“Oltre il muro, la fantasia” con Pillino Donati

Gesù come trait d’union fra l’Uomo e il suo Creatore.

Metti una sera a Locarno…

Mercoledì 7 agosto 2024. Locarno è pronta a inaugurare la 77ma Edizione del suo Film Festival, così come lo sono le autorità, i giornalisti, gli attori, i cinefili e i curiosi.

Le vie del centro storico indossano i colori dell’Evento: il giallo e il nero.

In concomitanza con l’Evento, in via alla Motta al civico 10, si accendono le luci di un’amena location ricavata nel seminterrato di un antico edificio: è un centro culturale che, in omaggio alla Città che gli fa da scrigno, prende il nome di “Vecchia Locarno”.

Tutto è Bellezza qui e nulla è lasciato al capriccio del caso: dai tappeti orientali alle luci, l’ambiente sembra modellarsi attorno alle opere d’arte che ospita.

Oggi è il giorno in cui apre i battenti ed è qui che incontro, oltre ad amici di vecchia data, “Pillino” Donati che espone, per l’occasione, alcune delle opere più significative del suo percorso artistico. 

Pillino

Camicia rossa a manica corta, pantalone bianco, accessori in tinta con la camicia. Impossibile non notare la ricercatezza degli accostamenti cromatici. 

“Si veste sempre così, in tinta” dice Maria Grazia, la sua bella e sorridente signora. 

“È attentissimo agli abbinamenti. Sceglie un colore e lo indossa, dalla testa ai piedi.” Pillino ci scherza un po’ su e si lamenta di un maglione inavvertitamente messo in lavatrice e infeltrito. 

“Come o quando non importa, ma quest’intervista s’ha da fare.” Penso, mentre l’Artista gira  il locale illustrando ai visitatori i suoi pezzi d’arte in tre dimensioni.

Gli esordi

Nato a Camogli nel 1948, Pillino esordisce nel 1961 con un’esposizione legata alle celebrazioni dell’Unità d’Italia. 

Dalla fine degli anni settanta, di ritorno dal suo lungo soggiorno parigino nel quartiere di Montmartre, allestisce mostre personali in varie città della sua Liguria. 

Per venticinque anni dipinge paesaggi marini e ombrelloni colorati, ma questo è solo l’inizio di un percorso di ricerca che lo porterà dal mare, al muro.

Ma andiamo per gradi.

I Mentori

Come in ogni Arte che si rispetti, Pillino prende ispirazione dai grandi: Fontana per la tridimensionalità, Burri per la pittura materica, Rotella per il manifesto. 

“Per arrivare a un terreno incolto, bisogna imboccare un sentiero che attraverserà terreni altrui. È comunque l’unico modo per addentrarsi in un qualche cosa che puoi considerare anche tuo.” Dice.

Eppure, pur calcandone le orme, Pillino si distingue dai suoi Maestri per concettualità, ed è già pronto a volare con le proprie ali. 

Oltre il muro, la musica.

Il muro

Pillino proviene da un’esperienza politica piuttosto impegnativa, ribellandosi a ogni forma di corruzione. Un giorno, dopo aver strappato tutte le sue tessere di appartenenza, decide di scrivere sui muri i suoi messaggi di protesta. 

Ma… Anziché dipingere sui muri delle strade, inizia a comporre dei quadri con muri artificiali.

Il muro come pagina di memoria

“Dalle grotte dell’uomo preistorico in avanti, tutto quello che noi conosciamo della nostra storia ci è stato trasmesso attraverso i muri. Il muro è la spugna della memoria della vita dell’uomo. Se non ci fossero stati i muri, noi non avremmo conosciuto nulla del nostro passato. Inoltre, l’uomo ha sempre voluto affidare la memoria delle proprie imprese al muro. Uno degli esempi più eclatanti sono i geroglifici degli antichi egizi, dove tutti i fatti storici venivano rappresentati sui muri. Quando qualcuno compiva un atto malsano e veniva allontanato o ucciso, non c’era peggior disonore che cancellare gli scritti dal muro a suo riguardo, come a cancellarne per sempre l’esistenza. Le targhe poste sui muri in onore delle persone alle quali sono dedicate, hanno la stessa funzione: affidare al muro la memoria della persona cui la targa appesa si riferisce.” Spiega Pillino ai visitatori di una delle sue personali, tenutasi a Castel Dragone, Camogli. 

Il muro delle contraddizioni

L’Artista prosegue: “Il muro parla, molte volte urla in maniera drammatica. Bisogna saperlo leggere e vedere. Nel muro ci sono tutte le contraddizioni dell’Uomo di oggi. Il muro protegge, ma può anche limitare la libertà. C’è un muro che ti impedisce di vedere, ma proprio perché ti impedisce di vedere diventa quella famosa siepe di leopardiana memoria che ti fa andare oltre con la fantasia, facendoti passare dall’immanente al trascendente.”

Il muro come specchio dell’anima

“Si può dipingere non solo quello che si vede, ma anche quello che si sente. Ed ecco che ciascuno può catturare, dell’opera d’arte, ciò che più risuona con il proprio animo.” 

 

Pillino Donati 2015
La locandina di Art Expo New York City 2015

All’improvviso, la spaccatura…

Dal muro, durevole memoria delle gesta dell’Uomo, alla spaccatura: elemento tridimensionale infinito che rompe il muro fittizio del quadro di Pillino per creare un collegamento con il muro reale retrostante al quadro, offrendo alla mente umana mutevoli possibilità di lettura dell’opera pittorica. 

Ed è proprio questa la differenza fra Pillino e Fontana: l’opera di Pillino cambia al mutare del muro reale sul quale viene sovrapposta. 

Di questo essenziale, caratteristico elemento, l’Artista dice: 

“Prima della spaccatura ho lavorato sempre sul muro come pagina della memoria. Poi è arrivata la spaccatura che, nei miei primi quadri, era aperta e lasciava intravedere il muro sottostante. Era interessante far entrare il muro vero nell’opera, che da statica diveniva dinamica, cambiando la sua cromia a seconda del muro sul quale veniva di volta in volta appoggiata. La spaccatura è stata un pretesto per inserire la fantasia. La memoria infatti, essendo una cosa che finisce a oggi, limitava le mie argomentazioni pittoriche nel riprodurre sempre le stesse cose. Con la fantasia invece, elemento di ispirazione illimitato, puoi andare dove vuoi. A un certo punto quindi il muro, attraverso la spaccatura, è diventato un sipario sulla fantasia. Le persone, poi, tendono a riempire quella frattura con la propria immaginazione. Ed ecco che l’opera diventa molto più coinvolgente e interattiva. Nella spaccatura, poi, ho inserito delle immagini prese da manifesti che hanno già vissuto la loro esperienza uomo – muro. In questo modo, le immagini vengono immerse in un’altra contestualità artistica. Poi ho chiuso la spaccatura inserendo nel retro un altro fondo, e questo mi ha permesso di approfondire ulteriormente la mia ricerca.” 

J: Giuseppe Donati, in arte “Pillino”. Inizialmente era Pilino. Come nasce il tuo nome d’arte e quando si è aggiunta la “l” in più?

P: Pillino è nato con me. Quando sono nato, avevo un fratello che cominciava a parlare e anziché dire “fratellino” diceva “pillino”. E così mi hanno sempre chiamato Pillino. Quando sono andato a Parigi, nel 1970, mi chiamavano “pilinó” e con questo soprannome ho firmato alcuni dei miei primi quadri. In seguito avrei firmato i miei quadri “Pilino”, senza accento finale sulla “o”, fino al 2000. Nel 2000 ho aggiunto la seconda “l”. Questo perché io dipingo per periodi, e non metto mai le date sui quadri che faccio. Però ho voluto inserire nelle mie opere degli elementi che possano stabilire il periodo in cui sono state realizzate. Quindi, i quadri firmati “Pilino” sono antecedenti al 2000. Quelli firmati “Pillino” sono posteriori al 2000. 

J: A che età hai cominciato a dipingere e come ti è venuta l’idea di dedicarti a quest’arte per tutta la vita?

P: In realtà ho sempre dipinto. Ho dei ricordi legati alla pittura che molto probabilmente risalgono a quando avevo due anni, due anni e mezzo. Ricordo che mia madre mi dava ancora la manina, io non ero ancora autosufficiente a camminare… Ed era facile imbattersi, a Camogli, in pittori all’opera en plein air. Quando vedevo un pittore che dipingeva, volevo restare accanto a lui e non me ne sarei mai più andato. Mia madre era costretta a portarmi via tra strilli e pianti, perché non voleva che disturbassi. Ti parlo di pittori come Raimondi, pittori scomparsi ormai da decenni… Raimondi era un grande acquerellista. Ricordo Romolo Pergola, con i suoi gessetti… E altri come loro, passati alla storia come pittori molto importanti. 

Nonostante abbia iniziato prestissimo, non ho mai pensato che la pittura potesse diventare un lavoro. Era il mio grande hobby. Quando partivo per le ferie, portavo con me il cavalletto, le tele e i colori.

A un certo punto ho cominciato a fare delle mostre via via sempre più importanti, e la passione per la pittura ha prevalso sul lavoro che svolgevo in ambito finanziario, che mi dava un reddito elevatissimo. Avevo un lavoro splendido, penso che nessuno al posto mio avrebbe avuto il coraggio di abbandonare. Io l’ho fatto per amore della pittura. Oggi sono contento, comunque, di aver fatto questa scelta. Potendo dedicarmi totalmente alla mia arte, mi si sono aperti degli orizzonti… Non sarebbe stato lo stesso, se avessi relegato la pittura al tempo libero, nei fine settimana.

J: Che impronta hanno lasciato in te, mentori come Burri e Fontana? 

P: Burri e Fontana li ho acquisiti naturalmente. Burri ha elevato la materia alla nobiltà dell’arte. E io ho elevato il muro, che è la materia per eccellenza, a questa nobiltà. Fontana, con i suoi tagli, la tridimensionalità e i suoi concetti spaziali, mi ha consentito di andare oltre con la spaccatura, che è un superamento del concetto di Fontana. In effetti quando mi sono trovato, più di una volta, davanti alle opere di Fontana e di Burri in particolare, ho sempre provato delle emozioni fortissime che nessun altro pittore mi ha mai dato. C’è stato questo legame inconsapevole, che ci ha unito. Sai, io penso che un Artista sia un pessimo critico. L’artista vede e apprezza particolarmente le opere degli Artisti che sente a lui vicini, e molto probabilmente non è in grado di valutare con altrettanta obiettività opere d’arte che risultano essere un po’ lontane dal proprio pensiero filosofico e artistico.

J: Nella tua arte, la pittura, i colori sono come le parole per un poeta e le note per un musicista. Esiste, per Pillino artista e uomo, un rapporto fra i colori, le parole e le note?

P: Certo che c’è un rapporto fra colori, parole e note. Per noi che siamo credenti poi, sono cose che elevano il nostro spirito e ci uniscono, proiettandoci verso la dimensione spirituale del Signore. Devo dire che riconosco nella parola e nella nota musicale quell’eternità che non ha il colore. Perché la parola e la nota musicale rimangono inalterate per sempre. La parola è sufficiente che uno prenda il libro e lo legga, e la musica, basta suonarla e ascoltarla, è sempre quella. Mentre invece il quadro col tempo ahimè è destinato a deteriorarsi, non c’è niente da fare… Vediamo come le grandi opere dei grandi maestri sono soggette a continui restauri. Ovviamente questo fa sì che un quadro anche importante restaurato oggi, restaurato domani… Col tempo del lavoro primitivo rimane l’idea… La pennellata che ha fatto Michelangelo nella Cappella Sistina piano piano col tempo non c’è più. Su quelle pennellate si saranno sovrapposte tutte le pennellate dei restauratori che nel tempo avranno agito su quell’opera. Comunque certamente il colore è un elemento importantissimo nella mia pittura, specialmente negli ultimi quadri che sono diventati monocromatici. Qui il colore serve a mettere in risalto la spaccatura, che diventa l’essenza di tutto ciò che il muro rappresenta. 

J: Sarebbe bello vederti esporre in sinergia con poeti e musicisti in un’unica installazione. Ti è mai stata proposta la realizzazione di un’installazione dedicata a queste tre arti armonizzate tra loro su uno specifico argomento? Ti piacerebbe partecipare a un progetto di questo tipo?

P: È un’esperienza che ho già fatto verso la fine degli Anni Ottanta. Ho partecipato per parecchi anni a una manifestazione che si chiamava “Percorsi”, che vedeva l’interazione di diversi artisti, operare negli stessi spazi. Io allora facevo delle installazioni in spazi che sceglievo, e poi questi spazi venivano occupati da altri artisti con altri tipi di performance, come ad esempio la danza. È stata una delle manifestazioni più interessanti alle quali abbia mai partecipato. Era davvero molto emozionante. “Percorsi” è stata ripetuta con successo in varie città d’Italia, arrivando a coinvolgere più di cinquecento artisti a livello nazionale. È interessante vedere l’interazione di più artisti. 

Tanti anni fa ho realizzato dei quadri su Abdulah Sidran (scrittore, poeta e sceneggiatore bosniaco scomparso lo scorso 23 marzo 2024 ndr), considerato il grande poeta di Sarajevo. Sidran ha scritto un libro di poesie meraviglioso, tradotto in Italiano da Silvio Ferrari. Ne ho inserite alcune nei miei quadri, che poi sono stati esposti a Portofino in varie occasioni. In una di queste ha presenziato il Poeta, che ho avuto il piacere e l’onore di conoscere personalmente. Mi ha detto: “Vedi Pillino. Le parole riempiono il vuoto che separa le persone, ma non le uniscono.”

Quando gli artisti si incontrano, nascono grandi cose. E questa credo sia una grandissima verità.

J: Di tutti i temi che hai affrontato nel tuo percorso artistico e che hanno contraddistinto i tuoi “periodi”, ce n’è uno che ti sta particolarmente a cuore?

P: Di argomenti che mi stanno a cuore ce ne sono tanti. Ovviamente io mi esprimo attraverso la pittura… Il lavoro che sto portando avanti tuttora è quello della Parola del Signore. I miei quadri tentano di spiegare come la fede possa modificare l’arte, il pensiero, la vita di una persona. È indubbio che la fede abbia costituito un punto di svolta importantissimo nel mio lavoro, dandomi anche obiettivi diversi. Se prima infatti correvo dietro al successo a ogni costo, adesso il successo per me è già poter fare quello che sto facendo. Se poi sarà riconosciuto e quando, non è una cosa che mi preoccupa più di tanto. 

J: Ti consideri un Artista di successo? 

P: Penso che non siano molti gli artisti che hanno avuto occasione di fare mostre come ho fatto io, spaziando da Hong Kong a New York, da Parigi a Roma, da Milano al Sudafrica. Sono stato un po’ in tutto il mondo. Uno dei miei quadri è in un museo a Bruxelles, altri sono esposti in musei in Sudafrica, così come quello che ho fatto in occasione della liberazione di Nelson Mandela.

Devo dire che nella mia carriera artistica ho avuto notevoli riscontri rispetto al valore del mio lavoro. Ora si tratta di riuscire a entrare nel circuito commerciale che conta… E questo è l’aspetto più difficile, perché tocca l’aspetto speculativo dell’arte, un aspetto che non mi interessa molto. Ed è anche il motivo per il quale solitamente  gli artisti diventano importanti quando muoiono. Quelle gallerie che oggi non fanno proposte a determinati artisti, perché non hanno degli specifici interessi economici a farli crescere, un domani, quando muore un artista, vanno sul mercato e cercano di appropriarsi del maggior numero possibile delle sue opere, così da determinarne anche il valore. Ed ecco che l’artista cresce. 

J: Cosa fa di un’opera una vera opera d’arte, secondo te? 

P: Non esiste nessun critico, nessun giudice che possa stabilire che un’opera è un’opera d’arte. È il tempo, l’unica critica. Il tempo è l’unico vero giudice del lavoro di un artista. Perché quando l’artista sarà morto, quando saranno passati cinquant’anni dalla sua morte, se le opere di quell’artista diranno ancora qualcosa, vorrà dire che sono delle opere d’arte. 

Ho visto le opere di artisti considerati importanti in vita, sparire alla loro morte. Le importazioni dei loro quadri cadere in picchiata. L’importante, per me, è provare la gioia e il piacere di fare quello che faccio. Di questo io sono abbondantemente appagato. 

J: In che modo la tua fede si riflette sulle tue opere d’arte?

P: I quadri che io faccio con la Parola del Signore sono quadri che a mio giudizio rispettano perfettamente la Sua volontà. Non ci sono immagini, non ci sono statue nei miei lavori. I miei quadri mettono in risalto il concetto della Parola. I concetti di quello che il Signore ci ha insegnato. In molti dei miei quadri, addirittura, ci sono i versetti della Bibbia. È quello che conta. Rispettare e fare la volontà del Signore. 

 J: “… Come la nube sospinta dal vento s’avvolge e nera s’addensa e finalmente libera la pioggia a dissetare l’arsa terra, così Mandela libero disseta chi di speranza vive”.  Sei tu l’Autore di questa bellissima poesia, trascritta nell’opera che oggi fa parte di una collezione privata in Sudafrica?

Opera dedicata a Nelson Mandela, in occasione della sua liberazione

P: Sì, sono io che ho scritto questa poesia, in occasione della liberazione di Mandela nel febbraio del 1990. Questo quadro è stato consegnato a Genova, in occasione della visita dell’ambasciatrice del Sudafrica, la Signora Nomatemba Tambo, figlia maggiore di Olivier Tambo, compagno di università e di battaglie politiche di Nelson Mandela. È stato emozionante, perché quando ho consegnato il quadro ho tenuto un discorso e condiviso la mia fede nel Signore. L’ambasciatrice si è commossa alle lacrime, è scesa dal posto dove era seduta ed è venuta ad abbracciarmi. È stata un’esperienza commovente e bellissima. E pensare che non avevo preparato nessun tipo di discorso! Avevo solo chiesto al Signore di darmi le parole giuste. In effetti, le parole che mi ha dato hanno sortito l’effetto che Lui voleva.  

J: Grazie per la nostra chiacchierata, Pillino.

P: Grazie a te, a tutti voi!

L’Artista Pillino Donati posa davanti a una sua opera




L’arte di parlare in pubblico: Consigli per un’oratoria efficace

Parlare in pubblico è una delle abilità più ricercate e, per molti, anche tra le più temute.

Ma come ogni arte, anche l’oratoria può essere affinata e perfezionata con pratica e dedizione.

Occorre rispettare alcuni principi base sui quali non si deve derogare; ve ne diamo un breve assaggio.

 

Conosci il tuo pubblico

Prima di qualsiasi discorso o presentazione, è fondamentale comprendere a chi stai parlando. Quali sono le loro aspettative? Cosa sanno già sull’argomento? Questa comprensione ti aiuterà a calibrare il tuo messaggio in modo efficace.

 

Organizza il tuo contenuto

Struttura il tuo discorso o presentazione in modo logico e sequenziale. Una struttura chiara aiuterà il tuo pubblico a seguire il flusso delle tue idee. Inizia con un’introduzione accattivante, segui con il corpo centrale e concludi con una chiusura memorabile.

 

Pratica, pratica, pratica

La preparazione è la chiave. Anche i più grandi oratori praticano regolarmente. Esercitati a voce alta, davanti a uno specchio, o meglio ancora, di fronte a un piccolo gruppo di amici o colleghi che possono darti feedback costruttivi.

 

Gestisci l’ansia

È normale sentirsi nervosi prima di parlare in pubblico. Respira profondamente, focalizzati sul messaggio e non su te stesso. Ricorda, il tuo obiettivo è condividere informazioni, non ottenere approvazione personale.

 

Utilizza il linguaggio del corpo

Il tuo linguaggio corporeo comunica tanto quanto le tue parole. Mantieni un contatto visivo con il tuo pubblico, usa gesti naturali e evita abitudini distrattive come giocare con i capelli o toccarsi il viso.

 

Coinvolgi il tuo pubblico

Pone domande retoriche, racconta aneddoti o storie pertinenti, o usa altre tecniche per coinvolgere attivamente il tuo pubblico e mantenere la loro attenzione.

 

Migliora la tua vocalità

La chiarezza della voce, la variazione del tono e il ritmo sono elementi chiave. Evita di parlare troppo velocemente e fa attenzione a non cadere in un tono monotono.

 

Sii autentico

Il pubblico apprezza l’autenticità. Non cercare di imitare qualcun altro o di essere una versione idealizzata di te stesso. Mostra passione per l’argomento e credi in ciò che stai dicendo.

 

Preparati per le domande

Anticipa le possibili domande e prepara le risposte. Questo ti darà maggiore sicurezza durante la sessione di domande e risposte.

 

Rifletti e impara

Dopo ogni discorso o presentazione, rifletti su ciò che ha funzionato e su ciò che potresti migliorare. Considera ogni opportunità di parlare in pubblico come un passo verso la maestria nell’arte dell’oratoria.

 

In conclusione, parlare in pubblico è una competenza che richiede pratica, preparazione e autorevolezza.

Ma con dedizione e passione, chiunque può diventare un oratore efficace e ispirare il suo pubblico.




Anno nuovo, problemi vecchi, soluzioni nuove?

Ripartono gli incontri di Diritto Scolastico.

Chiara Sparacio intervisterà gli avvocati Maurizio Danza del foro di Roma e Andrea Caristi del foro di Messina e affronterà con le problematiche del diritto scolastico.

Nella prima puntata si parlerà dello stato dell’arte del riconoscimento in Italia delle abilitazioni all’insegnamento conseguito all’estero.

Al di là delle simpatie e antipatie personali, cosa dice la legge? Come agisce il Ministero?

Diritto Scolastico è una trasmissione di informazione che vuole essere una bussola super partes in grado di sostenere docenti, dirigenti e tutto il personale scolastico che desidera conoscere e far valere i propri diritti.

 

Chiara Sparacio chiede agli avvocati Andrea Caristi e Maurizio Danza quali sono i diritti e i doveri di chi lavora nel mondo della scuola

Segui la puntata di oggi

Abilitazioni all'estero stato dell'Arte
Abilitazioni all’estero stato dell’Arte

Siamo in Europa ma il MIUR non è d’accordo

Messina contro Google, la disfatta del colosso americano.




Ignoto Militi: tra storia e simbolismo

Ignoti militi.

Due parole che creano un’aurea attorno a un figura – un mito – che si articola attraverso cent’anni di storia e di celebrazioni che attraversano tutte e tre le fasi dell’Italia unitaria: l’Italia liberale, l’Italia fascista e l’Italia repubblicana.

La storia del milite ignoto inizia nel giugno del 1921, quando si decise di scegliere una salma che rappresentasse tutti i soldati italiani morti, e non indentificati, durante la guerra appena conclusa.

La proposta si tramutò in legge in breve tempo – seppure ci furono delle contestazioni da parte dei socialisti – che portò alla programmazione della scelta della salma fino al traposto di essa all’altare della patria, in vista del 4 novembre, giornata della vittoria italiana sull’esercito austriaco.

Ad Aquileia, la salma venne scelta tra undici soldati italiani non indentificati da una madre – Maria Bergamas – la quale rappresentava tutte le madri italiane che non avevano una tomba dei propri figli su cui piangere.

Dopo un lungo viaggio, costellato da tutta una serie di tappe in diverse città italiane, con relative cerimonie in omaggio alla salma scelta, il milite ignoto arrivò il 2 novembre alla stazione termini di Roma, dove fu accolto in pompa magna da tutte le cariche dello stato, inclusa la famiglia reale, e una rappresentanza di tutti coloro che presero parte al primo conflitto bellico.

Milite ignoto - vignetta satirica

Due giorni dopo – il 4 novembre – la salma del milite fu portata al Vittoriale, monumento inaugurato dieci anni prima, dove dopo una solenne cerimonia il corpo fu tumulato sotto la statua della dea romana – la quale raffigura la personificazione dello stato romano – dove tutt’ora riposa oggi.

Da quel momento il milite ignoto divenne una figura centrale per la pedagogia e commemorazione nazionale; tematiche che vengono raccolte e fatte proprie nell’immediato da parte del regime fascista: nel 1924 il ministro dell’istruzione Giovanni Gentile impose l’obbligo della celebrazione del milite ignoto, sostenendo che: «contribuirebbe ad ispirare negli allievi vivo amore e profonda devozione alla Patria».

Il fascismo non si limitò a usare le due figure – il Vittoriale e il milite ignoto – come figure legate solo a una forma di pedagogia patriottica in ambito scolastico, ma venne usato in una prospettiva più ampia: come “palcoscenico” in un’ottica di manifestazione nazionali – politica introdotta dalla propaganda di regime.

Il fascismo cercò di valorizzare un sentimento patriottico e di “martirio per la patria” attraverso la figura del milite ignoto, attraverso l’uso – come già accennato – di eventi all’altare della patria, l’uso di immagini e video dove ritraevano parate o momenti di commemorazione che si svolgevano al Vittoriale – mostrando sempre in qualche scena il milite ignoto.

A causa dell’uso propagandistico da parte del fascismo dell’altare della patria, di conseguenza anche del milite ignoto, iniziò una lenta decadenza, seppur le celebrazioni da parte delle autorità politiche e militari continuarono per lungo tempo – si voleva tenere in vita il vero valore che quei due luoghi trasmettevano.

Nonostante questo sforzo, l’opinione pubblica si dimostrava contrariata all’uso commemorativo: il ricordo delle folle oceaniche delle manifestazioni fasciste erano ancora vivo nelle mente degli italiani e il sentimento nazionalistico nutrito nel ventennio era del tutto sparito arrivando provare sentimenti di disprezzo.

Questo comporto un oblio verso i veri valori e i caratteri celebrativi che si erano attribuiti al milite ignoto, per questa ragione le celebrazioni erano sempre meno partecipate; tant’è che dopo l’attentato che il Vittoriale ebbe a subire il 12 dicembre del 1969, il luogo venne definitamente chiuso al pubblico per trent’anni, raggiungendo l’oblio da parte degli italiani.

Altra della patria

Con la nomina alla presidenza della repubblica da parte di Carlo Azeglio Ciampi ci fu un recupero dei simbolismi nazionali, che ormai erano completamenti spariti dai cuori degli italiani, cercando di “ricreare” delle commemorazioni che potessero far rivivere quei sentimenti di appartenenza che erano presenti in altri paesi – come ad esempio in Francia.

Da questo desiderio si ripresero tutte quelle festività nazionali – come il 4 novembre – o celebrazioni che potessero ricreare questi sentimenti; tra questi vi era anche la resa omaggio del milite ignoto.

Seppur questa visione di recupero dei sentimenti nazionali è stata a lungo messa in discussione, quasi ostacolata, da molte forze politiche – soprattutto di matrice secessionistica che hanno cercato di rimarcare la non necessità di ripercorrere questa forma di pedagogia nazionale.

Nonostante ciò, un effimero recupero di questi sentimenti fu fatto e nel corso degli anni 10 del nuovo millennio ci furono diverse commemorazioni in cui si vide protagonisti diversi simboli, tra cui il milite ignoto – in sinergia con altare dalla patria.

Un esempio lo possiamo trovare nella commemorazione che si tenne nel 2011 – alla presenza di una folla festosa – all’altare della patria, dove si vide l’effettivo recupero dei valori originari del 1921: il sentiero di identificazione nazionale verso un luogo e una figura.

Il recupero della celebrazione al milite ignoto ha comportato di conseguenza il ripristino di tutta una serie di elementi, che per le ragioni che abbiamo già trattato poco fa, furono del tutto dimenticati. La resa omaggio al milite ignoto si individua tre date chiave: il 25 aprile, il 2 giugno e il 4 novembre – in forma eccezionale il 17 marzo 2011.

La cerimonia prevede di rendere omaggio al milite ignoto appoggiando sulla tomba una corona d’alloro da parte del capo di stato – in questo caso il presidente della repubblica – “affiancato” da tutte le alte cariche dello stato (il presidente del consiglio, il presidente del senato, il presidente della camera e il presidente della Corte costituzionale) e da una rappresentanza dei corpi militari assieme alle relative alte cariche militari.

il presidente Mattarella rende omaggio al milite ignoto

Rispetto alla prima fase della storia del milite ignoto, dove esso rappresentava il sacrifico dei soldati italiani morti durante la prima guerra mondiali, ora la salma del soldato non indentificato rappresentata tutti soldati italiani che sono morti per conto dell’Italia.

In conclusione, si può affermare con certezza che il milite ignoto ha lasciato alle sue spalle il proprio oblio che aveva attraversato nel secondo dopo guerra, riportando un interesse sempre maggiore da parte degli italiani; seppure non raggiungendo lo stesso livello di sentimento patriottico che possiamo trovare in altri paesi, ma un parziale recupero di ciò è stato portato a termine.

Nozza Giorgio.




Scusaci piccola K. – la studentessa di II media si è tolta la vita

Il bullismo uccide.

La solitudine uccide.

La mancanza del sostegno, di supporto, di comprensione, uccide.

Quando un solo membro della comunità cede, l’intera società accusa il colpo del fallimento.

A volte pensiamo sia inutile dedicare tanto spazio all’informazione se poi al momento di agire nessuno fa niente.

Altre volte si cerca di fare il possibile ma alla fine la vittima non trova la forza di andare avanti.

Oggi in redazione abbiamo ricevuto una notizia terribile: la piccola K. , studentessa  dell’Istituto Laparelli di Roma si è tolta la vita nella solitudine della sua cameretta.

La nostra redazione aveva conosciuto la narrazione della sua storia nel corso delle ricerche sulle segnalazioni che avevamo ricevuto e che hanno portato poi alla pubblicazione di alcuni articoli sulla scuola.

Ci uniamo al dolore della madre e della famiglia e piangiamo con voi tutte le ingiustizie subite.

Scusaci PICCOLA K., avremmo dovuto combattere di più, ma ti promettiamo che in tuo nome andremo fino in fondo per verificare perché sei stata lasciata da sola.

Betapress non si fermerà, in nome della piccola K.

 

 

per tutti i nostri lettori consigliamo di seguire questo corso sul bullismo, completamente gratuito, che aiuta a capire il fenomeno:

 

il bullismo

 

oppure potete vedere i video sul canale betapressTV a cui vi suggeriamo di iscrivervi.

 

https://betapress.it/quante-verita-ha-il-laparelli/

 

https://betapress.it/istituto-laparelli-di-roma-ce-chi-scrive-e-chi-no/

 

 




Massimo Coen Cagli parla di Fundraising per le scuole

Massimo Coen Cagli ci parla del fundraising

In questa puntata de “il fundraising per le scuole” Chiara Sparacio (la sottoscritta) e Francesca Donati  hanno ospitato Massimo Coen Cagli il più famoso fundraiser nel settore della scuola.

Massimo Coen Cagli ha dimostrato come ogni scuola può fare fundraising e come attingere alle risorse umane all’interno della scuola stessa.

All’interno di una puntata molto concreta, ha spiegato come chiedere e a chi.

 

Di seguito il video

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=hoJ0rzi7xfo?feature=oembed&w=640&h=360]

Il Fundraising per la Scuola

Aiutiamo le scuole col fundraising

BetapressTV




Bentornata a casa??

Silvia Romano è viva ed è stata liberata.

 E gli italiani come reagiscono?

Sollevo, gioia, stupore la reazione di alcuni.

Perplessità, smarrimento, incredulità quella di altri.

Rabbia, odio, xenofobia, sessismo quella di altri ancora.

E la reazione suscitata non c’entra con il credo politico, l’identità sessuale o il potere economico di chi la prova.

E’ un brivido che ci scorre lungo la schiena quando la vediamo.

“E’ lei, è viva, ce l’ha fatta!”

“Ma com’è vestita? Ma cosa dice? Ma cosa le hanno fatto?”

Fino a ”Non è possibile! Ma chi abbiamo liberato e perché?”

E così succede che Silvia non abbia nemmeno finito di scendere la scaletta dell’aereo che da Mogadiscio l’ha riportata in Italia, che centinaia di benpensanti (ma altrettanto mal scriventi) si scatenino già sui social con illazioni e offese di ogni tipo. 

Perché? Per la sua immagine killer, così stridente da quella a cui eravamo abituati.

Avevamo in mente una ragazza in canottiera, abbronzata e sorridente, con in braccio un bimbo africano, ed invece, ci siamo trovati di fronte una donna coperta, quasi irriconoscibile, se non fosse stato per il sorriso, e, per alcuni, persino il sorriso è sembrato provocatorio.

Certo, per molti, è bastato vedere lo jilbab, quel lungo velo, verde come il colore dell’Islam, a incorniciarle il viso e a coprirle il corpo, perché Silvia Romano, da eroina si trasformasse in traditrice.

O quantomeno “ingrata”, proprio come oggi l’ha bollata la prima pagina del Giornale: 

“Islamica e felice, Silvia l’ingrata” ha titolato il quotidiano diretto da Alessandro Sallusti, mentre Libero non è stato da meno gridando: “Abbiamo liberato un’islamica”.

Già perché in queste ore, in cui l’hashtag Silvia Romano continua a imperversare, c’è un fatto che è chiaro ed evidente e cioè che Silvia Romano ha smesso di essere una persona, una cittadina italiana con tutti i suoi sacrosanti diritti, per diventare un simbolo da agitare nell’incessante guerra razzista e sessista che purtroppo non conosce tregua.

Neanche il tempo di festeggiarla, di accoglierla nella sua città che altri due hashtag, quello di Aisha, il suo nome islamico, e quello di Silvia Romano incinta, sono entrati in circolo, nel catalogo infinito dell’odio da tastiera.

Che cosa si rimprovera alla giovane cooperante milanese che era in Kenya, lei specializzata in psicologia infantile, per aiutare i bambini orfani e che è stata rapita e tenuta prigioniera per oltre 18 mesi? 

 

Di sicuro il sorriso: nel conformismo ipocrita imperante, un ostaggio deve essere a pezzi, deve farsi vedere distrutto, possibilmente in lacrime.

E poi la conversione all’Islam, la religione più odiata, oltre che la seconda più praticata nel mondo.

Un affronto per molti italiani che confondono le frange dell’estremismo islamico con la stragrande maggioranza dei musulmani e che, evidentemente, non ricordano che la nostra Costituzione, quella di un Paese laico, prescrive la libertà di culto.

Per cui ognuno di noi è libero di professarsi cattolico, buddista, ateo o musulmano senza che questo debba diventare materia di dibattito o, ancor peggio, di scandalo per chiunque altro.

 

Inoltre, dulcis in fundo, Silvia è una donna.

Una donna forte, come lei stessa ha ricordato nelle prime parole che ha pronunciato dopo la liberazione.

E, si sa, niente è più insopportabile per molti sessisti che da giorni si sbizzarriscono in truci doppi sensi ed illazioni offensive, da quella secondo la quale Silvia sia incinta a quella che la vuole vittima della sindrome di Stoccolma. Ma, credetemi, il linguaggio utilizzato è ben altro.

Perché, si sa, il salto da esperto in virologia a quello in psicologia, nel magico mondo dei social, lo si può fare in un attimo, a stretto giro di tweet.

Va detto però che sono tanti, tantissimi i giornalisti ed i commentatori che in queste ore stanno cercando di spegnere questa ignobile polemica. 

Andrea Purgatori, ad esempio, scrive: “Se il problema è il vestito, occupatevi di quelli in nero col braccio alzato. Se il problema è il riscatto, la prossima volta vi scambiamo volentieri. Se il problema c’è l’avete nella testa, andate da uno bravo. E fate presto”.

Myrta Merlino interviene così: “Mi sfugge il senso del dibattito su #SilviaRomano, diventata Aisha. Se avessimo saputo prima della sua conversione all’#Islam, non avremmo dovuto salvarla?!?”. 

Tranchant come sempre Selvaggia Lucarelli: “Si è convertita all’Islam, non dice mezza parola d’odio, sorride anziché piangere. È una donna. Non glielo perdoneranno mai”.

Nell’attesa che gli odiatori trovino un altro osso da spolpare, ci sentiamo di dare un consiglio a Silvia Romano, quello cioè di stare alla larga dalla Rete.

I traumi di un sequestro sono lunghi e difficili da superare.

Ma quelli del cyber-bullismo non sono da meno. 

In quanto alla conversione, resta un fatto intimo, di estrema importanza, per ogni persona.

Un percorso che doloroso o liberatorio che sia, va rispettato, comunque. Sempre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tipi da social

 




Meridionali mon amour

Quando un grande Direttore come Vittorio Feltri ci consegna una lezione come quella dell’altra sera, per tutti noi piccoli direttori di testate insignificanti non c’è che da imparare.

In effetti dai grandi si impara in grande, ed io, piccolo, ho imparato in grande: ho imparato come non si fa.

Ho imparato che i ruoli sono importanti e la direzione di un giornale, seppur piccolo come il mio, comporta grandi responsabilità, come quella ad esempio del rispetto.

Il rispetto è anche nell’uso che si fa della propria posizione, nel peso che le parole assumono quando si ricoprono dei ruoli importanti.

L’Italia è un paese unico ed irripetibile, bello da morire e brutto da impazzire, saggio come nessuno e stupido peggio di un bambino, altruista e generoso ma anche furbo e traditore.

E’ un paese estremo, assoluto, indimenticabile.

Ma tutto questo è intimamente legato agli italiani, al popolo, al nord ed al sud, nella sua dimensione nazionale.

Questo Paese l’ho girato in lungo ed in largo, conoscendone gli abitanti in tutte le loro sfaccettature, ho avuto a che fare con il bello ed il brutto, ma ho avuto modo di conoscere gli italiani, profondamente italiani, sempre.

Ho visto mondi diversi, ho visto vite diverse, ho visto tradizioni diverse, ma mai nessuna era inferiore alle altre.

Fatico molto caro Direttore Feltri a capire da dove Le sia uscita la considerazione sull’inferiorità dei meridionali.

Nella storia del nostro paese non l’ho trovata, anzi il meridione da dopo la caduta dell’impero romano è rimasto una culla di civiltà, nella prima guerra mondiale il sud fu portatore di soldati al fronte e pagò a caro prezzo con il maggior numero di morti.

Nelle arti meno che meno, il sud è sempre primeggiante fiero ideatore di filosofie, musiche, dipinti, opere.

Ho visto accogliere senza chiedere sia al nord che al sud, non riesco davvero a pensare che ci siano anime inferiori in questo paese

Forse Lei si riferiva alla criminalità, al fatto che il sud si sia piegato alle mafie?

Però caro Direttore ha visto il pegno umano che il Sud ha pagato per la lotta alla mafia?

Ha visto che uomini sono usciti da queste battaglie, ha visto che levatura morale, che intelligenza, che amore per lo Stato (che sinceramente a volte questo stato non si merita).

Forse Lei, caro Direttore, non conosce il Sud, e Lei mi dirà con la sua simpatica prosopopea “e chi se ne frega!”, ebbene io me ne frego, caro Direttore, e sa perché?, perché questo paese si salverà solo grazie agli italiani, polentoni o meridionali che siano.

Perché, caro il mio Direttore, il diverso è dentro di noi, non fuori, il mostro, se c’è, lo creiamo noi.

Io amo i meridionali, li ho conosciuti, hanno un cuore grande.

Diceva Montanelli questo: l’Italia non si salverà perché non si ricorda del proprio ieri, ma gli italiani si salveranno perché non hanno unità nazionale e sono i migliori mestieranti d’europa (nei mestieri servili), non hanno una entità nazionale si adattano, si assimilano.

 

Io vorrei invece che questo paese si salvasse assieme a tutti i suoi italiani, perché io sono italiano, sono polentone, sono terrone, sono un italiano che si ricorda della storia del suo paese, fin dalle origini.

Mi ricordo di chi ha costruito e di chi ha distrutto, amo i primi e compiango i secondi.

Come Direttore di un piccolo giornale però le dico per me non esiste nord sud centro, per me esiste un grande paese che potrebbe essere guida delle genti, come è stato quando nessuno pensava che ci fosse un nord ed un sud, ma quando tutti pensavano che c’era un’Italia prima da unire e poi da difendere.

Siamo sempre stati un grande paese, ma noti caro Direttore, lo siamo stati quando lo abbiamo pensato davvero.

Forse allora è anche una nostra responsabilità far pensare agli italiani che c’è l’Italia, non il nord ed il sud.

Non riesco a vedere un diverso nel mio paese, perché non ci sono diversi, ci sono differenze, che in realtà uniscono molto di più delle similitudini.

Si è sempre meridionali di qualcuno, diceva Luciano De Crescenzo, per questo io Le dico: Meridionali mon amour.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’indipendenza di Stampa

 

L’Italia e l’ultradestra




Sereni è, Sereni sarà, ma si rasserenerà?

Sciopero, Istituto Sereni, si torna a scuola!!!

Oggi, 10 febbraio 2020, riprenderanno le lezioni i circa 200 studenti dell’Istiituto Agrario Emilio Sereni di Roma,

I ragazzi hanno iniziato lo sciopero mercoledì 5 febbraio.

Uno sciopero breve si direbbe, ma proprio questo ci fa capire la serietà dei suoi partecipanti, il livello di insostenibilità raggiunto e lo stato di necessità che li ha spinti a indire lo sciopero.

È stato uno sciopero bianco: i ragazzi sono comunque andati a scuola e hanno marcato presenza.

Non hanno creato disagio, non hanno apportato danni alla struttura, non sono stati in alcun modo violenti o coercitivi.

L’unica cosa di diverso che hanno fatto rispetto al solito, è stato riunirsi in aula magna e aspettare che le loro richieste venissero ascoltate.

Hanno un problema molto grosso i ragazzi del Sereni: sono abbandonati dal loro Dirigente Scolastico, Patrizia Marini, che, manco a farlo apposta, ha già attirato l’attenzione della nostra redazione quando era DS del l’Istituto Agrario Garibaldi (vedi articolo in calce).

Il Dirigente Scolastico non si fa vedere in succursale dal 6 dicembre. Non si è presentata neppure quella volta che è scoppiato un incendio in istituto: del materiale informatico abbandonato in un sottoscala davanti l’entrata di un laboratorio ha preso fuoco misteriosamente e un bidello è rimasto intossicato.

L’assenza del Dirigente Scolastico

Il motivo per cui la Preside Marini è andata in istituto, è stata una cerimonia di premiazione: gli studenti della succursale Bufalotta del Sereni hanno vinto il concorso indetto dal III Municipio di Roma, per la notte bianca.

Il premio consisteva nella somma di 5.000 euro che i ragazzi volevano devolvere in lavori per la  loro serra, che necessita urgentemente di manutenzione e per sostenere le spese di gestione delle loro attività.

I soldi sono stati incassati, dovevano essere utilizzati entro il 31 dicembre ma, in questo momento, non ne abbiamo ancora trovato traccia e la serra, che necessita, conti alla mano, di una spesa di circa 600 euro, è ancora da sistemare.

L’auto-tassazione

Per quanto riguarda invece le spese di gestione delle attività, queste aprono un altro capitolo dolente.

La scuola ha bisogno di tanto: ha bisogno di animali, di manutenzione, di materiali, di carburanti… la rappresentante dei genitori, per portare sollievo a questo stato di totale abbandono ha proposto la soluzione estrema: l’auto-tassazione da parte dei genitori.

Ed è così

Se oggi al Sereni – Bufalotta ci sono le capre, è merito dei genitori, se c’è il vigneto, è merito dei genitori, se ci sono i pali per far crescere il vigneto, è merito della generosità dei genitori degli alunni.

Ma non è tutto: se c’è il gasolio per il trattore, è merito dei docenti, che si autotassano anch’essi con qualche euro a settimana.

I punti della dichiarazione dello sciopero

É una scuola molto amata la succursale Bufalotta dell’Istiituto Agrario Emilio Sereni di Roma.

Molto amata dai 200 studenti che, anche visto il numero, sono quasi una famiglia, molto amata dai loro genitori, che fanno di tutto per permettere un’istruzione ai figli, molto amata dai professori, che non si rassegnano a lasciare i loro studenti del tutto allo scuro della parte pratica.

É una scuola molto amata da tutti e, per questo, ecco i motivi dello sciopero estratti dal verbale di sciopero:

  • Sede abbandonata dalla dirigente scolastica
  • Mancanza di attrezzatura di vario tipo (gasolio, utensili agricoli ecc…) siamo costretti a limitare le nostre attività tecnico- pratiche compromettendo significativamente la didattica.
  • Difficoltà nel mantenimento delle arnie che necessitano manutenzione e alimenti.
  • Ripristino del corso di apicultura.
  • Difficoltà ad usufruire del laboratorio di informatica perché molti computer necessitano di manutenzione e controlli”(N.d.A.: i computer nuovi sono stati comprati ma mandati in centrale, la succursale ha quindi cambiato i suoi obsoleti e preso i vecchi computer dismessi della centrale).
  • La serra risulta ad oggi ancora inagibile -N.d.A.: avrebbe dovuto essere aggiustata con i fondi del concorso della notte bianca erogati il 6 dicembre 2019-  ed è quindi impossibile effettuare attività di qualsiasi genere”.

Il nostro sostegno

Sono bravi ragazzi, bravi genitori e bravi professionisti quelli della succursale Bufalotta dell’Istiituto Agrario Emilio Sereni di Roma.

Meritano attenzione e riguardo perché le persone come loro fanno da esempio in un mondo di lassismo e superficialità.

Noi di Betapress li abbiamo ascoltati e abbiamo riportato la loro storia meritevole di attenzione.

Lo sciopero per ora è rientrato, dicevamo, e i ragazzi oggi torneranno a scuola perché la Preside Patrizia Marini ha risposto al loro appello: li incontrerà, andrà da loro.

Ha preso l’impegno per il 2 marzo: 22 giorni esatti da oggi, 88 giorni esatti dall’ultima volta che ha visitato la succursale.

 

Ma la scuola dove sta andando? (N.d.D.)

Davanti a casi come questo sorgono spontanee domande, ma che razza di scuola stiamo gestendo a livello di stato?

Quali sono i finanziamenti  e dove sono soprattutto i soldi necessari affinché i nostri ragazzi possano frequentare delle scuole adatte a farli diventare bravi cittadini ma anche bravi professionisti???

Vediamo troppi casi di scuole in difficoltà e soprattutto di scuole gestite in modo inadatto, passano i governi ma nessuno si sta chiedendo che scuola serve, tutti stanno facendo la scuola con i soldi che ci sono, il che non sarà mai la scuola che questo paese dovrebbe avere per poter tornare ad essere esempio di virtù e di scienza.

Ripensare anche il ruolo degli organi collegiali dovrebbe essere una priorità, come peraltro sarebbe necessario rivedere ruoli e stipendi del personale scuola, cercando di capire come tutto deve essere integrato, e come, ad esempio, gli stessi collaboratori scolastici  abbiamo un forte ruolo educativo, anche solo con il loro esempio e la loro dignità quotidiana .

Ma la scuola che serve davvero per vincere le sfide del futuro e per poter dare ai nostri giovani, appunto, un futuro vero, qualcuno la progetterà mai?

 

 

Riferimenti

Sito dell’Istituto Agrario Sereni di Roma ?

Articolo ?Chi ha ferito il Garibaldi?




Chi ha ferito il Garibaldi?

Storia di come, forse, quando si parla  dell’Istituto agrario di Roma, il primo pensiero non è che venga fatto il bene della scuola.

Questo è il primo di una serie di interventi / interviste che Betapress farà nel prossimo periodo per sostenere la scuola agraria Garibaldi, che merita di esistere e di essere riconosciuta sia nella sua storia che nell’impegno che centinaia di persone negli anni hanno messo per mantenerla al massimo dell’eccellenza. (NdR)

In principio sembrava una storia facile.

Pareva che si dovesse raccontare la bella storia di uno storico e prestigiosissimo istituto agrario delle capitale italiana.

Si era pianificata una storia di crescita, lustro e buone speranze per il paese; una di quelle storie da leggere con leggerezza e speranza sotto l’ombrellone.

Le professioni del futuro che faranno grande il nostro paese: il ruolo dell’agronomo.

E invece è bastato andare a guardare un po’ più da vicino fatti e numeri per vedere che dietro la storia dell’Istituto Agrario Garibaldi di Roma c’è del marcio.

Tanto marcio.

Talmente tanto che abbiamo dovuto rinunciare alla storia da ombrellone e sperare di fare in fretta a districarci tra la marea di notizie che hanno iniziato a venir fuori ogni giorno.

È bastato sollevare appena il coperchio di questa storia per essere letteralmente investiti da informazioni, telefonate (alcune anche che ci invitavano a desistere dallo scrivere l’articolo), documenti e materiali di ogni tipo.

L’istituto nasce alla fine del 1800, con i primi del 1900 trova una sulla collocazione geografica definita e diventa fiore all’occhiello della formazione tecnica.

È bello il Garibaldi.

Circa 100 ettari di terreno produttivo sul parco dell’Appia Antica, attraversamenti con sentieri, integrato nella vita dei quartieri limitrofi, convitto, scuola, maneggi, stalle e spazi costruiti per la  miglior crescita e formazione dei periti agrari.

Era bello il Garibaldi.

All’inizio del 2000 qualcosa cambia.

Nell’estate del 2005, all’interno del piano di cartolarizzazione dell’allora ministro Tremonti, i terreni del Garibaldi, vengono messi all’asta.

Per puro caso un gruppo di docenti si accorge del bando e si mobilità immediatamente: telefonate, riunioni e azioni concrete; chi amava quell’istituto non ha permesso che venisse chiuso.

Questa è una cosa che troveremo tante volte nel corso di questa storia (che non racconteremo tutta oggi): chi ha frequentato l’istituto ha con esso un debito di fedeltà e amore che non intende tradire.

Tanti di quelli che hanno studiato al Garibaldi sono tornati ad insegnare lì spendendosi attivamente e hanno con esso un legame quasi filiale.

Il Garibaldi salvato cresce.

Una delle persone che si era occupata di salvare i terreni dall’asta, viene nominata dirigente scolastico.

È il prof. Franco Sapia, ex studente del Garibaldi perito agrario e dottore in Agraria.

Intanto, non senza qualche ragionevole problema, l’Istituto cresce: cresce l’azienda agricola, crescono le attività, si collabora con una cooperativa sociale, viene creata una fattoria didattica, arrivano premi per il latte e per i prodotti, i capi di bestiame crescono e prosperano, alcune associazioni animaliste, addirittura, affidano dei capi all’Istituto affinché li protegga dalla vendita o dal macello, ci sono inoltre borse di studio e progetti internazionali: 

l’Istituto Garibaldi è una eccellenza. 

Gli studenti iscritti superano nel 2016 il numero di mille.

Terminato il mandato del prof. Sapia, riceve l’incarico la prof.ssa Patrizia Marini, diplomata presso l’Istituto Superiore di Educazione Fisica e laureata in scienze motorie.

Come è prevedibile che accada quando cambia il dirigente scolastico, cambiano anche le priorità e le modalità gestionali del Garibaldi.

La professoressa Marini dal 2017 traccia e segue un nuovo piano.

Noi di betapress.it abbiamo intervistato la professoressa Marini e molti degli attori coinvolti, ed in questo primo articolo pubblichiamo proprio l’intervista all’attuale Dirigente del Garibaldi, prima fra tutte quelle che abbiamo realizzato, per avere un bilancio delle sue azioni, dei suoi motivi e delle sue operazioni, nel corso dei primi due anni pieni di mandato come dirigente scolastico. Proseguiremo poi per capire come mai questa scuola è in declino, o almeno così sembra, terra di vendette e giochi di potere, abusi e soprusi.

 


Nota bene:

La professoressa è stata con noi gentilissima e disponibilissima ma, stranamente, non terminerà i tre anni di mandato quindi non sarà lei la preside del Garibaldi per l’anno scolastico  2019-2020.


Ovviamente, per prepararci all’intervista, per evitare di fare domande banali e annoiare così chi ci ha dedicato il suo tempo, abbiamo studiato, indagato (sì, ci siamo rivolti anche ad una agenzia di investigazioni private) e letto più informazioni possibili, cosa della quale, ovviamente, era stata informata anche il dirigente scolastico.

Ed ecco che arriva il nostro imbarazzo e sfuma il progetto di scrivere un articolo leggero e positivo.

Il fatto è che su molti punti le informazioni in nostro possesso e le risposte del dirigente scolastico non erano perfettamente in linea.

Noi di Betapress.it riteniamo che la riflessione sul Garibaldi non debba avere una matrice da curva da stadio con schieramento per l’una o per l’altra parte, o tifo per il personaggio più simpatico; ci sforzeremo quindi in questo e nei successivi articoli, di tenere una linea quanto più possibile neutrale anche perché, su molti punti, dovrà essere poi la legge a dire l’ultima parola.

Riportiamo qui l’intervista come è stata fatta.

Domanda: Come mai il numero dei iscritti al Garibaldi nel corso di questi  ultimi due anni è calato da 1200 a 900?

Risposta: il Garibaldi non ha mai avuto 1200 iscritti, questa è una informazione errata. Quando sono arrivata io c’erano circa 950 iscritti, lo scorso anno erano circa 900. La differenza di 50 studenti fa parte dei normali  andamenti dovuti al calo demografico.

Nota di ricerca: nel 2017 dai registri di Istituto risultano più di 1000 iscritti

Nel suo piano di riorganizzazione ha deciso di chiudere l’azienda agricola: le vacche sono deperite, il frantoio chiuso, il bestiame sparito, quali sono i motivi di queste scelte?

Le scelte sono dovute ai problemi di gestione non adeguata degli anni precedenti che sono state in passivo ininterrottamente per 15 anni. (questo fatto è strano perché per i regolamenti di contabilità delle scuole dopo tre anni si sarebbe dovuta chiudere l’azienda agraria. NdR)

Da quest’anno, invece, con la mia gestione, per il primo anno, abbiamo chiuso in attivo.

Non c’è bestiame perché la stalla non era a norma ed era tenuta aperta senza tener conto delle indicazioni dell’ASL.

In più ho scelto di dedicare tutti i terreni per i seminativi così da poterli utilizzare a pieno.

Le vacche erano un investimento deficitario perché avevano bisogno di mangimi mentre i seminativi sono una azione in attivo.

Per quanto riguarda il frantoio, è chiuso ma ne verrà aperto uno nuovo tecnologicamente più avanzato.

Il mio lavoro in questi anni è stato quello di rimettere in sesto il  business plan del Garibaldi.

Nota di ricerca: dalle nostre ricerche risulta che le stalle non erano a norma perché, tra le altre cose, la dirigente chiedeva ai dipendenti la pulizia di queste a mano con le pale anziché l’utilizzo di appositi bobcat.

Alcuni dei capi affidati all’istituto con l’impegno di prendersi cura di loro a vita, sono stati invece ceduti.

Dal primo anno dei suo incarico ad oggi circa 60 persone tra docenti e personale di segreteria hanno fatto domanda di trasferimento, come mai?

Non mi risulta siano andate via tutte queste risorse; alcuni sono andati in pensione, altri si sono avvicinati a casa loro, nulla che non abbia a che fare con la normale vita delle scuole

Nota di ricerca: ecco i numeri risultanti delle richieste di trasferimento dai documenti consultati

26 docenti in uscita nel corso dell’anno scolastico 2017/2018

11 docenti in uscita nel corso dell’anno scolastico 2018/2019

13 ATA in uscita nel corso dell’anno scolastico 2018/2019.

Prima di fissare l’intervista mi ha chiesto di anticiparle a grandi linee i punti di interesse e quando ho nominato la cooperativa, lei mi ha detto che non esiste nessuna cooperativa.

A me, dalle informazioni raccolte, risulta l’esistenza della cooperativa, può chiarirmi questo punto?

La cooperativa c’è ma non ha nulla a che fare con il Garibaldi. Già l’ex dirigente scolastico Franco Sapia aveva interrotto i rapporti con essa.

Ho però attivato rapporti per la creazione di una nuova cooperativa da inserire all’interno delle attività del Garibaldi.

Nota di ricerca: in questa sede riportiamo solo quando indicato sul sito della cooperativa “fantasma”:

“La storia della Cooperativa sociale integrata agricola Giuseppe Garibaldi è parte ormai della centenaria storia dell’Istituto Tecnico Agrario “Giuseppe Garibaldi” […] è nata come laboratorio della scuola per rispondere alle esigenze degli allievi con disabilità e delle loro famiglie, […] è nata […] per la realizzazione di un progetto di inclusione scolastica degli allievi con Autismo iscritti all’Istituto “Garibaldi”. (https://garibaldi.coop/cosa-facciamo/)

È chiaro a chi ha avuto la pazienza di leggere fino a questo punto che la comunicazione non è così collimante con i fatti e non è facile definire la verità.

La verità per noi sta solo nelle carte ufficiali e contiamo di trovarla nelle sentenze dei giudizi in corso.

L’impressione però che si ha leggendo le carte relative alla storia del Garibaldi (e non delle persone) è che forse sull’Istituto ci sono interessi ben più grossi; è ricorrente infatti l’idea di far chiudere il Garibaldi per poter prendere, vendere e riutilizzare quei 100 ettari di terreno nel centro di Roma (a chi non interesserebbero??? NdR) che già due volte si è cercato di mettere all’asta.

Sarebbe brutto se fosse così (ma sembra proprio così NdR), perché con quelle proprietà verrebbero venduti anche l’impegno, la fatica e le grandi speranze degli studenti, dei professori e di chi, fino ad oggi ha amato questo Istituto.

“C’è del marcio in Danimarca”, Betapress andrà avanti e scoverà tutto quello che c’è da scoprire, non ci fermeremo, abbiamo già ricevuto telefonate con velate minacce per desistere … lasciate stare, vi mettete contro i potenti, non sapete cosa vi possono fare … ebbene lo sappiamo benissimo lo hanno già fatto non è la prima volta, ma ci siamo stufati marci di vedere questo malaffare imperversare, coperto da mantelli di ermellino che nascondono cadaveri puzzolenti, noi tireremo fuori tutto, per la scuola, per chi ci lavora e ci ha buttato l’anima, per il nostro paese che può davvero farcela solo se la scuola sarà sempre più efficace, raggiungendo quell’eccellenza che era tipica del Garibaldi. (NdR)

Richiesta ai lettori:

betapress.it pubblicherà altri articoli sul Garibaldi, sulla sua storia e sulle sue sorti.

Chiediamo a chiunque abbia notizie e voglia collaborare anche in forma anonima di contattare l’indirizzo info@betapress.it