Scrivere per crescere

Beppe Severgnini, grazie!

E’ un’eterna lotta, contro il tempo e contro la moda dilagante, quella di convincere gli alunni a scrivere bene e a mano.

Ogni anno, nei primi giorni di scuola (e mi riferisco alle medie in cui insegno da parecchi anni), è tremendamente deprimente impostare la scrittura, ma ancor più la calligrafia, degli alunni.

Arrivano dalle elementari che scrivono poco e male, quasi sempre in stampatello.

Il corsivo è un optional, giusto per le grandi feste, ovvero, la ricerca o il compito in classe.

Ma non me la sento assolutamente di criticare i colleghi insegnanti delle elementari.

Siamo tutti sulla stessa barca, quella dell’addio alla scrittura, e dell’abbandono della calligrafia.

Oggi, leggendo quanto ha scritto Beppe Severgnini, a proposito del valore della scrittura e dell’importanza dello scrivere a mano, ho esultato di gusto.

Questa la sua opinione in proposito:” A scadenze regolari, qualcuno scopre che scrivere a mano è bello. Non si tratta di anziani tecnofobi o giovani eccentrici che rinunciano alla tastiera, ma di persone equilibrate, impegnate in campi diversi”.

Qualche giorno fa, il Corriere è tornato sul tema con Candida Morvillo che, riprendendo un’inchiesta di Medium Magazine, ha raccontato come diverse scuole e università Usa impongano agli studenti di prendere appunti manuali.

Invece, secondo Emanuele Trevi, la calligrafia è uno strumento intimo, quello che più si addice alla sfera personale: «un potente ansiolitico, innocuo e a basso costo».

Sull’effetto tranquillante dello scrivere a mano, non mi esprimo. Anzi, quando impongo ai miei alunni di scrivere sotto dettatura, in corsivo, di solito, si genera tensione in classe.

Ma adesso c’è un perché. E non è solo questione di pigrizia. Non solo per chi è appassionato di grafologia, ma per tutti, è evidente che scrivere a mano significa spogliarsi.

In generale, quando si impugna una penna e ci si accinge a scrivere, si prova la sensazione di mettersi a nudo. Aggredire lo spazio bianco significa aggredire la vita.

Tenere il rigo esprime stabilità ed equilibrio.

Lasciare o meno uno spazio tra lettere, parole, righe indica apertura o chiusura agli altri. Allargare o stringere il margine destro o sinistro manifesta slancio verso il futuro o attaccamento verso il passato… Il tratto rivela la personalità e la pressione sul foglio indica l’energia di un individuo.

E’ evidente, la scrittura è unica ed irripetibile, come ognuno di noi.

E cambia, a seconda delle emozioni che stiamo vivendo.

Fiorisce, si assesta, si trasforma come noi, ogni giorno, giorno dopo giorno.

E proprio perché, molti di noi intuiscono, empiricamente, quanto la grafia è rivelatrice, alcuni di noi hanno paura di quello che potrebbe saltar fuori.

A livello collettivo, poi, un po’ tutti proviamo un timore subliminale, di cui non ci rendiamo conto.  La paura di scoprirci e di renderci vulnerabili. La paura di armare l’altro con la conoscenza delle nostre debolezze o fragilità.

Ma, altrettanto inquietante, è l’uso nevrotico dello smartphone per prendere appunti. Prendere appunti con un telefonino, non è normale; è la spia di un disagio.

E il ricorso allo stampatello, soprattutto tra le nuove generazioni, non è pigrizia o ricerca di omologazione: è ansia.

Beppe Severgnini smaschera in pieno il disagio di chi teme la scrittura ed il disegno quando scrive:”La stessa ansia che ritroviamo quando proponiamo l’Intervista Disegnata, che ogni settimana chiude 7-Corriere.

La prima risposta, quasi sempre, è: «Non so disegnare!».

Allora Stefania Chiale, che cura quello spazio, pazientemente spiega: non cerchiamo virtuosismi, ma originalità e spontaneità; contano le idee e la fantasia, non l’abilità nel tratto.

Molti si lasciano convincere, e confessano d’aver trovato l’esperienza liberatoria. Ma qualcuno si ritira, e ammette: disegnare le mie convinzioni e le mie paure mi spaventa”.

E’ pazzesco!

Nell’epoca in cui, grazie o per colpa dei social, tutti, o quasi tutti, fanno a gara a spogliarsi. Nell’epoca in cui non ci sono più confini tra il pubblico ed il privato. Nell’epoca in cui ci si esibisce in senso fisico, e ci si scopre in senso traslato, non si vuole più scrivere a mano.

Perché si teme di essere scoperti.  E’chiaro! Molti tra noi non hanno paura di denudarsi emotivamente su Facebook, Instagram (o Tinder); ma si sentono vulnerabili se scrivono a mano o disegnano.

Ma, non c’è contraddizione. I social sono uno schermo, la rete è uno scudo: in qualche modo, pensiamo di poter nascondere quello che siamo e sentiamo davvero. Un biglietto scritto a mano o un disegno sono invece una confessione.

Anzi, uno spogliarello. Non tutti sono lì a guardare, ma qualcuno potrebbe intravedere qualcosa.

E forse, allora, non andremmo poi così fieri di quello che realmente siamo, spogliati di tutte le mille illusorie, estemporanee ed immaginifiche pseudo-realtà, virtuali.

Antonella Ferrari




3200 giovani: il senso del Trofeo CONI Kinder+Sport

Nel 2018, essendo membro della Giunta del Comitato Regionale Emilia Romagna del CONI ho avuto la possibilità di organizzare il Trofeo CONI Kinder+Sport, una sorta di mini olimpiade destinata ai ragazzi Under14, divisi in rappresentative regionali.

A partire dal titolo che unisce il nome del Comitato Olimpico a quello di una importante azienda come Kinder, si vede quanto possa essere utile e proficuo il collegamento tra marchi e Sport.

Nell’edizione 2018, giocata a Rimini, abbiamo visto in campo ben 3200 ragazzi e ragazze che si sono dati battaglia in 45 discipline che derivano da ben 35 Federazioni Sportive Nazionali e 10 Discipline Sportive Associate.

Due sono stati i giorni di gara ai quali se n’è aggiunto uno per la cerimonia di apertura.

Ci vorrebbe molto tempo e spazio per raccontare tutto quello che è stata questa esperienza, per cui mi limito a tre episodi significativi.

Il primo momento è la cerimonia di apertura che si è svolta giovedì 20 settembre nel parco Marecchia di Rimini, davanti al ponte Tiberio.

Il ponte Tiberio è un ponte di epoca romana ed è uno dei monumenti più importanti della provincia riminese.

Io avevo già iniziato a scrivere la mia tesi incentrata sulle evoluzioni del diritto e dello Sport nel tempo e, la prima cosa che ho pensato è che quel ponte, nei suoi duemila anni di storia, ha vissuto dalle Olimpiadi antiche a quelle moderne dei giorni nostri, tutta la parabola dello Sport cosi come lo conosciamo ed è stato emozionante.

Proprio li, seduto al mio posto nelle prime file del parterre allestito per l’occasione, ho visto passare davanti a me, uno ad uno, i 3200 ragazzi, con i circa 800 tecnici alla presenza di migliaia di appassionati e l’atmosfera è subito diventata magica.

Non ho ancora avuto la fortuna di partecipare ad una edizione dei Giochi Olimpici ma la sfilata inaugurale è uno di quei momenti di ritualità dello sport che collegano idealmente atleti da ogni parte del mondo e in ogni tempo.

Verso la fine della cerimonia, il presentatore ha fatto una domanda al Presidente del CONI, Giovanni Malagò il quale ha risposto con una sola parola “felice” e mi perdonerà se prendo in prestito questa sua risposta per definire in modo preciso e sintetico la sensazione che ha avvolto me e tutte le persone che erano li in quel momento.

Eravamo senza dubbio stanchi per aver  fatto le corse per giorni ad organizzare ed allestire i 45 campi di gara, per distribuire tutto il materiare e coordinare l’arrivo di tutti ma eravamo FELICI.

A conclusione della cerimonia c’è stato qualcosa di ancora più bello, l’inno nazionale accompagnato dai fuochi d’artificio che partivano dal ponte e che con i loro giochi di luce ci hanno permesso di vedere che su tutte le sponde si era assiepata una folla imponente di persone incuriosita dalla manifestazione.

Il secondo episodio è del giorno successivo.

Con alcuni delegati provinciali, Antonio Bonetti di Parma, Andrea Dondi di Modena e Stefano Galetti di Bologna, abbiamo fatto un giro di visite ad alcune discipline tra cui quelle della F.I.G.E.S.T. (Federazione Italiana Sport e Giochi Tradizionali) dove i ragazzi si stavano per dare battaglia nella competizione di Freccette, poi una prova veloce dell’Arrampicata e siamo arrivati nuovamente nel parco Marecchia che serviva come campo di gara per varie discipline.

Nel centro del parco avevano allestito una zona per l’Agility, disciplina collegata alla F.I.D.A.S.C. (Federazione Italiana Discipline Armi Sportive da Caccia) stava per iniziare la competizione.

Già era bellissimo vedere i ragazzi prepararsi e concentrarsi con il loro amici a quattro zampe quando il Comitato di gara ha distribuito una lettera a tutti i Partecipanti, di buon augurio per le competizioni, a firma del presidente nazionale della F.I.D.A.S.C.

Inutile dirvi quanto questo piccolo gesto abbia avuto successo tra i ragazzi, alcuni leggevano la lettera a voce alta per farla sentire anche ai loro partner a quattro zampe che, forse non potevano capirne il contenuto letterale, ma sicuramente avranno percepito la gioia e l’emozione dei ragazzi.

L’ultimo episodio arriva dalla terza ed ultima giornata, la seconda di gara, quando mi sono dedicato alle premiazioni.

Nella prima mattinata sono andato ad una disciplina che sinceramente non conoscevo molto e che mi ha stupito in modo estremamente positivo: la Palla Tamburello, dove sono stato accolto dal Vice Presidente nazionale, Flavio Ubiali.

Entrato nella palestra che ospitava la gara ho assistito agli ultimi punti della finale, estremamente combattuta, che mi ha coinvolto in un clima di tifo straordinario, rispettoso ma molto caloroso, che ha sostenuto le squadre impegnate a giocarsi la coppa in un tre contro tre alternato maschi/femmine ed incerto fino all’ultimo punto.

Che bella atmosfera!

Il tutto reso ancora più sportivamente bello quando uno dei ragazzi ha segnalato che un arbitro aveva sbagliato una valutazione a suo favore.

Un fatto che non dovrebbe essere un’eccezione, anche se purtroppo lo è, ma in questo caso ha contribuito ad affermare il vero senso dello Sport.




Italia paese maschilista…

Ancora mi viene da ridere (amaramente però!) quando ripenso ad uno storico sketch di Zelig.

Una brava ragazza, assetata di conoscenza e motivata nello studio, rivendicava il suo diritto a farsi spazio nella vita, studiando prima, e lavorando dopo, perché “una donna intelligente, arriva dove vuole “.

Immancabilmente, il padre, maschilista e fallocrate, la zittiva, deprimendola ed umiliandola.

La figlia, soggetto intellettivo, affamato di cultura e di libertà, era sempre più criticata, ridicolizzata, e tutta la sua persona si riduceva ad un mero oggetto sessuale.

Ogni sogno di affermazione meritocratica culturale si convertiva in “Le chiappe devi mostrare!”.

Parole profetiche, tristemente profetiche!

In Italia, le donne sono le più istruite e le meno occupate. Sempre, intendendo quelle che non mostrano il loro lato B in televisione o sui social!

Secondo i dati del World Economic Forum, siamo primi al mondo per iscrizioni di donne all’università, ultimi in Occidente per partecipazione femminile al mercato del lavoro. In altre parole: stiamo buttando via la componente più istruita della popolazione. E poi ci chiediamo perché non si cresce.

Word Economic Forum, nel suo annuale rapporto sul Global Gender Gap, ci segnala infatti che siamo il primo paese al mondo per numero di donne che si iscrivono a percorsi di formazione terziaria, dall’università in su.

Ma siamo 118esimi su 140 – peggiori in Europa, peggiori in Occidente – per partecipazione femminile alla vita economica del Paese.

E, come se non bastasse, siamo 126esimi per parità di trattamento economico.

Per chi non l’avesse capito, in Italia, le donne, quelle che “le chiappe non le mostrano…” fanno una brutta fine. O non lavorano, o sono sotto pagate. Nel dettaglio: per ogni cento maschi iscritti all’università, ci sono 136 donne.

Il percorso di studi è completato dal 17,4% delle donne, contro il 12,7% dei maschi. E sono ancora donne il 60% circa dei laureati con lode.

Le donne si laureano di più e meglio, insomma.

E non è una novità.

Ma quando inizia la ricerca di un posto di lavoro, viene il bello.

Non solo in Italia si assiste sempre più ad un’inflazione del titolo di studio, ma non c’è proprio lavoro.

E, ironia della sorte, su 10 persone che, scoraggiate, smettono di cercare lavoro, sei sono donne!

La disoccupazione femminile è di tre punti percentuali più alta di quella maschile ed il part time, molto spesso imposto, riguarda il 40% delle lavoratrici contro il 16% dei lavoratori!

Ed una donna che non lavora, o lavora poco e male, rinuncia al suo sacrosanto diritto alla maternità. Una donna che ha studiato, sognando cultura e libertà, non accetta di stare a casa, a fare figli, mantenuta dal marito!

E’così facile da capire! L’Italia è il paese occidentale con il più basso indice demografico.

Allora, un consiglio, ai nostri cervelloni politici. Nel Paese che cresce meno di tutto l’Occidente mettete come primo punto all’ordine del giorno di un consiglio dei ministri o di tutte le tavole rotonde la questione lavorativa femminile.

Forse, per far ripartire l’Italia, bisogna far lavorare le donne. Iniziamo a mettere al lavoro la parte più istruita della popolazione. Sono i numeri che parlano: secondo l’agenzia europea Eurofound il costo complessivo per l’Italia della sottoutilizzazione del capitale umano femminile è pari a 88 miliardi di euro, cioè al 5,7% del Pil, il 23% di tutta la ricchezza persa in Europa a causa della discriminazione di genere.

Mettiamo al lavoro le donne, garantiamo loro paghe e percorsi di carriera all’altezza di quelli dei loro colleghi maschi e, forse, possiamo combattere il calo demografico italiano. Anche in questo caso, sono i dati a dirlo.

In tutta Europa, è il secondo stipendio che permette alle famiglie di pensare di fare quel secondo figlio che garantirebbe la sostenibilità del nostro sistema sociale. Viceversa, un mondo del lavoro in cui se rimani incinta sei licenziata, o se ti va bene congelata a mansioni di basso livello, è il miglior incentivo alle culle vuote.

In Italia siamo indietro culturalmente, cioè, convinti del contrario!

C’è ancora chi pensa che i figli arrivino con l’angelo del focolare, non con l’emancipazione femminile.

Infatti, siamo proprio noi, il Paese che fa meno figli al mondo, quelli che discriminano le donne sul lavoro, quelli che ancora oggi pensano che la cura dei figli sia affare esclusivo delle donne, quelli del maschio che procaccia il cibo e della femmina che accudisce la prole.

Basta guardare la tutela politica della genitorialità per averne la conferma.

La Francia, il Paese più prolifico d’Europa, garantisce sei mesi di congedo parentale per entrambi i genitori e il 40% dei bimbi sotto i 2 anni ha posto in un servizio per l’infanzia.

In Spagna i padri possono beneficiare già oggi di 35 giorni di congedo parentale alla nascita del figlio, e presto si arriverà alla parità totale: 16 settimane a testa, tra padre e madre.

In Italia, invece, hanno pure provato a dimezzare di nuovo il congedo di paternità da 5 a 2 giorni.

Perché, tanto, i nostri guai sono tutti colpa dell’Europa.

E di chi, in Italia, si ostina a non mostrare le chiappe…

 

Antonella Ferrari

 

 




Chi è lo schiavo e chi è il padrone?

Riflessioni a seguito della lettura de La capanna dello zio Tom di Harriet Beecher Stowe

Noi, che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, che troviamo, tornando a sera, il cibo caldo e visi amici, consideriamo la nostra umanità.

L’incipit di questo articolo è chiaramente una parafrasi della poesia “se questo è un uomo” di Primo Levi.

Ho scelto queste parole perché, lo confesso, sono in difficoltà nel trovarne di mie.

Come tanti, sono una lettrice di romanzi, di essi mi piace il fatto che, naturalmente, passano sottobanco una serie di stimoli che da sola non saprei neppure di voler cercare.

Purtroppo questo non è del tutto un bene perché non sempre quello che troviamo è quello davanti a cui vogliamo trovarci.

Il lettore sa che può capitare che si legga per il piacere di farlo e poi, alla fine, ci si ritrovi come “scomodi”.

Un sorta di spina nella carne, come mutuava Kierkegaard da Paolo di Tarso.

Ma forse la letteratura, come l’arte in genere, potrebbe essere questo: un pungiglione.

Alle volte potrebbe venire da pensare che se concilia non è arte.

Ma torniamo alle mie scelte letterarie che, per caso, questa volta sono ricadute su “La capanna dello zio Tom” di Harriet Beecher Stowe, romanzo celeberrimo, soprattutto per i solutori di parole crociate.

Romanzo notissimo, dicevo, ma nei confronti del quale io, oltre al nome di Tom inserito più volte nelle caselle in senso orizzontale o verticale, non ero andata.

L’incipit sembra quello di un classico romanzo dell’Ottocento che racconta le romantiche (nel senso etimologico del termine) dinamiche dei personaggi 

Andando avanti le cose cambiano velocemente e arrivano già le prime avvisaglie della vergogna.

Per chi come me avesse sottovalutato la trama del romanzo, la capanna dello zio Tom racconta le dinamiche della schiavitù nell’America dell’Ottocento, di come venivano percepiti e trattati di schiavi e di come fosse mortificante e mortificata l’umanità degli schiavi e dei padroni.

Oltre ai personaggi con nomi e caratteri, i protagonisti trasversali del romanzo sono la religione cristiana, la cultura e la schiavitù.

Le vittime, come in tutti i romanzi, siamo noi lettori che pensiamo di passare qualche ora di benessere e ne usciamo scossi.

La storia è ambientata nella prima metà del 1800, per un periodo lungo una vita (quella di Tom), siamo prima del 1850 e siamo in America.

Quello che fa pensare è che si tratta di meno di 200 anni fa, un lasso di tempo che interessa ancora le storie di qualche bisnonno, praticamente l’altro ieri.

La schiavitù

In America, la terra dei grandi sogni e della libertà, era accettata la schiavitù ed esistevano gli schiavi, bene mobile del patrimonio umano.

In Europa, non da meno, la prima rivoluzione industriale portava in seno e dava alla luce la classe operaia paragonata nel corso del romanzo, a una simile schiavitù.

Il pretesto letterario è la storia di Tom: schiavo fedele venduto controvoglia dal suo amato padrone e in attesa di essere riscattato per tornare dalla sua famiglia.

Tom, viaggiando con un carico di schiavi e l’altro, attraversa stati e fiumi e incontrata tanti schiavi, tanti padroni e tanti mercanti di schiavi.

Gli schiavi dalla descrizione della storia hanno nella loro essenza il marchio di infamia della loro origine cattiva (ovvero legata alla cattività), di loro si pensa che non abbiano affezioni né sentimenti umani, anche il padrone più progressista e pio li guarda con benevolenza ma non riesce a vederli come pari a lui.

Più simili a quelli che per noi oggi sono gli animali domestici che agli uomini, gli schiavi portavano le catene ai piedi e dentro l’anima.

Chi conosce il romanzo, la tematica e la critica, sa che questo romanzo ha gettato le basi per tanti stereotipi che descrivono lo schiavo negro americano.

Può piacere o non piacere, può apparire troppo sentimentale o penoso o, addirittura, riduttivo, ma è comunque un documento e una testimonianza.

Le storie raccontate sono vere e i sentimenti sinceri ed è questo che destabilizza e scuote dal torpore

La religione


La religione viene offerta loro come placebo per sopportare i dolori e diventare esempi di santità; dà la forza per cambiare vita ed è il pretesto e la strada per acculturarsi.

Leggere la bibbia e scrivere alle persone care, sono le leve che spingono i protagonisti a voler imparare a leggere e scrivere.

La religione è la doppia leva che, se da un lato spinge i padroni – soprattutto le donne – alla carità, dall’altro lato legittima la schiavitù.

La cultura

La cultura distingue schiavi da padroni.

Chi sa leggere e scrivere ha diritto di avere sentimenti perché anche il più sciocco e vuoto personaggio, grazie alla cultura, è un uomo e non uno schiavo.

Lo schiavo che sa più o meno leggere diventa prezioso e acquista valore commerciale, lo schiavo che sa leggere e scrivere, si è insinuato nella società.

E tutto questo, lo ripeto, avveniva meno di 200 anni fa.

E oggi dove sta la nostra schiavitù?

Di che colore è la pelle dei nostri schiavi?

E quella dei padroni? 

Noi chi siamo? Schiavi o padroni?
Ci sono persone che, crediamo, non abbiano i nostri stessi sentimenti?
Ci sono persone rispetto alle quali, crediamo di avere passioni inferiori?

C’è qualcosa di tangibile che ci fa sentire superiori o inferiori ad altri?

C’è per caso una schiavitù che sopportiamo perché pensiamo non ci riguardi o sia naturale?

Quanto devono essere recenti le disumanità perché possiamo dimenticarle o ignorarle?

Riferimenti:

Poesia Se questo è un uomo di Primo Levi

https://www.riflessioni.it/testi/primo_levi.htm

Audiolibro de La capanna dello zio Tom

https://www.liberliber.it/online/autori/autori-s/harriet-beecher-stowe/la-capanna-dello-zio-tom-audiolibro/




Aldo, una vita per 25 euro

Doniamo una voce a chi una non l’ha: Buon Natale a tutti gli  Aldo il Clochard!

 

Una Palermo rischiarata dagli addobbi di Natale, la gente che riempie i negozi in cerca di sorprese da mettere sotto l’albero per rendere felice i propri cari, folle che si radunano ai piedi di un teatro Massimo addobbato da una cascata di piante per immortalare l’attimo attraverso una foto; nessuno si ferma, è tutto un via vai alla costante ricerca di futili oggetti.

Accanto alle vetrine ai limiti della sussistenza c’è un’altra realtà, quella di chi per sopravvivere rovista nei cassonetti, quella di chi passa le notti al gelo con uno zaino contenete tutto il loro mondo, quella che noi non vediamo perché la nostra vita corre in fretta e non abbiamo tempo per volgere gli occhi verso chi accantonato in un angolo della strada sta lì con lo sguardo perso nel vuoto.

Uno dei tanti invisibili è Aid Abdellah, da tutti conosciuto come Aldo, il senzatetto di origini francesi trovato senza vita sotto i portici di piazzale Ungheria a Palermo.

Il suono della sua armonica allietava i passanti che a lui porgevano pochi spiccioli; nella sera di domenica il ricavato era di circa 25 Euro, questa è la somma che gli è costata la vita.

Aldo è stato ucciso perché un ragazzetto qualunque ha ben pensato di rubargli i suoi soldi.

Ai commercianti e alle signore che spesso si fermavano a parlare con lui, Aldo aveva confessato di temere le incursioni di bande di ragazzini che più volte avevano inveito contro gli invisibili della città, per questo motivo aveva scelto di dormire sotto l’occhio vigile di una telecamera, la stessa che ha ripreso i suoi ultimi istanti di vita e che ha portato alla cattura del suo assassino.

“L’ho colpito, ho preso i soldi. Erano solo 25 euro e sono andato via.

La spranga l’ho lasciata lì” queste le gelide parole utilizzate dal sedicenne per spiegare le motivazioni del suo folle gesto: solo 25 euro in cambio di una vita.

Accanto al clochard, fedele fino alla fine il suo gatto che ormai era diventato la sua sola famiglia, il suo dono più grande.

Probabilmente in molti si staranno domandando il perché di questo assurdo connubio tra lo Spirito natalizio e il clochard ucciso sotto i portici. Non sussiste alcuna corrispondenza se non un’esortazione.

Mentre la nostra vita continua in tutta fretta tra un pranzo di Natale, una cena di Capodanno e una miriade di regali (che forse mai adopereremo) volgiamo lo sguardo verso gli invisibili, anche solo un nostro gesto può cambiare le loro giornate: che sia una coperta usata che non vogliamo più, che sia del cibo od anche solo un sorriso.

In questo contesto non voglio riferirmi al sedicenne, alla sua nazionalità, oppure alle motivazioni per cui ha commesso questo inammissibile atto, non lo farò semplicemente perché chiunque esso sia e qualunque sia la sua scusa non potrà giustificare ciò che ha compiuto: alcuni la denominano “bravata di un ragazzino” io voglio menzionarla con il suo reale appellativo: omicidio.

In prossimità del giorno più felice dell’anno proviamo a guardare oltre, a sorridere di più, a tendere la mano a chi soffre, a fermarci per guardare chi ci sta intorno, perché sempre esisteranno i gesti efferati ma finché anche solo uno di coloro definiti “invisibili” sorriderà avremo portato con un piccolo gesto un po’ di luce nelle loro cupe giornate.

 




Caro Ministro, ma mi faccia il piacere…

CARO MINISTRO TI SCRIVO…

Caro Ministro ti scrivo, così mi distraggo un po’ (dalle fatiche scolastiche di insegnare nella scuola italiana dei giorni nostri…) e siccome sei molto lontano (dalla realtà che vivono alunni e prof del 2018…) più forte ti scriverò.

Non voglio mancarti di rispetto, caro ex- collega, nel darti del tu. Ma, visto che mi vieni a dire quello che devo fare con i miei alunni, penso che siamo alla pari…

La tua ultima boutade ti ha fatto una gran bella pubblicità.

Finalmente, anche i miei alunni, delle medie, sanno che c’è un Ministro e checomanda lui! Al mio:” Ragazzi prendete il diario, che scriviamo i compiti perle vacanze”, mi sono sentita rispondere:” No, prof, non si può, l’ha detto il Ministro!”.Nella mia testa ho pensato:” Ecco, bravo, bene, ci mancavi pure tu a dirmi quello che devo fare, dopo 45 anni di scuola, di cui gli ultimi 30 come insegnante!”

Vedi, caro ministro, per chi come me, ha attraversato a passi di danza, riforme e controriforme, concorsi e graduatorie, esami di stato e certificati, conoscenze e competenze, la tua boutade, mi fa ridere (per non essere volgare!). Vorrei solo, anch’io, formularti un invito, anzi darti una prescrizione: vieni a fare un giro nelle scuole!

Le classi in cui insegno (in due scuole medie del Nord“benestante”) sono eterogenee (per usare un eufemismo…). Ci sono ragazzi italiani e ragazzi stranieri (maghrebini, africani, indiani, cinesi, pakistani e bengalesi…), ragazzi integrati ed altri isolati, alunni motivati ed altri border line, scolarizzati ed analfabeti, che non capiscono una parola, giuro,una parola, di italiano.

Primo suggerimento: “Ha mai pensato di dotare le scuole di mediatori culturali per alunni stranieri? Oppure di sperimentare delle classi-ponte per la prima alfabetizzazione di chi, per età anagrafica, è alunno delle medie, ma che non legge né scrive, al pari di un bambino di prima elementare?!?”

Poi, ci sono alunni certificati di dislessìa, disgrafìa, discalculìa…Un boom! Tutti adesso! Ed allora, come insegnante, predisponi un bel P.D.P. (ovvero Piano Didattico Personalizzato con strumenti compensativi e dispensativi per aiutarli nella loro fatica scolastica). Anche quelli che scrivono sotto dettatura, fanno un dettato fonetico ortografico meglio dei compagni, copiano dalla lavagna e leggono ad alta voce. E, alla faccia di chi ha li ha certificati, non sbaglino una doppia e non confondono nemmeno una lettera!

Allora, secondo suggerimento.” Ha mai pensato di controllare il bussiness delle certificazioni false? Di controllare cosa succede quando medici compiacenti incontrano famiglie pretenziose? I medici si garantiscono l’utenza di alunni normo dotati, certificando, in modo assurdo, le loro inesistenti disabilità. E le famiglie hanno il nullaosta per la promozione dei loro figli.”

Poi, però, in sede d’esame, questi alunni, abituati a delle corsie preferenziali, devono affrontare le stesse prove dei compagni. Ed allora, tocca a noi insegnanti, fare i salti mortali per promuoverli!!!

Ma ci sono anche gli alunni disabili, e, giustamente, per loro c’è un P.E.I (Piano Educativo Integrato) per assicurare una didattica inclusiva. Ma, purtroppo, questi alunni, non sempre hanno un insegnante di sostegno preparato a gestire la loro disabilità. C’è una bella differenza tra un alunno autistico, paraplegico, psicotico o down… Per non dimenticare chi, comeprof, dopo un eterno precariato, ha finito col fare l’insegnante di sostegnoper ripiego, pur di entrare in ruolo. Oppure, prof perdenti-posto percontrazione delle cattedre, che, dopo aver insegnato per anni la propriamateria, hanno ripiegato sul sostegno pur di non perdere il posto vicino a casa…

Terzo suggerimento” Un rinnovato criterio di formazione degli insegnanti di sostegno, in modo tale che, preparati in modo specifico su diverse disabilità possano essere abbinati agli alunni giusti? E soprattutto,un controllo delle loro competenze in itinere, per farne delle figure doc della scuola e non degli insegnanti jolly!”.

 Ma questo è il meno…

 I veri problemi nelle scuole dei nostri giorni, sono i ragazzi delle comunità, quelli che sono stati allontanati dalla famiglia o che non ne hanno mai avuta una, quelli che viaggiano per la scuola con educatore o assistente sociale al seguito, e che sono in mano a giudici e psicologi a giorni alterni… Quelli che pestano i compagni e minacciano gli insegnanti. Rispondono all’appello con un rutto,girano per la classe con un coltello, fanno casino, pur di essere amati…

Quarto suggerimento” Qualche neuropsichiatra che ci dia una mano a gestirli senza imbottirli di psicofarmaci o senza dover ricorrere ai Carabinieri, esiste ancora sulla faccia della terra?!?

Poi, ci sono gli alunni doc, quelli normali. Quelli da non strapazzare con troppi compiti a casa. Quelli che durante le vacanze, senza l’obbligo dei compiti, faranno sport o visiteranno musei…Scommetto che l’unica attività svolta dalla maggior parte di loro, sarà giocare con il tablet o alla play station nel salotto di casa…

Ma, dimenticavo, anche questa è attività fisica:
oculo-manuale!!!

Quelli che hanno genitori immaturi e latitanti. Genitori che rispondono al cellulare durante il colloquio con l’insegnante, genitori che contestano i voti, che mettono in discussione la preparazione degli insegnanti, e che parcheggiano il suv sul parcheggio dei disabili. Genitori-adolescenti, più esibizionisti dei loro figli, che fanno a gara a postare foto sui social e ad insultare i prof su whatapps. Bene questi genitori, durante le vacanze giocheranno alla play, posteranno ogni scemenza e brinderanno all’ignoranza.

 Allora, giusto perché io non ci sto, io i compiti li do. E sono convinta che molti altri miei colleghi faranno come me…

Invito i miei alunni a spegnere il cellulare per accendere il cervello.

A leggere un libro, uno qualunque, ma almeno uno.

Ad intervistare un nonno, forse più saggio di quel loro idolo rap…

Ad imparare una parola nuova, un suo sinonimo ed il suo contrario, tre volte al giorno, prima dei pasti principali.

A scrivere una lettera a mano e ad imparare una poesia a memoria.

A pensare un regalo creativo. Un disegno, una canzone, un oggetto ideato apposta per chi lo riceverà.

A fare un giro in un ricovero per anziani, per misurare il tempo della vita non sul suono della campanella…

E, per i più coraggiosi, a parlare a gesti con l’ultimo arrivato, quello immigrato. Quello che nessuno vuole, ma che è qui, in Italia con me, in queste vacanze senza compiti…

Sarò una povera illusa, ma penso che la scuola sia ancora una palestra di vita. E che dunque, i compiti sono un’educazione al sacrificio,un allenamento alla fatica, un rispetto delle consegne, un’assunzione di responsabilità, una sana abitudine che fa la differenza. Perché, poi, la vita ci presenta il conto, e, forse i compiti, quelli di scuola, avevano un loro perché!

Antonella Ferrari



BLACK STONE CHERRY

Il 28 giugno del 2012 un caro amico musicista mi diede un cd masterizzato dal titolo “Folklore and Superstition”. Eravamo entrambi a Verona al concerto dell’unico, inimitabile ed immenso Chris Cornell che di fronte a circa 2.000 persone eseguiva in acustico canzoni del suo repertorio e di quello dei Soundgarden di cui è stato il leader fino a circa un anno e mezzo fa (data del decesso 18 maggio 2017, vedasi BetaPress.it del 23 maggio 2017 “La Disperazione del Grunge”; n.d.a.).

Non sapevamo della presenza l’uno dell’altro e all’uscita dal Teatro Romano, splendido monumento archeologico veronese del I secolo a.C. in cui aveva appena terminato l’esibizione Chris, incrociai l’amico Walter, mi salutò e trascinandomi di corsa verso la sua auto (un Pick-up in puro stile “Dixieland”), volle regalarmi un cd di “Post-Southern” come lui lo definì.

I suoi gusti in fatto di musica non hanno mai incontrato i miei, Walter è infatti un super cultore di “Southern Rock”, una miscela di Blues, Country e Rock che attinge dall’orgoglio delle radici proprie del Sud degli Stati Uniti, narrando la vita dei pronipoti dei “Redneck” (contadini che furono i soldati degli Stati Confederati durante la guerra civile statunitense; n.d.a.).

Al netto di qualche brano (chi non conosce “Sweet Home Alabama”?) dei Lynyrd Skynyrd, storica band di Jacksonville in Florida e forse quella più “hard” del circuito “confederato”, io non sono mai riuscito ad entusiasmarmi del genere “Rock Sudista”, ma accettai comunque il cd e lo ringraziai salutandolo.

Per dovere di cronaca devo dire che la passione per il Southern Rock, fa dell’amico Walter Gatti uno dei massimi esperti del genere ed è suo il primato in Italia per ciò che concerne la ricca collezione di produzioni discografiche di band che vanno dall’Arizona alla Georgia passando per Arkansas, Alabama, Louisiana, Florida e Kentucky.

Proprio del Kentucky era la band che voleva assolutamente che io ascoltassi: i Black Stone Cherry (il nome è stato preso da una marca di sigarette americane; n.d.a.). Come sarebbe scortesia non leggere un libro che ti viene regalato, così vale anche per la musica, e quindi “vai di casse”! Prima Song…Brividi!

Inutile dire che ho consumato il cd ed ovunque andassi erano con me i brani di Folklore and Superstition. Dopo pochi giorni ho iniziato a divorare gli album precedenti: l’omonimo Black Stone Cherry del 2006, Between the Devil and the Deep Blue Sea del 2010, e poi quelli successivi: Magic Mountain del 2013, Kentucky del 2015 e l’ultimo lavoro di quest anno che ritengo essere il più maturo della Band di Edmonton: Family Tree.

I BSC sono riusciti a mixare stili differenti che a tratti ricordano le Big Band come Led Zeppelin, AC/DC, ZZ Top ma hanno creato una loro personale linea musicale riconoscibile ed originale.

Il batterista John Fred Young è figlio d’arte: Richard Young (padre) e Fred Young (zio), rispettivamente chitarra e batteria dei Kentucky Headhunters (famosa band South Rock che ha vinto anche un Grammy; n.d.a.) e ritengo che, dopo Stewart Copeland (The Police), Matt Cameron (Soundgarden e Pearl Jam) e Alberto “Alba” Pertile (Uemmepi… ok sono un po’ di parte!), John Fred sia il miglior batterista in circolazione.

La line-up dei BSC e cioè batteria, basso (Jon Lawhon) e chitarre (Ben Wells e lo stesso Chris Robertson) sostengono la voce graffiante e piena di Robertson consegnando all’ascoltatore tutta la potenza del sound targato BSC lasciandolo molte volte senza fiato. Ma è con i “live” che i BSC danno il meglio di se!

A tal proposito una curiosità: i Black Stone Cherry hanno aperto migliaia di show a Band molto più blasonate e famose, ma moltissimi sono gli spettatori (anche io tra questi) che, notando una netta superiorità di esecuzione, hanno lasciato i concerti poco dopo la fine delle performances dei nostri “Special Guest”.

Per i lettori che vogliono approcciare la musica dei Black Stone Cherry consiglio sicuramente l’album di cui ho parlato all’inizio e cioè Folklore and Superstition… anzi, per incuriosirvi vi lascio con la First Track dell’album che mi ha fatto innamorare di Robertson & Co. : Blind Man.

Ciao e Rock’n’Roll!

https://www.youtube.com/watch?v=zO1_cpIIzXI

Perth

 




Europa: cronaca di una morte annunciata…

25 ANNI DOPO… LA NON EUROPA DI MAASTRICHT

Il primo novembre 1993 gli uffici della Commissione europea e delle altre istituzioni a Bruxelles erano quasi del tutto vuoti in occasione della rievocazione.

In quel giorno entrò in vigore il trattato di Maastricht e nacque l’Unione Europea così come oggi la conosciamo.

Il Trattato di Maastricht fu l’esposto che stabilì l’Unione Europea con il nome odierno e gran parte delle istituzioni comunitarie che conosciamo oggi.

Venticinque anni fa il mondo correva sull’onda dell’ottimismo dettato dalle promesse di una globalizzazione che sembrava voler spalancare agli europei le porte verso un futuro stabile e vigoroso.

Stando al flusso di questo rosea visione nulla avrebbe fatto presagire che in appena un ventennio l’euro sarebbe diventato il capo espiatorio del deterioramento economico della piccola e media borghesia che non può far altro se non imputare la classe dirigente di aver frantumato le promesse elargite negli anni ‘90.

Se il fuoco del Nazionalismo si alimenta sempre più gran parte delle accuse va mossa in prima istanza ai Governi, i quali in molte circostanze hanno dato dimostrazione di essere stati i primi a non aver creduto nel sogno comune di un’Europa unita, addossando a Bruxelles le responsabilità di qualsivoglia difficoltà interna.

Lungi dal pensiero odierno appare il vero obiettivo dei padri fondatori che senza dubbio tendevano ad aggregare e non certo a frantumare.

Unanime opinione popolare considera l’Europa che è nata a Maastricht legittimata sull’estromissione e suddivisa in un duplice schieramento che non ammette spettatori posti al centro tra le due fazioni mosse da reciproca avversione.

Da una parte i ricchi che non intendono perdere i loro privilegi e dall’altro capo i cittadini che quei privilegi li hanno solo ascoltati attraverso vane promesse e giammai sperimentati. Ambedue le fazioni mirano all’integrazione seppur dettata da dissimile giudizio: i ricchi guardano ad un’integrazione selettiva mentre i cittadini ad una di natura democratica.

Accentratore e devoto all’etica degli affari il pensiero dei ricchi europei, dinamica e strutturata su un’etica di responsabilità è l’Europa dei cittadini.

Mentre la prima corrente invoca il ricorso alle armi per difendere la sicurezza Nazionale e per la difesa dei loro interessi, la seconda fazione lotta contro il traffico di armi guardando la costruzione della pace europea fondata sulla riorganizzazione dell’industria bellica.

L’ Europa entusiasmata dall’ondata di ottimismo prevalsa nel 1993 prometteva al mondo prominenti livelli di occupazione, assicurava un miglioramento della qualità di vita, un considerevole grado di convergenza dei risultati economici, perfino un accordo tra gli stati membri.

Ciò che garantivano i padri fondatori oggi appare come un eco inciso negli annali, mai concretizzato e lascia spazio alla vera concezione di quell’Unione Europea che ha assunto connotati sempre più antidemocratici e si rivela più concentrata nelle trattative con Erdogan, un signore intento ad arrestare la libertà di stampa, che al confronto con chi in Europa ci vive e a giudicare dagli ultimi dati ci vive anche male.

Tra fazioni infervorate da differenti ideologie l’Europa di Maastricht è destinata a fallire miseramente a causa di problemi che la stessa non è in grado (o non vuole) di risolvere, lo scenario a cui oggi assistiamo ci prospetta un’Europa lontana dai pacifismi prospettati in epoca ormai remota, è un’Europa inanimata e gli euro-scettici già brandiscono voti in Europa proprio a sfavore dell’Europa.




Sanità: centinaia di posti di lavoro a rischio, la Sicilia non ci sta!

 La Sicilia e la nuova frontiera del progetto SEUS-AREUS

 

 “Il sistema delle emergenze-urgenze in  Sicilia può e deve essere migliorato”.

Con queste parole l’Assessore alla salute della Regione Siciliana Ruggero Razza apre il tanto atteso incontro riguardante la tematica “Prospettive SEUS-AREUS”.

E’ lo stesso Assessore Razza a far chiarezza sulle accuse mosse contro la sanità siciliana nelle ultime settimane riguardanti centinaia di posti di lavoro messi a repentaglio a causa di esuberi e inidoneità, causando non poche preoccupazioni tra i lavoratori: nessun posto di lavoro sarà messo a rischio, il nostro progetto parte dall’idea che si debba tutelare chi lavora e dare una prospettiva a chi lavora in maniera precaria.

Il tema riguardante la Sanità è per la Sicilia (e soprattutto per i dipendenti che in essa prestano servizio) una piaga che da tanti anni è al centro di dispute mai risolte, promesse mai attuate e precarietà in cospicuo aumento.

E’ stato questo uno dei molteplici motivi che hanno spinto l’Assessore alla Salute a convocare tutti gli attori sociali che operano attorno al settore dell’emergenza urgenza in Sicilia e ad illustrare un progetto che abbraccerà tra l’altro un riesame teso sia alla riconversione del personale sia alle modalità di transito verso la nuova Agenzia Regionale AREUS.

E’ a proposito di precarietà che mi è doveroso riportare l’intervento, certo non  passato inosservato, della coordinatrice infermieristica del bacino Palermo-Trapani, D.ssa Rosalba Setticasi, che pur guardando in maniera positiva il progetto esposto dall’Assessore Razza, si schiera a favore dei trenta infermieri libero-professionali i quali, pur avendo completato l’iter preposto, permangono in una situazione provvisoria, auspicando a tal proposito un repentino intervento di stabilizzazione all’interno del progetto Areus.

Sull’onda della difesa dei dipendenti procede l’intervento del Dott. Domenico Bonanno, il quale da tempo segue in concomitanza all’assessorato della salute la tutela dei lavoratori SEUS cercando di garantire tutti i livelli occupazionali nella tutela di coloro i quali sono dichiarati non idonei alla mansione di autista-soccorritore.

All’indomani della presentazione di un progetto mai realizzato prima non possiamo che sperare nella sua imminente attuazione, nella prospettiva che quelle riportate siano il frutto di impegni dati e  soprattutto mantenuti.

L’incontro a cui noi di Betapress abbiamo preso parte rappresenta, senza dubbio alcuno, uno dei cardini della disputa  tra l’Assessorato Regionale alla Salute e i dipendenti Seus.




Concorso DSGA: note di malcostume italiano

Concorso DSGA: vergogna!

Assistiamo sempre più stupiti ad accadimenti che questo paese affronta senza batter ciglio ma che sono esempio di inciviltà e di mancanza di rispetto da parte di uno Stato che dovrebbe riconoscere almeno chi da sempre lavora con dedizione per Lui.

Avevamo già scritto rispetto al concorso dei Dirigenti Scolastici l’assurda dimenticanza dei vicepresidi nelle fasi di valutazione delle posizioni, e già ci sembrava quella una grave ingiustizia, ma ora con il concorso dei DSGA si è superato il limite!

Non è assolutamente possibile che venga indetto un concorso per una posizione così strategica per la Scuola senza tener conto che ci sono centinaia di persone che già da anni svolgono il ruolo di direttore dei servizi generali ed amministrativi all’interno della scuola ed a queste persone vengono imposte “angherie” inaudibili; infatti in primis l’obbligo di possedere la conoscenza della lingua inglese (e se uno conosceva il francese? perché quello non vale nulla??!!), ma comunque non esiste una legge che obbliga il possesso di una lingua per lavorare nelle segreterie, quindi con quale assurda logica vengono obbligate persone con una importante anzianità di servizio a certificarsi B2 per poter esercitare un diritto che a nostro avviso hanno già?

Poi l’umiliazione di accedere tramite test psicoattitudinali, non, attenzione, sulla loro preparazione, ma tramite generici test che ovviamente non hanno lo spirito di verificare la preparazione di persone che lavorano da oltre vent’anni in un ruolo che secondo chi scrive ormai gli spetta di diritto, ma solo di fare uno sbarramento generico e poco lungimirante.

Inoltre un concorso aperto a laureati in economia e legge, giovani che hanno tempo di prepararsi, contro lavoratori, che proprio perché ora svolgono la funzione di Dsga, non hanno tempo nemmeno per respirare, ma che razza di equità è questa, ma chi caspita ha pensato questa ingiustizia???

Ed i sindacati dove sono o dove erano e comunque dove saranno?

Sarebbe stato giusto fare prima un concorso interno dedicato a queste figure che hanno svolto con dedizione un ruolo significativo e poi eventualmente aprirlo all’esterno!

Ma forse ai sindacati non interessano tanto le tessere di quelli che hanno già tra i loro iscritti (gli attuali facenti funzione di DSGA, ma quelle dei nuovi che dovranno entrare e che di tessere sindacali non ne hanno), bella roba, evviva la giustizia evviva la difesa dei lavoratori.

Ma pensate al caso assurdo di una scuola dove c’è un DSGA facente funzione che da più di dieci anni svolge il ruolo con bravura e passione, non è certificato b2 di inglese perché conosce il francese, non ha tempo di prepararsi perfettamente perché il lavoro di DSGA lo assorbe totalmente, non passa il concorso perché ai test attitudinali oggi tanto usati Lui non è abituato, ed al suo posto arriva un giovane laureato in economia che conosce l’inglese, ha fatto già prove su prove ai concorsi vari a cui ha partecipato quindi conosce i meccanismi, ha tempo di prepararsi perché non ha nulla da fare, vince il concorso e diventa DSGA proprio in quella scuola dove il bravissimo DSGA facente funzioni ritorna invece ad essere un assistente amministrativo… in pratica lo Stato sostituisce un bravo DSGA con un INESPERTO DSGA (sperando che poi diventi bravo con gli anni), creando certamente malcontento e comunque facendo danno a se stesso perché bastava dare il ruolo a chi da tempo lo faceva (e se lo faceva è perché lo Stato stesso lo nominava anno su anno), assumendo personale di segreteria giovane che avrebbe potuto imparare il mestiere con calma.

Non ci voleva molto a fare questo ragionamento, ma chissà, forse gli interessi sono ben altri, come al solito!!!

 

https://betapress.it/index.php/2017/06/16/nuovo-concorso-ds-il-miur-dimentica-precari-vicari-e-ricorrenti-lennesima-ingiustizia/