Socialità e egoismo, sentimenti e forze in contrasto

La metafisica della persona e della società fonda una psicologia e un’etica, che presiedono allo svolgersi della vita sociale. Ogni uomo che nasce entra nell’universo e vi si armonizza come termine di relazione con Dio e gli altri uomini e le cose. Per questo è una persona in sè consistente, ma essenzialmente relazionata, cioè inserita in un complesso di rapporti con altri-da-sè.

Il senso sociale, o senso della socialità, è dato dalla coscienza dei rapporti con gli altri uomini, del comune legame di ideali e di interessi, della solidarietà che, sola, rende possibile ad ognuno la pienezza del vivere. Esso si traduce nella tendenza della persona umana a comunicare con gli altri, cioè a far parte agli altri di ciò che è proprio, come a ricevere dagli altri quanto è necessario per il bene proprio e comune.

Per esempio, nel conoscere la verità, per naturale tendenza l’uomo rifugge dal tenerla prigioniera dentro di sè, ma la offre agli altri. Di qui le molteplici forme di comunicazione interpersonale: dalla semplice trasmissione di una notizia, alla partecipazione di nozioni, idee, giudizi, valori fino alla comunicazione dei più intimi pensieri. Nell’amare, l’uomo espande sè negli altri diffondendo, nel contempo, gioia e felicità. Di qui tutta la gamma di espansioni umane: dall’amicizia in senso comune, a quella coniugale e familiare, al patriottismo, allo spirito comunitario nazionale e internazionale, alla comunione religiosa ed ecclesiale, fino al sacrificio supremo della propria vita per il bene degli altri.

Con questo senso sociale, purtroppo, contrasta l’istinto egoistico che di fatto pullula in ognuno, come sopravalutazione di sè e tendenza a rinchiudersi nel proprio io egocentrico, per pascersi di sè e possibilmente degli apporti degli altri, considerati e sentiti come “altri”, cioè estranei all’ “io” e alla sintesi dell’io e del tu nell’unico “noi” comunitario.

Nell’uomo dunque si agitano due forze contrastanti, tali da renderlo nello stesso tempo estremamente comunicante ed estremamente impenetrabile. Perciò ognuno, a seconda della prevalenza di una inclinazione o dall’altra, della socialità o dell’egoismo, diventa un operatore di comunione o di disgregazione, tende a unirsi con gli altri in un comune intento di comune beneficio oi ad esercitare su di essi un dominio dispotico.

Secondo gli psicologi appartengono alla sfera della socialità l’altruismo, la tolleranza, la socievolezza, l’affettività, ecc.; mentre l’aggressività, l’ambizione, la vanità, il delirio di grandezza ecc., appartengono alla sfera dell’egoismo. I sociologi a loro volta fanno derivare dal senso sociale tutte le forme di raggruppamento, dai semplici aggregati di gruppi e associazioni, fino alla società globale, che si attua nella comunità civile e religiosa, nazionale o universale; ogni sorta di deviazione della tendenza comunitaria – asocialità, anarchia, criminalità ecc. – è invece attribuita all’egoismo.

L’educazione alla comunione sociale

Perchè l’uomo possa attuare ed esprimere compiutamente le virtualità sociali della propria personalità, occorre educarlo a vivere in comunione con gli altri. E’ questione di sensibilità, di razionalità, anzi soprattutto di spiritualità…

L’educazione in generale comporta un elemento formale: diciamo che se una persona è ben educata se osserva delle regole di comportamento esteriore stabilite dall’uso ed è capace di un certo autocontrollo; ed un elemento sostanziale che si attua con l’acquisizione dei valori fondamentali per la vita sociale, quali l’onestà, la bontà, la serietà, la generosità, la modestia, la fedeltà ai propri doveri, il senso di responsabilità.

Naturalmente e soprattutto in questo secondo senso che va intesa ed impartita l’educazione al senso sociale, da attuarsi sotto una triplice forma:

a) a livello sentimento, l’educazione del senso sociale porta l’individuo a dividere con gli altri i propri stati affettivi, alla gioia di vivere insieme, alla compassione (nel senso etimologico di patire con gli altri), e quindi intercomunicare in emozioni gradevoli nel campo estetico morale, intellettuale, religioso, ecc.;

b) a livello di razionalità, si tratta di innestare nello spirito i motivi ideali della comunione sociale, come idee-forza che determinano giudizi e decisioni, propensioni ed azioni di per sè tendenti alla socialità per una consapevole maturazione interiore.

c) a livello di spiritualità, si tratta di formare una superiore comunione degli animi nella luce, nella bontà, nella passione per i grandi ideali di verità e di vita: ma qui subentra la Chiesa, o un’altra forma di religione organizzata, o qualche gruppo solidale di ispirazione mistica ed etica comune, che abbia vivo il senso della socialità. Per la Chiesa si tratta di fondare la comunione tra gli uomini sul riconoscimento di Dio come Padre comune e di illuminarla all’eterna comunione di Dio con se stesso, da cui deriva la comunione mistica degli uomini con Dio, il corpo mistico fondato sul presupposto dell’universale solidarietà umana nella natura, nel bene e nel male, attuato storicamente con l’ incarnazione del Verbo e col sacrificio del Calvario, e aperto all’attesa della redenzione integrale nel compimento finale della vita e della storia, ad opera di Cristo.

La socialità come dimensione naturale della persona autentica

In ogni caso la socialità non è solo un “di più” della persona, ma una sua dimensione psicologico-etica, una sua piena realizzazione, una vittoria sull’isolamento (egoismo) e una espansione che le permette di sviluppare nella comunione con gli altri il proprio essere morale. Perciò la socialità è di sua natura un valore etico, spirituale.

L’egoismo è deleterio perchè chiude l’uomo in sé e lo divide dagli altri, rende impossibile i rapporti umani e perciò ha conseguenze fatali in ogni campo: familiare, professionale, politico, religioso. Si direbbe che l’egoismo è l’inferno dell’io chiuso in se stesso, diventato incapace di comunicazione: un inferno antropologico e psicologico, a cui l’uomo si autocondanna nella misura in cui fa di se stesso il polo esclusivo di se, della vita, del mondo: una concentrazione sul nulla.

La comunione invece è l’espansione e insieme arricchimento. Ma per essere reale, essa non può consistere solamente in una vicinanza o in una coesistenza, bensì risolversi in un mutuo accoglimento, in una reciproca donazione, per cui tra realtà ontologicamente incomunicabili, come sono gli individui, si costituisce una simbiosi spirituale che non può non riflettersi sul piano della collaborazione sociale. Ma intanto la persona stessa, nel comunicare, si afferma e perfeziona. Il valore profondo di un uomo si misura nella sua capacità di comunione, che non è data solo da un insieme di qualità esteriori (amabilità, spigliatezza ecc.) e nemmeno è solo il frutto di qualità interiori (sensibilità, raccoglimento, delicatezza, bontà, attenzione), ma è essenzialmente commisurata alla disponibilità interiore, al dono che uno sa fare di se stesso per colmare l’altro seguendo, in fondo, anche qua, la legge evangelica del dare senza pretendere di ricevere, del donarsi spontaneamente e gratuitamente raggiungendo così la beatitudine dell’amore. La comunione, cioè la vittoria sull’egoismo, porta dunque a tale perfezionamento dell’individuo da renderlo veramente persona.

Se personalità significa uno sviluppo delle energie e capacità dell’uomo, che si consolidi in una condizione permanente di dominio e di controllo dei principi operativi, ossia nella maturità psicologica-etica, radice e coefficiente ne è la socialità.

E’ un dato acquisito per la psicologia moderna che ha definitivamente abbandonato il termine “individualità” preferendovi quello di “personalità”, sotto gli influssi degli studi e delle esperienze che hanno messo in rilievo l’importanza dei fattori sociali nella formazione dell’Io.

Oggi per individualità si intende l’originalità ad ogni costo, l’insofferenza per ogni forma di cosiddetto conformismo, l’egocentrismo che può portare all’isolamento e all’anarchia, quasi sempre per un certo infantilismo che implica una mancanza di integrazione e quindi di maturità umana; personalità significa invece sviluppo di sé fino all’auto-dominio mediante l’integrazione del soggetto nel contesto sociale secondo le istanze della stessa natura dell’uomo, che è aperta agli altri e ne richiede un supplemento di cultura e di vita nello stesso darsi e donarsi.

La vita sociale effettivamente aiuta l’uomo, riempie la sua solitudine, lo integra, lo corregge, lo libera dal narcisismo e dalle frustrazioni che così spesso si determinano in lui quando è isolato e asociale.

L’individuo antico e moderno

La tendenza naturale dell’uomo alla socialità non trova la sua adeguata interpretazione o è addirittura negata nelle filosofie e mistiche dell’isolamento, antiche e recenti.

L’antica sofistica, per esempio, è la espressione culturale forse più tipica della crisi spirituale e politica del mondo ellenico. L’uomo dei sofisti è l’uomo solo, chiuso nel cerchio delle sue sensazioni e delle sue opinioni mutevoli. Non ha senso sociale. La sua stessa parola non è comunicazione, dialogo, ma monologo e il rapporto a cui essa dà luogo è come un incontro e anzi un urto fatale di uomini soli.

Così pure lo stoicismo celebra la dignità del saggio che in aristocratica solitudine si erge libero e imperturbabile di fronte agli eventi esterni, anche se l’etica stoica, egocentrica e raffinatamente individualistica, non dimentica tuttavia di fare appello alla solidarietà di tutti gli uomini fondata sull’unità del logos divino che determina l’unità cosmica.

L’epicureismo nella sua dimensione etica è la celebrazione dell’individuo che si chiude nel breve cerchio della sua esistenza finita eri trova la sua felicità nell’armonioso equilibrio del corpo e dell’intelligenza, lontano dagli affanni e dalle responsabilità della vita sociale e politica.

Anche le varie forme di solipsismo, individualismo, egotismo che si sono espresse nei tempi moderni sul piano culturale, con riflessi su quello sociale, partono tutte dalla mi-sconoscenza del valore che ha la società per la formazione dell’uomo integrale, o addirittura dall’asserzione della sua negatività in relazione al bene dell’individuo (pessimismo di Hobbes, per esempio,).

Non è neppure da ignorare il rilievo che nel nostro tempo ha preso la patologia degli asociali e antisociali, che costituiscono un fenomeno di ordine psico-sociologico che ha grandi riflessi su tutta la comunità. Si sa quali ne siano la ragione e la genesi.

Fenomeni patologici e pedagogia della società

In ogni momento della sua vita l’uomo costruisce e nutre la propria personalità in e attraverso contatti con gli altri; normalmente non può accettare o desiderare di comparire socialmente, ma invece sperimenta e manifesta un bisogno intimo degli altri, cioè il bisogno di contatti e di scambi, di comunicazione e di simpatia, di collaborazione e di donazione di sé. perciò chi si sente ignorato o trascurato, sperimenta tale condizione come una perdita della sua esistenza insieme personale e sociale. Chi non riesce ad essere qualcuno al livello psico-sociale della sua esistenza, “scompare”. Niente è per lui così conturbante, così esiziale alla vita psichica quanto alla sensazione di essere un derelitto o un isolato.

Ora questo può avvenire per una condizione psico-patologica, per ragioni costituzionali o a causa di frustrazioni subite: si hanno così gli asociali, che vivono in contatto con gli altri, ma sperimentano questo contatto negativamente: perdono fiducia, la capacità di comunicazione, il senso della vita di comunione, rinchiudendosi in sé stessi; oppure assumono atteggiamenti di aggressione e di rivolta contro la società, e diventano pertanto anti-sociali.

Una sapiente pedagogia della socialità dovrebbe prevenire e curare tali forme di vera patologia, per ridare a questi individui la normalità e recuperarli alla società.

Una dottrina sana e solida della società è la base per tale opera educativa.

Don Walter Trovato




“Nato con la valigia”

Intervista all’Autore del libro “La conquista della lontananza – Viaggi, incontri, scoperte”

 

Ho avuto il piacere di conoscere il Prof. Brevini alla Radio Svizzera, in occasione della registrazione di “Laser”, la rubrica di “cultura e società” da lui condotta e curata.

Gli argomenti trattati, sempre di vibrante attualità, vengono esplorati dal prof. Brevini con l’entusiasmo e l’expertise del colto viaggiatore che, attingendo al suo nutrito archivio di ricordi e conoscenze, riconosce il fil rouge a unire fra loro esperienze dirette, scoperte, opere d’arte, capolavori letterari e dotte conversazioni, in una caleidoscopica multidisciplinarietà.  

“Professore, vorrei intervistarla.” Gli ho confessato un giorno. Ha annuito e sorriso, proponendomi di recensire il suo ultimo libro “La Conquista della Lontananza – Viaggi, incontri, scoperte” pubblicato con “il Mulino”.

Non gli ho detto che sono stata rimandata in geografia a settembre con un quattro secco, alle superiori. Ho accettato la sfida.

Note sull’Autore

Franco Brevini è professore associato di Letteratura italiana all’Università degli Studi di Bergamo. Collabora come scrittore ed editorialista con il Corriere della Sera. È critico letterario di altissimo livello, saggista, commentatore, ricercatore.

Ha partecipato alla realizzazione delle maggiori storie della letteratura degli ultimi anni, fra le quali la “Letteratura italiana” curata da Alberto Asor Rosa, pubblicata da Einaudi (1982-2000). Inoltre è considerato il maggior esperto italiano di poesia dialettale contemporanea. Sua è la collana in tre volumi La poesia in dialetto. Storia e testi dalle origini al Novecento (Mondadori 1999), ad oggi il contributo più sistematico dedicato alla produzione poetica nei dialetti italiani.  

Nell’ultimo decennio, pur mantenendo un vivo interesse per la letteratura come risorsa interpretativa dei fenomeni sociali e culturali osservati, il prof. Brevini ha privilegiato le scienze umane. 

Una piccola enciclopedia del Viaggio

“La conquista della lontananza” è il frutto maturo di un lavoro di minuziosa analisi del “viaggio” in tutte le sue possibili accezioni, sfumature e implicazioni.

Pagina dopo pagina, Brevini accompagna per mano il suo lettore a scoprire, dei viaggi, i motivi che li hanno ispirati, dagli albori della storia umana al giorno d’oggi, in ogni parte del mondo.

Certo, lasciare il noto per l’ignoto richiede un valido motivo e una visione: così è più facile affrontare l’impervietà dei sentieri montani, la pericolosità degli oceani, il senso di incertezza dovuto alla fragilità e all’inadeguatezza dei mezzi di trasporto… E poi i disagi del pernottamento in luoghi ostili, i climi avversi, gli animali selvatici, i briganti, gli osti truffatori, le popolazioni inospitali… 

Comunque, quale sia l’interesse, l’obiettivo o la fede che li muove, ad accomunare i viaggiatori è il fardello delle proprie origini, il dolore più o meno intenso delle proprie radici. Nei loro cuori, c’è sempre la speranza che ne sia valsa la pena, di lasciare i loro cari e il loro piccolo mondo.

A tutto questo si aggiunge lo struggimento di chi parte e avverte il pericolo più grande, tanto maggiore quanto più è lungo il periodo trascorso lontano da casa: quello di perdere la propria identità. La feroce nostalgia delle persone amate e non raggiungibili, come oggi, con un semplice tocco sullo schermo del device.

I Protagonisti del Viaggio sono gli esploratori, i naturalisti, i meteorologi, i cartografi, gli scienziati, i letterati, i diplomatici, i pellegrini, gli studenti, i rampolli di famiglie aristocratiche, i regnanti, gli artisti, i soldati, i turisti, gli esuli, i politici, i nomadi, i coloni, i mercanti, gli emigranti, gli studiosi, i profughi, i pittori, i religiosi, i geografi…  e i rispettivi domini disciplinari fra i quali la letteratura, la geografia, la storia, l’antropologia, le scienze, la filosofia, la psicologia e la politica.

In ambito specificamente letterario, Brevini giunge alla conclusione che il Viaggio è il fil rouge culturale che attraversa, senza soluzione di continuità, tutte le narrazioni del mondo: ed ecco passare in rassegna i racconti mitici, i poemi eroici e cavallereschi, le descrizioni di viaggi immaginari, i resoconti, i diari, i “travel books”, le cronache, i romanzi avventurosi e fantascientifici, i reportages giornalistici.

In questa piccola enciclopedia del Viaggio non possono mancare i viaggi simbolici, metaforici e spirituali: i viaggi introspettivi dell’Uomo alla scoperta di Se Stesso e della propria vocazione, i viaggi interiori alla ricerca delle Risposte alle grandi domande della vita, i viaggi evolutivi alla conquista dell’età adulta.

Ciliegina sulla torta: al termine di ciascun capitolo, Brevini ci racconta di sé e dei suoi viaggi in giro per il mondo. Sono proprio questi a suscitare in me il desiderio di saperne di più su chi, come lui, è nato con la valigia.

L’intervista

J.L.: Nel prologo Lei accenna al “viaggio” come a qualcosa che il nonno, il papà e gli zii hanno infuso nel suo DNA. Agli illustri precedenti in famiglia si aggiunge un curioso particolare: l’essere stato concepito dai suoi genitori durante un viaggio. A quanto pare lei è nato viaggiatore. Ma… lo si può anche diventare? Se sì, quali sono i fattori che ispirano l’uomo del nostro tempo a voler viaggiare?

F.B.: Credo che la molla sia la stessa di sempre: il desiderio della lontananza. Io l’ho chiamata così, ma si potrebbe dire in molti altri modi: il fascino dell’esotico, la spinta verso la scoperta, l’interesse per tutto ciò che è diverso. Oggi il turismo solo in parte vi corrisponde, perché ci propone ai tropici copie delle confortevoli realtà in cui viviamo a casa. Anche l’incontro con l’altro è molto edulcorato nelle forme del tipico, del caratteristico, del folclorico.

J.L.: Qual è, di tutte le esperienze che ha vissuto, quella che l’ha fatta innamorare del viaggio al punto da farne il leitmotiv della sua vita?

F.B.: Sono i racconti sull’India dello zio salesiano. Mi parlava della tigre che lo aveva inseguito mentre fuggiva in bicicletta nella giungla o dell’apparizione degli ottomila himalayani dai primi contrafforti del subcontinente. Fu lui a deporre un seme, che poi mio padre ha cresciuto con gli infiniti viaggi in cui mi ha coinvolto fino dai primi giorni di vita. Il nomadismo era inscritto fino da subito nella mia vita.

J.L.: Quali sono i momenti più belli trascorsi in viaggio coi suoi genitori?

F.B.: Sono numerosissimi i momenti belli trascorsi con loro in giro per il mondo. Ne posso ricordare uno che menziono anche nella piccola introduzione autobiografica del mio libro. Durante un viaggio con mio padre nel Triangolo d’Oro, su all’estremo confine settentrionale della Thailandia, tra Birmania e Laos, lo vidi trascinare per giorni due scatoloni di cartone. Neppure a me volle rivelare cosa contenessero. Il giorno di Pasqua navigavamo su delle piroghe lungo uno di quei fiumi nella giungla, di cui avevo letto nei romanzi malesi di Salgari. A mezzogiorno la piccola flottiglia approdò a una radura fra altissimi alberi. Mio padre aprì i due scatoloni e ciascuno dei partecipanti ricevette un piccolo uovo di Pasqua.

J.L.: Professore, ho saputo che è padre di tre figli ormai adulti, e marito felice di Tiziana con cui ha avuto altri cinque bellissimi bambini: Elia, Giacomo, Vittorio, Tommaso e l’ultima arrivata, Beatrice, in omaggio alla nonna materna. Quali sono i viaggi che i suoi figli le chiedono più spesso di raccontare?

F.B.: Loro mi chiedono sempre di raccontare i miei incontri con gli animali selvaggi. Sono incantati dall’orso polare giunto fino a pochi metri della motoslitta, che avevo prudentemente tenuto accesa.  O dalla fulminea caccia del ghepardo, che per una trentina di secondi aveva lasciato incustoditi i suoi tre cuccioli. Strabuzzano gli occhi quando mi vedono in una foto sfiorare con la mano una balena in Baja California. Ma nulla vale l’emozione dei video girati durante le interminabili giornate con i cani da slitta su nel nord del Canada. E vorrebbero essere accanto a mia moglie quando nuota nelle acque del Borneo insieme alle grandi tartarughe marine.

J.L.: Di tutti i viaggi che ha intrapreso, quali rifarebbe e perché?

F.B.: Rifarei quelli in cui ho avvertito intorno a me lo sgomento primordiale dell’uomo perduto nel mezzo della natura selvaggia. È una sensazione che per me è associata alla banchisa polare o alla traversata sull’Inlandsis, il ghiacciaio continentale della Groenlandia. Ma ricordo anche la potenza del mare a Capo Horn, sulla punta estrema del Sud America, davanti all’Antartide. O le giornate nella giungla, grondante di sudore, ridotto a uno straccio, tormentato dalle sanguisughe, ma alla fine gratificato dall’apparizione di un branco di elefanti pigmei che avevamo inseguito per ore. E come esprimere l’emozione delle stellate nel cuore del Sahara, mentre il tuareg che mi accompagnava recitava il Corano e il pane stava cuocendo sotto la sabbia?

J.L.: C’è invece un viaggio che non rifarebbe mai più? E perché?

F.B.: Quelli, fortunatamente pochi, che ho fatto con le persone sbagliate, a conferma che il viaggio deve essere condivisione.

J.L.: Di tutte le popolazioni che ha incontrato, qual è la più chiusa e diffidente? E la più ospitale?

F.B.: Dovunque ci sia una vita popolare, c’è gioia di vivere, anche tra infinite durezze. Tornavo dall’India. Avevo lasciato da poche ore i quartieri affollati di quelle città, dove la gente ti guardava quasi sempre con un sorriso. Ero sbarcato per il transito a Francoforte. In quell’aeroporto tutti erano vestiti e nutriti, presumibilmente benestanti, mangiavano cose buonissime e portavano ingombranti sacchetti del duty free. Ma mi colpì un particolare: nessuno rideva.

J.L.: Cos’è la “lontananza” per Franco Brevini Uomo?

F.B.: È quando tutti i tuoi riferimenti sono saltati, quando fai fatica a orientarti, quando sei vigile, preoccupato, incuriosito, quando capisci che potrebbe succederti qualcosa. Per me la frase rivelatrice è: ma sai che non me lo immaginavo così grande? 

J.L.: Quali sono le risorse che potrebbero esserci di aiuto e di conforto, in questi momenti?

F.B.: Umiltà e pazienza, prima di tutto. E poi un po’ di capacità di tenere duro. «To strive, to seek, to find and not to yeld» («Lottare, cercare, trovare e non arrendersi») sono i versi dell’Ulysses di Tennyson scolpiti sulla croce di legno piantata davanti al Mare di Ross, a Capo Evans, nel punto da cui il capitano Scott era partito per la sua disastrosa spedizione verso il Polo Sud. 

J.L.: Nel suo ultimo libro traspare l’idea della Nostalgia della Lontananza che spinge a ritornare nei luoghi già visitati, come ricetta per la felicità. Ha mai sofferto di nostalgia? Se sì, in quale dei numerosissimi luoghi da lei visitati vorrebbe ritornare?

F.B.: Per me la vista dei grandi spazi si è sempre accompagnata a un sentimento di malinconia. È la frustrazione per ciò che ogni giorno perdiamo nelle nostre quotidianità arrese ai loro prudenti orizzonti. C’è quello splendore che rifulge là fuori e noi ci accontentavamo dei nostri torpidi esîli. Talvolta a casa mi sveglio che è ancora notte e penso a quante volte a quell’ora sono partito dai bivacchi con la frontale sul casco. Richiusa la portina, eccoci proiettati in un altro mondo. Sopra la testa ruotano lentamente tutte quelle stelle e il cielo è fosforescente. Davanti si stagliano le masse acquattate delle montagne, che fra poco sfolgoreranno al primo sole. La neve scricchiola, il ghiacciaio è blu come l’acciaio temprato. Un bagliore a oriente annuncia che sta iniziando il più sconvolgente e insieme il più prevedibile degli spettacoli. Si replica da milioni di anni, ma quasi sempre senza testimoni, come il fiore del deserto di Manzoni, che spande la sua corolla per l’imperscrutabile Dio delle solitudini.

J.L.: Di tutti i viaggi che ha fatto, quale ha lasciato in lei il segno più profondo, la lezione più importante?

F.B.: Ogni viaggio mi ha consegnato un insegnamento, ma, se c’è un comune denominatore che li abbraccia tutti, è il senso del limite. Ho capito fin dove potevo arrivare, ho sperimentato dove correva la linea che non avrei dovuto superare. Mi sono fermato in tempo e non mi sono mai pentito. Espressioni come «lanciare il cuore oltre l’ostacolo» o «i limiti sono fatti per essere superati» lasciamole dire a chi sta in poltrona. 

J.L.: Qual è il souvenir più evocativo da lei acquistato?

F.B.: Lo cito nella Conquista della lontananza. È una statua in bronzo della divinità indiana Shiva, che tengo nel mio studio. L’ho acquistata in un negozio di oggetti artistici di una cittadina del Tamil Nadu. Questa rappresentazione della divinità indiana è denominata Shiva Nataraja, che significa «Signore della danza». Il gesto del danzatore cosmico è contemporaneamente di creazione e di distruzione. È quello che i viaggi hanno fatto nel corso della loro storia millenaria: hanno aumentato le nostre conoscenze, ma hanno lasciato una scia di violenza e hanno devastato il Pianeta. La danza cosmica di Shiva Nataraja è anche una delle metafore più felici del best–seller Il Tao della Fisica dello scienziato austriaco Fritjof Capra. E dal 2004 una statua di due metri di altezza di Shiva Nataraja donata dal governo indiano è stata collocata al Cern di Ginevra.

J.L.: Qual è l’incontro più interessante che ha avuto? È ancora in contatto con queste persone?

F.B.: Direi quello con Robert Peroni, un italiano che da alcuni decenni vive nella Groenlandia orientale, promuovendo iniziative a favore delle comunità inuit. È nata una grande amicizia, sono tornato più volte in Groenlandia, siamo andati insieme in villaggi remoti, su ghiacciai e su montagne, abbiamo vagabondato fra gli iceberg, abbiamo incontrato cacciatori e sciamani. Robert mi ha rivelato una dimensione della vita, che senza di lui mi sarebbe stata preclusa.

J.L.: Ha mai intrapreso un viaggio interiore e se sì, quale dei suoi viaggi le ha offerto questa particolare prospettiva?

F.B.: Ogni viaggio inizia dentro di noi. Faccio un solo esempio: la mia passione per il Grande Nord. C’è un nome che fa la guardia all’ingresso: Jack London. Le ore dell’adolescenza passate su Zanna bianca e sul Richiamo della foresta hanno seminato nel mio animo il fascino per gli spazi sconfinati. È stato il mio «sogno di una cosa».

J.L.: Ha mai fatto un pellegrinaggio? Se sì, in che modo ne è stato arricchito?

F.B.: Sono stato ad Allahabad, nello stato indiano dell’Uttar Pradesh, a metà strada fra Calcutta e Delhi. La città sacra sorge alla confluenza di tre fiumi mitologici, il Gange, lo Yamuna e il misterioso Saraswati, citato negli antichi testi in sanscrito del Rigveda. Ogni dodici anni trenta milioni di persone accorrono a Allahabad per celebrare il più grande pellegrinaggio religioso del mondo: il Kumbh Mela. 

Ricordo una coppia di anziani che veniva calata nelle acque limacciose. Sorretti dalle braccia dei barcaioli, vi affondavano per alcuni secondi fino a sparire completamente. Riemersi, riempirono due taniche di plastica di quella torbida acqua color caffelatte, capace di risanare ogni malattia. Evidentemente la fede poteva più della chimica.

J.L.: Ha in programma la pubblicazione di un libro interamente dedicato ai suoi viaggi?

F.B.: L’ho fatto con La conquista della lontananza, in cui il viaggiatore offre le sue esperienze allo studioso, che le ordina nella prospettiva della cultura, cercando di rintracciare un senso nella millenaria avventura del viaggio. Ora sto scrivendo un libro sulla paternità. Anche in questo campo, mi sono detto, qualche esperienza l’ho fatta.

 

 




A CHE PUNTO È IL GIORNO

 

Oggi parliamo di un argomento storico poco conosciuto, ma forse è meglio dire dimenticato.

Si tratta di una storia per certi versi analoga a tante altre, accadute in Europa nei secoli passati, ma che in questo caso riguarda il nostro Paese, l’Italia, e la sua bellissima isola, la Sicilia, e già solo per questo vale la pena che sia conosciuta e divulgata.

Si tratta di una storia di Convivenza e, contemporaneamente, di Discriminazione sull’isola del Mediterraneo e riguarda la storia degli ebrei in Sicilia.

La storia della presenza millenaria degli Ebrei in Sicilia, per secoli rimasta nell’oblio, torna ora ad affascinare e interessare storici, archeologi e antropologi che stanno riportando alla luce l’importante ruolo che ebbero gli Ebrei nello sviluppo economico e culturale dell’isola.

La rimozione c’è stata ed è motivata probabilmente dal pudore di dover narrare tutto ciò che gli Ebrei siciliani dovettero patire secolo dopo secolo, conquista dopo conquista, per mano di coloro che ne furono i potenti e spesso spietati dominatori, ma anche dal rammarico per tutte quelle risorse umane, culturali ed economiche che l’isola e tutto il sud d’Italia persero per sempre, dopo la loro espulsione nel 1493.

La storia giudeo-siciliana suscita ora nuovo interesse grazie alle recenti pubblicazioni che hanno avuto per oggetto la riscoperta di antica documentazione, rimasta sepolta per secoli negli archivi storici comunali e in quelli notarili di molte città siciliane.

Anche importanti e recenti scoperte archeologiche stanno accrescendo le nostre conoscenze della storia ebraica siciliana, lasciando intravedere possibili rivisitazioni dei fatti accaduti tra il III e il XVI secolo.

Si tratta di resti di siti sinagogali e cimiteri, disseminati un po’ ovunque sul territorio, dove numerose sono le pietre tombali rinvenute, sulle quali campeggiano epigrafi bilingui in greco, ebraico o latino con i tipici simboli ebraici della Menorah, dello shofar e della foglia di palma.

Sono stati anche ritrovati numerosi bagni rituali (mikvè), uno su tutti, quello commovente di Ortigia a Siracusa, di recentissima e casuale scoperta, considerato il più antico d’Europa, ricoperto di detriti dagli esuli ebrei prima del suo definitivo abbandono, forse per un senso di pudore o forse perché era ancora viva tra loro la speranza di un ritorno.

Ed ancora più affascinante è la storia del Kior (vasca per lavaggio delle mani) di Siculiana nell’agrigentino (sec. XV), proveniente con verosimile probabilità dalla Sinagoga o dal Cimitero di tale cittadina ed in epoca più tarda trasferito nel Battistero locale per divenirne la fonte battesimale.

Il suo donatore aveva voluto ricordare l’evento facendovi scolpire una scritta in ebraico, rimasta coperta per più di cinque secoli e dove oggi si può leggere: «Nell’anno 1475: Samuele figlio di Rabbì Yona Sib’on, riposi in Paradiso».
Posti ai due lati della scritta gli stemmi reali di Castiglia e di Aragona in onore dei sovrani spagnoli regnanti in quel periodo e che, ironia della sorte, solo diciassette anni dopo decretarono l’espulsione di tutti gli Ebrei oltre che dalla Spagna anche dalla Sicilia.

 

La storia è lunga, e non è certo questo il luogo per narrarla nella sua interezza, ma si può certamente affermare che non ci sia stato angolo della Sicilia in cui la presenza ebraica non fosse già ben radicata ancor prima dell’avvento del cristianesimo e soprattutto durante i quattro secoli precedenti l’espulsione, decretata dall’infame editto di Granada, siglato nel Gennaio del 1492 dai reali di Spagna, Isabella di Castiglia e da suo marito Ferdinando d’Aragona. Su incitamento del domenicano Torquemada, essi non dettero scampo agli Ebrei spagnoli e poco dopo anche a quelli siciliani, obbligandoli alla dolorosa scelta dell’esilio o alla conversione forzata.

C’era stato un tempo, tuttavia, in cui la vita degli Ebrei, nello specifico in Sicilia, era stata molto migliore e sicuramente diversa.

Ciò avvenne, nei due secoli di dominazione degli Arabi, i quali, seppur inizialmente considerassero gli Ebrei alla stregua di schiavi sui quali era lecito da parte loro qualsiasi abuso e sopruso, via via col passare degli anni, per motivi puramente economici, iniziarono ad instaurare con loro rapporti sufficientemente sopportabili.

Agli Ebrei, infatti, come pure ai Cristiani, venne concesso di poter professare liberamente la propria Fede e di costruire Sinagoghe e Chiese, anche se questa concessione non prescindeva dal pagamento di onerose gabelle.
Considerati dhimmi, cioè «protetti», gli Ebrei erano ritenuti una sorta di risorsa tributaria ed economica, situazione che li obbligava a pagare una tassa pecuniaria aggiuntiva, la gesìa. Questa loro condizione sarà poi, nei secoli seguenti, costantemente mantenuta anche dai successivi dominatori, per i quali non c’era alcun motivo di rinunciare a queste provvide, ma inique entrate fiscali.
Allo scopo di dare ulteriore impulso all’economia dell’isola, agli Ebrei, riuniti nelle loro Comunità dette Aliama, fu lasciata la possibilità di svolgere attività divenute con il tempo a loro peculiari, soprattutto quelle di tintori, conciatori, fabbri, artigiani, commercianti e armatori. 

D’altronde gli Ebrei, avvezzi a convivere con gli Arabi, come lo erano già in Spagna e nel Nord Africa, avevano con questi, oltre che la lingua, molteplici affinità come la comune conoscenza degli studi scientifici di medicina, astronomia e matematica e soprattutto delle materie teologiche e filosofiche.
Ciò che inoltre rendeva culturalmente simili le due etnie, era l’uso corrente della scrittura, motivo non sottovalutabile, che, di fatto, le poneva entrambe in una posizione più elevata rispetto al resto della popolazione, per lo più retrograda ed analfabeta.

 

Oggi sappiamo quanto esteso e vivace fosse il rapporto tra le varie comunità ebraiche in quell’area alla fine e dopo l’inizio del primo millennio e quanto, per questo, fosse divenuto essenziale il ruolo della Sicilia grazie al continuo prosperare e alla nascita in quei due secoli di numerosissime imprese manifatturiere e di altrettante piccole comunità ebraiche che le gestivano.

Cartiere, filature e tessiture della seta e del cotone, concia delle pelli, tintorie, fonderie siderurgiche, commercio delle stoffe, del grano e del formaggio (rigorosamente kosher) e il trasporto di queste e di altre mercanzie, furono solo alcune delle attività di appannaggio quasi esclusivo degli Ebrei siciliani, i quali, nei secoli seguenti, ne acquisirono naturalmente il monopolio, divenendo di fatto i più ricercati produttori, trasformatori ed esportatori di manufatti e di prodotti agricoli.
La Sicilia, posta in maniera strategica al centro del Mediterraneo, divenne, di fatto, uno snodo nevralgico per lo scambio di mercanzie di ogni tipo che, dall’isola, riprendevano poi la strada per il resto d’Italia e d’Europa.

Quanto vediamo oggi della Sicilia, lo si deve in buona parte ai due secoli di questa dominazione illuminata ed al suo intelligente sfruttamento, del quale gli Ebrei furono una parte essenziale.

 

Questa lunga premessa, assolutamente non esaustiva della memorabile storia della presenza e dell’attività degli Ebrei siciliani, ci è tuttavia utile per fare alcune considerazioni storiche attuali e contingenti, relative alla città di Catania ed alla recente costituzione ufficiale di una Comunità Ebraica e di una Sinagoga nel suo seno.

A volte la Storia viene riscritta dai posteri e ciò che sembrava dimenticato riaffiora dall’oblio, grazie al lavoro scrupoloso e appassionato di studiosi e di accademici, e anche di uomini leali e di buona volontà che, come nel caso di Catania, ne hanno ripreso in mano il bandolo riportando alla luce ciò che sembrava dimenticato per sempre.
Una Storia, quella della Sicilia ebraica e di Catania – ma non solo, verosimilmente somigliante per molti dei suoi aspetti a tante altre storie vissute e patite, anche in tempi recenti, dagli Ebrei di molti altri Paesi, storie esaltanti ma allo stesso tempo spesso dolorose, storie di persecuzioni, di morte, di esili, di abbandoni, storie rese simili dal pregiudizio e dall’invidia, dove la bramosia, infine, ne è stata sempre il rovinoso epilogo.

Accade, dunque, che alla Catania ebraica non venga – attualmente – riconosciuto il diritto di ridare vita ad una propria Comunità, al proprio culto, alla preghiera nella propria Sinagoga.

Sembra che si sia verificato un corto circuito di comunicazione con le autorità centrali della Penisola.

Come se queste non capissero gli Ebrei di Catania.

È sicuramente un momento non semplice per chi crede nell’importanza e nel valore di queste relazioni e, rispetto al passato, rispetto alla Storia, sembra che ci siano stati dei significativi passi indietro, ma proprio per questo sarebbe opportuno andare avanti, confidando nella possibilità che il confronto riesca a dare nel tempo i suoi frutti.

E forse ciò ha origine, anche, dalla profonda crisi attraversata da un Occidente che ha smarrito la propria identità, e che a volte non riesce a ben riconoscere quali siano i propri valori di riferimento. Tuttavia, si potrebbe andare oltre quell’ambito e slegarsi da ciò che spesso appare, purtroppo, come un secolarismo effimero – anche in campi religiosi.

 

  • Riassumendo in maniera essenziale e omettendo valutazioni halachiche, che sono di stretta competenza rabbinica, la sequenza dei fatti avvenuti a Catania è comunque tanto distopica da sfiorare i limiti del grottesco, posto che stiamo parlando di: 1) Laicità dello Stato; 2) Libertà religiosa; 3) Libertà di organizzazione ed azione; 4) Libertà di aprire luoghi di culto.
  • La Comunità Ebraica di Catania e il suo Istituto di Cultura Ebraica esercitano il culto ebraico all’interno della propria Sinagoga dal 17 ottobre 2018, nei locali concessi in comodato d’uso dal Comune di Catania e siti nel Castello di Leucatia; tale concessione ha la durata di sei anni e scadrà il 16 ottobre 2024.
  • Il 28 ottobre 2022 la Comunità Ebraica di Catania consacra ufficialmente al culto la propria Sinagoga, alla presenza di Rabbini giunti da Israele e da Whashington – essendosi dotata di un Sefer Torah e disponendo di un Rabbino e di un Tribunale Rabbinico di riferimento. Si tratta di un evento storico, religioso e culturale del massimo rilievo, sia per Catania – che fino al 1492 aveva due Sinagoghe – sia per l’Italia ebraica, che da Napoli in giù sembra si sia fermata nel (quasi) nulla.
  • In contemporanea, la signora Noemi Di Segni – nella sua veste di Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (di seguito: UCEI, Associazione di carattere privatistico) – inizia un attacco e una dura lotta di screditamento nei confronti della Comunità Ebraica di Catania, dichiarando e asserendo che essa non ha diritto di esistere né tantomeno di chiamarsi «Comunità Ebraica», né ancor più di avere titolo di appartenenza all’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
  • L’anno 2023 si apre dunque con un pesante carteggio su carta bollata tra la predetta Presidente UCEI e l’Avv. Baruch Triolo, Presidente dell’Istituto Internazionale di Cultura Ebraica e Presidente della Comunità Ebraica di Catania – il quale ribatte alla Presidente Di Segni punto per punto, nello specifico: a) domandando dove fosse scritto che Catania non poteva usare la denominazione «Comunità Ebraica» (nemmeno si trattasse di un formaggio o di un vino d.o.p.) e b) ribadendo che la Comunità Ebraica di Catania sin da subito si era dichiarata disgiunta e non legata all’UCEI.
  • Emerge sin da subito la totale mancanza di possibilità di dialogo, di disponibilità al chiarimento reciproco, da parte della Presidente UCEI – che appare rispondere a ogni legittima comunicazione da parte dell’Avv. Baruch Triolo con quelli che si possono definire “argomenti fantoccio”, cioè utilizzando una fallacia logica che consiste nel confutare un argomento proponendone una rappresentazione errata o distorta.
  • Poi, da parte della Presidenza UCEI, si giunge all’intimidazione e infine alla citazione in Tribunale davanti al Tribunale Civile di Catania (prima udienza 08 febbraio 2024), inoltre convincendo (o meglio, tentando di convincere) con una sua personale visita, il Sindaco di Catania a revocare la concessione dei locali a suo tempo concessi a titolo gratuito (per sei anni, dal 2018 al 2024), destinati a uso Sinagoga e Uffici del Rabbino e siti presso il Castello di Leucatia.
  • La situazione diviene, a questo punto, orwelliana per tutta una serie di motivi: 1) l’UCEI è una associazione privata che, secondo il Codice Civile, può imporre le proprie regole statutarie solo ai propri iscritti e a nessun altro; 2) la Comunità Ebraica di Catania non aderisce e non vuole aderire all’UCEI, come sempre dichiarato; 3) una Associazione privata non dispone del potere di segnalare o accusare altre Associazioni per danneggiarle, né può imporre la propria volontà a una Pubblica Amministrazione (la città Metropolitana di Catania); 4) l’art.2 della legge 101/89 garantisce ad ebrei e comunità in genere il diritto, costituzionalmente garantito, della «libertà di esercizio del culto ebraico in forma sia individuale che associata»; 5) l’art.15 della legge 101/89 sancisce che «gli edifici destinati all’esercizio pubblico del culto ebraico, anche se appartengono a privati, non possono essere sottratti alla loro destinazione, neppure per effetto di alienazione, fino a che la destinazione stessa non sia cessata con il consenso della comunità competente».
  • Tutto ciò predetto, l’UCEI non si presenta alla prima udienza in Tribunale davanti al Tribunale Civile di Catania (08 febbraio 2024), costringendo il Giudice a rimandare la prima udienza al 24 gennaio 2025, nonostante la procedura preveda la presenza di entrambe le parti per un tentativo, obbligatorio, di conciliazione e impedendo la richiesta di chiarimenti. Sottraendosi in sostanza al contraddittorio. La Comunità di Catania era rappresentata dall’Avv. Giuseppe Sciacca, membro della Comunità, dal Presidente della Comunità di Catania, Avv. Baruch Triolo, e dal Vice Presidente Alessandro Y.N. Scuderi.
  • La minaccia di sfratto dai locali del Castello di Leucatia ha un esito altrettanto surreale: il 15 febbraio 2024, data fissata dal Comune di Catania per un sopralluogo dei locali, propedeutico alla riconsegna dei locali, i tecnici del Comune non si presentano. Ed è notizia di questi giorni che la Municipalità di Catania si è premurata di rivolgere le proprie scuse alla Comunità Ebraica di Catania.

 

E dunque?

A che punto è il giorno?

Cui prodest tutto questo folle, insensato, dispendio di mezzi e di energie?

Perché questo cortocircuito, terribile, proprio in ambito ebraico, proprio in questo periodo di tensioni e di guerre?

Questa realtà distopica si inserisce nel momento storico che stiamo vivendo che, dopo il 7 ottobre, è sicuramente estremamente complesso e di difficile interpretazione – e in cui le tensioni non si limitano purtroppo al solo Medioriente.

Nessuno ha verità assolute da proporre e in questo momento molti di noi sono più capaci di porre domande che di dare risposte, tuttavia, cercando di essere analitici e obiettivi, nonostante tutto, continuiamo a sperare: a sperare nel Dialogo e nel Confronto.  

Pena la morte, la dispersione dell’egregore – e questo non deve avvenire: quando un certo numero di persone si raduna intorno a un’idea, i pensieri e i desideri di quelle persone creano un’entità vivente; è una legge del mondo spirituale.

E anche se quell’entità non è fatta di particelle sufficientemente materiali da far sì che la si possa vedere e toccare, essa esiste.

Questa entità collettiva viene chiamata «egregore» ed è un’entità vivente e operante, ogni paese, ogni religione e ogni corrente di pensiero possiede un’egregore e tutti i suoi membri, i fratelli e le sorelle che si riuniscono attorno alla stessa idea di pace e di luce, non smettono di alimentarla e rafforzarla.

Così, non solo essa può agire sulle altre egregore nel mondo per influenzarle beneficamente, ma contribuisce anche, e soprattutto, all’evoluzione di quegli esseri che lavorano per formarla.

Ma anch’essa è soggetta all’entropia – che dà la misura del disordine presente in un sistema fisico e, quando l’entropia sarà massima, nessuna trasformazione sarà più possibile, e sarà così la cosiddetta «morte fredda» dell’universo, in un sistema disordinato e a energia minima.

 

Barbara de Munari

Torino, 08 marzo 2024

 

[Si ringrazia per la disponibilità delle Fonti Storiche: Ariel Arbib, Storia degli Ebrei di Sicilia fino al XVI secolo – Convivenza e discriminazione sull’isola del Mediterraneo, in Joimag, febbraio 2022]




ETICA SUI RAPPORTI SOCIALI SECONDA PARTE

 

Con attenzione ancora maggiore va condotto, oggi, il confronto della ideologia e dei programmi politici marxisti con la dottrina evangelica e cristiana. Questo è infatti un problema di viva attualità. Esso abbraccia anche la questione del comunismo e dei partiti in cui esso prende corpo, e dei regimi “socialisti” che si ispirano e sono coerenti col marxismo.

 

 

ESSENZA DEL MARXISMO

 

Come scriveva Pio XI, “assai pochi hanno potuto penetrare la vera natura del comunismo”.

“Il comunismo è la pura dottrina, è il puro movimento marxista”: era la definizione data dalla Piccola Enciclopedia del Socialismo e del Comunismo. Non è mai stata cambiata questa definizione, nonostante i ripetuti tentativi dei dirigenti comunisti dei paesi occidentali (non ancora al potere), di distinguere tra la milizia degli iscritti al partito e la loro fede religiosa o filosofica.

E il marxismo non era una astratta teoria filosofica, nè un semplice metodo storiografico, e neppure un limitato corpo di dottrine economiche e politiche ma una completa concezione del mondo poggiate sul materialismo dialettico e storico in cui questi elementi sono presenti e organicamente fusi.

Si hanno dunque nel comunismo: un fondamento, il materialismo dialettico e storico; le parti integranti, la teoria filosofica, il metodo storiografico, le dottrine economiche e politiche; il risultato della fusione organica, una completa visione del mondo. Il marxismo infatti pretende di spiegare il mondo (compreso l’uomo): la sua origine, le sue leggi, la sua intima natura, il suo ultimo fine.

Anche a prescindere dalle teorie filosofiche più astratte e si può dire astruse che ne sono il fondamento, basti osservare che il comunismo aveva la sua anima nel materialismo storico, il quale interpretava la storia per mezzo del materialismo dialettico. L’evoluzione della materia, dei viventi, dell’uomo, è la conclusione per tappe della lotta interna della materia in continua progressione da un piano inferiore a uno superiore; evoluzione a “spirale ascendente”. Marx insisteva, soprattutto, nel sostenere che il meccanismo della dialettica aveva ugualmente luogo nello sviluppo delle società umane. Dall’uomo primitivo che vide accendersi in lui la prima scintilla dell’intelligenza, agli uomini civilizzati di oggi, la razza umana è stata costruita a poco a poco dalla dialettica che pervade il cosmo. La comparsa dell’intelletto ha avuto come risultato una accelerazione del processo di cambiamento, perché ha introdotto una nuova spinta e un nuovo potenziale (azione riflessa e, dopo Marx, coscientemente diretta) nelle forze in conflitto nella lotta che è l’essenza dell’universo umano, come di quello materiale. Di fase in fase, l’uomo ha creato strumenti di produzione, ha esteso le sue relazioni sociali. Così è giunto, attraverso il “comunismo primitivo” l’orda, l’antica società schiavista, il feudalesimo, la borghesia, fino al capitalismo e al periodo moderno. E’ ora all’ultima soglia, prima della finale conquista sociale delle forze produttive, ultimo passo per la totale liberazione dell’uomo (risultato finale della dialettica della materia) da tutte le contingenze e da ogni forma di servitù. In breve, secondo i teorici marxisti, il significato del divenire dialettico, e quindi il significato e lo scopo della storia, è il dominio della storia, è il dominio delle forze della natura, da parte dell’uomo, che è un intelletto prodotto dalla materia. Tutta l’azione storica del partito comunista è generata da questa concezione fondamentale.

 

 

OPPOSIZIONE AL CRISTIANESIMO

 

Notiamo subito che anche il Cristianesimo è una completa concezione del mondo e dell’uomo, di cui spiega l’origine, la natura e l’ultimo fine. Ora il comunismo si basa sul materialismo dialettico e storico: una concezione del mondo limitata alla terra ed alle leggi intrinseche della materia. Il Cristianesimo si basa su due verità fondamentali, che la ragione e il consenso dei popoli hanno sostenuto: cioè che Dio esiste (e tutto procede da lui), e che egli è il rimuneratore dei buoni, cioè l’origine della legge morale ed il fine ultimo del mondo e dell’uomo; e su una verità storica incontrovertibile: la rivelazione, completata e culminata nella venuta del Figlio di Dio sulla terra, dove è vissuto, ci ha redenti con la sua morte, è risorto ed ha fondato la Chiesa per continuare la sua opera.

Tra le due concezioni non c’è un solo punto di contatto. Sono due mondi diversi, antitetici. E’ chiaro che per il cristiano non vi può essere alcuna alleanza col credo comunista, alcuna accettazione nemmeno parziale né della sua filosofia né delle linee di azione dei suoi aderenti. Dati i suoi punti di riferimento, la sua fede nella connessione e interpretazione di tutti i processi, la interdipendenza di tutti i fenomeni, e la sua insistenza nel sostenere che le attività spirituali dell’uomo non sono che il riflesso di fenomeni sociali ed economici, il cristiano non può accettare né agire secondo uno solo di questi aspetti, per esempio le tesi socioeconomiche, senza contribuire a promuovere il tutto. In breve, senza aiutare la causa ateistica.

 

Di più – questo ha importanza in modo speciale per il cristiano -, si tratta di una causa “messianica”. Giacchè il messianismo penetra in profondità nella coscienza del marxista, ed è parte essenziale della dottrina stessa del materialismo storico. Perciò i suoi seguaci sono indotti a credere di stare “dalla parte della storia”, di essere “gli strumenti consci del processo storico dialettico”, e di identificarsi con le stesse leggi che governano l’intero universo materiale. Essi dunque, più di ogni altro, hanno il diritto di modellare le menti e di offrire una risposta ad ogni problema.

Applicata alla religione, la dottrina del materialismo storico porta alla seguente situazione: è necessario nello stesso tempo attaccare le organizzazioni religiose, cercando di impadronirsi del loro controllo e svuotare la religione come frutto di ignoranza, attraverso l’educazione scientifica, sociale e politica dei suoi seguaci. In questo modo si spezzano le “sovrastrutture religiose”, accelerando il processo di cambiamento di moto.

 

 

ELEMENTO POSITIVO DEL SISTEMA IDEOLOGICO-POLITICO MARXISTA

 

Indubbiamente in questo farraginoso sistema una parte di verità c’è, riconosciuta anche dalla Chiesa, e consiste nell’intento di migliorare la sorte delle classi lavoratrici, togliere gli abusi reali prodotti dall’economia liberale, ottenere una più equa distribuzione dei beni della terra e, possiamo aggiungere, aspirare a una maggiore intesa e fusione internazionale. C’è, nel programma politico del marxismo, l’assicurazione dei beni materiali per tutti. C’è un sogno di perfetta giustizia sociale, capace di attrarre molti uomini che non cercano il loro personale interesse, bensì un ordine migliore, E’ per questo che il programma politico marxista esercitò un suo particolare fascino su molte intelligenze e sulle masse, non ancora piegate dalla forza bruta. Ma, come diceva il capo comunista ungherese Laszlo Rajk, impiccato dai suoi compagni nel 1949, si tratta di “un fondo di verità affogato in un diluvio di menzogne”. La tanto decantata “dialettica” non era che un nuovo termine per denotare cose molto antiche.

In realtà il sistema marxista si presenta come un blocco monolitico, sicché non si può dissociare, come pensano alcuni ingenui il programma economico-sociale, d’altra parte tanto discutibile, dalla dottrina filosofica. Un Accurato studioso del marxismo, il Ducatillon, ha scritto “E’ impossibile essere comunisti socialmente senza essere tali filosoficamente, proprio come non si può essere cattolici facendo astrazione dal dogma, per ritenere soltanto l’insegnamento sociale della

 

 

LATI NEGATIVI

 

Dal punto di vista filosofico, il marxismo è un cumolo raccogliticcio di filosofie, ormai da tempo superate, del sette-ottocento, come l’economia e la sociologia di Marx, sono nate nell’ambiente, che oggi è soltanto un ricordo, della Germania, della Francia e dell’Inghilterra -le tre nazioni in cui visse l’agitatore di Treviri-, così la sua filosofia risente dei pensatori del tempo, Hegel, Feuerbach, e Darwin. Anche un dilettante di storia della filosofia sa bene che il distacco da questi maestri avvenne per opera degli stessi discepoli e oggi non esiste filosofo serio che si riallacci direttamente.ad essi.

Del resto sana ragione rifugge dalla riduzione della realtà alla sola materia. E’ possibile che esista lo spirito senza materia. Ma l’esistenza della materia senza lo spirito è un assurdo, per il semplice motivo che la materia non può avere il suo principio in se stessa, anche si tratta di materia dotata, come affermano gratuitamente i marxisti, di “autodinamismo”. Proprio perchè dialettica, il continuo ed inarrestabile cambiamento, la materia ha bisogno di una causa non materiale, che noi chiamiamo spirito. Il monismo rigoroso e inflessibile di Marx è contro la realtà. Affermare la esistenza della sola materia significa, filosoficamente declassarla.

Del resto la poca dimestichezza del marxismo con la filosofia, quindi con la sana ragione, si rileva dal fatto che esso è intrinsecamente incoerente. Mentre attraverso il processo dialettico afferma che tutto cambia, che niente è fisso, esso vuole arrivare al comunismo come allo stadio finale.

Logicamente anche il comunismo, se venisse realizzato, si porrebbe come tesi, e verrebbe, quindi superato da una antitesi per comporre una ulteriore sintesi. Ma su questo punto i marxisti sfuggono alla discussione, o cercano delle soluzioni in una nuova dialettica nell’ambito della società comunista (Stalin, Mao-tse-tung).

Il colmo, che dimostra meglio la mostruosità filosofica del marxismo, si ha nella negazione del principio di non contraddizione per cui ogni sistema che si afferma come vero nega la verità del contrario (altrimenti quella stessa affermazione non avrebbe senso). Il principio di identità quale supremo principio del reale (che l’essere sia identico a se stesso), coincide col principio di non-contraddizione (che non si possa contemporaneamente affermare e negare la stessa cosa sotto il medesimo aspetto). Ora la dialettica marxista pretende innestare la contraddizione nella costituzione stessa dell’essere.

Ma più che a livello filosofico (o anche teologico), la critica al marxismo e ai sistemi sociopolitici che ne derivano va fatta dal punto di vista economico e sociale, perché questo è il territorio su cui il socialismo “scientifico” ha preteso impiantarsi.

 

Dal punto di vista economico, notiziamo anzitutto che la critica che Carlo Marx fa del regime capitalista non è scientifica. Accanto a intuizioni, parzialmente giuste, vi si rilevano troppe approssimazioni, identificazioni semplificatrici apriorismi filosofici. Economisti di gran nome contestano la teoria del valore-lavoro e l’applicazione di essa alla merce-lavoro. Ci sono altre sorgenti di plusvalore in un sistema che non è mai in equilibrio, come i progressi e le innovazioni tecniche.

Inoltre Marx, partendo dal principio dell’impossibilità di eliminare le due barriere costituite dal “tempo” e dallo “spazio”, per raggiungere l’equilibrio fra la domanda e l’offerta, costruisce la sua teoria socialista, secondo la quale il solo mezzo per giungere al regolamento dell’economia è il controllo esercitato dagli organi governativi. Ora i mezzi tecnici odierni, sfruttati pienamente, sono in condizioni di vincere le barriere del tempo e dello spazio, dotando il mondo di una rete amplissima di vie di comunicazione e di trasporto. Gli schemi di Marx “sono oggi null’altro che delle dottrine sorpassate, che potevano essere di moda nel secolo XIX.

Infine la insufficienza della dottrina economica marxista si può rilevare sia dalla tendenza del socialismo moderno, verso il capitalismo, sia dalle conseguenze del suo sistema economico.

La tendenza verso il capitalismo si può rilevare dai seguenti fatti: distribuzione dei salari secondo la natura e la portata dei servizi, senza tener conto del valore del tempo di lavoro del contributo dei singoli alla produzione; concorrenza fra gli enti incaricati delle vendite; iniziativa individuale e profitti nelle aziende agricole collettive; accumulo di capitali e loro uso da parte dei privati; diritto di eredità della proprietà personale concesso dalla costituzione; aumento sempre crescente della diversità di reddito fra i vari gruppi; creazione di nuove classi sociali; affari internazionali trattati sulla base capitalista ,ecc.

Le conseguenze del sistema economico marxista ci dicono che, nonostante parziali successi in alcuni settori, nonostante l’impulso di industrializzazione, il livello di vita, dove si applica questa teoria, è ancora ben lontano da quello medio delle nazioni occidentali più progredite.

 

Dal punto di vista sociale, non si può ignorare che il marxismo, tradotto nel comunismo, disgrega i fondamenti del retto ordine sociale, quali la proprietà privata, la famiglia, il bene comune.

Della proprietà privata, almeno per quanto riguarda i mezzi di produzione, nega il diritto: diritto naturale, cioè voluto dal concetto stesso di uomo per la conservazione e lo sviluppo di una vera personalità umana. Se il comunismo, in linea di fatto, ha dovuto scendere, in proposito, a qualche parziale ed insignificante concessione, ciò dimostra quanto esso sia contro natura.

Le medesime osservazioni si possono fare riguardo alla famiglia. Marx respinge il matrimonio tradizionale, considerandolo una forma di proprietà privata, e, come tale, una degradazione, perchè disumanizzante. L’ istituzione familiare, come il diritto sul quale è obiettivamente fondata, fa parte della sovrastruttura della società e dipende dalle strutture economiche.

Il bene comune, infine, è annullato dal marxismo, che finisce non solo nel disordine, ma anche nel dispotismo e nell’oppressione. “Non più sfruttatori nè sfruttati” è il grido della guerra immediata e il miraggio della pace futura.

Ma il comunismo una volta arrivato al potere, al posto della classe dei capitalisti crea le categorie dei capi, dei funzionari statali, dei poliziotti, e al posto della classe proletaria la categoria di coloro che devono solo obbedire.

Dal punto di vista che potremmo dire umanistico, visto che si è parlato tanto di “umanesimo marxista”, come proposta di realizzare “l’uomo totale”, possiamo riconoscere l’attrazione ma non senza far notare l’ambiguità di questo progetto di fare dell’ uomo il soggetto, e nel medesimo tempo l’ oggetto ultimo dell’ azione, il suo stesso prodotto anche quando essa sembra produrre degli oggetti esteriori: “l’uomo totale” è il soggetto vivente, dapprima dilaniato, dissociato e incatenato alla necessità e all’astrazione. Attraverso questo spazio egli va verso la libertà: diviene natura, ma è libero.

Diviene totalità come la natura, ma dominandola.

Qui non dobbiamo discutere l’insieme delle tesi soggiacenti a queste affermazioni. Notiamo tuttavia con Hyppolite che la produzione marxista dell’uomo mira ad essere, malgrado certe espressioni troppo oggettiviste di Marx, l’Assoluto che è Soggetto, cioè l’uomo divenuto universale, il Dio che si fa lui stesso, invece che un Dio contemplato in un cielo lontano. “L’ uomo si appropria del suo essere universale in maniera universale, dunque lo fa in modo totale” (Marx). Ma in conclusione si arriva a questo, che l’uomo comunista diviene “quel capitale più prezioso”, di cui parlava Stalin; una realtà umana subordinata ai valori dell’economia e al dominio del potere, spesso persino al terrore. La storia marxista conduce fatalmente non al rispetto della persona umana, ma al suo disprezzo.

L’uomo totale vero consiste nella persona umana considerata in tutti i suoi aspetti, di corpo (materia), di spirito (non materia), e per i cristiani, di figliolanza divina (soprannaturale). Il marxismo teoricamente considera l’uomo solo sotto l’aspetto di materia (l’uomo economico), e in pratica non fa che devastare la sua vita spirituale e fisica.

Le uccisioni in grande stile, le deportazioni, gli internamenti operati dai regimi comunisti in tutti i paesi da essi dominati, e che costituiscono la più colossale offesa all’ uomo della storia derivano da quella falsa concezione materialistica dell’uomo mutilato dei suoi valori più alti e anzi svuotato del suo significato personale.

Ma si badi: lo spettacolo orrendo delle soppressioni e delle oppressioni fisiche impallidisce davanti allo spettacolo, davvero mostruoso delle stragi di ordine spirituale, delle devastazioni delle coscienze, delle costrizioni, torture, umiliazioni di ordine spirituale, della massificazione intellettuale e morale dell’immenso gulag dello spirito a cui si cercò di ridurre intere nazioni. Il marxismo rappresenta il tentativo più colossale e più riuscito di quella uccisione di anime, di cui Gesù diceva “Non temete coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima” /Mt. 10,28).

 

Dal punto di vista dell’etica umana e cristiana, bisogna affermare senza esitazioni che il marxismo è profondamente, essenzialmente immorale.

Nell’intento di rimediare a molte innegabili ingiustizie commesse verso le classi più povere, è pur sempre immorale calpestare diritti non meno reali di quelli dei poveri e operare il sovvertimento ingiusto di tutte le posizioni acquisite.

E’ immorale l’essenziale totalitarismo, che sopprime ogni voce, non consente la discussione con nessun altro punto di vista, elimina qualsiasi opposizione, costringe le persone all’abdicazione dei loro fondamentali diritti in mano allo Stato. Nè finora si hanno prove di un cambiamento reale di questo sistema di governo, nonostante qualche segnale degli ultimi tempi su di una “ristrutturazione” e una “trasparenza” che però attendono conferme istituzionali per poter essere ritenute fatti di rilievo storico e morale.

Del resto è essenzialmente immorale lo stesso principio-base del marxismo che giudica ogni violazione delle leggi morali: la relatività della verità e, quindi della morale.

Il concetto di bene e di male è legato al bene dello Stato o del partito: è bene ciò che giova al partito, anche la soppressione di vite e l’oppressione dei popoli; è male ciò che al partito, considerato norma suprema di moralità, non giova. Di qui l’assoluta mancanza di controllo, di freno, in qualsiasi periodo del processo dialettico della società. Perciò Pio XI, nell’ enciclica Divini Redemptoris, definiva il comunismo ateo come “intrinsecamente perverso”.

 

Dal punto di vista religioso, infine, si deve osservare che il comunismo sostanziato dall’ateismo marxista, finchè non se ne libera totalmente, e non solo a parole, ma nella realtà delle sue posizioni ideologiche e delle sue scelte politiche, da una parte assomma tutti gli errori antireligiosi delle filosofie precedenti: materialismo, laicismo, idealismo, agnosticismo, razionalismo, dall’ altra si presenta esso stesso come sostituto della religione. Anzi si deve dire di più: fa dell’ateismo militante una religione. Basta leggere l’opuscolo di Lenin sulla religione, dove si vede che cosa pensa il marxismo su tale materia e quale metodo insegna per la lotta antireligiosa.

L’ attacco più violento il comunismo lo riserva alla religione cattolica. Qualunque siano le professioni o promesse di rispetto di alcuni uomini, forse sinceri, nei confronti della Chiesa, per il sistema vale tuttora ciò che aveva scritto Pio XI nella enciclica Divini Redemptoris: “insistendo sull’aspetto dialettico del loro materialismo, i comunisti pretendono che il conflitto che porta il mondo verso la sintesi finale, può essere accelerato dagli uomini. Quindi si sforzano di rendere più acuti gli antagonismi che sorgono tra le diverse classi della società, e la lotta di classe, con i suoi odi e le sue distruzioni, prende l’aspetto di una crociata per il progresso dell’umanità. Invece tutte le forze, quali che esse siano, che resistano a quelle violenze sistematiche, debbano essere annientate come nemiche del genere umano”. Tra queste forze nemiche è al primo posto la Chiesa cattolica, per la chiarezza e coerenza delle sue posizioni, per la sua diffusione in tutto il mondo, per la sua libertà dai condizionamenti nazionali e razziali, per la sua organizzazione unitaria, per la sua esperienza dei secoli. Inoltre la dottrina comunista è in antitesi con quella cristiana, insegnata fedelmente dalla Chiesa, a livello sia teologico-filosofico sia etico-sociale.

Perciò ci spiega la lotta dura e crudele per l’esistenza imposta alla Chiesa dal comunismo; lotta che, si può dire, non ha avuto precedenti dalle origini fino ai giorni nostri.

Come scrive Pio XI nella enciclica Divini Redemptoris, “per la prima volta nella storia stiamo assistendo ad una lotta freddamente voluta ed accuratamente preparata dall’ uomo contro “tutto ciò che è divino”. Il comunismo è per sua natura antireligioso, e considera la religione come l’oppio del popolo” perchè i principi religiosi che parlano della vita d’ oltre tomba distolgono il proletariato dal mirare al conseguimento del paradiso di questa terra.

Il “paradiso è di là da venire anche per il comunismo. La Chiesa ha ben ragione di non fidarsi delle parole dei comunisti, e di continuare a proporre agli uomini, con Pio XI, la suprema realtà, che è Dio a riaffermare i diritti imprescrittibili della persona umana, i diritti e i doveri della società, a mostrare la saggezza e la attualità della propria dottrina sociale, e a rivolgere il suo appello a quanti credono in Dio, per premunirsi contro le insidie del comunismo, comunque mascherato, e salvare la società umana.

L’ enciclica di Pio XI scritta nel 1937, quando il comunismo non dilagava ancora nell’ Europa, dimostra come quel pontefice vide chiaro nella essenza dell’ideologia e del sistema politico marxista e presagì i suoi futuri sviluppi, fatali per l’umanità.

 

A chiusura di questa esposizione, necessariamente sintetica, sul marxismo e il comunismo, una conclusione, già più volte accennata s’ impone.

 

Il marxismo-lieninismo (e il comunismo) appare come un fenomeno totale. Questo elemento di totalità lo caratterizza in modo che, se è possibile isolare questo o quello dei suoi elementi, questa o quella delle sue analisi, tuttavia, solo situati in questa totalità essi assumono il loro significato. Di conseguenza, non è “battezzato” questa o quella parte del sistema marxista e rettificandolo in questo o quel punto, che sarà possibile cristianizzarlo. Il marxismo sarebbe cristallizzabile solo se lo fosse nella sua totalità. E questo non è possibile. D’ altronde Engels, sin dal 1843 aveva avvertito che non si poteva prospettare un comunismo cristiano che fosse comunismo nel senso inteso da Carlo Marx e da lui stesso.

Tutto ciò vale per il marxismo e per il comunismo impastato di marxismo, oggi come ieri. Non è escluso che essendo gli uomini correggibili e perfettibili più dei loro sistemi, si possono avere anche nel mondo comunista cambiamenti, e persino svuotamenti dall’interno, sia pure con processi lunghi e faticosi.

Don Walter Trovato




IL SONNO DELLA RAGIONE

 

C’è una parola, che dovrebbe appartenere al frutto acquisito della Storia, trasparente e matura, di cui oggi si fa abuso: si tratta della parola «Libertà».

Peccato che molti non stiano parlando della stessa «cosa», o meglio, che non si attribuisca a questa parola lo stesso significato, in sostanza, lo stesso valore.

Che cosa è andato storto?

Come è possibile che un improvviso velo oscuro sia calato sulle menti, ottenebrandole?

Come è possibile che quel dono fragile, umile, prezioso, ineliminabile, sia improvvisamente andato in frantumi – disperso in mille pezzi?

E fa male, è doloroso, leggere con quanta disinvoltura la parola «Libertà» sia usata, trascurandone – non si sa se volontariamente o per ignoranza – le valenze e le implicanze, perché la Libertà, come la Memoria, è «cosa» preziosa, fragile, delicata e importante. 

 

Da Socrate e Platone in poi, si ragiona sul concetto di «Libertà».

Abbiamo capito che si tratta non di un concetto assoluto ma di un concetto relativo: esiste la «libertà da…», la «libertà di…»;  abbiamo imparato che la libertà si deve eticamente rapportare con il mondo e, in questo mondo, ciascuno è, o dovrebbe essere, responsabile delle proprie scelte e delle proprie azioni.

Plotino, va oltre, e riconduce la libertà del volere non a un impulso, bensì «al retto ragionamento e alla giusta tendenza».

 

La libertà è, di solito e a ragione, invocata a proposito delle rivendicazioni e delle difese dei «diritti» dell’essere umano: diritto alla vita, alla salute, all’istruzione, alla comunicazione, all’informazione, alla proprietà, al muoversi e all’associarsi, al difendere le proprie opinioni, al praticare il proprio culto religioso, e così via.

Meno di frequente, anzi mai, in questo periodo, la libertà è messa a confronto con la «Responsabilità»: responsabilità di fronte alle azioni compiute; responsabilità di fronte alle scelte fatte o da fare; responsabilità sulla verità di quello che si dice e sulle testimonianze che si rendono; responsabilità come dovere di rispondere delle proprie azioni, semplicemente e arrogantemente non rispondendo alle domande e alle richieste di quanti rimangono delusi, stupefatti, indignati, o rispondendo deviando, o cercando di deviare, l’attenzione su falsi problemi.

Si rimane toccati e coinvolti, o anche solo più consapevoli, attoniti di fronte alla totale mancanza di coerenza.

Ci si sente come traditi, nel profondo del nostro essere, delle nostre anime.

E assistiamo al dilagare dell’ignoranza, della mancanza di una cultura, anche minima, e dell’abuso di potere.

 

L’abuso dei poteri è prassi: fatti più o meno gravi sono volutamente ignorati: non se ne parla, o se ne parla il meno possibile, sperando che ci se ne dimentichi in fretta.

Se, per caso, si denunciano situazioni grottesche, ben oltre il limite del ridicolo, ci si difende dicendo: «È tutto un equivoco. Avete frainteso. Non mi avete capito».

Dobbiamo avere ben presente che la libertà è violata e impedita ogni volta che si ostacolano i diritti, e questo può essere fatto in tante forme, dalle più aperte e manifeste, a quelle più nascoste e insidiose.

A fronte di determinate situazioni e pur di preservare la propria sfera, il proprio «cortile dietro casa», spesso al singolo non interessa partecipare, preferisce rinunciare, tacere.

 

Ed è qui, in questa frattura, che altri si inseriscono abilmente.

Abilmente e senza scrupoli.

Il singolo è indotto a dimenticare che ognuno di noi è responsabile anche nei confronti di chi c’era prima, di chi c’è ora, e di chi ci sarà dopo. 

Perché la storia non comincia da me.

Prima di me dovrebbe esserci sempre «l’altro» che mi interroga, a cui sono chiamato a rispondere.

Perché è in questa «tensione verso l’altro» che dovrebbe orientarsi l’agire umano, guidato da princìpi che, per quanto possibile, se pur relativi, tendano all’universalità.

 

In un libro di Hannah Arendt,  «Tra passato e futuro», si considera la crisi in vari settori dell’agire umano, determinata da una lacuna (o frattura) nell’agire, che interrompe qualsiasi solco etico e morale sia stato tracciato dalla tradizione.

Hannah Arendt coglie questo aspetto, evidenziandolo con l’aforisma del poeta René Char «La nostra eredità non è preceduta da alcun testamento», per indicare che il filo della tradizione si è spezzato e manca di continuità.

Ciò rappresenta un aspetto importante poiché permette di scoprire che cosa, e perché, è andato perduto nella voragine attuale, tra passato e futuro.

Negli ambiti in cui ognuno si muove e agisce, questa voragine rende ogni giorno di più qualcuno vittima e, se da questa voragine si «deve» uscire, in questa voragine, invece, qualcun altro sembra muoversi a proprio agio.

 

Barbara de Munari in supporto alla redazione di Betapress




ETICA SUI RAPPORTI SOCIALI

ETICA SUI RAPPORTI SOCIALI    -PRIMA PARTE-
 
Il discorso etico sui rapporti sociali non può prescindere dalla considerazione della realtà esistente nel mondo in cui si svolge. Mondo che, negli ultimi due secoli, è stato dominato da due sistemi ideologico-politici tuttora operanti attraverso partiti e movimenti organizzati: il liberalismo e il socialismo, ai quali si possono riportare altre tendenze e correnti di minore rilievo, salvo il discorso da fare- a suo tempo – sui tentativi di sintesi, purtroppo basati su principi sbagliati e condotti in maniera aberrante, da parte di sistemi che miravano alla combinazione del socialismo col nazionalismo, senza trascurare alcuni elementi della tradizione liberale.
Sembra opportuno fare, in via preliminare, una presentazione almeno sommaria dei sistemi accennati, esaminandoli a un duplice livello: quello ideologico (includente i valori filosofici e religiosi) e quello politico (includente i valori economici e sociali). Ad entrambi i livelli, si notano alcune convergenze di pensiero tra la dottrina sociale cristiana, che è la nostra, e i due sistemi ideologico-politici; ma ancor più si notano i contrasti, per non dire, su alcuni punti fondamentali, la contraddizione.
Qui confronteremo, con la dottrina cristiana, naturalmente con rapidi cenni e in modo riassuntivo, anzitutto il liberalismo, e poi il socialismo nella sua versione marxista.
Questo secondo confronto è di maggiore e più bruciante attualità-anche se il marxismo è oggi in piena crisi- per rapporto al primo, poichè si può dire che nelle presenti condizioni storiche il liberalismo ha perduto la sua forza e il suo mordente, specialmente nelle masse ( che in realtà non ne sono mai state toccate, anche se le popolazioni sono state coinvolte nella politica liberale), ed in oltre ha subito  e sta ancora subendo un processo di decantazione e di rinnovamento (non sempre riuscito), che modifica sensibilmente la sua formula classica.
IL LIBERALISMO
Aspetto ideologico
Il liberalismo nasce da un duplice filone ideologico: l’illuminismo (esaltazione dell’autonomia della ragione e quindi della coscienza) e il positivismo (riduzione della conoscenza a ciò che è sperimentabile). Di fronte ai valori universali ed eterni e specialmente alla rivelazione (Cristianesimo) e alla religione in genere, lo spirito moderno, nutrito di illuminismo e positivismo, rivendica la propria libertà (assoluta) di non aderire, di non accettare, di mantenersi agnostico, di coltivare il dubbio e l’incertezza.
E data questa posizione di autonomia e incertezza sul piano intellettuale, è facile capire che sul piano pratico e operativo si passa pure alla massima affermazione e rivendicazione della libertà: di pensiero, di coscienza di stampa di attività economica e politica. E’ il perno ideale del liberalismo, che si diffonde ampiamente nell’Ottocento e influisce fortemente sulla organizzazione e sulla attività dello Stato, che deve ridurre al massimo il proprio ambito di intervento, a vantaggio della libertà e quindi della iniziativa individuale dei cittadini, sia a livello economico-politico, sia a livello morale-religioso.
Per ciò che riguarda in particolare la religione, lo Stato liberale incarna l’indifferentismo verso le verità cosiddette “astratte”, e quindi verso le rivelazioni, le religioni, i culti, che, per quanto compete allo Stato, sono da ritenersi tutti uguali. Lo stato liberale si proclama laico, cioè estraneo alla problematica religiosa e tendenzialmente ostile alle Chiese e alle istituzioni religiose che, di loro natura, necessariamente hanno una incidenza sulla vita sociale, e, specialmente se sono “rivelate”, non possono prescindere da un certo dogmatismo, per il quale pretendono il monopolio della verità cercando di imporla alla società e allo Stato. Per il liberalismo la religione -come l’etica- è e deve rimanere un affare esclusivamente privato: una fatta di coscienza e, tutt’al più, di sacrestia; la Chiesa deve essere separata dallo Stato: magari rispettata ma tenuta fuori della struttura sociale e ridotta nell’ambito delle società private che non rientrano nelle istituzioni di diritto pubblico.
In sintesi, si può dire che vi è un fondo comune nel liberalismo che, nonostante le diversità di tendenze che esso ha preso nei vari Paesi e nei diversi settori della vita (economico, politico, religioso), sempre affiora in ogni sua  realizzazione storica: ed è principio antropologico, che si può identificare con l’individualismo, ossia con la massima esaltazione, spinta persino all’idolatria, dell’individuo e della sua ragione, come sorgente unica di conoscenza e regola d’azione (razionalismo), della sua bontà naturale (naturalismo) e quindi della sua libertà.
Il che implica un ancor più fondamentale ottimismo sull’uomo, la sua natura, le sue facoltà, le sue possibilità di azione, auto-redenzione, progresso e conquista, che porta alla celebrazione continua delle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità, allargamento illimitato degli spazi della libertà riconosciuta agli uomini, alla affermazione della uguaglianza di tutti…
Aspetto politico
Bisogna subito osservare, qui, che in molti casi il liberalismo è stato poco coerente, in politica, con i principi idolatrati della libertà, dell’uguaglianza e dell’agnosticismo in materia ideologica e religiosa. In realtà gli Stati liberali sono stati i più acri nella lotta contro la religione, non solo come istituzione (Chiesa, Ordini religiosi, Associazioni pie ecc.), ma anche come idea, violando gravemente la libertà di culto, di associazione, di pensiero, di coscienza, che il liberalismo afferma così solennemente.
Anzi, sul presupposto dell’agnosticismo in materia religiosa lo Stato liberale ha non solo preteso di essere laico, ma ha creato una specie di religione del laicismo, diventando come sistema di fede (la religione dell’anti religione),da cui è stata improntata la vita politica, la cultura, la scuola, e in nome del quale si è svolta una azione soffocatrice ed eversiva delle istituzioni di carità e assistenza che specialmente la Chiesa aveva liberalmente eretto, diretto e mantenuto a favore dei più poveri.
Sul piano politico-sociale, inoltre; vanno fatte alcune altre considerazioni che permettono di vedere il rapporto di contrasto tra valori liberali e valori cristiani, anche nei riflessi sulle situazioni storiche determinate dall’ideologia e dalla politica liberale.
Genesi del liberalismo
Abbiamo già detto che nell’insieme di attori di vario ordine che costituiscono il carattere originale, profondamente innovatore e addirittura rivoluzionario, dell’età moderna, ciò che prevale è tutta caratterizzata è l’individualismo che si afferma in contrasto col senso medioevale del bene comune e dell’oggettività, come pure col senso rinascimentale dello Stato e del potere assoluto. Senza poter approfondire, qui, questo punto, né seguire tutto il suo sviluppo storico, osserviamo però che già sul piano religioso l’individualismo si afferma con Lutero e il protestantesimo (libero esame, ispirazione privata, valore determinante della coscienza personale); sul piano filosofico, col soggettivismo, il matematicismo antimetafisico, l’interiorità anti comunitaria, sul piano politico, come abbiamo detto, col liberalismo, che nasce dall’illuminismo e dal positivismo e viene tenuto a battesimo dal volontarismo rousseauiano, che sostituisce la così detta “volontà generale”  al posto della ragione oggettiva; sul piano economico, con l’individualismo di Smith, che sostiene il non-intervento dello Stato in campo economico, dove domina la legge dell’interesse e dell’egoismo.
Agli inizi del secolo XIX, avvenuta ormai la piena scissione della morale nell’attività economica, cardine di questa attività è il profitto (guadagno monetario tratto dalla altezza dei prezzi nei confronti dei costi).
Espressione giuridica di tale concezione del mondo è la famosa legge Le Chapelier, votata alla Costituente francese nel 1791, che porta all’abolizione di ogni organo intermedio tra l’individuo e la società, in nome della libertà e uguaglianza di tutti: non ci deve essere nessun corpo sociale che rafforzi gli uni a danno degli altri. Il che è contro la vitalità della società, che si esprime nei corpi intermedi.
Questo è il quadro nel quale l’ideologia liberale, che, come abbiamo visto, s’impernia sulle idee di liberà e uguaglianza, si traduce in regimi politici (democrazia liberale), nei quali i problemi socioeconomici vengono affrontati in base al principio dell’individualismo, e quindi a danno sia dell’uguaglianza, sia della libertà.
Riconosciamo che non è mancato, in quei regimi, un elemento positivo: la valorizzazione dell’uomo, dell’iniziativa, della capacità personale, come pure la lotta al privilegio di nascita e di posizione sociale. Ma è stato determinante come elemento negativo l’individualismo sfrenato e scatenato, per cui il debole è rimasto indifeso di fronte al più forte, anche se in teoria veniva affermata la libertà e l’uguaglianza di tutti. Aumentarono così i dislivelli e le sperequazioni. E come reazione e antitesi al liberalismo si ebbe il socialismo.
Infatti, la mancanza di quegli organi associativi, aboliti dalla legge Le Chapelier in Francia e ben presto negli altri Paesi, che potevano difendere i lavoratori; la mancanza di legislazione “sociale”, l’impostazione dei rapporti economici sulle leggi del profitto e della concorrenza, e la proibizione di contrattare a nome di tutta la professione, portavano all’esasperazione le masse, che si erano formate sotto la spinta del processo di industrializzazione, costituendo il cosiddetto proletariato.
Formazione delle masse
E’ un fenomeno tipico dell’età moderna, che consiste essenzialmente nel fatto di un numero sempre maggiore di nullatenenti, la cui esistenza dipende dal lavoro concesso da altri, ossia da un lavoro esecutivo in dipendenza da altri come unico mezzo di sussistenza, ma con una continua incertezza del domani; e spesso da un lavoro inumano: faticoso, depressivo, in ambienti mal sani. Si aggiungono le difficoltà per la vita familiare; l’esclusione dalla cultura e dalla vita pubblica, e si capirà che nelle masse non poteva non delinearsi un atteggiamento psicologico.
  a) di insoddisfazione e di protesta circa l’ordine economico-sociale esistente;
  b) di pretesa di cambiamenti.
In queste condizioni, dunque, per reazione al tipo di regime socioeconomico liberale, si presenta la realtà della massa: uomini che valgono come quantità più che come qualità; conformità nel pensare, sentire, giudicare, vivere; inautenticità personale, sotto la pressione di tecnicismo, industrialismo, materialismo, pubblicità, propaganda, tensione dinamica del lavoro e della vita, ma soprattutto a causa delle condizioni economico-sociali dei lavoratori, dei quali sono ormai uniformi la giornata, l’orario di lavoro, il livello del salario, la condizione della vita nel vitto, negli alloggi nel divertimento, ecc. Di qui una conformazione psicologica sempre più uniforme, caratterizzata da insoddisfazione, ribellismo aspirazione comune a miglioramenti, ricorso agli stessi mezzi somiglianza di tutti sul piano psicologico e morale, e a volte persino su quello fisico somatico.
Si può dire che vi è stato un duplice processo: dalla macchina alla produzione di massa; dalla produzione di massa alla formazione delle masse umane. dalla macchina alla merce standard; dalla merce standard all’uomo-massa.
Così il terreno è preparato per una organizzazione nuova della massa: il movimento operaio, nel quale ebbe gran parte appunto il socialismo.
Confronto con i valori cristiani
E’ abbastanza comprensibile la disapprovazione del liberalismo da parte della Chiesa sia per una ragione di legittima difesa sul piano politico (anche a prescindere dal problema particolare del potere temporale dei papi in Italia, che il liberalismo combatteva a morte), sia soprattutto per delle ragioni di principio, che però dal piano etico-religioso si riflettevano anche su quello socio-economico.
Soprattutto queste ultime ci interessano qui, trattandosi di un confronto tra i valori cristiani e i valori liberali.
L’esame dei documenti papali circa il liberalismo, da Pio IX a Giovanni Paolo II, ci fa constatare che i punti di contrasto con la dottrina cristiana e anzi con lo stesso spirito evangelico, sono soprattutto i seguenti:
  1) l’eccesso di individualismo in contrasto con la concezione cristiana della persona, che certo è il valore supremo nel mondo, fatta ad immagine di Dio e destinata al dialogo con Lui, ma nell’ambito della società e in comunione, solidarietà e collaborazione con gli altri.
  2) razionalismo di base, che riconosce nella ragione umana l’unica sorgente della verità e rigetta la rivelazione.
  3) il naturalismo, in contrasto con la dottrina cristiana del peccato originale.
  4) l’estremismo e assolutismo nella concezione della libertà come valore supremo e incondizionato.
  5) l’utopismo della uguaglianza, illusorio e fonte di inganni e delusioni.
  6) il mito del progresso indefinito e incessante, smentito dalla storia e dal realismo di una concezione dell’uomo nella sua condizione terrena, che il Cristianesimo presenta senza cadere negli eccessi nè dell’ottimismo nè del pessimismo.
  7) il primato attribuito al benessere, all’economia, alla produttività, al profitto, a favore dell’iniziativa privata e dell’arricchimento individuale a scapito della solidarietà che deve accomunare gli uomini nella società e nel lavoro in vista del bene comune integrale…
Se poi si pensa che il liberalismo e il capitalismo si richiamano e quasi si fondono sul piano economico e finanziario, si vede che la riprovazione del primo è inclusa in tutta la dottrina sociale della Chiesa circa i rapporti giustizia e di carità che devono legare gli individui e le classi sociali, e circa la funzione moderatrice, compensatrice e sussidiaria dello stato nel mondo dell’attività economica.
Bisogna però aggiungere che negli ultimi decenni il liberalismo ha fatto notevoli passi verso un’apertura alla società, specialmente con Roepke e, in Italia con Einaudi, sicchè il giudizio su tale sistema, e sulla sua ideologia, dal punto di vista storico può forse essere meno negativo, anche s e rimangono intatte le ragioni del contrasto di fondo con i valori cristiani e le riserve di ordine etico-religioso ed etico-politico.
Si può concludere dicendo che nel liberalismo storico si ha un caso tipico di “verità cristiane impazzite”, come diceva Chesterton, cioè squilibrate e portate all’estremismo, in tal caso si tratta di valore squisitamente cristiano della dignità della persona umana, della coscienza, della libertà.
Don Walter TROVATO
18/02/2024



Etica in cammino

Oggi parte una importante collaborazione tra Barbara de Munari e Betapress rappresenta un punto di incontro fra due mondi intellettuali profondamente impegnati nella disseminazione della cultura etica e morale nella società contemporanea.

Barbara de Munari, con la sua vasta esperienza come giornalista, editrice, e direttrice editoriale di ETICA A.C., si distingue per la sua profonda conoscenza della storia del pensiero filosofico, politico e religioso, specializzandosi in tematiche etiche e storiche.

La sua carriera è segnata da un impegno costante verso l’esplorazione di come i principi etici possano essere intrecciati nella trama della vita quotidiana e nel discorso pubblico, puntando a sollevare la consapevolezza su come l’etica influenzi decisioni e comportamenti.

Corrado Faletti, d’altra parte, porta nella collaborazione una prospettiva complementare, essendo un giornalista investigativo, storico e sociologo.

La sua ricerca si concentra sull’analisi della società attraverso il prisma della storia e della sociologia, esplorando come le dinamiche sociali e storiche modellino i valori morali e etici delle comunità.

La sua abilità nel connettere eventi passati con tematiche attuali fornisce una lente critica attraverso cui interpretare i cambiamenti nella percezione dell’etica e della morale.

Insieme, Barbara e Corrado hanno intrapreso un viaggio intellettuale con l’obiettivo di raccontare l’etica e la morale non solo come concetti astratti, ma come strumenti vivi e dinamici per navigare le complessità della vita moderna.

Attraverso la loro collaborazione, hanno sviluppato un progetto editoriale che mira a rendere la filosofia etica accessibile e rilevante per un pubblico ampio.

Questo progetto si propone di dimostrare come l’etica non sia solamente un insieme di norme da seguire in maniera rigida, ma un cammino di riflessione e scelta che accompagna l’individuo in ogni fase della sua esistenza.

Il fulcro della loro narrazione si concentra sull’importanza di integrare l’etica nella quotidianità, evidenziando come decisioni apparentemente banali possano avere implicazioni etiche significative.

Attraverso esempi concreti, storie di vita, analisi di eventi storici e dibattiti filosofici, Barbara e Corrado invitano il lettore a considerare come i principi etici possano servire da bussola nelle situazioni di incertezza, conflitto e cambiamento.

La loro opera si rivolge a chiunque sia interessato a comprendere meglio se stesso e il mondo circostante attraverso una lente etica, offrendo spunti di riflessione su come vivere una vita moralmente consapevole e impegnata.

La collaborazione tra Barbara de Munari e Betapress rappresenta quindi un esempio luminoso di come il giornalismo, la filosofia e le scienze sociali possano confluire in un dialogo fecondo, generando nuove vie per esplorare e comunicare l’importanza vitale dell’etica e della morale nella società contemporanea.

Questo progetto non solo arricchisce il dibattito pubblico su questi temi fondamentali, ma offre anche strumenti pratici per chi cerca di vivere in modo eticamente riflessivo e responsabile.




Accademia Di Alta Cultura: la magia nera piega le menti deboli.

STRAGE DI PALERMO | All’Accademia Di Alta Cultura opinionisti, filosofi, insegnanti, rappresentanti del mondo della scuola, pedagogisti, medici e psicologi, religiosi, giornalisti, Forze dell’Ordine, Magistrati

La nota del Presidente dell’Accademia Di Alta Cultura, N.H. Giuseppe Bellantonio, anticipa già l’intervento del noto opinionista e critico d’arte Paolo Battaglia La Terra Borgese tra filosofi, insegnanti, rappresentanti del mondo della scuola sino a livello universitario, pedagogisti, medici e psicologi, religiosi, giornalisti, Forze dell’Ordine, Magistrati: tutti in Webinar a proposito di occultismo, satanismo, evocazioni ed invocazioni correlabili alla magia nera
ROMA, 15/02/2024 (informazione.it – comunicati stampa – politica e istituzioni)Recenti notizie di cronaca – scrive Giuseppe Bellantonio – hanno sollevato rinnovata attenzione nell’opinione pubblica sull’efferatezza e complessità di crimini compiuti nell’ambito dell’occultismo, del satanismo, delle evocazioni e invocazioni correlabili alla magia nera e alla c.d. cabala nera, delle alterazioni di coscienza e di quant’altro riconducibile a tale deviato e deviante, sciagurato quando non delittuoso, contesto.

L’allarme è vivo ma – dice Bellantonio -, considerati gli ambienti e i modi nascosti e dissimulati in cui tutto si sviluppa, risulta altamente complesso affrontare il tema in modo risoluto. Ciò se bene la maggiore informazione d’insieme consentita oggi dall’accesso più ampio alle banche dati generali presenti in WEB abbia accresciuto l’attenzione generale e la consapevolezza di tali turpi avvenimenti.

Tale maggiore cognizione deve però meglio allarmare gli addetti ai lavori e la società civile dei fortissimi e spesso tragici rischi in cui i singoli si espongono nel frequentare contesti che praticano certi “riti”, il cui fine è in primis quello di piegare, condizionare e soggiogare le menti (deboli o già tarate: questo è bene chiarirlo fin sa subito) ma anche lucrarci vergognosamente. 

Sollecitata da più fronti l’Accademia Di Alta Cultura agirà in seno al Progetto Umanistico e Culturale “RenasceRe” – già avviato da tempo in sinergia con BETAPRESSOpus Mediterranei e Project Man Academy – organizzando più incontri sulle problematiche del tema, sulle sue molteplici sfaccettature, alla presenza di opinionisti, filosofi, insegnanti, rappresentanti del mondo della scuola, pedagogisti, medici e psicologi, religiosi, giornalisti, Forze dell’Ordine, Magistrati; tutti, insieme all’Accademia Di Alta Cultura, per elaborare un contributo, concreto e veritiero, con l’obiettivo di sviluppare forme di tutela e salvaguardia tali da essere diffuse con il fine di mettere in guardia nei riguardi di gente senza scrupoli e fors’anche avida.

 

La scelta del Consiglio Direttivoquattro incontri con cadenza quindicinaleIl primo riguarderà il mondo sociale, della gioventù e della famiglia, la pedagogia e la sensibilità individuale e di gruppo. 

Il secondo affronterà il tema delle sette e tutte le situazioni delle devianze correlate, come la strada, la cultura, le religioni e le superstizioni e lo stato di salute psichica e fisica della persona. 

Il terzo definirà l’individuazione di dette sette e ne prenderà in analisi le svariate caratteristiche e la diffusione nel territorio sia italiano sia mondiale. 

Il quarto distinguerà gli ambienti in cui le sette e l’occultismo hanno trovato e cercano seguaci in campo sociale, culturale, politico, economico.

Le coordinate digitali degli incontri in web – precisa Bellantonio – saranno preventivamente diffuse per agevolare la partecipazione dei Relatori interessati.

Gli Atti del Convegno saranno poi resi noti al pubblico a mezzo stampa.

Intanto – chiude Bellantonio – l’Accademia Di Alta Cultura ringrazia fin da ora tutti quanti interverranno a sostegno del programma di cui sopra.




Cari Figli, Italiani, amici

 

Mentre affronto gli ultimi momenti della mia esistenza terrena, sento l’impellente necessità di condividere con voi alcune riflessioni e sentimenti che mi hanno accompagnato lungo il viaggio della vita, un viaggio che per me si avvicina ora al termine.

Queste parole sono il mio ultimo tentativo di lasciarvi un’eredità immateriale, forse la più preziosa di tutte.

Prima di tutto, voglio che sappiate quanto profondamente vi amo.

L’amore che provo per voi è stato la forza motrice della mia vita, la luce che ha illuminato i miei giorni più bui. Ogni risata condivisa, ogni momento di orgoglio per i vostri successi, ogni abbraccio in tempi di tristezza, rimarrà per sempre inciso nel mio cuore.

La vostra felicità è stata la mia felicità, e i vostri dolori i miei dolori.

Ho cercato, nel migliore dei modi, di insegnarvi l’importanza dell’integrità, dell’onestà e del rispetto verso gli altri.

Questi valori sono il fondamento su cui costruire una vita degna di essere vissuta. Non dimenticate mai che il carattere di una persona è la sua eredità più duratura.

Vi incoraggio a vivere la vostra vita con coraggio e gentilezza, a non avere paura di perseguire i vostri sogni, ma a farlo sempre con considerazione e compassione per gli altri.

Spero di avervi insegnato il valore dell’educazione, non solo quella formale, ma anche quella che si acquisisce attraverso le esperienze di vita.

Ogni persona che incontrate, ogni esperienza che fate, buona o cattiva, è un’opportunità per imparare e crescere.

Rimante curiosi, aperti e mai cessate di interrogarvi sul mondo intorno a voi.

Vorrei anche parlarvi dell’importanza delle relazioni umane.

Le persone che scegliete di avere accanto influenzano profondamente la qualità della vostra vita. Circondatevi di coloro che vi ispirano, vi sostengono e vi amano per quello che siete.

E ricordatevi di ricambiare con la stessa moneta: siate un amico leale, un compagno premuroso, un membro della famiglia amorevole.

Infine, non dimenticate mai che la vita è preziosa e fragile.

Non sprecatela in rancori o rimpianti.

Amate con tutto il cuore, perdonate liberamente e cogliete ogni giorno come un dono.

La vita non è misurata dal numero di respiri che facciamo, ma dai momenti che ci tolgono il fiato.

Mentre mi preparo a salutarvi, voglio che sappiate che porterò con me i ricordi dei momenti trascorsi insieme.

Anche se non sarò più fisicamente presente, il mio amore per voi rimarrà eterno, un faro che spero vi guiderà nei momenti di dubbio o difficoltà.

Con tutto l’amore che un cuore può contenere,

Vostro padre




“San Francesco Marathon 2023”

Nella foto, da sinistra a destra: il Patron dell’Evento Padre Federico Claure e il Brand Ambassador Christian Gaston Illan.

È alla sua prima edizione, all’insegna del motto “I Bless You Life!”, la “San Francesco Marathon”.

“Maratona” come metafora della vita.

In un mondo in cui ciascuno di noi corre dietro ai propri impegni quotidiani c’è chi, fin dal 2017, lavora dietro le quinte per dar vita a un gioioso pretesto per correre insieme: la “San Francesco Marathon”. 

È un Evento di respiro internazionale quello che ci attende domenica 5 novembre 2023 ad Assisi, in cui si incontrano e fondono Sport, Cultura, Valori, Spiritualità e Solidarietà.

Motto dell’Iniziativa è  “I Bless You Life”, “Ti Benedico Vita”.

L’Organizzazione

Alla sua prima edizione, la Corsa è rappresentata da Padre Federico Claure e organizzata dalla SSD Life Running Assisi, società sportiva dilettantistica no profit affiliata al Coni e alla Fidal.

L’Evento è realizzato in collaborazione con la Città di Assisi e Athletica Vaticana, sotto il patrocinio della Diocesi Assisi – Nocera Umbra – Gualdo Tadino, della Conferenza Episcopale Italiana e dell’Università degli Studi di Perugia.

Sport, Valori, Spiritualità e Solidarietà

L’Iniziativa mira a promuovere i valori che ispirano la vita del “runner” che c’è in ognuno di noi: impegno, costanza, disciplina.

Allo stesso tempo, la corsa è uno sport che va al di là della dimensione fisica per abbracciare quella spirituale.

Ed ecco che ai valori francescani dell’amicizia e della fraternità si unisce un gesto solidale nei confronti dei più vulnerabili. Le quote di iscrizione, infatti, verranno devolute alla realizzazione di progetti di valore sociale della Diocesi di Assisi e delle Istituzioni civili del territorio. Le opere di solidarietà verranno via via rese note nel sito ufficiale della manifestazione.

 

Il Messaggio

“La maratona è metafora della vita”, recita il messaggio diramato dagli Organizzatori. “A volte ci sono momenti di avversità, e ci sono anche momenti di bellezza. La bellezza ha la forza di guarire l’anima, di consolarla, accarezzarla, rigenerarla …”

Prosegue: “La San Francesco Marathon è uno spazio di ricerca, incontro e dialogo aperto a credenti e non credenti, a tutti, sulla base della comune umanità, alla ricerca di quello che ci rende umani, alla ricerca di quello che ci mantiene umani.”

E conclude:  “Se le persone tornassero dopo la maratona con un “Che bello”! nel cuore, avremmo adempiuto la nostra missione.”

Il sigillo di Qualità

Madrina della manifestazione è la cantautrice, atleta paraolimpica e modella italiana Annalisa Minetti che, assieme ad altri atleti, parteciperà alla staffetta di solidarietà in seno alla maratona.

Brand Ambassador dell’Iniziativa è l’avvocato e imprenditore di origine argentina naturalizzato a Milano Christian Gaston Illan, appassionato di sociologia e noto al grande pubblico come opinionista calcistico televisivo. 

“È un luogo speciale, la corsa, nella sua capacità umana, formativa e culturale, unita alla bellezza di questa terra” rivela. “Non può che essere un’esperienza indimenticabile per ogni persona che verrà a correre …” 

Padre Federico Claure, patron dell’Evento, parlando di Christian dichiara: “Siamo molto contenti e grati per il suo entusiasmo e presenza nel Progetto. L’incontro con Christian è legato al nome di Francesco in quanto si deve ad un incontro che lui ebbe con Papa Francesco per donargli un poncho argentino. La sua professionalità, serietà e passione sono valori importanti per questo progetto di solidarietà. Vi aspettiamo con gioia ad Assisi!”

 

I tre percorsi

La maratona, che si rivolge a chiunque desideri conciliare l’attività sportiva con il suo profondo significato spirituale, è aperta a dilettanti, amatori e professionisti. 

Tre infatti sono le attività previste: 

• il percorso “famiglia” denominato “Vieni con me!”, lungo 5 km; 

• quello competitivo di 10,2 km; 

• la maratona vera e propria di 42,195 km. 

Quest’ultima si snoderà fra i luoghi più cari a San Francesco d’Assisi: Spenno, Cannara, fino allo scrigno della Porziuncola, la Basilica di Santa Maria degli Angeli.

Ed è proprio qui che nascerà “Il Village”: punto di riferimento per eventi e sponsor, all’insegna dei valori sportivi ed etici che ispirano l’Evento. 

Informazioni e modalità di iscrizione

La partenza è prevista per le 09:15 circa di domenica 5 novembre 2023 dalla piazza della Basilica di Assisi, che custodisce la tomba del Santo.

Per iscrizioni e ulteriori dettagli, c’è la pagina web dedicata all’evento.