassinio di Abele, Caino non chiede scusa. (Ride) E Dio non lo punisce. 

J.L.: Non lo punisce?

I.S.: No. Anzi. “Vai via da qua”, gli dice. Caino ha preso dalla mamma, che è Eva. Che è quella che ha disobbedito. E quella volta Yahveh dice: “Fuori di qui.” E loro (Adamo ed Eva ndr) han detto: “Va bene. Non vedevamo l’ora di uscire. Non ne potevamo più di stare qui dentro, in questo giardino sbarrato…” E con Caino fa lo stesso, lo manda via. E poi Yahveh ci pensa e dice: “Speriamo che nessuno lo superi, Caino, perché se incontra uno più forte di lui, quello lì sarà ancora peggiore.” Allora spara un incantesimo su Caino, che nessuno può superare la disobbedienza di Caino perché sennò, diventa troppo preoccupante. “Che nessuno tocchi Caino!” Di solito si pensa che voglia dire: “Nessuno se la prenda con il criminale!” Non è questo, è un’altra cosa. La Bibbia è piena di sorprese. 

J.L.: Potremmo fare dei nostri avversari interiori dei mentori? Degli alleati, invece che dei nemici?

I.S.: No. Sono draghi. I draghi sono animali interessantissimi, nella mitologia. Talmente interessanti che sono gli unici animali fantastici che compaiono nelle leggende dei santi. Vedi San Giorgio… Non ci sono unicorni, non ci sono fate, non ci sono gnomi, elfi… I draghi ci sono. Sono veramente una grande scoperta dell’umanità, i draghi. Inspiegabile. La paleontologia è del diciottesimo, diciannovesimo secolo. Cioè fino a fine Settecento e inizio Ottocento non sapevamo come fossero i dinosauri. La paleontologia è recentissima, come scienza. I draghi, nel Medioevo, addirittura nell’età greca, erano già “dinosauri”. Li avevan già visti! Ma come han fatto gli antichi a immaginare un dinosauro se i dinosauri sono scomparsi decine di milioni di anni prima che comparisse l’uomo? Questo è un bel problema che nessuno ha risolto… Interessante dal punto di vista mitologico è che il drago rappresenta sempre il passato. Il passato che non vuole passare. L’eroe a un certo punto deve uccidere questo drago. E quando uccide il drago, trova i tesori. Un tesoro lo trova Sigfrido, subito, nell’invulnerabilità. Uccide il drago e diventa invulnerabile. Il drago di Tolkien è seduto su un tesoro. Se uno riesce a eliminare il passato, trova un tesoro. È difficilissimo d’altra parte…

J.L.: Quali sono gli avversari collettivi e come possiamo riconoscere, combattere e vincere anche loro? 

I.S.: I peggiori di tutti – è una cosa che nessuno conosce – ne parlo tanto, ma vedo che non prende, questo argomento, anche se secondo me è appassionantissimo – è il conscio collettivo. Si parla tanto di inconscio collettivo. In Svizzera c’era Jung, che scopre l’inconscio collettivo. Il conscio collettivo è peggio. Il conscio collettivo è quello che si pensa di solito. È quello che è bene sapere per essere presenti, contemporanei. Non solo sapere ma anche pensare, ragionare, considerare… Questo è il conscio collettivo. Il conscio collettivo è un nemico potentissimo. Il conscio collettivo è fatto di “noi”. Il noi ha una caratteristica come pronome culturale: ha un nemico che non può tollerare, un nemico mortale del noi, mortale nel senso che il noi lo fa sempre fuori, che è l’io. Cioè il noi non tollera l’io. Il conscio collettivo è un noi. E l’io deve fare i conti con questo noi. Di solito resiste un pochino durante l’adolescenza, e poi cede e diventa un noi. L’io diventa come loro. Cioè io non sono più io, ma io divento una parte di un noi, che può essere tradizionalista, contestatario, innovatore, ribelle, però è sempre un noi. È una mentalità plurale, in cui l’io non è sopportabile. Il noi è quello che fa le guerre… Ci sono grandi esempi. L’esempio principale è nei Vangeli di Gesù, che continua a ribadire l’importanza dell’io… I Vangeli sono un romanzo di lotta fra l’io e il voi. Gesù ha sempre qualcuno che chiama “voi”. Voi, voi, voi, voi… Poi è venuto San Paolo che è molto più politico: “Sì, ‘io’ fino a un certo punto, l’io deve formare una bella rete di ‘noi’, che io dirigo…” (ride)

J.L.: … E ha posto le basi della chiesa, come la conosciamo oggi.  

I.S.: “Trasumanar significar per verba non si poria” – dice Igor, citando Dante nel primo canto del Paradiso – “Trasumanare” non si può dire per parole. Ma se uno l’ha provato, capisce quello che sto dicendo. È bello quel passo del Paradiso. Dice: “Io non te lo posso spiegare. Ti dò l’idea. Però se non l’hai provato lasciamo stare, fai finta di niente. Se l’hai provato però, ci capiamo bene. Quello che non ti posso spiegare neanche tu puoi spiegarlo, ma se l’hai provato ci capiamo.” Si comunica sempre nonostante le parole. Prima speravo che si comunicasse attraverso le parole, adesso si comunica nonostante le parole. Si comunica sempre per una forma di telepatia. Durante le conferenze… In tutte le forme d’arte è così. Se uno legge un libro, sono una serie di parole messe su una pagina. Se non c’è un pochino di telepatia, se non c’è un contatto che passa non attraverso le parole, ma nonostante le parole, non c’è dialogo. 

J.L.: “Adeguàti”. Si nasce con questa predisposizione all’adeguamento, o ci si adegua nel tempo? 

I.S.: Nooo… Cinque anni di elementari. Tre anni di medie… Cinque anni di superiori… Sono tredici anni di addestramento. Nessun animale ha un addestramento così lungo. Il gatto dopo un anno sa già tutto quello che c’è da sapere. L’uomo ha bisogno di tredici anni di ammaestramento. Tredici anni, per farlo diventare “adeguato”. Evidentemente c’è una resistenza terribile. Altrimenti le scuole durerebbero due anni, tre anni al massimo…

J.L.: E ribelli, si nasce o si impara a esserlo?

I.S.: Si nasce, come dimostra qualsiasi conversazione con un bambino che abbia meno di tre anni, basata sul “perché”. L’adulto fa resistenza. Una persona ribelle o rivoltosa è una persona che chiede perché. Quelli che non chiedono, si sono adeguati. Un bambino chiede perché. Poi comincia ad adeguarsi quando si accorge che l’adulto non è che non risponde perché non sa, non risponde perché non capisce. Prima grande delusione verso i tre, quattro anni. Poi verso i cinque, sei anni un’altra scoperta triste è che le parole del linguaggio comune non sono sufficienti. Non sono sufficienti a dire tutto quello che si potrebbe dire. Il vocabolario attivo di una certa epoca, specialmente della nostra, è scarso. Quindi per descrivere certe sfumature di sentimento, certe sfumature di percezione, non basta. È una scoperta molto rattristante, molto triste, che vuol dire che non potrò mai esprimermi… A meno che non diventi un artista. Però non tutti sanno che c’è questa scappatoia. Dopo comincia l’addestramento della scuola, e tutto il resto.  

J.L.: Come possiamo imparare a ribellarci al nostro destino?

I.S.: Si tratta di imparare, perché nessuno dei corsi attualmente immaginabili, scolastici, universitari e così via, tratta di questo argomento. Sono tutti corsi che si basano sull’adeguamento a qualcosa. Il destino può essere il destino collettivo, che è quello della maggioranza delle persone, o può essere il destino personale. Ci sono sempre i limiti. Limiti condivisi o limiti non condivisi. Le persone per bene, le persone non disturbate diciamo, tendono ad adeguarsi, all’inizio, per evitare problemi. Poi bisogna per forza reimparare, da adulti, quello che si sapeva già da bambini. Che si può chiedere perché. E i perché più utili sono quelli che non hanno risposta. Il grosso problema sono le domande che hanno già risposta… A scuola ti fanno domande che hanno la risposta pronta, e lo stesso quando sei tu a fare domande. Questo, dal punto di vista intellettuale, è una sciagura… Uno vince, fa punti, quando trova domande che non hanno risposta. Per ora. E ci vuole qualche settimana, qualche mese… E durante qualche settimana, qualche mese uno cresce tantissimo, grazie al fatto che ha trovato la domanda che finalmente non ha risposta. I cosiddetti “ribelli” al proprio destino e al destino collettivo, sono quelli che trovano le domande migliori. Naturalmente hanno una trappola, che è una qualche ideologia già pronta, che strumentalizza i ribelli. Cioè, c’è gente che fa domande domande domande, e c’è chi dice: “Ti dò io le risposte… Ma tu devi votare me. Devi seguire me, comperare i miei libri e i miei gadget.”

J.L. Come possiamo imparare a fidarci di ciò che ci può succedere?

I.S.:  Difficilissimo. Fidarci di quello che i latini chiamavano “successus”, quello che gli Inglesi chiamano “happiness”: essere in buoni rapporti col verbo “happen”, il verbo succedere. Difficilissimo. Tutti gli animali lo sanno fare. Gli animali, avendo una memoria molto spaziosa e non facilmente offendibile, si fidano di quello che può succedere. Devono cacciare, non hanno il supermercato… L’uomo, l’umanità, specialmente oggi, teme tantissimo quello che può succedere. Solo che è bene sapere che la parola “fortuna” viene dal vocabolo “forse”, che è lasciare un’incertezza sul futuro. Se uno non lascia e non ama questa incertezza, di fortuna non ne ha. E poi naturalmente se non si fida di quello che può succedere gliene capitano di tutti i colori. Perché deve dimostrare a se stesso che ha ragione a non fidarsi. E allora mi fido, ed ecco che mi dimentico le chiavi della macchina da qualche parte. Mi sono fidato, ed ecco che mi fidanzo con quella là. Ma porca miseria, se non mi fossi fidato… E sono tutte strategie di auto delusione per dimostrarci che è vero il modo di dire che chi lascia la strada vecchia per la nuova, sa quello che perde, non sa quello che trova. 

J.L.: Come facciamo a capire se siamo autenticamente liberi?

I.S.: Se sorridiamo. Naturalmente, non per cortesia. C’è una contrazione dei muscoli involontari dei muscoli delle guance, che porta al sorriso. Quello lì è un riflesso fisiologico, un sintomo di libertà. 

J.L.: Successo e essere felici vanno di pari passo o può anche essere che la felicità non sia, necessariamente, inclusa nel pacchetto “successo”?

I.S.: Ma… Dipende, perché in Italiano essere felici è una forma di contentezza. La felicità non è contentezza. Filologicamente non c’entra niente. Contento è uno che decide di farsi contenere, nella sua situazione. E tanti si rassegnano a essere contenti e pensano di essere felici. Invece felice sarebbe una persona che non si rassegna, che non si lascia contenere, che vuole sempre molto, molto di più ed è entusiasta di volere questo molto di più. 

J.L.:  Qual è il ruolo della mente, in questo viaggio eroico di uscita dalla morsa del Destino?

I.S.: Consigliera. 

J.L.: Qual è il ruolo giocato dalla fede?

I.S.: Grande freno. 

J.L.: Ok. Mettiamola su questo piano. A me piace molto e mi ispira distinguere sempre la spiritualità dalla religiosità. La spiritualità, perlomeno nella mia sensazione, è qualcosa che puoi sperimentare se non ti sei adeguato. La religiosità, invece, è qualcosa alla quale ti attieni magari per non sentirti in colpa o per mille altri motivi, quando ti adegui. Quindi, parlando di fede spirituale e non religiosa, dici lo stesso che è un grande freno?

I.S.: Sì. La differenza tra spiritualità e religiosità è una differenza di concretezza. La religione è chiara. La parola è chiara. Il verbo “religare” vuol dire “legare” la vite al sostegno. Che cresca lì e non cresca altrove. Chiaro. Spiritualità è molto vago. Spiritualità è vaghissimo, come termine. Perché si basa sulla parola spirito e nessuno che io conosca conosce il significato della parola spirito, nessuno per esempio sa definire la differenza tra spirito e anima. Dire “spiritualità” è come dire “nuvolette”. Il termine è volutamente modesto per motivi editoriali. Perché dire “spiritualità” è più evocativo. In realtà quello che sarebbe spiritualità, sarebbe filosofia. Solo che se uno dice filosofia come genere letterario, i lettori si scoraggiano. E allora si chiama “spiritualità”. Spiritualità è un po’ più disimpegnato di religione, bisogna vedere che cosa intendono le persone per spiritualità. Spiritualità vuol dire, penso, interesse per realtà che una persona può sperimentare da sola, per conto suo, senza maestri o con maestri temporanei. Allora questo va bene. Naturalmente la fede diventa un’ancora, l’ancora è utile quando si vuole stare in porto. Quando uno vuole stare in porto la fede è utilissima. Quando una persona si stufa di stare in porto, allora la fede diventa un intralcio. 

J.L.: Quali sono, secondo te, i valori più importanti con i quali equipaggiarci per uscire dalla morsa del destino… Se credi che possano esserci d’aiuto… 

I.S.: Ce n’è uno solo. La scoperta.

J.L.: E il ruolo del coraggio e della paura, nel risvegliarsi e rendersi conto che qualcosa andrebbe cambiato? 

I.S.: Coraggio è una parola molto sopravvalutata. È un epifenomeno. La paura scatta quando uno si trattiene. Basta non trattenersi e non c’è neanche bisogno di coraggio. 

J.L.: Come possiamo trovare la forza – uso questo termine per evitare la parola “coraggio”, che mi hai appena smontato – di mollare tutto? Su cosa si può fare leva se si vuole offrire a un essere umano l’opportunità di conquistare questa autentica libertà di cui si è parlato all’inizio? 

I.S.: Una volta avevo un amico molto caro, che era un pittore, anziano. È molto interessante parlare coi pittori mentre dipingono. Sono intelligentissimi in quel momento. Così come sono ispirati nel pennello, sono ispirati nelle parole. E gli chiedo: “Ennio – si chiama Ennio Toniolo – perché non ho il coraggio di guardare le nuvole? A me piacciono tantissimo le nuvole, però se le guardo dopo qualche secondo abbasso lo sguardo. Come mai..?” “Perché non sei abbastanza. Nuvole sono, tu non sei abbastanza…Ovvio.” Mi dice. “E come si fa a essere?” Lui mi dice, dipingendo: “Non si fa. Si è.” (Ride). 

J.L.: E questo essere è in continuo divenire…”

I.S.: Sì, essere vuol dire sentire che ti manca qualcosa. Quando una persona “è”, qualsiasi cosa sia, non c’è dubbio che appena accetta l’idea di essere qualcosa, si accorge che è troppo poco. E quindi comincia a divenire. 

J.L.: Come sei riuscito tu, a ribellarti al tuo destino? Sei nato in un contesto che ti ha permesso più libertà in questo senso? 

I.S.: Un po’ sicuramente il contesto. Perché metà famiglia russa, metà famiglia italiana… Avere due patrie vuol dire non averne nessuna, per essere fatalmente diversi. E poi la noia. La grande amica. Appena arriva la noia, è un regalo. Se una persona è sensibile alla noia, è salva. 

 




Make Europe Great Again

 

Alla festa per i cinquanta anni del quotidiano Il Giornale, l’ex Sottosegretario di Stato statunitense del 2020, Mike Pompeo ha affermato che “Alle prossime elezioni vincerà Trump. L’attuale presidente ha messo in pericolo l’America, quindi tra Biden e Trump vincerebbe Trump”.

Un Pompeo, a dire il vero, che i frequentatori assidui della Florida dicono non in grandi rapporti con Trump che parrebbe ritenerlo assai bene informato su quello che l’inquilino di Mar a Lago chiama “the fraud”, cioè i brogli elettorali che lo stesso non si dimentica mai di menzionare e che incolpa della sconfitta nel 2020.

Mentre a Milano si parla delle elezioni presidenziali americane in questi termini, a Roma la Premier italiana riceve il Premier ungherese.

Incontro realmente importante questo visto che la Presidenza di turno del Consiglio Europeo sarà assunta dal 1° luglio proprio da Viktor Orban.

Un leader che ha scelto uno slogan assai simbolico come linea guida del “suo” semestre.

“Make Europe Great Again” (MEGA), questo lo slogan.

Slogan che allinea l’azione politica del Consiglio Europeo a quel “MAGA” simbolo da sempre della politica di Donald Trump.

Orban è Primo ministro in Ungheria sin dal 2010, lo era già stato dal 1998 al 2002, avvocato, sposato con cinque figli, tiene molto alla sua appartenenza alla chiesa calvinista ed a rimarcare come sua moglie e quattro dei suoi figli siano cattolici.

Il quinto è pentacostale.

Da molti in Europa marchiato come “autocrate” almeno in famiglia sembra evidente che non imponga la sua “dittatura”.

A dire il vero il partito del premier ungherese alle ultime elezioni europee ha perso otto punti percentuali e due seggi rispetto a quelle del 2019, fatto che non sembrerebbe tipico delle “dittature”.

In Europa Orban viene definito con un’altra delle parole denigratorie dei “più buoni”, quel “populista” che marchia a fuoco tutti coloro che non si allineano al pensiero dominante a cui si abbina quel “filo putiniano” che, sempre i “più buoni” usano per denigrare chi, molto più semplicemente, ha l’ardire di credere che vi siano altre soluzioni a quella di tirare missili ed uccidere esseri umani per risolvere il conflitto ucraino, in sintesi evitare di dare del “macellaio” al presidente nemico e convocare un tavolo di tregua che non abbia le caratteristiche del “comitato appalti”.

In fondo, comunque, tutti i leaders mondiali che non si sono adeguati al “pensiero unico” che si origina nell’attuale amministrazione statunitense vengono immediatamente marchiati come “filo Putiniani”.

Passaggio, questo, per i “più buoni” intermedio per arrivare ad annoverarlo nel gotha dell’estrema infamia, quello di essere definito “Trumpiano”.

Da “Trumpiano” a “cospirazionista” il passo, poi, sarà ancora più breve.

Viktor Orban, però, pur se marchiato a fuoco dal sistema dei “più buoni”, non si cura della campagna di stampa occidentale che lo vuole ricoprire di fango e continua a perseguire il suo modo di pensare.

L’OCSE ci aiuta a comprendere le cause di questa sua “sicurezza”.

L’Istituto Economico Europeo indica, infatti, una crescita del PIL ungherese nel 2024 del 2,6%.

L’Italia, sempre secondo l’OCSE, si attesterà a 0,7%.

Il dato più rilevante, però, è quello del rapporto fra PIL e debito pubblico che in Ungheria è del 70,9%, nella nostra amata Patria è al 137,3% tanto è vero che pochi giorni fa l’Unione Europea ha aperto una procedura di infrazione per l’Italia per deficit eccessivo.

Molti i leaders politici europei che, magari senza volerlo far sapere, cercano una diretta interlocuzione con colui che, parrebbe sempre più probabile, sarà il prossimo presidente della Casa Bianca.

Viktor Orban il 10 marzo scorso fu ricevuto a Mar a Lago con tutti gli onori e definito da Trump come “un grande leader”.

Immediato fu il controcanto di Joe Biden che definì il leader ungherese come “Un aspirante dittatore”, affermazione che proviene da uno che in Stati Uniti viene ritenuto da almeno un 30% degli aventi diritto al voto come qualcuno che siede alla Casa Bianca a causa di brogli elettorali.

Giudizi, in ogni caso, che misurano la distanza delle linee politiche non solo tra i due sfidanti per la Casa Bianca ma anche fra gli attuali leaders che in Europa si allineano alla politica interventista in Ucraina e chi, al contrario, oserei dire con maggiore pragmatismo, reputa che salvaguardare il popolo ucraino non possa che passare che da un tavolo di trattativa alla presenza di Stati Uniti e Federazione Russa, fatto che sarebbe stato assai più democraticamente corretto se in costanza di un Presidente ucraino nel pieno del suo mandato istituzionale e non in prorogatio.

Tavolo di pace che, questo dovrebbe essere l’auspicio, sia attento agli interessi dei cittadini ucraini molto più che a quelli delle grandi aziende occidentali famelicamente lanciate nella “ricostruzione della terra Ucraina”.

Ad oggi, la precisione in queste cose è tutto, sono solo due i leaders europei che dal 2020 hanno avuto reali, non millantati, incontri diretti con Donald Trump.

Uno è, appunto, Orban, l’altro è il Presidente della Repubblica polacco Andrzej Duda che ha incontrato il Presidente Trump a New York il 18 aprile scorso.

Fatto rilevante nel semestre a guida Orban dato che il 5 novembre prossimo potrebbe divenire assai utile essere ritenuti affidabili dal “cattivone”.

Interlocutori affidabili, non “zerbini” del potere, sempre pro tempore in una democrazia, presente alla Casa Bianca.

In Italia recentemente si è potuto leggere sul social network X un interessante ed assai significativo scambio positivo di messaggi fra il leader leghista Matteo Salvini e l’inquilino di Mar a Lago.

In fondo Salvini, ancor più adesso che è affiancato dal ex Generale Vannacci, oggi parlamentare europeo, fu già un forte sostenitore nel 2020 di Trump, come non ricordare la mascherina anti COVID che il Segretario leghista indossava anche in Parlamento?

A questo scambio sul social network va abbinato anche un ulteriore testo postato sempre da Mar a Lago indirizzato all’ex generale oggi parlamentare leghista ove si può leggere fra le righe un primo indiretto invito a Salvini ad un incontro con Trump.

La Presidenza Orban del Consiglio Europeo, come ho già scritto, si apre con uno slogan forte e chiaro, quel MEGA (make Europe great again) che definisce un posizionamento in discontinuità con la cultura politica della “sostenibilità” a discapito del “benessere” di noi cittadini di questa Europa.

Donald Trump lo ha certamente notato, forte ed evidente il simbolismo che richiama lo slogan elettorale MAGA dal Presidente statunitense usato da sempre.

Per molti politici europei, ed altrettanti opinionisti, forte il mal di pancia nel notare il messaggio assai chiaro lanciato dal leader ungherese.

Per moltissimi semplici cittadini europei, al contrario, quel MEGA è il ritorno alla speranza che i propri figli possano vivere nella loro Patria senza dover emigrare tornando a quella felicità che conobbero i loro genitori nel periodo del boom economico.

Orban, al contrario di altri leaders in questa Europa, non si crede il primo della classe ma, questo è inconfutabile, dice quello che fa e fa quello che dice.

Fatto assai raro fra i politici presenti in Europa oggi ma che nel prossimo futuro potrebbe dimostrarsi un comportamento assai vincente.

Ignoto Uno




Pepito Torres: Grande Artista Internazionale.

Il Maestro della fotografia, capace di far brillare la musica con il canto.

 

Il vero artista diventa grande quando sa uscire, con vero coraggio e passione, dal proprio indirizzo, ancor di più, se ha riscosso con esso grandi successi e riconoscimenti, e sa dedicarsi ad altre forme rappresentative.

E’ il caso del Maestro Pepito Torres, eccellente e raffinato fotografo internazionale, capace di cogliere, con l’obiettivo della sua macchina fotografica, particolari emozioni e trasmetterle al grande pubblico.

Carla Fracci, Nureyev, Vassilyev, nomi di chiara fama, sono stati da lui immortalati nel suo lungo percorso che inizia negli anni 70.

Quasi tutti i generi fotografici sono stati sfiorati con grande maestria, arrivando anche a produrre numerosi servizi per PlayBoy, nota rivista USA con edizione Italiana, il cui logo era stilizzato con la testa di coniglio dalle lunghe orecchie con addosso un farfallino da smoking.

Numerosissime le attrici e le personalità di moda e spettacolo che posavano con l’intento di essere la PlayMate del mese in un travolgente mix di erotismo e sensualità che giammai scadeva nel volgare o peggio nella pornografia.

Per questo si affidavano ad artisti dall’elevata professionalità di cui Pepito faceva indubbiamente parte, vista la sua lunga permanenza.

Talent scout di successo, non a caso Heather Parisi è stata fotografata da lui dagli albori della sua carriera con scatti pubblicati sulle principali riviste nazionali ed internazionali.

Fotografo che lo ha portato in giro per il mondo con scatti di elevata particolarità e pubblicati dal Touring Club Italiano al punto da decidere di diventare editore della rivista internazionale Belmondo che ogni anno pubblica il suo numero in ben quattro lingue.

Un’opera che rimarrà nella storia “Roma anno Zero”, edito dalla Libreria Editrice Vaticana, è stata da lui realizzata in uno dei momenti più incredibili ed impensabili per la prima ed unica volta, tanto che ci auguriamo vivamente non tornino più.

“Nei due mesi del lockdown totale, Pepito Torres si è aggirato per le strade e le piazze della città con la sua macchina fotografica, raccogliendo testimonianze inedite di una Roma deserta, vuota, silenziosa, sospesa nell’incanto della sua assoluta bellezza.”

Ma Pepito ha nel cuore un’altra grande passione che lo trascina, lo coinvolge, gli fa ardere il desiderio di esprimersi ed offrire al suo amato pubblico un altro lato della sua grande capacità artistica, non senza prima curare ogni aspetto, ogni risvolto, studiare con grande passione e con grande attenzione, come solo un attento artista sa fare, ma rivolto, questa volta, al canto.

Così grazie a Salvatore Martino, poeta ed attore, che gli suggerisce quelle tecniche di impostazione vocale, per far si che possa venir fuori il meglio dalla voce, e grazie a “Maestro Viko”, Liano Concolino, con il quale, scoltando alcuni brani lo convince a realizzare un concerto, Pepito riesce a dare seguito alla sua grande passione.

Una passione forte, repressa da fattori esterni, personali, molto personali che gli provocano grande dolore interiore, percepibile solo quelle poche volte che ne parla, e che solo nel 2014 dopo una lunga preparazione, fortemente voluta e desiderata, quasi “agognata” riesce a tirar fuori, sorprendendo tutti, esibendosi con un microfono in mano, cantando un repertorio di tutto rispetto di eccellenti brani spagnoli e latino americani.

Al Palazzo Santa Chiara in Roma, ha offerto al suo pubblico il suo canto, passando così da dietro a davanti l’obiettivo, facendo sì che questa volta fosse lui ad essere immortalato.

Numerosissimi i VIP, in un teatro stracolmo, che hanno avuto la possibilità di gustare un vero e proprio concerto di elevatissimo prestigio.

Ma Pepito non vuol fermarsi, ed ancora al Teatro Santa Chiara da prova del Suo personale grande talento nel canto qualche anno dopo.

Circondandosi e scegliendo con grande cura artisti, maestri di elevata fattura, con al pianoforte il Maestro Paolo Iurich, che ha curato gli arrangiamenti, alla chitarra classica ed acustica Gianfranco Federico, al basso Fabrizio Cucco, alla batteria Adamo De Santis, alle percussioni Walter Paiola, alle tastiere Danilo Riccardi, ed al sax e flauto Massimiliano Filosi, il Maestro Pepito Torres ha dato vita ad una serata indimenticabile cantando “Palabras De Amor” per i suoi amici.

Un successo, come riportano le indicazioni tratte dai numerosi commenti che si trovano su tutti i social e dalla grande partecipazione a quel concerto, nato, voluto, realizzato ed eseguito da quel grande fotografo che ha dato lustro a tanti artisti ed a tanti luoghi nel mondo.

Un successo che vuole bissare, convinto, e non a torto, che la musica ed il canto sono quelle espressioni artistiche che più trasmettono emozioni, che trasportano la mente, che fermano il tempo riportandoci in una dimensione di confort.

La scelta accurata dei brani, che a tanti, giovani e meno giovani, suscitano quelle emozioni che trasportano nei più bei ricordi della vita, dell’amore, della tenerezza del romanticismo che portiamo dentro ciascuno di noi, e che purtroppo si allontanano sempre più perdendosi in quello che il rumoroso frastuono oggi ci propone.

Qualcuno direbbe “Chansonnier”, autore ed interprete di canzoni, certo, brani spagnoli, conosciuti anche in Italia e che fanno sognare.

“Tres Palabra”, “Eu sei que vou te amar”, “Historia de un amor”, “Alfonsina y el mar”, “ Amapola”, “Cuando vuelva a tu lado”, “Por el amor de una muijer”, “Cuenta comnigo”, “Les feuilless mortes”, “Lo que me queda por vivir”, “ El porompompero”, “Quien sera la que me quiera a mi”,sono tutti brani che Pepito Torres ha riproposto al Teatro degli Eroi, in via Girolamo Savonarola 36 Roma, il 6 Giugno, mantenendo così la promessa fatta al suo numerosissimo pubblico che ha riempito la platea.

Platea che ha consacrato il Maestro Pepito Torres, come vero punto di riferimento di quella musica, di quei brani eseguiti con grande maestria, che appassionano, che stimolano quella sensualità, pulita, limpida, rispettosa, che lascia trasparire quel forte erotismo, che oggi sembra essersi perduto, specialmente nelle nuove generazioni.

Accompagnato al pianoforte dall’eccellente Maestro Sebastian Marino, che ha eseguito i brani, alternandoli con musiche ed opere classiche di altissimo livello.

Il Maestro Sebastian Marino, musicista compositore ed esecutore, diplomato a pieni voti presso il conservatorio “L. Refice” di Frosinone, dal tocco delicato, leggero e raffinato, spettacolo non solo per le orecchie degli amanti del pianoforte, ma anche per la vista di coloro che amano ascoltare, anche con la vista, estasiati nel vedere le mani del pianista sulla tastiera, volare con grazia e leggerezza.

Per questo considerato talento emergente del panorama italiano.

Il suo album d’esordio “Incipit” è da poco uscito con l’etichetta Indaco Record.

Ma le sorprese della serata non finiscono qui, e nella seconda parte, dimostrando di avere un estro non comune, Pepito Torres introduce “la sorpresa” dell’ultimo momento che ha mandando in visibilio il folto e competente pubblico.

Il Maestro Gino Mariniello, con il quale si accompagnerà esibendosi con il brano “El porompompero” interpetrata in maniera personale e brillante, dando un taglio diverso da come il concerto era stato impostato fino a quel momento, in aggiunta al Maestro Sebastian Marino.

Gino Marinelli, grande chitarrista Italiano, inizia a suonare la chitarra da bambino, a soli sei anni, a nove studia chitarra classica presso l’Accademia Musicale di Varese per poi accedere al conservatorio di Milano, Giuseppe Verdi.

Vari i generi musicali che nel corso del tempo studia, dalla musica jazz, al rock e fusion… così nel 1995 fa il passo in RAI, con varie esibizioni in trasmissioni suonando chitarra classica, chitarra acustica, elettrica e mandolino.

Non è da tutti suonare per artisti come Andrea e Matteo Bocelli, David Foster, Lionel Richie, Philip Bailey, tanto per citarne alcuni.

L’eccellente esecuzione del Maestro Marinelli, con arpeggi veramente di grande capacità, il tocco magistrale del Maestro Marino e la voce dalla raffinata con la tecnica flamenca del Maestro Pepito sono diventati un vero punto di riferimento per la musica latino americana.

E’ nella perfetta sintonia del trio, evidenziata in tutta la seconda parte, che i brani cantati da Pepito hanno assunto una colorazione unica, trasportando il pubblico verso l’Andalusia terra del mediterraneo o verso il bolero, classico di quelle terre lontane, ma proprio grazia alla musica, vicine.

Emozioni che Pepito Torres ha saputo offrire, in maniera diversa dal suo modo visivo, stando dietro l’obiettivo che in questo caso ha lasciato ad altri, ma davanti l’obiettivo curando nei minimi particolari, come solo un vero artista sa fare, la musica per l nostre orecchie.

Ettore Lembo




La Chiesa ed i suoi Conflitti.

Cosa ci insegna lo scontro tra mons. Viganò

e il Papa “globalista”?

 

Il caso dell’accusa di “scisma” e del processo canonico avviato nei giorni scorsi in Vaticano contro l’arcivescovo mons. Carlo Maria Viganò è emblematico del momento grave che sta attraversando la Chiesa cattolica. “Il Dicastero per la Dottrina della Fede mi ha comunicato, con una semplice email – informa lo stesso accusato in un testo reso pubblico su un blog – l’avvio di un processo penale extragiudiziale nei miei confronti, con l’accusa di essere incorso nel delitto di scisma e contestandomi di aver negato la legittimità di «Papa Francesco», di aver rotto la comunione «con Lui» e di aver rifiutato il Concilio Vaticano II. Mi si convoca al Palazzo del Sant’Uffizio …, in persona o rappresentato da un Avvocato. Presumo che anche la condanna sia già pronta, visto il processo extragiudiziale”.

Sappiamo che da quando è stato eletto Papa, Francesco ha subito attirato l’attenzione stupita e perplessa dei fedeli più legati alla tradizione cattolica per le sue posizioni e i suoi pronunciamenti – diciamo così – “eterodossi”.

Mons. Viganò, alto funzionario ecclesiastico, già Segretario generale della Città del Vaticano e Nunzio apostolico a Washington, è stato quasi sin da subito critico delle posizioni del Papa, specie per le coperture che lo stesso pontefice aveva dato a figure apicali (cardinali e vescovi) coinvolte in casi di abusi sessuali o pratiche immorali note alla pubblica opinione. E allora, per capire cosa c’è davvero in gioco con questo processo vediamo i punti che mons. Viganò reputa di valore centrale per le sue accuse al Papa.

“Occorre che l’Episcopato, il Clero e il popolo di Dio si interroghino seriamente se sia coerente con la professione della Fede Cattolica assistere passivamente alla sistematica distruzione della Chiesa da parte dei suoi vertici – scrive l’arcivescovo nella sua memoria difensiva – esattamente come altri eversori stanno distruggendo la società civile.

Il globalismo chiede la sostituzione etnica: Bergoglio promuove l’immigrazione incontrollata e chiede l’integrazione delle culture e delle religioni. Il globalismo sostiene l’ideologia LGBTQ+: Bergoglio autorizza la benedizione delle coppie omosessuali e impone ai fedeli l’accettazione dell’omosessualismo, mentre copre gli scandali dei suoi protetti e li promuove ai più alti posti di responsabilità. Il globalismo impone l’agenda green: Bergoglio rende culto all’idolo della Pachamama, scrive deliranti encicliche sull’ambiente, sostiene l’Agenda 2030 e attacca chi mette in discussione la teoria sul riscaldamento globale di origine antropica”.

Accanto a queste accuse che riguardano aspetti pastorali e spirituali del pontificato di Bergoglio, mons. Viganò aggiunge rilievi di carattere politico e culturale: “(Bergoglio, ndr) Esorbita dal proprio ruolo in questioni di stretta pertinenza della scienza, ma sempre e solo in una direzione, che è quella diametralmente opposta a ciò che la Chiesa ha sempre insegnato. Ha imposto l’uso dei sieri genici sperimentali, che hanno provocato danni gravissimi, decessi e sterilità, definendoli «un atto d’amore», in cambio dei finanziamenti delle industrie farmaceutiche e delle fondazioni filantropiche.

La sua totale consentaneità con la religione di Davos è scandalosa. Ovunque i governi al servizio del Word Economic Forum hanno introdotto o esteso l’aborto, promosso il vizio, legittimato le unioni omosessuali o la transizione di genere, incentivato l’eutanasia e tollerato la persecuzione dei Cattolici, non una parola è stata spesa in difesa della Fede o della Morale minacciate, a sostegno delle battaglie civili di tanti Cattolici abbandonati dal Vaticano e dai Vescovi”.

A questo punto l’attacco al Papa da parte di mons. Viganò si fa serrato: “Non una parola per i Cattolici perseguitati in Cina, complice la Santa Sede che considera i miliardi di Pechino più importanti della vita e della libertà di migliaia di Cinesi fedeli alla Chiesa Romana. Nessuno scisma, nella “chiesa sinodale” presieduta da Bergoglio, si ravvisa né da parte dell’Episcopato Tedesco, né dei Vescovi di nomina governativa consacrati in Cina senza il mandato di Roma.

Perché la loro azione è coerente con la distruzione della Chiesa, e quindi va dissimulata, minimizzata, tollerata e infine incoraggiata. In questi undici anni di “pontificato” la Chiesa Cattolica è stata umiliata e screditata soprattutto a causa degli scandali e della corruzione dei vertici della Gerarchia, totalmente ignorati mentre il più spietato autoritarismo vaticano infieriva su Sacerdoti e Religiosi fedeli, su piccole comunità di Monache tradizionali, comunità legate alla Messa in latino”.

Appare chiaro che con prese di posizioni così dure sarà difficile che il processo canonico che si è aperto il 20 giugno in Vaticano, assente mons. Viganò, conduca a un esito di conciliazione.

Del resto, lo stesso accusato aggiunge: “La Chiesa Cattolica è stata occupata lentamente ma inesorabilmente e a Bergoglio è stato dato l’incarico di farla diventare un’agenzia filantropica, la “chiesa dell’umanità, dell’inclusione, dell’ambiente” al servizio del Nuovo Ordine Mondiale. Ma questa non è la Chiesa Cattolica: è la sua contraffazione.

Ci possiamo legittimamente interrogare quale possa essere, a questo punto, l’esito di questo scontro che non è semplicemente disciplinare o canonico, ma più profondamente intra-cattolico, tra chi è legato alla fede di sempre basata sul rispetto delle Scritture e sul Magistero bimillenario della Chiesa che non ha mai rinnegato se stesso; e invece tra chi, dall’altra parte, sostiene la linea del “rinnovamento” profondo, che prevede nei fatti il ridimensionamento del senso morale delle azioni umane, la scomparsa o quasi dei peccati personali (specie quelli sessuali, declassati a piccole ‘fragilità’ soggettive) e l’evidenziazione soltanto delle colpe sociali, quali rifiuto dei migranti, preclusioni sui gay, lo sfruttamento dei lavoratori ecc.

Si tratta – come è facile capire – di posizioni pressoché inconciliabili e quindi non ci resta che attendere l’esito del processo, considerando anche che mons. Viganò ha più volte espresso il timore che “qualcuno” lo possa volere morto per far tacere una voce critica aperta e franca.

In piccolo, il conflitto vaticano tra il Papa e Viganò richiama il confronto tra sinistra e destra in Italia e in Europa: i primi (diciamo “progressisti” per intenderci) vogliono più immigrati, libertà sessuale, matrimoni gay, politiche green, abbattimento delle frontiere, eutanasia, aborto al nono mese ecc. I secondi invece difendono i confini e la civiltà dei singoli paesi, auspicando una immigrazione controllata, la salvaguardia della famiglia naturale, la difesa della vita sempre. Chi vincerà in Vaticano e nella società europea?

Il Credente




Caro lettore la critica è attività giornalistica.

Rispondo ad un nostro caro lettore che mi segnala che a volte la critica a questo paese è immotivata.

Mi dica Lei caro lettore se questo paese è scevro da possibilità di critica, che in realtà non andrebbe diretta a questo paese, ma a chi lo governa.

Mi trovo a scrivere queste righe con un misto di amarezza e amore profondo per la nostra amata Italia, una terra che, nonostante tutto, continuo a sentire nel cuore come una parte fondamentale della mia stessa essenza.

È impossibile non notare il degrado morale e politico che ha pervaso la nostra nazione negli ultimi decenni.

La corruzione dilagante, la perdita dei valori tradizionali, l’indebolimento delle istituzioni e la crescente disuguaglianza sociale sono tutte piaghe che minano la grandezza di questo paese che, un tempo, era faro di civiltà e cultura per il mondo intero.

La gloriosa storia della nostra patria sembra essere dimenticata, sepolta sotto un cumulo di decadenza e superficialità.

Non posso nascondere il mio disprezzo per ciò che l’Italia è diventata.

Mi rattrista vedere come il nostro spirito nazionale sia stato eroso da una globalizzazione sfrenata e da un relativismo morale che tutto abbraccia e nulla valorizza.

Siamo diventati una nazione che sembra aver perso il senso di sé, incapace di riconoscere la propria identità e i propri meriti.

Eppure, nonostante tutto, amo profondamente questo paese.

Amo l’Italia non solo per la sua storia gloriosa, ma per ciò che essa rappresenta nella sua essenza più pura.

Le nostre nobili tradizioni, la nostra cultura millenaria, la nostra arte sublime, la nostra lingua melodiosa, sono tutte testimonianze di una grandezza che non può essere cancellata da nessuna crisi contemporanea.

Amo l’Italia dei grandi pensatori, dei poeti, dei musicisti, degli artisti che hanno plasmato il volto della cultura mondiale.

Amo l’Italia dei patrioti, di coloro che hanno combattuto e sacrificato la propria vita per un ideale di libertà e unità.

Amo l’Italia delle persone comuni, dei contadini, degli artigiani, dei lavoratori che, con il loro impegno quotidiano, hanno costruito e continuano a costruire le fondamenta della nostra società.

Critico l’Italia dei maneggioni, dei raccomandati, dei politici incapaci, delle istituzioni insulse ed inutili.

Credo fermamente che, nonostante le difficoltà attuali, l’Italia abbia in sé la capacità di risollevarsi.

Le nostre radici sono profonde e solide; la nostra cultura è un patrimonio che nessuna crisi può davvero distruggere.

Dobbiamo riscoprire i valori che ci hanno resi grandi, rispolverare l’orgoglio di essere italiani e lavorare insieme per costruire un futuro che sia all’altezza del nostro glorioso passato.

Il mio amore per l’Italia è una fiamma che non si spegnerà mai, alimentata dalla speranza che un giorno, non lontano, potremo vedere una rinascita della nostra grande nazione.

Fino a quel momento, continuerò a lottare, a criticare, a sperare e ad amare questo paese con tutto me stesso.

E le aggiungo, amato lettore, che la critica, quando diviene strumento per il miglioramento, è sicuramente Attività giornalistica con la A maiuscola.

 

se ha due lire da splendere compri pure il mio ultimo libro potrebbe essere un aiuto a capire come mai siamo giunti qui.

 

 

 

Il vero partito deve essere l’Italia