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La vittimizzazione è spesso uno strumento di manipolazione, usato come arma per produrre nell’altro, negli altri o nella società incline a cadervi, certi cambiamenti a beneficio del manipolatore.

Si riesce con successo anche a provocare un senso di colpa negli altri per le azioni che hanno causato tale vittimizzazione reale o presunta.

In politica il suo uso è consapevole e premeditato e con risultati estremamente significativi nell’inconscio collettivo.

Si verifica con maggiore intensità nel populismo, perché è chiaro che l’oppresso si senta vittimizzato e a sua volta, quando il manipolatore esercita un comportamento quasi «religioso», trasformi comportamenti individuali e/o collettivi in ​​una risposta di idolatria e di idealizzazione della figura del salvatore.

Nasce così la figura dell’eroe e del capo cui vanno tributati onori e sottomissione, consapevole e inconscia.

La storia ci mostra come tali tentativi vadano a scapito della dignità, della solidarietà e della fraternità. Dietro la vittimizzazione si nasconde sempre un’intenzione empia.

Il vittimismo manipolatore in politica a volte è un’arma a doppio taglio. Ci sono persone che scelgono di raccontare la loro situazione di vittime perché scoprono che porta loro più benefìci che costi.

Il vittimismo manipolatore è presente in molti tipi di personalità. Così, è comune che appaia, ad esempio, tra i narcisisti, tra coloro che sono specializzati nel ricatto emotivo e anche tra coloro che si avvalgono di questo comportamento per trarne qualche beneficio.

La vittima, in un modo o nell’altro, è sempre protetta dalle critiche degli altri. Inoltre, ha la compassione e la comprensione di molti, qualunque cosa faccia. Infatti, chi osa mettere in discussione gli atti di una presunta vittima passa per insensibile o spietato.

Il vittimismo è, quindi, in molti casi, una strategia che porta più vantaggi che problemi.

Questa condizione consente ai manipolatori di avere una sorta di immunità, per cui tutto ciò che dicono è vero, tutto ciò che fanno è ben intenzionato, tutto ciò che pensano è legittimo. Ora, in più di un caso, questa vittimizzazione calcolata, consciamente o inconsciamente, nasconde un chiaro ricatto. Ma, alla lunga, è difficile immaginare come tutto questo possa finire bene.

Su questo terreno «malato», infatti, verrà ad esempio ad allignare e a riprodursi la corruzione.

 

La corruzione nasce all’interno della società, che è composta di tutta una serie di abitanti (individui) la cui cultura è variabile in base alla loro educazione, insegnamento familiare, circostanze dell’epoca e altre specifiche e generali peculiarità che contribuiscono alla formazione integrale dell’essere.

Indubbiamente, chi ha il mandato del popolo per governare ha una responsabilità maggiore rispetto agli altri, ma questo non esclude del tutto la responsabilità del resto della società.

La corruzione è antica quanto l’uomo stesso e solo una chiara educazione può contrastarla interiormente. E quando si parla di educazione, tutto inizia con la famiglia, in quanto lasciare tutto allo Stato significa totale ignoranza, indifferenza e mancanza di amore.

Una politica educativa correttamente attuata contribuirà indubbiamente alla riduzione della corruzione, ma non sarà mai completamente combattuta perché è in qualche modo radicata nella condizione umana. Quando riconosciamo che in ognuno di noi, attraverso il famoso «conosci te stesso», c’è il seme di tutto questo, la società nel suo insieme potrà compiere una svolta sostanziale verso l’etica e i valori che dovrebbero prevalere in qualsiasi società sana.

È nostro obbligo personale combattere la corruzione nei diversi ambiti in cui dobbiamo agire se veramente vogliamo ridurla al minimo.

 

Così scrive Miquel Seguró (Biografia. Miguel Seguró, 1979, Ricercatore presso la Cattedra Ethos dell’Università Ramon Llull e professore di Filosofia presso l’Università Aperta della Catalogna. Coordinatore della rivista Argumenta Philosophica. Journal of the Encyclopaedia Herder) nella presentazione del libro Stanco della corruzione: «Siamo stanchi e vogliamo esprimerlo, in modo che nessuno ci chieda in futuro: perché non hai fatto qualcosa?».

 

C’è molto di più in ballo che non il denaro rubato. La corruzione mette a repentaglio il futuro stesso di qualsiasi società democratica, quindi non possiamo rimanere in silenzio. La parola è l’unica arma che abbiamo. Potrà non portarci da nessuna parte; ai corrotti potranno non interessare le nostre parole, ma, per favore, almeno non rinunciamo a esse. Almeno diciamo forte e chiaro che non c’è nessun diritto alla corruzione, che basta, che siamo stanchi!

Sappiamo che il problema della corruzione non è nuovo, ma chiediamoci: da dove viene? Di chi è la colpa? Si può superare? Vorrei che fossero loro, «i mandanti», l’origine di ogni male. Eppure la corruzione sembra essere qualcosa di «umano, troppo umano».

Come le due facce di una moneta: ha a che fare sia con la struttura del potere sociale e le sue ombre sia con l’ambiguità antropologica che ognuno di noi rappresenta. E l’una senza l’altra è impensabile.

La corruzione è il peccato che, invece di essere riconosciuto come tale e renderci umili, si eleva a sistema, diviene abitudine mentale e stile di vita, perché la corruzione non è un atto, ma una condizione, uno stato personale e sociale in cui ci si abitua a vivere.

di Barbara de Munari

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