Igor Sibaldi: i libri per i contenuti e gli eventi per la magia

Lui è Igor Sibaldi ed incuriosisce e interessa molte persone appassionate di filosofia e psicologia (nel suo senso originario di argomentazione sull’anima).

È un autore molto generoso: chi cercherà la sua bibliografia vedrà come questa appaia vasta e apparentemente variegata.

Ogni tanto partecipo a un suo evento e leggo qualche suo libro.

Leggo i suoi libri perché mi piace curiosare tra le sue teorie e le sue prospettive.

Partecipo agli eventi con lui perché mi piace quello che mi accade quando vado.

Quando viaggio per raggiungere la città di un suo evento mi capitano sempre cose affascinanti: conosco qualcuno di interessante, rivedo amici o ne incontro di nuovi.

In definitiva potrei dire che leggo i libri di Sibaldi per i contenuti e partecipo agli eventi per la magia.

Quando partecipo agli eventi, ne approfitto per fargli qualche domanda; lui è sempre molto gentile e mi dedica del tempo nonostante la stanchezza; apprezzo la sua disponibilità.

Ecco cosa ho portato a casa dall’ultimo incontro durante il quale ha parlato di desideri.

Come si distinguono i desideri dai buoni propositi?

I desideri sono irrazionali, i buoni propositi possono essere costruiti dalla ragione. I desideri sono sempre una cosa di sensazione e di emozione.

Dedicarsi alla stesura e alla coltivazione dei desideri richiede anche disciplina: disciplina nello scriverli e nel leggere quotidianamente il proprio quaderno per esempio; di contro però uno dei tuoi temi preferiti è la disobbedienza.

Qual è la tua opinione sulla disciplina e a cosa serve?

Ammettiamo in questo momento che parliamo di disciplina nel senso di abituare sé stessi a fare una serie di cose nel tempo.

Intesa così sarebbe una sorta di addestramento… e io non la sento molto mia questa cosa.

Tutto quello che è ripetitivo – e la disciplina per forza di cose è ripetitiva – io la sento come insopportabile.

Intendo qualsiasi cosa ripetitiva come un girare in tondo invece di camminare e andare avanti.

In più, la disciplina intesa in questo senso, genera facilmente la nascita dell’Abitudine e, siccome è facile portare avanti le abitudini, io in linea di principio me ne tengo alla larga.

In generale, penso che la cosa più interessante sia avere la capacità di mollare tutto in qualsiasi istante, anche tutto quello che si è scoperto fino a questo punto.

Se ad un certo punto ti accorgi che tutto quello he hai scoperto fino ad adesso non funziona, molla tutto e fila via.

La disciplina invece in qualche modo vuol dire che tu hai deciso che quello che hai fatto fino ad adesso vale tanto da portarti al punto di abbonarti a determinati rituali quotidiani.

Nel corso della mia vita, quando ho seguito la disciplina ho sentito un senso di infelicità incredibile.

Mentre cercavo di portare avanti la mia intenzione, pensavo: “questo servirà” ma poi ho realizzato tra me e me: “se fa diventare così infelici a cosa serve?”

E allora ho smesso e quando ho smesso sono stato tutto a un tratto molto bene.

Piuttosto che la disciplina, io penso che sia molto utile la Procedura, intesa come preparazione ad una azione.

Per esempio, per fare un quadro, prima si preparano la tela, i pennelli, i colori… quindi si da inizio al processo creativo, altrimenti non viene bene.

La Procedura è utile: per fare una composizione, prima si compone la melodia e poi si fa l’orchestrazione.

La Procedura è un rapporto con la realtà e vuol dire avere un modo di andare avanti.

Capita che il gesto creativo della scrittura mostri all’autore degli aspetti molto più profondi di quanto in realtà non si aspettava, a te capita questo e, se sì, in che forma?

Mi capita ed è un sollievo quando capita.

Quando faccio una conferenza e capisco tutto quello che sto dicendo è una noia mortale e penso: “com’è andata male oggi che ho detto solo cose che sapevo già!”.

Quando scrivo qualcosa facendo un programma e annuncio: “in questo articolo parlerò di questo, questo e quest’altro” e obbedisco al programma, la sensazione che provo è di sconfitta.

La cosa bella per me è quando nello scrivere e nel parlare metto in moto qualcosa che mi meraviglia.

Di regola nelle mie conferenze preparo il 20% dei contenuti e il restante 80% viene da sé sul momento.

Il 20% noto è distribuito qua e là all’interno della mia esposizione e così, se ad un certo punto non so cosa dire mi appiglio a quello… ma capita di rado.

A dirla tutta, di solito il 20% neanche lo dico tutto…

Quando parlo non c’è un copione; in questo non sono un attore, sono più che altro un comico.

In che senso non sei un attore ma un comico?

L’attore deve sentirsi come un ferroviere alla guida di un treno: ha una rotaia davanti e deve portare il treno a quella velocità e su quella strada indicata dal regista.

E io non sono un attore; se mi trovo alla guida di un treno, se procedo e quello he mi aspetta è sempre uguale, io non sono io.

A volte mi capita ma rarissimamente; per lo più di volta in volta cambio tutta l’impostazione infatti se qualcuno del pubblico leggesse gli appunti delle mie conferenze, non riconoscerebbe ciò che ha ascoltato.

Questo capita anche sui libri

Quando rileggo i miei libri, poi capita che telefono all’editore e gli dico che lo rifacciamo da capo perché non va bene.

I miei libri hanno infatti diverse edizioni e diverse differenze tra loro.

Alcuni libri pubblicati di recente, per adesso sono rimasti uguali ma sarà così finché non li rileggerò.

Nel libro delle Epoche hai scritto che l’occidente è bloccato da un vuoto di futuro, è per questo che in questo momento l’arte è ferma?

Non solo l’arte, anche la filosofia perché è spaventata da una specie di tradimento.

All’inizio del ‘900 Tecnologia e Arte erano testa a testa: la cultura umanistica e l’arte producevano tante cose belle e interessanti. Ad un certo punto la tecnologia è partita in quarta e ha seminato la vecchia compagna.

Quando la tecnologia è arrivata alla costruzione della bomba atomica qualcosa è successo: la tecnologia ha surclassato troppo la cultura umanistica che è rimasta scioccata ed ha cominciato a fermarsi.

Ma perché la Cultura non ha reagito?

Immagina due compagni di classe che procedono più o meno testa a testa per tutto il periodo scolastico.

Una volta cresciuti, uno dei due si sposa con una americana, va in America,crea una azienda e diventa ricchissimo, poi fonda un’altra azienda ancora e poi viene eletto senatore.

L’altro amico intanto è rimasto in Italia nel negozio del papà e non riesce a competere più quasi neppure con sé stesso.

Non è che cresce per conto suo è come se fosse rimasto sconfitto e cresce meno perché il vecchio compagno lo ha surclassato.

La persona surclassata non la prende come una spinta per crescere di più ma abbandona.

E questo è quello che è successo tra la Scienza e l’Arte.

Vedi come la filosofia è diventata quasi totalmente storia della filosofia.

In età moderna ci sono rimasti ancora alcuni filosofi ma erano persone nate prima della guerra.

Finita quella generazione su questo versante non c’è più niente: l’arte sicuramente rimane indietro e si lamenta dicendo che c’è in giro tanta tecnologia e tanta tecnica ma mica è colpa di queste.

È come se ci fosse un diffuso sentimento di spavento che rientra nella sindrome della paura del futuro.

Una specie di intelligentia di struzzi che tengono la testa sotto la sabbia e stanno lì aspettando chissà che cosa.

… strano animale lo struzzo non trovi?

… Io con gli struzzi non ho mai avuto a che far personalmente però, descritti così, strani lo sembrano per davvero…

 

Riferimenti

Ecco alcuni riferimenti utili per partecipare a un incontro con Igor Sibaldi o acquistare un suo libro

? Eventi: fai clic  o anche qui I Maestri Invisibili

? Libri: fai clic

? Video: fai clic

 




La storia della bambola di sale

La storia della bambola di sale

C’era una volta una bambola di sale.

La bambola aveva un sogno: voleva vedere il mare.

Non c’era un giorno o un secondo che lei non pensasse al mare.

Non lo aveva mai visto, non sapeva come poteva essere fatto, però sapeva che doveva esserci e che lei voleva vederlo.

Tutti deridevano la bambola e il suo assurdo sogno.

Ma lei era sorda a critiche, biasimi e tentativi di scoraggiamento.

Fu così che un giorno prese una decisione e disse a tutti che sarebbe partita.

Salutò i genitori, gli amici e gli affetti.

“Ragiona” le dissero.

Ma lei aveva già ragionato.

E allora lasciò tutti e, sola, si mise in viaggio.

Camminò e viaggiò.

Affrontò notti buie e lunghi silenzi.

Ma lei voleva arrivare al mare.

Ad un certo punto si trovò davanti a una vastità di acqua e sentì di aver trovato quello che cercava.

Si avvicinò e una piccola onda le toccò il piede.

Fu un dolore mai provato.

In quel momento sentì un forte bruciore e si tirò indietro.

E capì.

Nonostante il dolore che la corrodeva, saltellò con l’unico piede nuovamente verso l’onda e di nuovo sentì il bruciore che la corrodeva ma non si fermò e andò avanti e si sciolse. 

Le gambe, il busto, le braccia, il collo e, prima di scomparire, mormorò: “io sono il mare”.


Dedicato a chi cerca il mare

che non sa come è fatto e, in un certo senso, non ha neppure la certezza che esiste, però ha il coraggio di separarsi dalle certezze e dalle sicurezze per cambiarsi in qualcosa di infinito.

 

Crediti

Storia ispirata a Il canto degli uccelli: frammenti di saggezza nelle grandi religioni di Antony De Mello

Biblioteche in cui trovi questo libro clicca qui

Storia clicca qui




L’amato maestro

Supera il maestro ma non odiarlo.

Ognuno di noi ha un maestro.

Qualcuno che lo ha guidato o portato fino a quel punto,

qualcuno da cui ha imparato e che lo ha reso diverso da ciò che era il giorno prima.

Il maestro cambia,

e questo è naturale.

Nella relazione tra maestro e allievo, la tensione del maestro deve essere orientata verso l’allievo: nel farlo crescere 

la tensione dell’allievo deve essere tutta orientata verso il maestro fino ad eguagliarlo al livello in cui esso è, fino anche a superarlo.

Se l’allievo non supera il maestro, il sistema impazzisce:

A) viene generato un allievo malato.

B) non si permette al maestro di crescere ancora nella sua scala personale.

Gurdjeff faceva un esempio molto chiaro.

Maestro e allievo stanno su una lunga scala dove la tensione comune è quella di andare verso l’alto.

Su questa scala affollata e movimentata, l’allievo si trova esattamente al gradino sottostante il suo maestro.

Non importa per quanto l’allievo sia rimasto sul suo gradino: egli non può avere allievi del suo stesso livello per semplice anzianità di servizio.

La scalata si fa solo prendendo il posto di un altro.

Chi vuole fare da maestro a chi sta sul suo stesso livello, perde tempo e ne vorrebbe far perdere al compagno.

Assurdo inoltre pensare di trovare un allievo del primo gradino che vuole come maestro quello del ventesimo.

Non può.

Gli mancano 18 gradini prima di riuscire a capire di che parla il suo maestro ideale.

E questo l’allievo, nella scelta cosciente del suo maestro, lo deve sapere.

Proprio per questo Gurdjeff diceva: “il più stolto degli uomini non vorrà che Gesù Cristo come maestro”.

Ma torniamo alla scala.

Su questa scala, 

Se il maestro vuole salire e prendere il posto del suo attuale maestro, dovrà lasciare il posto al suo attuale allievo.

Non c’è altro modo.

A ogni gradino guadagnato, il maestro può cambiare.

La scelta si applica sempre sul catalogo del gradino successivo.

E così per sempre.

 

L’immagine del superamento della figura guida, la troviamo sparsa qua e là in molti approcci:

– a scuola ci raccontano subito di come Giotto superò Cimabue;

– gli psicologi freudiani ci parlano dell’importanza di uccidere (simbolicamente) i genitori;

– certuni dicono “se incontri Buddha, uccidilo”;

– certi altri completano “se vedi Cristo, crocifiggilo”;

– persino il cavaliere di Atena Cristal ha dovuto uccidere il cavaliere d’oro Acquarius… (giusto per far vedere che conosco tanti campi ?)

– …

Insomma vale così

Questo è il ciclo e l’imperativo categorico dell’uomo spirituale: 

migliorarsi e far migliorare.

Questo è ciò che sappiamo.

 

Quello però che non è sempre chiaro o scontato è che al maestro, per quanto lo si uccida, superi, scavalchi… Si deve gratitudine.

Nella scala dell’ascesa spirituale il maestro che lasciamo farà la sua strada e noi faremo la nostra.

Ma se lui non lascia quel gradino per lasciarlo a noi, non c’è scampo.

Il guru che muore è il guru che si lascia uccidere.

E quella è l’ultima prova dell’allievo.

Chi uccide senza rancore, passa di livello.

Chi uccide e rinnega il maestro sputando su quanto imparato, si illude di salire ma in realtà resta indietro.

Salire un gradino non è diventare onniscienti (per quanto presi dallo stupore e dall’entusiasmo del nuovo ambiente e della nuova prospettiva, può sembrarlo) 

È solo aver fatto un passo in più.

Nel momento in cui ci si dimentica del cammino per guardare l’ambiente, si resta intrappolati di noi stessi.

Se questo avviene, se non andiamo avanti e non cediamo a nessuno il nostro posto, alle lunghe, senza accorgercene, ci accasceremo sul gradito e verremo calpestati.

Nutriamo lo spirito 

di qualunque cibo si tratti.




l’incomprensione

È così strano pensare di capirsi usando sempre le stesse parole.
Sopratutto se prima ci rifiutiamo di sintonizzarci sulle stesse frequenze… Come le radio.

Pensandoci, mi pare che (mutuando il lessico di Saussurre), con l’utilizzo della lingua,
il significante delle parole resti sempre lo stesso
mentre il suo significato non faccia che cambiare.

Chi può dare oggi una definizione di parole come
Amore
Politica
Famiglia
Dio
Fascismo
Comunismo
Ricchezza
Pace
Amicizia

E tutte quelle altre parole esposte alla normale usura da parte dell’uomo?

Una definizione fedele alla prima volta che sono state usate e all’utilizzo corrente.

Le parole cambiano significato e noi continuiamo ad usarle ciecamente

Quasi come si fa con la fiducia mal riposta.

Ci sono parole che vanno molto bene per parlare del passato
Un po’ meno bene per parlare del presente
Parole da inventare per parlare del futuro.




Yama e Yamii – una storia hindu

I nostri Dolori non sono Eterni

Yama e Yamii si amavano nell’eternità del creato.

Yama era il maschile e Yamii il femminile.

L’amore di Yama e Yamii era bellissimo.

La gioia di Yama e Yamii riempiva l’Universo e tutti godevano di tanta Grazia.

Ad un certo punto Yamii morì e Yama smise di essere felice.

Yama cominciò a piangere la morte della sua amata.

Pianse perché si sentiva solo,

Pianse perché Yamii non c’era più,

Pianse perché lui era rimasto vivo,

Pianse perché aveva perso ciò che lo completava,

Pianse perché sentiva un dolore fortissimo al cuore.

Yama pianse, pianse e pianse.

Pianse molto, pianse ininterrottamente.

Yama pianse talmente tanto che gli dèi si impietosirono e decisero che bisognava fare qualcosa.

Fu così che crearono il tempo.

Quel giorno arrivò la notte e dopo la notte arrivò di nuovo il giorno.

Al nuovo giorno gli Dèi cercarono Yama, lo trovarono e videro che non piangeva.

“Yama, non piangi più la morte di Yamii?” gli chiesero.

Yama li guardò e rispose: “è morta ieri”.

——-

Nel corso della nostra vita ci troviamo a ridere e a piangere.

I lutti della nostra anima sono le separazioni, i fallimenti, le morti…

È giusto e normale soffrire sui nostri dolori 

ma questi vanno ordinati.

Arriva il momento di entrare nel tempo, smettere di piangere e dire “è morta ieri”




Il brutto anatroccolo siamo noi

La Storia del brutto anatroccolo

C’era una volta un uovo.

Quest’uovo un giorno si schiuse e diede alla luce il più brutto anatroccolo che si fosse mai visto.

Sgraziato, deforme e dalla voce assordante.

Piano piano persino la mamma comincio a vergognarsi di quel figlio.

Così, disprezzato da tutti e con la profonda convinzione di essere sbagliato, andò via.

Non sapeva dove ma se ne andò.

Gli amici che incontrava per strada finivano per fargli del male.

Appena sentivano che era un anatroccolo, lo prendevano in giro per la sua bruttezza e deformità.

Più di una volta cercò di morire ma c’era sempre un imprevisto che lo salvava, e un po’ era forse anche per quel suo desiderio di vita anche se doloroso da affrontare.

Si chiedeva perché fosse così sbagliato mentre al mondo esistevano creature perfette.

Alcune le incrociava alle volte per caso: creature bellissime che nuotavano e volavano con una eleganza ipnotizzante.

Una volta scoprì che si chiamavano cigni.

La visione dei cigni, il contatto con la loro bellezza, creava un tuffo al cuore del brutto anatroccolo.

Sentiva il desiderio di voler appartenere a quella razza e il dolore di non sentirsi degno di avvicinarsi.

Tutte le volte che li incontrava volare sopra di lui, i cigni gli urlavano contro per la sua bruttura.

Ci vollero stagioni e dolori.

Un giorno il brutto anatroccolo, ormai cresciuto, mentre nuotava solo e triste, si imbatté per errore in un gruppo di cigni che facevano il bagno.

I primi sentimenti furono la mortificazione e l’imbarazzo e, il primo istinto, la fuga.

Ma prima che le emozioni arrivassero pienamente e facessero fuggire il brutto anatroccolo, i cigni tornarono a parlare.

E da vicino, questa volta, capí le loro parole.

Non erano urla di disprezzo ma saluti.

I cigni dissero all’anatroccolo confuso di specchiarsi e di riconoscersi

E fu allora che capí che per tutta la vita e attraverso tutti i dolori, non era stato un brutto anatroccolo ma un bellissimo cigno.


Dedicata a tutte le persone che soffriranno sempre finché non capiscono chi sono e dove stanno quelli della loro razza.

Dedicata a chi cerca il coraggio di dire “non sono quello che pensi”.

Dedicata a chi cerca la forza di confrontarsi col proprio specchio.

 

Crediti
Audio libro de Il Brutto Anatroccolo -> clicca qui




L’insidia delle arpie

A Salmidesso, in Tracia, c’era un re molto famoso.

Il suo nome era Fineo ed era conosciuto come un grande veggente.

Quando gli Déi vennero a sapere che Fineo rivelava tutti i loro piani, si arrabbiarono molto e Zeus lo punì mandandogli le Arpie affinché contaminassero con i loro escrementi il cibo che voleva mangiare.

Il povero Fineo era quindi destinato a morire di fame perché, ad ogni pasto, tutte le volte che stava per avvicinarsi ad un boccone, le Arpie glielo rubavano o, se non arrivavano, ci defecavano sopra.

Un giorno però a Salmidesso arrivarono Giasone e gli Argonauti.

Giasone aveva bisogno di una informazione che solo Fineo poteva dare e così, in cambio di questa informazione, gli Argonauti scacciarono le Arpie

———-

Facciamo attenzione però,

perché le Arpie non furono uccise ma scacciate

e così può capitare ogni tanto a qualcuno di noi di fare la fine Fineo.

Ci possono capitare di quelle volte in cui siamo talmente lungimiranti da vedere oltre quello che vedono tutti gli altri 

e, in quel momento, ecco arrivare le Arpie di turno a gettare escrementi sul nostro progetto.

Le Arpie sono quelle persone che ci dicono che non siamo buoni a nulla, che siamo degli incapaci, che non combineremo niente di buono.

Sono quelle persone che godono nel buttarci sterco addosso per sentirsi più simili a loro stesse.

Non hanno ragione, non sono logiche, ma gli escrementi che producono sono più concreti e puzzolenti delle nostre visioni

e tutta questa concretezza ci mette in crisi facendoci credere di non avere scampo,

facendoci credere che moriremo presto.

Che la morte spirituale è imminente.

Ma ci sono gli Argonauti.

Ci sono comunque le persone che credono in noi,

e se non ci sono fisicamente, dobbiamo trovarli dentro di noi: cacciare le Arpie e mantenere il nostro dono della veggenza divina.

Le Arpie vanno allontanate da tutte le nostre tavole apparecchiate perché sono il frutto dell’invidia suscitata dall’eccesso di verità.




Grazie Ciro

“Penso che Ciro ci abbia dato un altro dei suoi grandi insegnamenti su un tema sul quale stiamo riflettendo in questi giorni.

Non è la morte che trovi ma la vita che fai.

Ciro poteva benissimo rimanere in casa come Tigro.
Poteva addirittura essere un gatto buono e mansueto e restare nella sua prima casa
Ma lui era uno spirito libero e irrequieto

Lui aveva fame di tutto come dovremmo averne noi
Lui pretendeva, recriminava e otteneva, come dovremmo fare noi
Lui non aveva paura di nulla, come dovremmo fare noi

Se è morto, è stato un accidente della vita che ha vissuto al meglio e non dobbiamo avere sensi di colpa o rimorsi
Noi siamo stati un incontro nella sua vita che lui ha vissuto come ha voluto
Adesso forse è in viaggio verso un’altra vita e rinascerà Napoleone
Forse tornerà da noi ma non siamo i suoi padroni”

Questo messaggio l’ho inviato a Fulvio una sera che pensavamo che Ciro fosse stato investito.

Poi, il giorno dopo, abbiamo verificato che non era lui il gatto investito

Ad oggi pensiamo che abbia trovato un’altra casa

La riflessione su un gatto che ha dato tanto spunti, resta.

Senza Ciro e senza la possibilità di raccontare le sue avventure, sarò una persona meno interessante.




Cadere dalla bici

Sono caduta con la bici (ormai qualche anno fa)

Non mi sono fatta niente.

Stavo cercando di superare il traffico salendo sul marciapiede.

Non ce l’ho fatta.

Sono scivolata lunga sull’asfalto.

Uno scooter mi ha raggiunta per aiutarmi e il pullman di turisti che stavo cercando di superare ha aperto le porte per vedere come stessi.

Mi sono rialzata immediatamente.
Addirittura una turista dal pullman panoramico mi ha guardata applaudendo e ha detto “quanto è bella, brava”
(mistero).

Lo scooterista, accerttato che mi fossi rialzata, voleva andare via
Ma io l’ho fermato e gli ho fatto raddrizzare la bici che si era un po’ storta.

Poi voleva ancora andare

E io gli ho detto:
“no stai fermo qui che io faccio un giro in bici per vedere se è tutto a posto”.

Era tutto a posto.

Ad un certo punto, probabilmente vedendo che ero molto tranquilla e lucida, lo scooterista mi ha detto:

“meno male che non passava nessuno, se no sai che brutta figura?”

E io:

“brutta figura?!
Ma io sono in mito: sono caduta e non mi sono fatta niente.
Quale brutta figura?”

L’ho ringraziato per l’aiuto e sono andata via.

———————
Cosa ho imparato – morale circolare.

– Se metti in conto di poter cadere, alzarti è molto più facile
(ovviamente è simbolico e vale solo se non ti fratturi)

– Se sai di avere bisogno di aiuto, devi sapere esattamente di cosa hai bisogno perché è probabile che trovi gente disposta ad aiutarti ma che non sappia cosa fare.

– se una caduta agli altri può sembrare vergognosa, fregatene perché in realtà tu che ti rialzi sei un mito.

– se non sai salire sui marciapiedi, è possibile che tu cada

– ricomincia dalla prima




Il perdono di Giuda

Quando Giuda contò i suoi trenta denari e capì che né quelli né mille volte quelli potevano comprare quello che cercava, si sentì perso.

Giuda aveva fatto il più grande sbaglio della sua vita,

aveva preso tutto quello per cui aveva vissuto e lo aveva venduto 

e quel che era peggio, era che in mano si trovava delle monete senza valore,

delle monete che non erano buone neppure per essere donate ai poveri perché erano macchiate dell’errore.

Agli occhi di Giuda e di chi lo giudicava, nulla di quello che aveva fatto, era buono o poteva diventarlo.

Giuda aveva fatto una azione per distinguersi e si è trovato con nulla in mano e una infinità di sensi di colpa.

A me Giuda fa pena.

Giuda siamo noi quando sbagliamo,

quando facciamo gli errori grandi,

quelli veramente grandi.

Giuda siamo noi quando facciamo del male e compiamo una di quelle azioni che cambiano tutto, 

una di quelle azioni dopo le quali nulla sarà più come prima.

Giuda siamo noi quando quella azione è una azione che fa del male.

Giuda siamo noi quando agiamo male.

Giuda però, DOVEVA farlo.

A pensarci bene, senza Giuda gli uomini non avrebbero trovato salvezza.

Se Giuda non avesse tradito, Gesù non sarebbe diventato Cristo.

Il tradimento di Giuda era una tappa obbligatoria per la salvezza del mondo.

E allora dov’è il peccato di Giuda?

Il peccato di Giuda è sempre lo stesso.

L’unico e solo peccato riconosciuto ufficialmente come tale dal Concilio Vaticano II ad oggi (giuro: l’unico).

Il peccato di Giuda è stato non accettare l’amore di Dio, 

non accettare il perdono di Dio.

Giuda è stato talmente tanto male da non credere di meritare il perdono,

perché l’aveva fatta davvero grossa,

perché tutti ce l’avevano con lui,

perché lui stesso, per primo, si vergognava.

Si vergognava talmente tanto da non riuscire a pentirsi 

e, così, non riuscendo a perdonarsi, si è condannato.

Dio, da contratto, lo avrebbe perdonato ma lui non ha perdonato sé stesso.

E fu così che Giuda si allontanò, scelse un albero e si impiccò

e morì strozzato dai suoi sensi di colpa.

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Noi lo facciamo di continuo.

Sbagliamo,

non ci perdoniamo,

e facciamo una serie sistematica di piccoli gesti che, negli anni, ci portano alla morte.

Pensiamo di non meritare amore e scegliamo persone che non ci amano,

pensiamo di non meritare dignità e intraprendiamo strade che ci mortificano,

pensiamo di non meritare successo e intraprendiamo strade che ci portano al baratro.

Lo vediamo ogni giorno nelle persone che soffrono senza perdonarsi,

in chi ha scelto di vivere per strada perché fugge da una sua vecchia vita,

in chi non vuole chiarire un malinteso perché non crede di meritare perdono.

I primi che devono perdonare i propri errori siamo noi stessi,

Giuda non doveva morire.