La filastrocca del Vicepreside

Il Vicepreside.

Ad ogni grado corrisponde un determinato ruolo, ad eccezione del Vicepreside.

Il Vicepreside è quella figura che lavora a prescindere se gli compete o meno.

Il Vicepreside è quella figura che dell’anzianità ne fa un proprio e invidiabile titolo di studio.

Il Vicepreside è quella figura chiamata sempre a spegnere focolai dove l’inesperienza e la sapienza creano disagi e dissapori.

Il Vicepreside è una sorta di ancora di salvezza per ognuno che ne chiede consiglio, a lui basta una parola o una telefonata per risolvere tutto.

Il Vicepreside sostituisce il Dirigente, ma il Dirigente non può sostituire il Vicepreside, il Vicepreside gestisce tutti i beni, ma tutti i beni non fanno un Vicepreside, il Vicepreside non sgrida i sottoposti, ma tutti possono sgridare il Vicepreside, si, perché il Vicepreside è stato abituato ad essere sgridato, gli altri no.

Essere Vicepreside è più complesso di quanto potrebbe intendersi, essere Vicepreside obbliga a comportarti sempre in un certo modo, non gli è concesso sbagliare, non gli è concesso fermarsi, non gli è più concessa voce in capitolo.

Però i doveri ad esso sono sempre attribuiti, lui vive di doveri, dopotutto il Vicepreside per gli altri ha sempre una buona parola, mentre a lui non è concessa neanche una pacca sulla spalla.

Il Vicepreside comunque ed in ogni caso, rimane quella figura che in sua assenza, ogni luogo diventa un inferno.




Gli Italiani incapaci di andare all’estero.

Meglio disoccupato che lontano da casa…

L’Italia ha un grandissimo problema di “fuga di cervelli”, che secondo la Confindustria è il vero “spreco del Paese” capace di costare 14 miliardi l’anno.

Ma, non solo, l’Italia deve fare anche i conti con l’altra faccia della medaglia, il problema esatto contrario: gli italiani che, interrogati sul tema, dicono di non voler lavorare lontani da casa, anche a costo di restare disoccupati e di rinunciare alla carriera.

Secondo un sondaggio realizzato dall’Osservatorio mensile Findomestic con Doxa, infatti, quasi un lavoratore su due (46%) preferisce non allontanarsi da casa, anche a patto di restare disoccupato o non fare una progressione di carriera significativa. La comodità e la vicinanza agli affetti hanno la meglio sull’ambizione professionale.

E, come se non bastasse, solo due italiani su dieci rinuncerebbero all’Italia, ed andrebbero a vivere all’estero, pur di fare il lavoro dei propri sogni.

Fortunatamente, almeno,” tre italiani su quattro sono soddisfatti della vicinanza al proprio posto di lavoro”, dice l’Osservatorio.

Ma c’è di più: la Sicilia è al top tra oltre 200 regioni europee per l’alto tasso di giovani fra i 18 e i 24 anni che non studiano e non cercano lavoro, i cosiddetti Neet.

Il dato negativo dell’isola (41,4%) è inferiore solamente a quelli registrati per la Guyana francese (44,7%) e la regione bulgara di Severozapaden (46,5%).

Questo è quanto emerge dal Regional Yearbook 2017 pubblicato il 14 settembre da Eurostat.

Dunque, c’è un problema, nel problema…

Accanto ai giovani siciliani che non riescono a trovare una strada lavorativa nella propria terra, quelli per cui partire sembra l’unico modo, doloroso e drammatico, per costruirsi un futuro dignitoso, ci sono quelli che non fanno niente!!!

Se in Italia un giovane su quattro non lavora e non studia, e il dato è già di per sé desolante, in Sicilia la percentuale sale addirittura al 39,5 per cento: poco meno della metà della popolazione tra i 15 e i 29 anni non lavora e non studia.

Pessimi i dati in generale per tutto il Mezzogiorno. Al secondo posto la Campania con il 36,2 per cento, seguita dalla Calabria con il 35,8, ancora, la Puglia, la Sardegna, la Basilicata e il Molise, tutte al di sopra del 30 per cento.

Un baratro nero, se si pensa che in Europa ci sono regioni come i Paesi Bassi dove lo stesso tasso scende di quasi 20 punti!!!

Niente di nuovo sotto il sole, diremmo noi…

Ma, per quelli che lavorano, ritornando all’indagine Doxa, scopriamo anche altri aspetti del rapporto tra gli italiani ed il loro lavoro.

A cominciare da quello economico: in base ai dati raccolti da Findomestic, oltre un lavoratore su due (54%) si aspetterebbe di guadagnare di più.

La maggior parte giudica invece positivamente il clima lavorativo (76%) e la sicurezza del posto (66%). Si torna al 54% di quelli che non sono soddisfatti della coerenza dell’occupazione con il proprio percorso di studio.

Non stupisce, dunque, che la maggior parte dei lavoratori italiani (60%) abbia pensato almeno una volta di cambiare lavoro, soprattutto nella fascia fra i 35 e i 44 anni.

Inoltre, anche i dati sul rapporto tra l’impegno professionale e la qualità della vita, sono significativi: il 61% dei lavoratori italiani è soddisfatto dell’equilibrio che è riuscito a raggiungere tra lavoro e vita privata, ma i “molto soddisfatti” sono solo 1 su 10.

Come al solito, se potessero avere più tempo libero gli italiani lo utilizzerebbero per stare con la famiglia (50%), poi, per dedicarsi agli hobby (43%), per viaggiare (42%) ed infine, solo uno su quattro, per fare sport (28%).

Dal capitolo ‘benefit’ dell’Osservatorio Findomestic risulta, inoltre, che i lavoratori chiedono soprattutto buoni spesa per carburante, alimentari ed elettronica (40%), oltre a una maggiore flessibilità dell’orario di lavoro (38%) e forme di assistenza sanitaria (35%), queste ultime desiderate soprattutto dalle donne.

E qui, altra anomalia italiana…

Se, stipendio e stabilità restano le voci principali (il primo è la variabile più importante per il 64% dei rispondenti, la seconda per il 42%) di tutti i lavoratori, maschi o femmine che siano, alcune differenze di genere sorgono tra uomini e donne, frutto probabilmente di un carico diverso che ancora separa le due categorie, una volta che si rientra nelle mura domestiche.

La flessibilità dell’orario di lavoro è più rilevante per queste ultime (35% contro il 26% degli uomini), mentre gli uomini dimostrano di dare più peso all’autonomia decisionale (31% contro 27% delle donne) e all’opportunità di fare carriera (17% contro 9% delle donne).

Come al solito, per le donne italiane, il lavoro c’è sempre e comunque, a casa!!!

 

Antonella Ferrari




Banca Intesa al Games Week

Unica Banca presente al Games Week di Milano è stata Banca Intesa, due grandi stand per stare vicino ai giovani.

Molto interessante l’iniziativa carta Flash su misura, ove per tutti i partecipanti era possibile ricevere una carta flash con la fotografia personalizzata.

 




Solitudine per regalo di compleanno? Meglio un ricovero…

Argentina: si fa ricoverare in ospedale per non trascorrere il compleanno da solo

Qualche giorno fa, in Argentina, un anziano signore di nome Oscar ha subito un ricovero presso l’ospedale regionale “Bahia Blanca” di Buenos Aires, lamentando una presunta cefalea. Alcune ore dopo, però, il signore ha trovato il coraggio di confessare alle infermiere in servizio di non avere in realtà alcuna cefalea, ma di soffrire di un male non meno doloroso, tristemente caratteristico della nostra epoca: la solitudine.

L’uomo aveva, infatti, richiesto il ricovero in ospedale solo per poter trascorrere in compagnia il suo ottantaquattresimo compleanno.

Da quattro lunghi anni viveva completamente solo nella sua abitazione, avendo perso la moglie, con cui non aveva avuto figli, e tutti e tre i fratelli maggiori, l’unica famiglia che gli era rimasta.

L’episodio è stato riportato su Facebook dall’infermiera Gisel Rach la quale ha raccontato di aver organizzato insieme alle colleghe una piccola festa improvvisata per il compleanno di Oscar, con tanto di torta e palloncini ricavati dai guanti in lattice: «si è recato alla guardia medica per una “cefalea” e lo scrivo tra virgolette perché sapete qual era la sua vera malattia?

Oggi compie 84 anni e non voleva stare da solo.

Sì, proprio quello che avete letto. Scommetto che vi si è stretto il cuore come è successo a me e ai miei colleghi».

Gisel ha indubbiamente ragione: il cuore si stringerebbe a chiunque leggesse di questa notizia, soprattutto se si pensa alla triste realtà che questo episodio mette in luce e quindi a quanti anziani nel mondo versano nelle stesse condizioni di Oscar, soli e abbandonati a se stessi.

In una società che è stata completamente sopraffatta dal ritmo del successo e dal superamento dei valori tradizionali, sempre più spesso gli anziani vivono in uno stato di disinteresse generale, ai margini della compagine sociale, talvolta in balia del proprio destino.

Nella nostra epoca, infatti, sono carenti le strutture sociali e si è decisamente indebolito il valore della famiglia, dopo la trasformazione che l’ha vista protagonista negli ultimi decenni, con il passaggio dal modello di famiglia allargata, in cui i nonni rappresentavano un punto di riferimento, a quello di famiglia nucleare.

Inoltre, con la crisi dello Stato, è entrata in crisi quell’entità che sembrava garantire ai singoli individui la possibilità di risolvere in modo omogeneo i vari problemi del nostro tempo; il tessuto sociale si è sfaldato e regna sovrano un individualismo senza precedenti, figurarsi se qualcuno ha ancora del tempo da riservare agli anziani.

La nostra epoca ha vomitato la sua anima gentile e generosa e il prodotto di questo rigurgito è una collettività asettica, che si preoccupa di difendere i profitti piuttosto che i più deboli.

La promiscuità consumistica della nostra società ci spinge a desiderare sempre il nuovo, svalutando tutto ciò che è considerato agée e in questo modo non fa che alimentare la triste sensazione di impotenza, il sentimento di inutilità che spesso deprime gli anziani, costretti a farsi da parte in un mondo che ormai sembra non aver più bisogno di loro, nemmeno per ricevere dei consigli.

Dimentichi del valore della saggezza, abbiamo smesso di interrogare la loro vetusta memoria di uomini e donne scampati a terribili guerre, di protagonisti di rivoluzioni, di giovani sposi che sono riusciti a far durare i matrimoni per secoli.

Noi che le guerre e le rivoluzioni le abbiamo viste solo in tv e che abbiamo reso i legami precari, liquidi e scivolosi come l’olio; e loro, che hanno vissuto meglio, quando si stava peggio ma c’erano ancora speranze; quando ci si doveva ancora scontrare con la perfidia di un mondo bugiardo, tanto promettente, quanto arido di possibilità; quando la promessa di un’infinita espansione economica non era ancora stata soppiantata dalla crisi finanziaria più lunga e devastante della storia e il sogno di volare sotto cieli tranquilli non aveva ancora ceduto il passo allo spettro di esplosioni e schianti che si propaga nelle fusoliere degli aerei ogniqualvolta un passeggero di religione musulmana prende posto a sedere.

Sarebbe bello, sarebbe utile rubar loro qualche segreto per addolcire poco poco l’amarezza del presente, per riappropriarsi di quei valori che abbiamo irrimediabilmente perduto, per tornare ad apprezzare le cose semplici, per vivere in un mondo onesto, pulito e genuino.

Probabilmente ci impegneremmo nuovamente per ricostruire uno Stato assistenziale che sia capace di fornire supporto alle famiglie, affinché ci si possa occupare di nuovo attivamente dei propri figli e dei propri genitori, senza dover ricorrere a 3 babysitter e 5 badanti, che altro non sono se non il modo con cui sopperire all’assenza dello Stato.

In Italia il “Fondo nazionale per le politiche sociali” (FNPS), che è il primo canale di finanziamento della rete integrata di interventi e servizi sociali, continua a subire sforbiciate e nel frattempo gli anziani giacciono dimenticati nelle loro abitazioni o nelle case di riposo, vivendo di pensioni sempre più taglieggiate da uno Stato ingrato.

Le Regioni sono state chiamate al risparmio per contribuire all’equilibrio di bilancio e, ovviamente, i risparmi hanno inciso anche sul FNPS, che nel 2017 ha perso ben 211 milioni sui 311,58 stanziati nell’ottobre 2016, mentre 50 milioni sono stati tagliati al Fondo non autosufficienze; si tratta di soldi che servono a finanziare, ad esempio, gli asili nido, gli interventi di sostegno al reddito per le famiglie meno abbienti, l’assistenza domiciliare, i centri antiviolenza e il sostegno a disabili gravissimi e anziani.

Ma se i tagli continuano a ridimensionare il portafogli del welfare state, riusciremo mai a trovare soluzioni per garantire una maggiore efficienza delle politiche sociali?

Oggi si parla addirittura di sandwich generation, di generazione-panino i cui membri si trovano schiacciati come sottilette tra l’età avanzata in cui si sceglie di avere un figlio e il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione.

Proprio così, “schiacciati”. I bambini arrivano tardi e l’aspettativa di vita si è notevolmente allungata, così a quarantacinque anni ti ritrovi a barcamenarti tra i bisogni di tuo figlio di 5 anni e i bisogni dei tuoi genitori di 80, una vera e propria impresa se i turni di lavoro sono alienanti, i soldi pochi, e la vita si svolge sempre così frenetica, in un mondo governato dalla mercatocrazia. Lo Stato non interviene e i cittadini sono soli con i propri problemi.

Uno dei valori precipui nell’antica Roma era la pietas, un termine che designava, oltre alla devozione religiosa, la virtuosa commistione di senso del dovere, rispetto e affetto nei confronti della famiglia, della patria e degli amici ed emblematica era l’immagine del mitico eroe Enea che, fuggendo dalla città di Troia in fiamme, assunse su di sé il peso del padre Anchise, caricandoselo sulle spalle per portarlo in salvo.

Ma noi, oggi, siamo ancora disposti a rallentare la nostra corsa sfrenata verso il nulla e a caricarci sulle spalle il peso delle nostre responsabilità?

Per il momento ci sono troppi Oscar e pochi Enea, ma per fortuna ci sono anche tante belle persone come Gisel Rach e le sue colleghe.

 




Femminicidio parola sbagliata: omicidio di una Donna quella giusta!!

Il ritrovamento del corpo di Noemi Durini alimenta il delirio di un’opinione pubblica che da settimane si intrattiene sugli stupri, “indigeni” e “stranieri”.

Un popolo di lettori e di telespettatori che, come una platea voyeur davanti a un film pornografico, si esalta a conoscere, nei minimi particolari, l’ennesima violenza.

Ci ricorda, quel corpo, che la violenza più violenta, e spesso definitiva, arriva sulle donne molto più frequentemente da uomini prossimi, per primi quelli che dicono di amarle, che da uomini lontani per razza, religione o cultura. Un fatto, che emerge in tutte le statistiche di femminicidio, nonché verificabile nell’esperienza quotidiana di centinaia di centri antiviolenza sparsi per il paese. Ma si sa che i numeri, nonché l’esperienza, nulla possono sulle psicosi.

E dunque, il femminicidio di Lecce non placa il delirio dei giornali e degli onniscienti ospiti dei talk. In un carosello mediatico, c’è chi piange Noemi e chi urla contro l’invasione di interi popoli stupratori…

I conti, del resto, non tornano mai.

Ancor più sullo stupro e sul femminicidio

Inutile elencare, razionalizzare, sezionare un fenomeno che sempre più si manifesta come il risvolto osceno e indicibile non di uno scontro fra civiltà, ma di una crisi di civiltà che travalica qualsiasi confine, etnico o politico, culturale o geopolitico che sia.

La violenza sulla donna è un reato universale, che avvenga tra le mura domestiche, su una spiaggia, dietro un autobus o in un campo profughi.

La violenza sulle donne è di un mondo che sa concepire solo l’universalismo della femmina-merce ed ha seppellito i diritti fondamentali della donna-persona.

Reati sessuali, in un mondo che fa della parità di genere una bandiera progressista e dove, la differenza fra i sessi, è stata in apparenza rimossa, come principio di apertura all’altro. Ma poi, come ogni rimosso ritorna, nella forma barbara della sopraffazione di un sesso sull’altro.

Per questo, lo stupro od il femminicidio, a qualunque latitudine, con qualunque colore della pelle, in qualunque alfabeto, o analfabeto, vengano perpetrati, sono VIOLENZA, punto e basta.

La platea voyeur, sedotta dai media, fa il contrario, invece.

Seziona, conta, particolarizza; derubrica o enfatizza, secondo i casi. E caso vuole che oggi, in Italia, sotto i colpi di una “emergenza immigrazione”, la violenza appartenga alla razza. Esistono ormai stupratori di serie A, stranieri rifugiati e clandestini, e stupratori di serie B, indigeni.

Stupratori efferati, i primi, come a Rimini, e stupratori loro malgrado, “trascinati”, come a Firenze.

Popoli stupratori, che fanno la regola, e mele marce, che fanno l’eccezione.

Stupri da raccontare nei più squallidi dettagli, tipo come funziona la sabbia nella “doppia penetrazione” illustrata da Libero sul caso Rimini, ed amplessi accondiscendenti di due turiste ubriache con due uomini in divisa (su cui stendere la copertina pietosa del decoro dell’Arma e dello stato!!!) come nel caso di Firenze.

Vittime da trattare con qualche riguardo, se bianche, occidentali, perbene, e vittime da violentare una seconda volta, sui giornali, sfregiandone la privacy, se polacche o di chissà dove, precarie, o magari prostitute non per scelta ma per forza.

In gergo sociologico si chiama razzializzazione della violenza sessuale.

Più crudamente significa due cose:

La prima: che i maschi italiani scaricano sui maschi “stranieri” quello con cui non riescono a fare i conti in se stessi, o nel loro vicino di casa, o perfino – come a Lecce – nei loro figli.

La seconda: che quella che è in corso non è solo una guerra fra i sessi, in cui le donne pagano un prezzo implacabile per la loro libertà.

È anche, ed in primo luogo, una guerra fra uomini, per la conquista della donna (che si immagina) d’altri, o per la difesa della donna (che si vorrebbe) propria.

Alla fine di un’estate vissuta solo e soltanto all’insegna della sicurezza, di una sicurezza “esternalizzata” nei campi libici, per difendere i confini nazionali dall’invasione migrante; di una sicurezza esercitata all’interno, con sgomberi, per difendere il decoro urbano da occupanti migranti e indigeni; due uomini della sicurezza, due uomini delle forze dell’ordine si approfittano della vulnerabilità di due studentesse che non sono pienamente in sé, e poi fanno finta di niente.

E per l’opinione pubblica sono” due mele marce”. NO!!! Sono il sintomo parlante di uno stato che la sicurezza non sa cosa sia né dove stia, e che – di nuovo – proietta il problema altrove e su altri, gridando all’emergenza.

Di uno stato che non sa o non vuole garantire i termini minimi della sicurezza quotidiana.

Di un paese in cui i taxi di notte non rispondono alle chiamate, le strade sono buie e se denunci un fidanzato violento di tua figlia nessuno ti sta a sentire. Una sovranità lesionata ed impotente, che eleva muri e confini per nascondere le proprie crepe, nel silenzio assordante di un’intera classe dirigente che delega il caso “per competenza” alla sola ministra Pinotti, e nel rumore altrettanto assordante di un giornalismo sempre peggio ridotto.

Smettiamo di parlare di Femminicidio come se fosse una moda qui si parla di omicidio di una Donna!

Perché, in fondo, per tutti, il coro è lo stesso:” Una donna è solo una femmina…”

http://betapress.it/index.php/2017/09/25/nicolina-pacini-altro-caso-di-rumoroso-silenzio-delle-istituzioni/

 

Antonella Ferrari

 




Mettete i fiori nei vostri cannoni…

Quando si dice prendere una posizione: negli USA atleti in ginocchio durante l’inno nazionale, dilaga la protesta anti-Trump

Quando un nuovo presidente si insedia nel palazzo del potere, si sa, quasi mai riesce a riscuotere l’unanimità dei consensi e le critiche da parte di chi non ne condivide l’orientamento politico o le decisioni intraprese in politica interna ed estera, sono all’ordine del giorno.

Quando però il candidato vincente si dimostra particolarmente infervorato nell’appropriarsi pubblicamente di una retorica ormai anacronisticamente nazionalistica e xenofoba, bisogna intervenire fattivamente e prendere una posizione, lo dice la coscienza.

È quello che hanno fatto alcune tra le più celebri star dello sport americano che in questi ultimi giorni hanno letteralmente preso una posizione decidendo di ricorrere a un gesto forte per riportare l’attenzione sul tema caldo della discriminazione delle minoranze etniche.

Lo scorso 24 settembre, infatti, i campioni dei Jacksonville Jaguars e dei Baltimore Ravers, le due squadre statunitensi di football pronte a fronteggiarsi nello stadio londinese di Wembley, si sono inginocchiati durante l’esecuzione dell’inno americano, prima del match, per sostenere la campagna “Take a knee”, “Inginocchiamoci”, lanciata poco più di un anno fa da un’altra star del football, Colin Kaepernick, quarterback dei San Francisco 49ers.

Compiendo questo gesto Kaepernick intendeva denunciare le discriminazioni razziali ed esprimere solidarietà al movimento “Black Lives Matter”, nato alcuni anni fa a seguito della brutale uccisione di tre uomini afroamericani, Trayvon Martin, Eric Garner e Michael Brown, colpiti a morte da poliziotti bianchi. Da allora la campagna “Take a knee” ha riscosso sempre più adesioni, estendendosi a macchia d’olio nel mondo dello sport americano.

Si è trattato di una vera e propria rivolta sostenuta dalla Lega, dal momento che non solo i giocatori, ma anche i membri dello staff delle due squadre, gli allenatori, i massaggiatori e i proprietari dei club, si sono inginocchiati, seduti o semplicemente hanno toccato loro la spalla in segno di solidarietà.

Si è inginocchiato persino Shahid Khan, patron dei Jacksonville Jaguar che, secondo alcune indiscrezioni del Washingon Post, aveva contribuito con 1 milione di dollari alle spese per l’insediamento del presidente americano. Della serie “amici amici…e poi ti rubano la bici”, nemmeno il tycoon platinato, come noi comuni mortali, è immune dai tradimenti.

Istantanea la reazione di Trump su Twitter: «se i veri tifosi della NFL (National Football League, ndr) rifiuteranno di andare a vedere le partite fino a quando i giocatori non smettono di mancare di rispetto alla nostra bandiera e al nostro Paese, vedrete che le cose cambieranno in fretta. Licenziate o sospendete!», scrive il presidente in un impeto di acceso nazionalismo.

Durante un comizio in Alabama, poi, Trump ha dato il meglio di sé definendo i giocatori che non rispettano l’inno «figli di p…» mentre la loro protesta rappresenterebbe «una mancanza di rispetto nei confronti del patrimonio» americano.

Evidentemente, però, il suo tono perentorio non ha intimorito neppure da lontano, dal momento che il 23 settembre anche la MLB (Major League Baseball) ha deciso di schierarsi contro Trump: Bruce Maxwell, giocatore afroamericano degli Oakland Athletics, si è inginocchiato durante l’inno americano compiendo un gesto che ha destato grande scalpore, essendo il baseball lo sport più popolare in America.

Maxwell, il quale ha dichiarato che «il razzismo in America è ancora disgustoso», ha deciso di inginocchiarsi per esprimere la propria solidarietà nei confronti di Stephen Curry, playmaker dei Golden State Warriors e afroamericano notoriamente impegnato nella lotta alla difesa dei diritti delle minoranze etniche che, dopo aver criticato apertamente l’atteggiamento di Trump, aveva manifestato l’intenzione di rifiutare l’invito a Washington che, come da tradizione, il presidente rivolge annualmente alla squadra che si aggiudica il titolo NBA («Quello che fa e quello che dice non mi piace. Io non voglio andare e se ci sarà una votazione dirò no», aveva dichiarato Curry). Le parole del cestista hanno nuovamente suscitato la reazione del tycoon il quale ha risposto, ovviamente attraverso Twitter, che «andare alla Casa Bianca è considerato un grande onore per una squadra che ha vinto il titolo. Stephen Curry esita, quindi l’invito è annullato».

A sostenere Stephen Curry in questa battaglia a colpi di tweet è intervenuto anche il suo storico rivale Lebron James, stella dei Cleveland Cavaliers e ugualmente impegnato nella lotta alla difesa dei diritti degli afroamericani, il quale ha risposto a Trump nella maniera a lui più congeniale, cioè su Twitter, ovviamente: «Curry aveva già detto che non sarebbe venuto! Perciò non c’è nessun invito. Andare in visita alla casa bianca era un grande onore, finché non sei apparso tu!», ha twittato James. Emblematiche anche le parole del tecnico dei Warriors, Steve Kerr, secondo cui «in tempi normali» si potrebbe facilmente riuscire a «mettere da parte le differenze politiche», ma «questi non sono tempi normali. Sono probabilmente i tempi più divisivi» dai tempi del Vietnam.

A seguito di questi avvenimenti, si sono freneticamente susseguite risposte ufficiali delle squadre e messaggi individuali di giocatori e allenatori, mentre i Warriors, con una nota, hanno annunciato che a febbraio saranno comunque a Washington per una serie di iniziative finalizzate a celebrare «l’uguaglianza, la diversità e l’inclusione: tutti valori che la nostra organizzazione abbraccia».

Anche questa volta Donald Trump ha dimostrato di saper utilizzare sapientemente i social network. Me lo vedo in vestaglia, comodamente seduto alla scrivania della stanza ovale, davanti al computer, mentre digita sulla tastiera parole velenose per consegnarle alle sterminate pianure di Twitter con l’intento di diffondere odio e razzismo.

“Divide et impera”, questo sembra essere il suo pericolosissimo motto.

Pericoloso perché se crediamo che ormai più nessuno si dedichi all’hate speech, soprattutto negli Stati Uniti del politically correct, ci sbagliamo di grosso. Inoltre, dopo l’estate di fuoco appena conclusa, fatta di proteste impetuose a seguito dei fatti di Minnesota e Louisiana, dove altri due afroamericani, Alton Sterling e Philando Castile, hanno perso la vita per mano di poliziotti bianchi; dopo mesi di polemiche contro la costruzione del leggendario “muro” che il megalomane presidente vuole far innalzare al confine col Messico; dopo l’episodio increscioso del travel-ban che ha generato non poche tensioni, il tema della violenza contro le minoranze etniche è ancora caldissimo negli USA.

Il mondo dello sport però si è dimostrato mal disposto a tollerare ancora atteggiamenti che oltraggiano i diritti fondamentali dell’uomo e gli atleti statunitensi hanno deciso di agire insieme, uniti, al di là delle differenze tra squadre, al di là delle rivalità e della competizione, per difendere la libertà di protesta e di espressione.

Questo è lo sport che ci piace, lo sport che unisce contro chi divide, lo sport che si fa veicolo di messaggi forti, lo sport che va oltre il mero momento goliardico.

 




Messina contro Google, la disfatta del colosso americano.

Google si costituisce in giudizio per 25 $ davanti al Giudice di Pace di Rometta (ME) e viene condannata.

A Martino Giorgianni – fratello dello sviluppatore software Davide Giorgianni, titolare della One Multimedia Srl – la chiusura ingiustificata del proprio account di distribuzione sul play store Google non era andata giù.

Ancora meno era andato giù che, per aprirlo, aveva dovuto versare alla Google Payment Ltd la somma di 25 euro, mai rimborsatagli dopo la chiusura dell’account che non aveva nemmeno avuto la possibilità di utilizzare.

Ma già Davide, vistosi “espulso” senza appello da Google dalla possibilità vendere le proprie app per Android, si era dovuto rivolgere al Tribunale, inviando citazione alla società statunitense.

Quindi Martino, con l’assistenza dell’Avv. Andrea Caristi, del Foro di Messina, ha citato – azionando l’art 4 del Reg. CE n. 861/2007 c.d. “procedimento europeo per le controverse di modesta entità” –  la Google Payments Ltd, innanzi il Giudice di pace di Rometta, in provincia di Messina, per richiedere la restituzione dei 25 dollari.

Google si costituiva in giudizio, producendo corposa memoria difensiva e sollevando numerose eccezioni di giurisdizione, asserendo la competenza dei Tribunali U.S.A. di Santa Clara (California) ovvero del Regno Unito (Galles) ma il Giudice di Pace di Rometta (ME) ritenuta la sua competenza e giurisdizione ha condannato il colosso a restituire a Martino il 25$ e pagarli le spese del giudizio.

Finalmente una prima linea di indirizzo che si muove contro queste multinazionali che schiacciano l’utente utilizzando la loro caratura ed il fatto che non hanno problemi a buttare i soldi in cause legali.

Attenzione: se non ci rendiamo conto che oggi tutto ormai passa per il virtuale e che tutto il virtuale è in mano a pochissimi colossi, allora manco ci accorgiamo che a breve in pochi avranno in mano il mondo.

Vogliamo questo?

 

 




Social, luogo di incontrollata pazzia.

Catania, una donna sposata, con un regolare lavoro in un esercizio commerciale, ha pubblicato la foto di un’ecografia e messo all’asta online il suo bambino. Un “vero affare”, con un’asta che partiva dai 10mila euro. ( Ma vale davvero così poco una vita?!?)

Qualcuno, sulla rete, ha notato l’annuncio e ha denunciato la donna alla Procura di Catania, che ha avviato un’indagine con l’aiuto della polizia postale.

A pubblicare l’annuncio una donna di Milano di 28 anni e soprattutto non incinta che ha detto di aver agito solo per gioco come un “troll”, coloro che si divertono sui social network a scatenare polemiche e discussioni con provocazioni varie.

Intanto, però, la donna è stata indagata in stato di libertà.

Questo assurdo gioco che varca ogni divieto legale ed ogni limite morale, inizia quando la giovane  donna di Milano pubblica la foto di un’ecografia del feto, sostenendo di essere al quinto mese di gravidanza e promettendo di vendere il bambino dopo il parto, al miglior offerente.

Un vero affare in un mondo virtuale, dove il valore della vita si converte in speculazione… Non sono emerse proposte di acquisto, (per fortuna, diciamo noi !!!) però è scattata un’indagine della polizia postale dopo la segnalazione di un utente dalla pagina Compro e vendo tutto su Facebook.

La donna è stata identificata e sottoposta a perquisizione domiciliare ed informatica, su disposizione dei Pm di Catania, eseguita dalla Polizia Postale di Milano.

L’indagata ha ammesso di essere stata l’autrice dell’annuncio, spiegando che la sua era una provocazione, un ‘troll’, per creare disturbo e fomentare gli utenti.

Per renderla credibile aveva pubblicato anche l’immagine di un’ecografia prelevata da un gruppo web di mamme.

A questo punto, però, sorge spontanea la domanda: “Ma a che punto siamo arrivati se l’avanguardia tecnologica informatica, con l’ausilio dei social, diventa sempre più il terreno fertile per semi di aberrazione mentale di questo tipo?!?”

La Polizia Postale consiglia di non rispondere ai troll, ignorando le provocazioni e segnalando, comunque, i contenuti che potrebbero configurare reati procedibili d’ufficio o imminenti pericoli al fine, in ogni caso, di verificarne la fondatezza.

Ma, al di là di ogni perquisizione e punizione, resta il disgusto per chi osa giocare online con le leggi della vita e della morte e l’invito a dissociarsi da simili assurdi giochi che, prima ancora di essere illegali, sono decisamente immorali!!!

 

Antonella Ferrari




Nicolina Pacini, altro caso di rumoroso silenzio delle Istituzioni.

Non ce l’ha fatta Nicolina Pacini, la quindicenne di Ischitella, un piccolo paesino in provincia di Foggia, che il 20 settembre è stata colpita in pieno volto dal proiettile esploso da una calibro 22 per mano dell’ex compagno della madre, Antonio Di Paola, 37 anni. I suoi grandi occhi azzurri si sono chiusi per sempre il 21 settembre, l’ennesimo arresto cardiaco le è stato fatale, dopo averci lasciati col fiato sospeso, nella vana speranza di una sua ripresa.

Il 20 settembre, alle ore 07.30, Nicolina stava scendendo di fretta le scale di Via Zuppetta a Ischitella per raggiungere la fermata del pullman che l’avrebbe condotta a scuola, ma su quel pullman Nicolina non è mai salita. Antonio Di Paola, dopo averla avvicinata probabilmente per chiederle notizie della madre, infastidito dalla reticenza della giovane, l’ha colpita in viso con la sua pistola.

La fuga dell’uomo si è arrestata nelle campagne circostanti, nel momento in cui Di Paola decide di togliersi la vita con quella stessa arma che poche ore prima aveva colpito a morte Nicolina.

Una situazione familiare complicata quella dei Pacini: la madre, Donatella Rago, 37 anni, si era trasferita per esigenze lavorative a Viareggio, città in cui la stessa Nicolina era nata e cresciuta e in cui aveva frequentato le scuole elementari e medie; nella città versiliese viveva anche Ezio Pacini, padre della ragazza.

Nicolina e suo fratello minore, invece, erano stati affidati ai nonni materni dai servizi sociali.

La Rago, tuttavia, accusa i servizi sociali di non averla ascoltata quando chiedeva che i suoi figli fossero portati via da Ischitella, paese che la donna riteneva poco sicuro per loro.

Di Paola, infatti, non riusciva ad accettare la fine della storia con Donatella, con la quale aveva interrotto bruscamente la frequentazione nel mese di agosto.

Dopo un periodo infernale per l’intera famiglia, fatto di minacce, telefonate intimidatorie, inquietanti appostamenti ed episodi traumatici per la ragazza, alla quale Di Paola aveva puntato un coltello all’addome poco tempo prima, l’uomo è stato sopraffatto dall’efferatezza e l’ha colpita in volto senza pietà.

La madre, Donatella Rago, afferma di aver più volte sporto denuncia per minacce a carico dell’ex compagno, l’ultima delle quali risale proprio a un paio di settimane prima del tragico evento, mentre il cugino dell’assassino-suicida riferisce alle telecamere del programma televisivo “La vita in diretta”, di aver riportato ai carabinieri che Di Paola fosse in possesso di una pistola, ma di essere stato ignorato.

Stando al racconto del cugino, Di Paola gli avrebbe chiesto in prestito trecento euro per andare a Viareggio a uccidere l’ex compagna, la quale più volte si era raccomandata con la figlia Nicolina affinché la giovane non uscisse mai di casa da sola, poiché conosceva le macchinazioni perverse tramate dall’ex compagno.

Per sincerarsi della presenza di possibili mancanze o ritardi nell’intervento degli organi preposti, il ministro della giustizia Andrea Olando ha disposto l’intervento degli ispettori del ministero.

Insomma, quello di Nicolina Pacini sembra essere l’ennesimo caso di femminicidio preannunciato, un’uccisione che si poteva certamente sventare se solo le denunce e le richieste d’aiuto di Donatella Rago fossero state accolte e ascoltate con attenzione.

Antonio Di Paola però, come una moderna Medea, nel tentativo di colpire la sua ex compagna, si è rivelato molto più spietato degli assassini negativamente protagonisti dei casi di cronaca nera a cui siamo ormai abituati e ha riversato tutta la sua rabbia su una giovanissima ragazza innocente, lasciando in vita la sua ex compagna, ma privandola del proprio futuro e arrecandole un dolore molto più grande.

Nel 2016 le donne vittime di femminicidio per mano di un uomo sono state centoventi (fonte: Ansa), mentre secondo i dati Istat 2016 sette milioni di donne hanno subito qualche forma di violenza nel corso della loro vita.

Spesso mi domando come mai il numero degli episodi di violenza di genere sia così esponenzialmente cresciuto negli ultimi anni e mi sembra di trovare una risposta nel fatto che molte donne abbiano trovato il coraggio di emanciparsi, di rivendicare la propria autonomia e difendere la propria indipendenza.

Oggi sempre più donne si ribellano alle molestie, si separano da un uomo con cui la storia non funziona più, s’innamorano di altri uomini e non hanno paura di seguire il loro cuore.

Oggi le donne fanno carriera, diventano manager e imprenditrici, posticipano l’acquisizione del ruolo materno oltre i quarant’anni, talvolta scelgono volontariamente di non avere figli, assumono posizioni prestigiose anche in ambito politico diventando potenti, eppure alcuni uomini ancora non accettano l’idea di essere lasciati dalla propria moglie o compagna.

Cos’è, dunque, che convince alcuni uomini che una donna possa essere “o mia o di nessun altro”, o loro o morta?

Cos’è che li spinge a pretendere che la loro compagnia debba essere una proprietà, un oggetto da possedere come si possiede un’automobile?

L’enorme e innegabile aumento dell’emancipazione femminile verificatosi in questi ultimi decenni, frutto indiretto delle rivoluzioni femminili degli anni Settanta-Ottanta, evidentemente è un boccone troppo amaro da ingoiare, al cui sapore alcuni non si sono ancora abituati.

Ecco quindi che l’insicurezza, la mancanza di autostima, la rabbia repressa, le delusioni, le paure maschili, hanno, nei casi di cronaca ormai tristemente noti, un’unica valvola di sfogo: la donna.  

C’è da chiedersi quanti altri casi del genere dovremo lasciare che accadano prima di dare ascolto a quelle donne che chiedono aiuto e protezione per reagire alle minacce e ai maltrattamenti perpetrati loro da compagni, ex compagni, mariti ed ex mariti.

Quante altre Nicolina Pacini, quante Noemi Durini, quante Lucia Annibali, quante Gessica Notaro dovranno ancora morire o rischiare di farlo prima che sia pensata una legge che tuteli le vittime di violenza di genere?

Io non lo so, ma so con certezza che la mia amata Puglia, in soli due giorni, ha perduto due meravigliose ragazze a causa della nostra leggerezza.

 




Da grande vorrei fare … il ricco!

I primi giorni di scuola, nell’ambito dei progetti di accoglienza, mi piace chiedere ai miei nuovi alunni: “Cosa vorresti fare da grande?”

Risposta: “Il calciatore”, oppure, “La velina”…

Spesso ricevo queste risposte dai ragazzi delle medie.

Naturalmente, ce ne sono tante altre, alcuni di loro, già consapevoli e, non a caso buoni lettori, dicono invece di volere fare il giornalista, il medico, lo scienziato, il ricercatore…

Ma il mito del successo e del guadagno facile è diffuso.

Molti di loro ritengono che sapere dare un calcio al pallone sia già la garanzia di un futuro di popolarità, di esibizioni internazionali e di compensi favolosi.

Ancora più adulatoria e fasulla l’illusione delle ragazze che sognano di superare una selezione televisiva che le introdurrà rapidamente nel mondo del cinema e della pubblicità.

Hanno imparato che il talento conta poco, lo studio, la disciplina, la competenza portano solo povertà e frustrazione.

La bellezza, invece, può essere un buon strumento per ottenere qualcosa che il mondo del mercato offre con apparente facilità: soldi e successo, un binomio perverso e ingannevole.

Ma chi mette loro in testa questi miti fasulli? I vari schermi che infestano la nostra vita: quel rettangolo magico in cui tutto sembra facile e alla portata di mano, in cui i corpi contano più dei pensieri e delle parole, in cui il feticcio del successo appare come un premio facilmente raggiungibile, basta saper dribblare o sculettare…

Come se non bastasse, alla mia domanda “Ma, nessuno di voi vorrebbe fare l’insegnante?”, c’è sempre qualcuno che mi dice: “Ma non sono mica matto!?!”.

” Quanto prende lei Prof ?”. E mentre temporeggio nel rispondere, c’è chi aggiunge “Tanta fatica per fare il martire “…

Ed allora, capisci che, una volta di più, dovrai lottare per rivendicare il ruolo della scuola in questa landa selvaggia di propagazione di falsi miti.

Dovrai mettercela tutta per convincerli, con il tuo esempio che non sei  né un santo, né un masochista, che, ogni giorno entri in classe entusiasta e motivato, con il privilegio di essere un nuovo demiurgo che può e deve fare la sua parte nel formare e modellare le nuove generazioni.

Certo, se penso alle sparate ministeriali di chi ci governa, la mia impressione è che l’Istituzione scuola si stia disgregando: che nelle varie campagne elettorali, la scuola sia uno specchietto per allodole per attirare consensi dimenticando il suo vero ruolo, quello, cioè, di formare il bravo cittadino.

Dietro e dentro ogni nuovo decreto ministeriale, vedo e vivo una scuola impaurita dalle novità, sempre più chiusa tristemente in se stessa.

Per fortuna, però, per chi la scuola la vive dal basso, esiste una fitta rete di insegnanti responsabili e generosi che credono nel carattere missionario del loro lavoro, dedicano quotidianamente le loro energie ad insegnare la consapevolezza e la responsabilità, due qualità carenti nel nostro Paese.

Per mia esperienza, lì dove gli insegnanti danno il buon esempio, mettendosi in dialogo con gli studenti, aiutandoli a diventare protagonisti della difficile arte dell’apprendimento, i ragazzi rispondono più che bene.

Per questo, quando nelle risposte provocatorie dei miei alunni, capisco che manca un progetto condiviso del futuro comune, punto tutto sul costruire un pezzetto di vita con loro.

Quando mi accorgo che la scuola è privata del suo prestigio e della sua libertà, cerco, come insegnante, di inventarmi una scuola migliore, che non sarà la buona scuola ministeriale, ma non sarà neanche la scuola del Grande fratello o dell’Isola dei famosi…

So che, molti miei colleghi, magari scoraggiati, si sono già arresi e chiudono ogni comunicazione.

Altri, fanno il conto alla rovescia ed aspettano la pensione come soluzione ad ogni male.

C’è chi mi compatisce e mi definisce una povera illusa…

Ma, so di non essere sola.

A tutti gli altri, quelli che resistono e si spendono con generosità, dico grazie perché è merito loro se la scuola sopravvive ed offre ancora altri miti reali e civili.

 

Antonella Ferrari