Conferenza Internazionale Prevenzione Emergenze: Protezione Nazionale Boschi e Foreste Riduzione del Global Warming

 

Conferenza Internazionale Prevenzione Emergenze: Protezione Nazionale Boschi e Foreste Riduzione del Global Warming

CON PATROCINIO DEL SENATO DELLA REPUBBLICA E DEL MINISTERO DELL’AMBIENTE

 

Il 25 e 26 Ottobre, rispettivamente a Roma e a Milano, si terranno le due giornate di studi della Conferenza Internazionale Prevenzione Emergenze: Protezione Nazionale Boschi e Foreste – Riduzione del Global Warming, promossa da IEMO (International Emergency Management Organization), in collaborazione con Accademia Costantiniana ONLUS e da Social Future Project Italia. La conferenza ospiterà relatori di rilevante spessore scientifico nel settore dell’Ambiente e del Clima.

 I lavori verranno aperti con la prefazione del Premio Nobel Werner Arber.

Scopo della Conferenza è dimostrare che la Direttiva Europea RED II ed il Testo Unico in materia di Foreste e Filiere forestali (TUFF) italiano vanno emendati, disincentivando ulteriori disboschi e restringendo immediatamente il termine “biomasse” ai soli residui e scarti legnosi pena l’incoerenza alla neutralità sulle emissioni di gas serra (carbon neutrality) che sia l’Italia sia gli altri Stati Europei si sono obbligati a raggiungere per cercare di prevenire il collasso climatico. Tagliare alberi per farne legname chippato o energia elettrica emette il 150% in più di C02 (Anidride Carbonica) nell’atmosfera rispetto al Carbon fossile; questo è il motivo per cui bruciare alberi contravviene ai Protocolli di Kyoto: perché le “biomasse legnose” non sono vere energie rinnovabili e, anzi, accelerano il collasso climatico e, non potendo venire rimpiazzate in tempo utile per scongiurare il collasso ambientale previsto da qui a pochi anni dagli scienziati dell’IPCC (Panel Intergovernativo sul Cambiamento Climatico delle Nazioni Unite).

In questa prospettiva, il taglio degli alberi è sicuramente da evitare, sia in ambito rurale sia urbano, in quanto gli sono gli unici difensori dell’ecosistema dal collasso globale. Anche le potature urbane vanno ripensate. Poco, infine, farebbe la riforestazione con nuove piantine, che impiegherebbero oltre 20 anni per sviluppare un’estensione fogliare sufficiente ad assorbire  quantità rilevanti di C02. Preservare  gli alberi esistenti, potenti assorbitori di CO2 é anche la soluzione pratica per  dare risposta alle richieste del movimento dei giovani dei “friday for future” di  Greta Thunberg. La conferenza è ad ingresso libero e prevede una larga partecipazione di oratori e di pubblico. Data la rilevanza dell’evento la stampa nazionale è invitata a partecipare numerosa, specialmente all’apertura dei lavori delle due sessioni, quando verranno fatte le prime dichiarazioni ufficiali supportate dai dati scientifici.

 

ULTERIORI PATROCINI  ISTITUZIONALI ESPRESSI ALLA CONFERENZA :

Senato della Repubblica  –   Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare

Roma Capitale, Regione Lombardia, Regione Emilia Romagna, Regione Liguria, Regione Puglia, Regione Trentino Alto Adige, Città Metropolitana di Bologna, Città Metropolitana di Catania, Città Metropolitana di Genova, Città Metropolitana di Messina, Città Metropolitana di Palermo, Città Metropolitana di Torino, Città Metropolitana di Roma, Provincia dell’Aquila, Provincia di Barletta Andria- Trani, Provincia di Arezzo, Provincia di Belluno, Provincia di Bergamo, Provincia di Brescia, Provincia di Brindisi, Provincia di Caserta, Provincia di Ferrara, Provincia di Forlì-Cesena, Provincia di Imperia, Provincia di Lecce, Provincia di Livorno, Provincia di Parma, Provincia di Pavia, Provincia di Pesaro e Urbino, Provincia di Pescara, Provincia di Potenza, Provincia di Rimini Provincia di Rovigo, Provincia di Salerno, Provincia di Teramo, Provincia di Vercelli

 

Programma

PRIMA GIORNATA  e  CONFERENZA STAMPA – 25 Ottobre 2019 ore 15.30 –

Hotel dei Congressi – via William Shakespeare, 29 –Roma – EUR

 

Saluto delle Autorità

Dr. Alessandro Manini, Presidente IEMO – Allocuzione d’ingresso – Prevenzione Integrata Emergenze con Lettura del Messaggio di adesione del Premio Nobel Prof Werner Arber

Prof. Dott. Ugo Corrieri, Coordinatore di ISDE per l’Italia Centrale: le biomasse legnose non sono vere energie rinnovabili e il loro uso causa gravi effetti sulla salute – evidenze scientifiche e documentali

16,20 conferenza stampa

Ing. Sabine Becker (in video) e Prof. François Rouillay, Co-Fondateur de l’Université Francophone de l’Autonomie Alimentaire: Dall’Albero alla Foresta: L’Importanza dell’Ecosistema

Dr. Alessandro de Aldisio, Vicepresidente SFP Italia: le implicazioni del Cambiamento Climatico

Prof. Dott. Bartolomeo Schirone, Membro ISDE dell’Università degli Studi della Tuscia (Società Internazionale Medici per l’Ambiente): quanti boschi servono? Analisi dati tecnici e il perseguimento degli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile

Dr. Leopoldo Rizzi, la gestione del territorio: risorse naturalistiche di sviluppo culturale 

Prof. Dott. Paolo Zavarella, Associazione Italiana di Medicina Forestale: La valorizzazione della biodiversità e la salute dell’uomo

Dott.ssa Chiara Sparacio, Cronista Betapress, Rispetto dell’Ecosistema e lineamenti di ecosofia. 

Dr. Arch. Mattero Sernesi: Progetti integrati come esempi di sostenibilità

Prof. Cav. Philip Bonn, Director-General, World of Hope International: Biodiversity Protection 

Dr. Alessandro Manini, Presidente IEMO – Closing remarks

 

SECONDA GIORNATA  e CONFERENZA STAMPA – 26 Ottobre ore 15.30 – Hotel Michelangelo Milano (di fianco Stazione Centrale )

 

Saluto delle Autorità

Dr. Alessandro Manini, Presidente IEMO – Allocuzione d’ingresso alla seconda giornata e Conferenza Stampa ai media presenti sulle tematiche affrontate nella sessione di Roma

Proiezione del Video “Burned” sugli effetti della deforestazione e cambiamento climatico

Dr. Alessandro de Aldisio, Vicepresidente SFP Italia: Le implicazioni del Cambiamento Climatico

Cav. Giulio Terzi, Segretario Generale IUIC: Le Convenzioni Internazionali di Protezione Ambientale 

Dott.ssa Carolina SalaLa prevenzione delle emergenze e la tutela dell’ aviofauna boschiva

Loris Chiovitto, Presidente MIPAD: esempi di sostenibilità

Dr.Arch. Mattero SernesiProgetti integrati come esempi di sostenibilità

Dott.ssa Bendetta Rosina: La riduzione del Global Warming, la tutela del patrimonio forestale primario e della qualità dell’aria

Dr. Alessandro Manini, Presidente IEMO – Closing remarks

 

 

 

UFFICIO STAMPA

DOTT.SSA MILENA SAIA

GRUPPO EDITORIALE CCEDITORE

BETAPRESS.IT

INFO@BETAPRESS.IT




Se lavoro pagami, altrimenti sei due volte disonesto…

Perché non riusciamo a farci pagare per il lavoro che abbiamo svolto?

Siamo a Palermo, ma questa è una storia che si ripete identica a Torino, a Milano, a Roma, a Napoli, a Bologna e per ogni città italiana potrei portarvi il nome di una persona che ha lo stesso problema.

Gente brava, in gamba, molto professionale, tendenzialmente con una pecca:

sono brave persone, di quelle che danno fiducia e che mettono il 100% di loro stessi in ciò che fanno.

In questi giorni su Facebook ho letto l’ennesimo post di un mio contatto che, dopo aver portato regolarmente a termine il suo lavoro, non riesce a farsi pagare dal suo committente.

La cosa paradossale ma comune è che chi non riesce a farsi pagare, nonostante il desiderio di sfogarsi e rivendicare l’ingiustizia subita, non rivela il nome del moroso e, sinceramente, ora che scrivo e inizio la mia riflessione, non so se dargli torto o ragione.

La Sicilia è una terra strana, in un modo o nell’altro noi tendiamo a non parlare anche se abbiamo ragione, è come se dentro di noi ci fosse una regola: non si accusa.

Ed è incredibile.

Una parte della nostra cultura non riesce a rivelare il nome di chi vuole estorcerci soldi non dovuti, un’altra parte non riesce a dire il nome di chi non vuol darci il dovuto.

La cosa surreale è che alla prima pratica, quella dell’estorsione, abbiamo dato un nome, ed è “pizzo”.

Alla seconda, quella della mora, non abbiamo ancora dato un nome, perché ancora non si dice, perché di fronte a un problema del genere, si deve stare zitti.

Come in quelle lingue in cui non esistono certe parole perché non sono nominabili, come in quelle culture in cui, per esempio, non esiste il corrispettivo di uxoricidio.

Non si parla, non si fanno nomi; perché potrebbero esserci delle ritorsioni, perché “certe cose non si fanno” (nel perfetto meccanismo per cui la vittima ha il sospetto di essere nel torto).

E infatti, in piena, assurda, coerenza con tutto questo, chi tace il nome è brava gente, gente per bene ed educata, con una forte etica, di quella che non dorme più per tutta la notte se, quando poggia la testa sul cuscino, si ricorda di non aver pagato il caffè al bar e che il giorno dopo, alle 6,00 del mattino, è davanti la saracinesca del bar con l’euro in mano mentre il barista lo guarda incredulo.

Chi invece pretende o non dà, ha tendenzialmente il profilo del malfattore, della persona marcia e profittatrice, sepolcri imbiancati con una vita sociale di ostentato benessere e una rete di amicizie che fanno la fila per stargli accanto e avvalorare il finto lustro.

Eppure, pensandoci questa sera, mi accorgo di una cosa sconcertante che, a prescindere da chi sia la parte lesa e la parte prevaricatrice, entrambe sono due aspetti della mentalità mafiosa: la vittima e il carnefice.

La prima è quella che subisce la mafia, la seconda, chi la pratica attivamente.

In sostanza, entrambi alimentano il meccanismo mafioso: senza l’uno, non ci sarebbe l’altro.

Senza chi tace, il malvivente non verrebbe nascosto.

E lo sappiamo bene in Sicilia, perché, ad un certo punto, quando i primi eroi hanno rotto il silenzio, lo hanno fatto per sempre e hanno insegnato a tutti che è normale parlare e hanno divelto il meccanismo.

Per molti aspetti, noi Siciliani, abbiamo imparato ad abbattere il tabù del silenzio e siamo stati bravi e siamo stati un esempio.

La mafia non ha a che fare con noi, c’è stato chi le ha dato un colpo mortale.

Ma la cultura radicata, presa da spirito di sopravvivenza, esce dalla porta e rientra dalla finestra.

Come nei miti, dalla ferita mortale di un demone schizza della materia marcia che si attacca agli esseri viventi e vuole infestarli.

Dalla mafia è schizzato via qualcosa che vuole corrompere in modo silente chi stava attorno: e questa è la mentalità mafiosa.

Non è stata una nostra scelta, si è trattato quasi di una circostanza, la mentalità mafiosa è rimasta un po’ attaccata ai nostri abiti perché eravamo lì, sul luogo ed è insidiosa, vuol esser seducente; mette gli abiti del comportamento comune e a volte ci vuole tempo per vederla.

La mentalità mafiosa ha uno scopo: desidera ristabilire l’equilibrio tra i genitori primordiali, la vittima e il carnefice.

Chi tace e chi prevarica.

Trova però un ostacolo: noi siamo contro la mentalità mafiosa e non intendiamo permetterle di germogliare.

In questo articolo ho parlato della mafia e della Sicilia perché noi siciliani siamo avvantaggiati, noi abbiamo avuto esperienza e per questo abbiamo una responsabilità in più nei confronti dei più deboli e inesperti.

Noi siciliani la mafia l’abbiamo vista e, per questo, sappiamo riconoscerla e così, quando vediamo questi atteggiamenti mafiosi abbiamo la fortuna di accorgercene prima di altri e abbiamo il dovere morale di avvisare tutti gli altri.

A volte abbiamo bisogno di un secondo in più per vederla, perché a volte siamo addormentati anche noi, siamo presi dall’uso comune; ma poi, ad un tratto, qualcosa non ci torna e realizziamo che nell’aria c’è puzza di mentalità mafiosa e lo dobbiamo dire chiaramente e a voce alta perché molti, chi non ha avuto la fortuna di nascere in Sicilia, non lo sanno: sentono un odore strano nell’aria, storcono il naso, si guardano tra loro ma non riconoscono la puzza, pensano che sia qualcosa di passeggero o che sia un odore naturale, qualcosa che però non ha a che fare con loro, e si sbagliano.

Noi invece lo riconosciamo e possiamo dire “è puzza di mafia”.

E quindi, tornando a bomba sull’articolo, il punto non è più chiedersi perché non veniamo pagati per il nostro lavoro, non è tanto il fatto di attivare una serie di soluzioni come farsi pagare prima, scrivere contratti su contratti, provare la bontà del lavoro svolto, firmare accordi e stipulare fidejussioni…

Non è scomodare la psicologia da social network e dire che, se non riusciamo ad avere i nostri soldi, è perché non pensiamo veramente di meritarli.

Il punto è che chi non paga il lavoro svolto è un mafioso.

Chi vuole sfruttare il lavoro di professionisti capaci, è un mafioso.

Chi nega il vero e spergiura la propria stessa parola, è un mafioso.

E bisogna dirlo, e bisogna fare i nomi, perché senza vittime, non esistono carnefici.

Chi non paga per il lavoro svolto è un mafioso, chi lo difende rallenta il progresso e disonora gli eroi.

 


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Dove nessun uomo è mai giunto prima…

Se penso a com’era ieri, oggi siamo nel futuro.

Eppure io il futuro me lo immaginavo diverso.

Sui giornali si legge la notizia del primo turista nello spazio e il suo nome giapponese; mi guardo intorno e vedo dispositivi che ci connettono con persone in ogni parte del mondo e macchine che scrivono le nostre parole sotto dettatura.

Per quanto ci siamo abituati subito a tutto questo, possiamo dire che il futuro di oggi è davvero stupefacente.

Eppure io, il futuro me lo immaginavo diverso.

Sì, è vero: oggi voliamo, respiriamo sott’acqua, proiettiamo le nostre fantasie sugli schermi rendendole reali… attendo ancora il teletrasporto anche se ci sono situazioni olografiche che riproducono davanti a noi in dimensioni reali le persone richieste.

Ma non mi basta… io immaginavo altro…

La colpa è dei film che guardavo da bambina.

La colpa è del modo in cui tutto mi sembrava plausibile.

Erano i tempi di star Trek, che guardavo la mattina quando non andavo a scuola e restavo a letto a far passare la febbre.

Guardavo e aspettavo.

Di recente, nell’età delle stagioni televisive a disposizione su Netflix, io e il mio fidanzato abbiamo preso l’abitudine di guardare la sera, stagioni di vecchi telefilm.

Abbiamo iniziato con Star Trek e, vista l’infinita quantità di stagioni, ci accompagnerà anche nella nostra vecchiaia.

Ma il punto è che io il futuro me lo immaginavo proprio come quello di Star Trek.

Non parlo nello specifico delle navi spaziali e del lavoro nella flotta stellare (ah come mi sarebbe piaciuto!) e neppure del ponte ologrammi (tanto figo ma che porta solo rogne) e neanche del teletrasporto (che aspetto con un prossimo iPhone)… io parlo delle tante specie differenti all’interno della sala mensa.

Gente proveniente da ogni pianeta che lavora assieme sull’Enterprise, combatte e si incontra, che fa nuove alleanze e che esplora spazi sempre più lontani.

Il mio futuro era sconfinato.

Il futuro per me era quello: conoscere e convivere in piena integrazione universale con altre specie (non inteso come etnia o razza ma come estrazione umana).

Mi aspettavo che da grande sarei stata circondata da persone diverse da me e che ognuno avrebbe mostrato chiaramente la propria originalità (intesa nel doppio senso di origine e di peculiarità) e pensavo negli anni della mia crescita di prepararmi a questo.

Mi sembrava tutto così plausibile…

E invece no.

Ho capito che non era così un giorno che ero “fuori città” per lavoro.

Prima di rinchiudermi in hotel e impallidirmi alla luce del neon, mi ero fermata a pranzare in una piazza affollata in una zona di uffici.

Ero di buon umore perché avevo sete di guardare le persone attorno a me e immaginarne le vite.

Ho scelto un posto che mi permettesse di guardarmi bene intorno, mi sono seduta e ho ordinato.

Mentre aspettavo il mio pranzo ho cominciato a guardarmi attorno.

E ho sentito un crack, come di una corteccia dentro di me.

Ho provato un senso di grande disagio vedendo che erano tutti uguali.

Tutti gli uomini erano uguali, tutte le donne erano uguali.

C’erano di ogni specie un paio di versioni diverse ma sempre omologati.

Tutti gli uomini sembravano alti con l’abito coordinato e tutti le donne magre con borse firmate e un po’ di tacco; anche i bassi sembravano un po’ più alti eppure non sembrava puntassero al cielo.

Altri uomini avevano un abbigliamento più casual con maglia fuori dai jeans e scarpe comode che accompagnavano una postura rilassata, certe donne professavano l’anticonformismo nei capelli arruffati e i vestiti colorati non abbinati tra loro.

Al di là dei vestiti, però, si vedeva che facevano parte tutti della stessa specie… a prescindere dal colore della pelle e dall’accento.

E anche io ero come loro, omologata a loro.

E mi sono sentita incredibilmente sola perché attorno a me c’erano solo persone a cui somigliavo e in quella collettività mi sentivo sparire.

Quel fine settimana sono stata molto triste, perché avevo scoperto che nel mio futuro di quel momento, a pranzo non era possibile incontrare Klingon, Vulcaniani, Romulani o Ferenghi e, in più, come “terreste” non ero neppure troppo distinta.

…Peccato…

Tornando a casa, nel consueto appuntamento serale, mi ha molto colpito una specie di nome Borg.

I Borg sono una Collettività, ovvero sono un sistema composto da parti chiamate droni, una sorta di persone senza un pensiero personale ma che opera e si muove in funzione dell’insieme; i droni operano in comunione e accordo, senza alcun tipo di conflitto.

I Borg, ovviamente avendo tutti le stesse idee e le stesse esigenze, sono potentissimi: è quasi impossibile sconfiggerli e quando l’Enterprise li ha incrociati, la migliore soluzione si è sempre rivelata l’allontanamento strategico.

Il Borg tipo, quando incontra qualunque organismo diverso da sé dice: “Noi siamo Borg, voi sarete assimilati, la resistenza è inutile” (We Are the Borg. You Will be Assimilated. Resistance is futile”) e poi lo assimilano ovvero lo trasformano in Borg acquisendo, a favore della Collettività, tutte le conoscenze di quella specie.

E così, grazie a tutta questa esperienza assimilata, i Borg sono potentissimi e il loro obiettivo finale è la Perfezione.

Non verrebbe neppure da dire che sono cattivi, sono una Collettività e, in quanto tale, è difficile stabilirne la moralità: la morale ha a che fare col bene di uno e col male di un altro, in un viaggio per il miglioramento collettivo, il bene ultimo, che è nobilissimo, è il solo che conta.

I Borg sono quelli che certi filosofi contemporanei chiamerebbero “la specie” intendendo una collettività che opera e agisce all’interno dell’organismo epocale.

I Borg, quando per una serie di motivi si trovano ad essere tirati fuori dalla Collettività, soffrono tantissimo trovandosi a dover pensare a loro stessi come individuo.

Eppure, dopo che provano l’Individualità, ne restano in qualche modo diabolicamente sedotti.

L’individuo ai loro occhi è completamente smarrito: deve innanzitutto trovarsi un nome, accettare di essere un IO e non un NOI, scoprire di avere desideri differenti da quelli della Collettività, dover formulare pensieri propri e, quel che è peggio, si trova a confrontarsi con la contingenza della morte… cosa impensabile all’interno della collettività dove, se un drone smette di funzionare, le esperienze restano comunque nella collettività.

Ogni aspetto di questa specie offre spunti di riflessione e i Borg si rivelano un Simbolo potentissimo, laddove chiamiamo simbolo quel “piccolo” e “limitato” che si rivela universale, il granello di sabbia che rivela l’universo mondo.

Gli autori di Star Trek hanno tutta la mia stima e ammirazione, tra loro, vorrei poter avere ogni sera a cena chi ha inventato il personaggio dei Borg per poter parlare bevendo del buon vino rosso di come questa specie abbia tanto a che fare con noi e con la crescita spirituale e umana.

Noi che ci sentiamo al sicuro solo nelle collettività di un team di lavoro o di un gruppo Facebook, che siamo un unico organismo senza rendercene conto, che non vediamo la morte e, quando la contempliamo, ci spaventa, che non abbiamo idee difformi da quella dei nostri leader spirituali e miriamo a una perfezione senza contraddittorio; noi che cerchiamo la verità che ci dà un organismo fantastico più grande di noi e del quale ci fidiamo (chiamiamolo internet, tv, società, bibbia, corano…)

Noi che sentiamo che, se saremo tutti uniti, saremo invincibili e che ignoriamo e mettiamo a tacere le scomodità della nostra anima perché ogni giorno che passa il pensarla in modo diverso ci sempre inconcepibile.

Noi adesso siamo Borg e siamo stati assimilati, la nostra resistenza è stata inutile.

Ma se ne esce.

Quando incontriamo degli individui, possiamo essere salvati.

In genere sono gli umani che hanno questo desiderio tirare fuori l’Uno.

Non ci piacerà, ma l’ebrezza di sceglierci un nome che sia nostro e non dato da chissà chi, sarà così seducente che di nuovo, con grandissima difficoltà, confusione e paradossi, cercheremo la nostra perfezione che è da tutt’altra parte anche se non sappiamo neppure com’è fatta e in che consiste… e, nell’attesa di capire, si può andare in sala mensa a bere qualcosa con Klingon, Vulcaniani, Romulani o Ferenghi.

 


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Quinta ristampa per il libro di Max Gentile

LIBERO DI RINASCERE di Max Gentile, edito dalla Currenti Calamo Editore, è arrivato alla quinta ristampa in poco più di un anno. Ci aveva piacevolmente sorpresi, un anno fa, Max Gentile quando lo abbiamo intervistato.

La sua storia, quella di un poliziotto diventato coach, aveva dell’incredibile, ma era talmente vera nel suo essere paradossale che ci abbiamo creduto.

Ci abbiamo visto giusto, noi di betapress quando lo abbiamo seguito nel tour di serate di presentazione del libro nelle maggiori città italiane, lo scorso autunno.

La prima serata, il 9 ottobre di un anno fa, nella sua Genova, aveva subito registrato il tutto esaurito, ed era stata caratterizzata da una particolare presenza di imprenditori e di liberi professionisti, sempre più attratti dalla P.N.L, ma non solo.

Perché, Max Gentile è un coach “sui generis”, che si qualifica come formatore personale, prima che professionale. Questa è la sua specificità, che fa la differenza!

LIBERO DI RINASCERE, che l’autore ha continuato a promuovere con le serate di incontro con il pubblico, (costituito da seguaci fedelissimi, primi testimoni del suo talento, ma anche da nuovi adepti, incuriositi dalla sua proposta), ha confermato le doti umane e professionali di Max, e si è rivelato un vero successo editoriale.

Perché, non è quello che dice, ma quello che fa Max, che crea la differenza!

Prima di tutto perché non insegna quello che sa, ma trasmette quello che vive. Chi lo segue da parecchi anni, sa bene che, con un’enorme coerenza di vita umana e di credibilità professionale, Max applica su sé stesso la regola del RADICARSI ED AMARSI.

Lui per primo, ha scavato dentro di sé, per trovare la propria identità, per difendere la propria integrità, per creare e prendere la propria direzione esistenziale.

Poi perché, da poliziotto o da allenatore, Max crede che il vero successo è amare sé stessi e mettersi al servizio degli altri.

Così, nel suo libro e nelle sue lezioni, ci insegna a smetterla di dare la colpa agli altri, a liberarci dalle paure, ad eliminare dalla vita i vampiri d’energia, a scollarci di dosso la “rimandite”.

Ci invita a riflettere sul rischio più grande, che non è quello di morire, ma quello di non vivere, o meglio di vivere al di sotto delle proprie possibilità.

Quattro grandi paure, la paura della libertà, dell’abbandono, del giudizio, dell’approvazione ci bloccano e rappresentano una gabbia, da cui Max c’insegna ad uscire, per poi affrontare la paura più grande che non è il fallimento, ma il SUCCESSO.

Sì, Max Gentile, ci porta sull’orlo della sfida più coraggiosa, quella di riuscire a dare il meglio di sé, di esprimere tutto quel potenziale che abbiamo dentro e che, paradossalmente, all’inizio temiamo.

Ed allora, sempre secondo il nostro intuito sulle novità del mondo del coaching, vi anticipiamo un evento straordinario che avrà luogo a Milano il 28 ed il 29 settembre presso il Novotel Milano Nord Ca’Granda: il MENTAL FORUM di NEUROSCIENZE ED IPNOSI.

Questo primo ed affascinante congresso italiano con la partecipazione di quindici relatori internazionali, provenienti da sei paesi esteri propone l’incredibile sinergia e complementarietà tra le neuroscienze e l’ipnosi.

I migliori esperti nel campo dell’Ipnosi, Neuroscienze, Comunicazione, Emozioni, Apprendimento, Morfofisiognomica, Memoria, Benessere si alterneranno in un week end di informazione, dibattiti, conferenze e workshop dall’avvincente titolo

TUTTI MERITANO DI POTER ACCEDERE ALLA CONOSCENZA. Noi ci crediamo!

Ideatrice ed organizzatrice dell’evento è PAOLA GRASSI.

Ricercatrice, Coach professionista, Counselor ad Indirizzo Olistico, Filosofa e Scrittrice, Ipnotista, ha creato l’Associazione Italiana Ipnosi, di cui è Presidente e fondatrice insieme a Ester Patricia Ceresa e Vincenzo D’Amato.

E’ l’ideatrice e l’organizzatrice anche di Accademia Summit Festival (evento annuale no profit), a cui l’anno scorso era stato invitato anche Max Gentile, nonché Owner & Founder di Accademia Italiana di Coaching Integrato, community per la quale è Academy Master Trainer nei corsi di coaching e crescita personale.
La sua mente creativa produce in continuazione nuove idee che poi trasforma con successo in realtà.

Pensiamoci, se vogliamo continuare il viaggio alla scoperta della nostra rinascita e alla massima espressione del nostro potenziale mentale.

Noi di betapress ci saremo, ci metteremo in gioco per primi! …

Antonella Ferrari

 




Essere Principessa: la scomodità della vita.

C’era una volta un principessa,

questa principessa si trovava nel cuore di una tempesta.

Non sapeva ben dire come si era trovata in quella situazione ma, a dirla tutta, non era neppure troppo a disagio.

 Il vento soffiava, la pioggia cadeva e lei non vedeva a un palmo dal suo naso.

Era sola ma non aveva paura e sapeva bene cosa fare anche se non le era immediatamente visibile.

Ad un certo punto, durante il suo cieco vagare, iniziò a scorgere qualcosa che sembrava un castello.

Quando si avvicinò abbastanza da bussare alla porta, chi le aprì le chiese chi fosse.

“Sono una principessa”.

 Caso volle che in quel castello abitasse un principe che da tanto tempo cercava senza fortuna una vera principessa; tutte le principesse che gli si erano presentate come tali, non si erano rivelate all’altezza di quello che lui cercava.

Non erano abbastanza principesse.

 Il principe allora, dopo tanto cercare, e quando sembrava che fossero finite tutte le principesse del mondo, fu molto contento di accogliere la sedicente principessa e sperava che fosse la volta buona.

 La regina però, che era una donna navigata, prudente e furba, smorzò l’entusiasmo del figlio e gli disse che prima di sposare quella sconosciuta, lei avrebbe verificato che fosse veramente una principessa.

 Fece così preparare per la notte il letto della loro ospite:

 fece mettere 20 morbidissimi materassi per farla stare comoda e alla loro base, nascose un piccolo pisello secco, poi fece mettere sui 20 materassi venti grossi cuscini di piume e così la camera fu pronta.

 Si fece ora di andare a dormire e il mattino dopo il principe chiese alla sua ospite come avesse dormito.

 “in effetti, non bene.

Per tutta la notte non ho chiuso occhio, era come se qualcosa fosse sotto quei materassi, non ho trovato una sola posizione comoda, una situazione alla quale era impossibile abituarsi e, in più, quel qualcosa sotto quei materassi mi ha provocato un enorme livido blu e marrone”.

Fu così che la regina capì che quella era una vera principessa, infatti solo una principessa poteva avere una pelle così sensibile e acconsentì alle nozze.

 In effetti, la cosa migliore che ci possa capitare è di essere anche noi come la principessa.

La cosa migliore che possa accaderci è accorgerci che stiamo scomodi, che dormiamo male e sentiamo sempre qualcosa che ci lascia i lividi, nonostante i 20 materassi e i 20 cuscini.

 Perché le tante comodità delle nostre vite, le conciliazioni, le regole, le cose che “è meglio fare così” per non disturbare, le frasi che “è meglio non dire” per non essere sconvenienti… tutto quello che rende la vita più comoda e conciliante, più rassicurante, tutto quello che ci anestetizza (il letto), che copre le storture… tutto questo ci fa accettare uno stato che non è normale… ha come unico obiettivo quello di distrarci dal nostro essere “principesse”, creature che non hanno a che fare con le altre persone ormai inserite nel meccanismo del mondo.

 Non è normale che ci sia qualcosa sotto al materasso e probabilmente lo avremmo sentito anche noi; anzi, probabilmente lo abbiamo sentito anche noi, ma ci è sembrato così strano doverlo dire: abbiamo preferito stare zitti e sorridere dicendo “ho dormito benissimo, grazie”, per non dispiacere il nostro ospite, perché abbiamo pensato di essere noi esagerati, per buona educazione, perché “non era così importante”…

 E invece era importante.

 Auguro a tutti noi di essere perennemente scomodi, di non essere soddisfatti del proprio letto e di saperlo dire con fastidio, perché solo così saremmo in grado di essere delle “vere principesse” e affrontare le tempeste della vita senza quasi accorgercene, quasi con divertimento e spirito di avventura e di vedere chiaramente la strada anche se è nascosta.

 Come è il piccolo, così è il grande; come è la fiaba, così è la vita.


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UN THE CON SKARDY: la musica del cuore.

 

Marghera (Venezia), mercoledì 31 luglio 2019 ore 18.30, Skardy mi indica il Bar accanto al palazzo del Municipio.

Ci sediamo in un tavolino nel dehor… “un the caldo, grassie” ordina alla cameriera.

Inizia così la lunga intervista con una delle leggende della musica italiana, anzi, venessiana.

L’ultima volta che ebbi la fortuna di bere un drink con Skardy era il lontano 1994 quando io, giovane universitario, mi dilettavo nell’organizzazione di concerti e di eventi live.

All’epoca la musica era veramente “da piazza” e quell’estate ricordo che Prato della Valle a Padova era gremita di persone.

Il lettore perdoni frasi e battute in dialetto veneto che indicano la genuinità di Skardy e che permettono una comunicazione più diretta.

PERTH: Ti ho richiesto questa intervista perché innanzitutto è un onore poterti rivedere dopo più di vent’anni e soprattutto perché, come pochi altri artisti, ti ritengo, un vero e proprio punto di riferimento nella scena musicale italiana, mi riferisco alla vera arte e libera creatività, oggi invece è come se la gente fosse drogata dalla falsità di proposte musicali costruite a tavolino, una grande mercificazione di talenti usa e getta. Puoi dire ai lettori di Betapress.it cosa ne pensi?

SKARDY: Fondamentalmente credo che il mondo dell’arte e dello spettacolo sia gestito in modo ignobile, la musica è degradata da una certa politica non solo a livello locale ma “dirìa a livèo mondial”, e non conoscendola fino in fondo l’arte, il potere riduce tutto a “fumo, lustrisini, pajette ma poca sostansa”, ecco, questo è quello che penso.

PERTH: Il Veneto è una Regione magnifica, ma a volte l’opinione pubblica, fomentata da una certa politica, mostra il popolo veneto come persone legate al denaro e ai propri interessi da difendere con la spada. Come la musica che tu hai proposto in tutta la tua carriera ha mostrato invece il vero spirito veneto?

SKARDY: Il genere umano sta dimenticando la propria umanità per correre dietro al mito della ricchezza e del lusso, perché di questo si tratta, non si tratta del benessere! Il Veneto, come l’Italia, è un Paese che ha conosciuto il benessere e l’ha gettato via nella speranza di ottenere qualcosa in più. Cosa si è ottenuto distruggendo un intero sistema sociale che, pur con tutti i suoi peccati e limiti era alla base dell’armonia tra le persone? Si è ottenuto un cambio di potere, si è insediato un sistema cannibale sia dal punto di vista economico che sociale: le categorie dei più ricchi si mangiano quelle dei più poveri e di conseguenza abbiamo un mondo che, anche senza essere in guerra fisica, però è in una sorta di guerra tra individui e tra popolazioni. Prova a pensare all’ostilità che c’è adesso non solo tra le Regioni del nostro Paese ma nei confronti di popolazioni di altre etnie, trent’anni fa questo discorso non stava in piedi, anzi chi veniva da altre parti del mondo veniva considerato come un’opportunità e una ricchezza da cui trarre vantaggio. La mia musica, declinata in dialetto veneto, ha sempre tentato di comunicare con ironia questa denuncia contro la diseguaglianza sociale. Sicuramente lo spirito veneziano mi è rimasto e cerco ancora di trasmetterlo perché vedo che sta perdendosi nella storia, quando io giro per Venezia sento la gente che non è più la stessa gente che io ho conosciuto quando ero ragazzino o bambino addirittura. Il veneziano che conoscevo io era un veneziano che nell’esprimersi era una barzelletta, era una persona che trasmetteva talmente tanti modi di dire e talmente tanto umorismo che ti segnava. Al giorno d’oggi la gente parla in maniera quasi “da ufficio”, le barzellette da bar sono morte da 20 anni, vuol dire che lo spirito umano, originario, non solo quello veneziano, ma proprio lo spirito umano ha avuto dei danni, come ha avuto dei danni questo pianeta per opera dell’uomo e l’opera dell’uomo ha prodotto dei danni anche all’uomo stesso.

PERTH: Incontri molti giovani, sia al lavoro (Skardy lavora come “bideo” in una scuola di Venezia; n.d.a.) che ai tuoi concerti, cosa chiedono alla musica i giovani? Solo divertirsi oppure c’è dell’altro, secondo te?

SKARDY: Il mondo dei giovani è molto variegato, ci sono figli di generazioni che hanno avuto educazioni musicali diverse, i figli dei rockettari hanno ancora una certa predisposizione ad ascoltare la musica prodotta da musicisti e strumenti “manuali”, chi è cresciuto senza una cultura musicale, una cultura alla “bellezza artistica”, con genitori interessati a discoteche o ambienti in cui la musica elettronica, ha sostituito il vero sound, è più ricettivo ai suoni sintetici e quindi a quella musica che io chiamo “musica chimica”, prodotta dal computer. La maggior parte dei ragazzi di oggi ascolta ed è più attratta dalla musica chimica che dalla musica suonata, questo è grave perché, per quanto sia prodotta bene e per quanto ci voglia bravura a produrla, la musica cosiddetta “chimica” non avrà mai lo stesso effetto di uno strumento naturale. (Rimango sempre impressionato da questo refrain che peraltro i lettori di Music conoscono molto bene. Tutti gli artisti veri e Skardy è uno di questi, hanno a cuore la musica vera, non il prodotto di un potere che annulla le coscienze propinando una musica “usa e getta”, una musica “chimica”; n.d.a.)

PERTH: La “musica chimica”, come la definisci tu, può essere definita arte?

SKARDY: Per quanto sia perfetta la musica chimica trasmetterà sempre freddo, non come la musica suonata, la musica che ha bisogno di musicisti capaci! Io cerco sempre di fare quest esempio: sappiamo tutti quanto è buona la pizza cotta nel forno a legna, se tu mangi la pizza preconfezionata è ugualmente buona, ma non come la pizza cotta nel forno a legna. E quindi la musica elettronica la musica “chimica” sta alla pizza surgelata, come la musica suonata sta alla pizza originale. Faccio un esempio sconcio: “el vibrator xè sempre duro, ma il casso xè de carne” (Qualche amico veneto direbbe: “pura poesia”; n.d.a.). Nel senso che la musica elettronica “gà el so spessor ma no gà el caòr che gà ea musica sonada”. Al giorno d’oggi ben pochi ragazzini recepiscono questa differenza, forse se ne renderanno conto quando avranno 40 anni e capiranno cosa può essere definita arte. Io verso i 40/50 anni ho iniziato a recepire questa differenza, molto pesante, tra la musica costruita negli ultimi vent’anni e quella che c‘era prima, che magari suonava peggio ma dava più calore. Una sera ero in auto di ritorno da un concerto con Elio, ascoltavo la radio e sento un brano di un trapper di oggi e mi dicevo: non mi piace ma senti che potenza di suono, cambia il brano e parte “Smells Like Teen Spirit” de Nirvana, che nemmeno mi piacciono tanto, eppure ho sentito subito che il sangue ribolliva… ho ripensato ancora una volta all’importanza della musica suonata.

PERTH: La tua storia artistica è molto lunga e piena zeppa di collaborazioni importanti con cui hai condiviso la tua musica “made in veneto”, ci racconti qualche aneddoto? Non so Elio e le Storie Tese, piuttosto che Paolo Belli

SKARDY: Con Elio e le Storie Tese ho fatto le ultime (e definitive, due anni fa; n.d.a.) quattro date. Penso che con la fine del loro gruppo sia finito l’ultimo dei veri grandi gruppi italiani, dei veri e propri “maestri”. Se li guardi tutti, uno per uno, sono grandissimi musicisti, gli ultimi, mi vien da dire, perché se si pensa ai musicisti di adesso per prima cosa non militano in band poi sono tutti cantanti con il DJ che sintetizza e masterizza dietro alla voce ed infine ci sono i musicisti che fanno i turnisti e che suonano di tutto e con tutti. E’ un disastro. Dal Rock &Roll agli anni ’90 c’è stato fermento, oggi la musica è un disastro. Elio inoltre ci ha insegnato soprattutto come si realizzano i dischi e come ci si rapporta con il mondo discografico, anche se gli aneddoti più curiosi risalgono ai tempi in cui i Pitura Freska neanche esistevano, perché andavo a “imbragarme zente che jera parechio in alto” nel senso ad esempio che siamo andati a battere sulla macchina di Jimmy Cliff (famoso cantante reggae giamaicano; n.d.a): c’era Jimmy seduto in auto che si allenava con i bonghi e noi siamo andati lì a battergli sulla macchina, a suonare con lui…a rompere i coglioni alla gente famosa. Inoltre mi piace ricordare personaggi che avevano una certa autorevolezza artistica e che per primi ci dicevano “guarda che quello che state facendo è bello, ha un valore!” Mentre il resto della “plebaglia” disprezzava quello che facevamo, c’erano persone tra cui pittori, scrittori, anche docenti universitari, professionisti del mondo dello spettacolo che ci dicevano: “Beo! Bravi! Continué!” anche se il resto del mondo, soprattutto la critica musicale, ci considerava sotto il livello… animale. Questa è una questione importante: quando cerchi di portare un gruppo o un cantante alla ribalta la prima cosa che ti arriva sono le bastonate, nessuno viene a domandarti: “Cossa ti xè drio fàr, fame scoltàr”, no, invece ti dice “sta roba ea fa schifo!” La gente all’inizio non accetta la novità.

PERTH: Però avete avuto parecchio successo!

SKARDY: Certo! Ma ce lo siamo conquistato sulla strada, non facendoci aiutare dalle Major o da grandi produttori, siamo stati attaccati anche dalla parte più povera della popolazione, che ci dava dei “venduti” pensando che fossimo oramai in mano alla discografia che conta. Invece no, siamo sempre rimasti indipendenti e siamo andati avanti per la nostra strada.

PERTH: Quale è stato il momento esatto in cui ti è stato chiaro che da Marghera avresti potuto calcare i palchi di tutta l’Italia?

SKARDY: A San Siro quando ho visto Bob Marley (the King of Reggae; n.d.a.), quando mi è venuta in mente questa equazione, che è stata semplicissima, fulminea e geniale. Mi ricordavo un po’ l’inglese, avendolo studiato alle scuole medie, avevo 20 anni, ero a San Siro a vedere un concerto di Bob Marley, quando mi sono reso conto che parlavano l’inglese allo stesso modo in cui noi veneziani parliamo italiano, ho pensato: questo genere musicale è perfetto se ci canto sopra in veneziano e lì è iniziato tutto. Chiaro che mi ci è voluto del tempo per imparare a scrivere, per modulare i testi a seconda della musica, però se ti piace ti viene automatico e quando sono riuscito a scrivere due, tre canzoni e le ho fatto ascoltare ad alcuni amici con cui suonavamo assieme, mi hanno detto “però… potrebbe funzionare!” Avevamo una sala in cui provavamo, con il bassista abbiamo iniziato a istruire un gruppetto, siamo riusciti ad esordire qui davanti in questa piazza (Piazza del Municipio di Marghera; n.d.a.) nella rassegna “Marghera estate” del 1985. E da lì è iniziato tutto, perché quando hanno visto che nelle piazze attiravamo un buon numero di ascoltatori, iniziavano a chiamarci in tutti i locali e dove andavamo facevamo il “pienone”. Nel 1987 siamo tornati qui in piazza a Marghera i bar quella sera hanno esaurito tutte le riserve alcoliche (ride).

PERTH: A Padova nel ’94 avete fatto 20.000 persone, ricordo che c’era il Comune molto preoccupato per la sicurezza. Mi hai già risposto per la gran parte, comunque cos’è la via di San siro nella quale sei stato illuminato un po’ come Joliet Jake Blues, alias John Belushi, nel glorioso film Blues Brothers? Forse quando ti sei imbattuto con il Re del Reggae?

SKARDY: Sì infatti, io avevo già preso una bella “spettenada” l’anno prima quando mi hanno invitato a vedere Peter Tosh (altra leggenda del Reggae giamaicano; n.d.a.) che non conoscevo. All’epoca il reggae non mi piaceva, ascoltavo Led Zeppelin, Deep Purple, Santana, Pink Floyd. Alcuni amici mi convinsero ad andare al concerto di Marley a Bologna, era il 1979. La Band si è presentata sul palco con 15 elementi, una mini orchestra. Mi è piaciuto! Era un misto tra un concerto di Santana, un concerto di Funky, un concerto di Rock, non capivo bene cosa fosse, però mi piaceva. La Band “pestava”, aveva un groove pazzesco, tremendo. Sono uscito contento e mi sono ricreduto sul Reggae, suonato così mi piaceva molto. Stessa cosa per il concerto di Bob Marley! Prima del concerto si esibirono dei gruppi che non ebbero grande successo (si beccarono “ortaggi” in faccia), la terza band fu quella di un tale di nome…Pino Daniele! Anche lui prese solamente qualche applauso ma quando uscì Bob Marley esplose lo stadio. Cos’è che mi ha fatto andare fuori di testa? Che rispetto ad altri concerti a cui ero stato qui la gente non era seduta al suo posto in posizione yoga a guardare un palco, qui la gente ballava, saltava, si muoveva, è diverso, capisci? Se io sono seduto qui e vedo a 20/30 metri una “fìa che me piase” difficilmente mi alzo e vado a sedermi vicino a lei, ma se sono in piedi e sto ballando, posso avvicinarmi e con una scusa fare conoscenza. Finito questo concerto uno di noi disse: “Fioi doman ghe xè i Led Zeppelin a Zurigo, nemo?!” Sono andato e tornando dal concerto dei Led Zeppelin ho pensato che se dovevo scegliere avrei scelto Bob Marley… notare che i Led Zeppelin mi piacevano molto!

PERTH: Volevo farti una domanda relativa ai Pitura Freska, da quello che so tu non hai mai avuto piacere di dire perché è finita, tranne quello che scrivi nel sito e nei vari blog, la verità è che era finita un’epoca con loro?

SKARDY: La realtà è che il gruppo aveva iniziato in una direzione e poi è stato portato in un’altra, perché essendo tanti musicisti, ognuno voleva dare al progetto una propria direzione, qual è il segreto, secondo me? Quando hai preso una direzione e sei su una linea, devi continuare a seguirla, perché i Rolling Stones sono ancora vivi? Perché a loro piace quel genere e continuano a proporlo.

PERTH: Grande Bidello a mio avviso è un vero capolavoro. Un’opera che, con la consueta ironia che ti contraddistingue annienta i reality, vedi Grande Fratello, farai un pezzo anche contro i Talent?

SKARDY: Ma non ci penso proprio, ormai considero la televisione come la preistoria dell’intelligenza umana. Quando accendo la televisione e vedo che vengono trasmessi film degli anni ’40 e ’50, mi sembra di tornare a quando ero piccolo negli anni ’60 e probabilmente la gente era più intelligente di adesso, di conseguenza non posso parlare male di una cosa che ormai per me è il male già in partenza, c’è ben poco che salvo della televisione. Una volta guardavo “BLOB”, ora nemmeno quello, perché una volta facevano vedere il meglio e il peggio, ora vedi solo il peggio e mi fa paura. Il meglio è nascosto.  Inoltre credo che non serva, perché ormai la gente è orientata a questa insulsa mentalità e se io vado a toccare questi idoli vuoti, sono un alieno.

PERTH: Nella canzone Firulì Firulà dici di sentirti di un altro pianeta, intendi questo essere un alieno?

SKARDY: Ritorno a quello che ho detto all’inizio, non trovo più l’umanità che trovavo 30/40 anni fa, perché ormai non contano più né le parole, né quello che trasmetti come persona, ma contano i like sul telefono, contano i social, internet e tutto il resto e di conseguenza uno si sente già estromesso dal mondo se non vive dentro questo schema, se ti faccio vedere il mio telefono costa 20 euro, è mezzo rotto e non me ne frega niente di social ecc…, ovviamente essendo artista ho chi lavora per me e li segue, perché devo essere presente altrimenti iniziano a pensare che io sia morto, ma queste cose non sono la mia priorità. Ritengo che internet non venga usato nella maniera corretta secondo lo scopo per cui era stato pensato, un po’ come per tutte le scoperte o le correnti filosofiche o di pensiero, nascono per un intento e poi ne viene modificato lo scopo, Cristo ha dato vita al Cristianesimo e poi ne hanno fatto un’arma di guerra, Marx ha pensato il comunismo e poi hanno dato vita invece a uno stato militare. E’ sempre così.. si parte da uno scopo buono, poi la corruzione dell’uomo distrugge tutto.

PERTH: so che stai pensando ad un nuovo disco e spero di poterlo recensire quanto prima ma parlando di uno dei tuoi ultimi lavori è stata la rivisitazione in chiave Raggae del famoso brano “Centro di Gravità Permanente” di Franco Battiato. Qual è per Skardy il “Centro di Gravità Permanente” che gli permette di stare di fronte alle situazioni che vediamo tutti i giorni e di cui hai appena accennato?

SKARDY: Speremo de inissiar el novo disco”… dovrebbero iniziare le registrazioni dopo l’estate. Per quanto riguarda il “Centro di Gravità Permanente”, è un bel problema perché mi sembra di essere diviso continuamente in due pianeti: c’è il pianeta in cui stai bene, fai quel che ti piace e il pianeta in cui sei costretto a fare cose che non vorresti fare; io ho 60 anni e sono ancora costretto a lavorare! A 60 anni hai oramai dato tutto quel che potevi! Questo è il pianeta che non mi piace. Qual è il mio pianeta, il mio “Centro di Gravità Permanente”? Stare a casa mia, ascoltare la mia musica, andare in giro a suonare, cucinare, mi piace cucinare e avendo la moglie straniera ho dovuto imparare se volevo mangiare come dalla mamma (ride).

PERTH: Rifarai “Menarosto” la rubrica di cucina?

SKARDY: No, preferisco dedicarmi alla musica, stimolare la gente ad avere ancora interesse per la musica “suonata”, perché ritengo che la musica faccia bene, sia salutare, anche se si dice che non dia beneficio immediato, io credo che permetta un beneficio psichico e credo che il motivo per cui la gente peggiora nei rapporti, nella vita, sia che manca il beneficio psichico che dà la musica. Forse oggi con te ho parlato un po’ da matto, perché salto da Mercurio a Plutone… il mio difetto principale è di non essermi mai adeguato ai tempi odierni, parlo ancora come fossi negli anni ’70, perché il mondo doveva migliorare, se è peggiorato non è colpa mia e non vado certo a peggiorarmi per adeguarmi al mondo. Siamo in una società che ha l’obiettivo del beneficio immediato e questo vale anche per la musica, la vera ricchezza si crea nel tempo, nell’immediato puoi solo far contento qualcuno… “desso vago casa che gò da cusinàr, ciao”.

PERTH: Skardy, ti ringrazio, ciao.

 

PERTH

Perth

https://www.youtube.com/watch?v=KsCdxXtgN9o




La verità ha tante bocche

– Oh… Come è bello… Come hai detto che si chiama?

– Oceano 

– … Oceano… E hai detto che lo hai inventato tu?

– Propriamente 

– … Che meraviglia… Ma come hai fatto?

– Ho studiato, ho viaggiato molto, ho fatto esperimenti sulla mia pelle.

Quindi ho creato l’oceano.

– Oh… 

– Non è stato facile sai?

Questo oceano è unico.

– Una volta però ho sentito parlare di qualcosa del genere… Non ricordo bene… è possibile?

– Certo che no. 

– Eppure… Mare… Si chiamava così…

– Ah il mare… Ma quello lo conoscono tutti e oltre a non essere niente di speciale è pure tutto sbagliato.

– Tutto sbagliato? Che vuol dire?

– Vedi, tu adesso sei qui con me e stai osservando l’oceano. 

L’oceano è una enorme distesa di acqua salata che io ho alimentato goccia dopo goccia inserendo pesci di vario tipo, alghe e crostacei di ogni forma

– Capisco 

– Per non parlare dei coralli e dei molluschi, riesci a vederli?

– Bhé non riesco ad avere una visione di insieme perché è la prima volta che mi trovo davanti all’oceano ma è senza dubbio impressionante.

– Beh imparerai a conoscere l’oceano col mio aiuto e vedrai che ho ragione:

dietro questa massa d’acqua c’è proprio un gran lavoro.

– Ok, ma qual è la differenza tra questo è il mare?

– Hai detto che non hai mai visto il mare?

– Mai 

– Ma ne hai sentito parlare?

– Sì ma non ricordo bene, in modo confuso

– Bene, il mare è una enorme distesa di fango marrone, ha acqua salmastra e non ha vita al suo interno. 

Le acque sono torbide e se provi a bagnarti vai incontro a morte certa.

 

– Davvero?!

– Davvero.

– Io però avevo capito che il mare era bello e faceva pure bene, ti dirò che dalle descrizioni me lo immaginavo anche un po’ come questo oceano…

– Ti hanno ingannato! 

Venditori di fumo. 

La verità l’hai davanti ai tuoi occhi: questo è l’oceano e l’ho fatto io. 

Il mare è un abbaglio per allocchi e tu stai cadendo nella trappola di chi ti vuole ignorante.

– Povero me 

– Sí povero te, ma ci sono qua io e c’è l’oceano. 

Vuoi fare un bagno?

– Posso?

– Ma certo.

– Come è bello e come fa star bene, mi sento leggero e posso fare cose che non ho mai fatto.

– Vero, ma devi stare attento; ci sono delle regole per nuotare ed io te le insegnerò.

– Come fai a conoscere queste regole?

– Le ho create io quando ho creato l’oceano.

– Sono stato proprio fortunato a conoscerti 

– Puoi dirlo forte.

E ora lascia che ti racconti con la mia voce la verità… Bada però: non avrai anche tu intenzione di creare l’oceano?

– No, in verità… E poi mi è parso di capire che l’hai inventato tu…

– Proprio così infatti…

E ora siediti qui senza muoverti e ascolta la mia verità.

—–

Racconto fantatico ispirato a chi vuol far credere di aver inventato l’Oceano e vuol metterci paura del mare.




Una granita e una brioche

disquisizione socio-economico-culturale sulla televisione e la moderna monetocrazia.

Una mattina d’estate a Palermo può capitare che, se ti fermi in un bar a prendere una granita e una brioche, anche se hai con te un buon libro, il dialogo con uno sconosciuto potrebbe rivelarsi ancora più interessante di ciò che leggi.

Lui è un signore alto e distinto, con i capelli bianchi e un sigaro in mano; siede al tavolino vicino al mio, legge il giornale e beve un caffè.

Io leggo un libro che mi è stato consigliato e che si è rivelato di una squisita bellezza.

“I libri sono il migliore amico dell’uomo”.

Smetto di leggere e lo guardo.

Non parlo perché una persona che ti interrompe mentre leggi non ha voglia di ascoltarti ma di farsi ascoltare.

E io so che lui sta solo cominciando e sono molto curiosa di ascoltarlo perché ho l’occhio lungo per le persone interessanti e non mi stanco mai di incontrarne.

È un ingegnere ma si giustifica subito dicendo che legge Rousseau, continuo ad ascoltare.

Adesso, nella recita a soggetto di quella mattina, è il turno della mia battuta e la pronuncio sorridendo perché so che è l’assist che cerca: “la cultura salverà il mondo”.

Ed è successo qui che la conversazione è sbocciata.

Da questo punto in poi ha inizio il motivo per il quale ho deciso di scrivere questo articolo.

In una fresca mattina d’estate, da un tavolo all’altro di un bar decentrato, iniziamo a parlare della analfabetizzazione della società e del ruolo dei media in questo panorama.

Però questa deprecatio temporis acti, questa continua lamentela sui tempi che viviamo che viene ripetuta fino ad oggi da quando Aristofane già nel 400 a.C. faceva dire al suo Eracle: “Quei non più sono e i vivi son cattivi”, non è forse proprio del tutto vera o, meglio, io non ho voglia vederla così perché dà alla imminente rovina che ci sta piombando addosso un sapore di ineluttabilità che io non voglio buttar giù.

Seguitemi nel mio ragionamento e ditemi se vi convince o se è, a vostro parere, da correggere (non è un modo di dire: mi interessa davvero conoscere la vostra riflessione in merito, scrivetela pure nei commenti).

Il fatto è che, onestamente, se proviamo a tornare indietro con la memoria, ricorderemo che all’inizio del ‘900 le persone in grado di saper leggere e scrivere erano molte meno che oggi.

Anzi, su questo versante, la televisione ha apportato un contributo molto importante (un esempio per tutti le lezioni di “Non è mai troppo tardi” condotto dal prof. Manzi).

Sempre in quegli anni, con l’inserimento dei programmi di intrattenimento, il palinsesto televisivo proponeva le messe in scena dei grandi romanzi permettendo cosi alla letteratura e alla cultura di arrivare a un numero ampio di telespettatori.

Ricordiamo a questo proposito che i romanzi dell’Ottocento erano concepiti per essere letti ad alta voce in famiglia piuttosto che, come oggi, nella propria solitudine.

Il romanzo era un momento di intrattenimento conviviale, da vivere nel proprio salotto all’interno del proprio nucleo familiare e sociale; era un momento di confronto che offriva alle persone la possibilità di accendere un dibattito, confrontarsi e maturare un’etica.

Interessante vedere come questo ruolo è stato perso dal romanzo ed è stato preso tempestivamente e di buon grado la televisione.

I grossi televisori a tubo catodico sostituivano e dislocavano via via sempre più quelli che erano stati fino a quel momento i salotti e i nuclei familiari.

Si creava in quegli anni, grazie a quello strumento rivoluzionario, la comune cultura di base cosa che, fino al quel momento, non c’era: non esisteva una cultura di base nazionale ma percorsi formativi divisi per classi, aree geografiche e ceti sociali.

La cultura cominciava a circolare agevolmente e senza troppo impegno da parte di chi la accoglieva e poteva essere percepita come nazionale o, addirittura, mondiale.

E, fino a qui, niente di male verrebbe da dire: è il progresso e il futuro che avanza.

E intanto, la televisione, arrivata in ogni casa, educava la morale e abituava alle mode.

Piano piano, nel modo più amabile, la televisione diventava la coscienza che entrava da una scatola in salotto piuttosto che nascere dall’anima di ciascuno.

Fatto questo, una volta acquistata la fiducia incondizionata del telespettatore, si è passati alla Fase2.

Dopo essere stata lo strumento di educazione e omologazione culturale, la televisione è passata a quella che il prof.Umberto Galimberti, parafrasando Flaubert, chiama “l’educazione sentimentale”.

Ovvero, dice sempre il prof. Galimberti, siamo al punto in cui la televisione e i suoi programmi ci stanno insegnando attraverso beceri esempi come provare emozioni: come innamoraci, come reagire alla gelosia, come essere tristi, come essere felici…

Questa codificazione non fa altro che renderci solo più privi di personalità e manovrabili.

Ecco, verrebbe da dire che, nonostante un inizio che prometteva benissimo, siamo arrivati a un punto preoccupante; dalla missione di alfabetizzazione sociale, si è arrivati all’obiettivo della analfabetizzazione sistematica.

Ma non è un attacco allo strumento ma all’utilizzo che se ne fa.

“che lavoro fa?”

“Sono laureata in materie umanistiche”

“Ah, un tempo, quando mi sono laureato io, chi aveva la passione si iscriveva a lettere e filosofia e chi invece non aveva voglia di studiare e non voleva avere nulla a che fare con la cultura, si iscriveva ad economia.

La cosa incredibile è che oggi loro sono loro quelli che stanno stabilendo tutte le regole e decidono attraverso il denaro le vite di tutti noi.

La cosa incredibile è che siamo governati da quella che aveva tutti i presupposti di essere una categoria di uomini ignoranti e aridi”.

Al di là dell’approccio campanilistico questa frase mi ha fatto molto riflettere e questo è il pensiero che porto a casa da quella mattina.

Rifletto e penso che il mio gradevole interlocutore abbia ragione.

Non so quanto sia vero o soggettivo lo scherno riservato agli studenti di economia di allora ma, se così fosse, il paragone reggerebbe.

Non me ne vogliano i laureati in economia (sto prendendo la seconda laurea in economia anche io) ma l’ascesa sociale nella nostra scala dei valori svolta dal danaro

e il potere acquisito in breve tempo da chi del denaro detta le regole, è un segno e una causa del nichilismo dei nostri tempi.

Non sono pensieri miei, non sono così intelligente anche se mi piacerebbe esserlo, cercate pure cosa dice il prof. Umberto Galimberti a proposito del nichilismo moderno e sarà tutto chiaro.

Il nichilismo dei nostri giorni è la sindrome del direttore del lager che giustifica le centinaia di morti sulla propria coscienza con la frase “io facevo il mio lavoro”.

È l’esaltazione dei freddi doveri lavorativi a scapito dell’umano e palpitante discernimento.

È la concentrazione verso l’essere un uomo ricco piuttosto che un uomo di valore.

La tendenza all’Avere piuttosto che all’Essere come diceva Eric Fromm, all’apparire (ciò che gli altri vogliono che tu sia) rispetto all’essere ciò che non sappiamo di essere.

È l’eccentricità del nuovo equilibrio per il quale la nuova divinità si chiama “soldo” e, come ogni rituale richiede sacrifici e vittime.

È quella che Raimonundo Panikkar chiamava la “monetocrazia” ovvero il potere dittatoriale della moneta.

Per quanto fino a qualche anno fa questa delocalizzazione della morale poteva sembrarci aberrante, oggi è affascinante notare che, anche attraverso il mezzo di propaganda sociale che è la televisione e di propaganda delle coscienze che è la rete, è diventato perfettamente plausibile.

E così, in questi giorni, rifletto su questo tema e ne parlo con gli amici e uso le lenti di questa riflessione per guardarmi attorno e scoprire cosa si vede.

Il mio interlocutore, a suo dire, su quanto detto e qui riportato, aveva un approccio “pessimista”, non credeva cioè che ci fosse via di uscita da questa degradazione.

Io però farò appello alla differenza di anni che separano la mia età dalla sua e userò il tempo che mi resta per colmare il divario, per ribellarmi con i pensieri e le azioni a questa corrente e dare il mio contributo affinché la cultura e la bellezza possano salvare il mondo.

Ps: Il mio nuovo amico mi ha raccontato anche di sua nonna Andromaca e di come essa diceva che gli occhi siano concupiscenza oltre quello che in realtà possono contenere ma di lei, forse, scriverò in un altro articolo.


Puoi leggere altri post di Chiara Sparacio su https://chiarasparacio.wordpress.com




Carcere di vecchiaia, nuova tendenza…

 

In Giappone, la popolazione è la più anziana del mondo. Il 25% della sua popolazione supera i 65 anni.

Il fenomeno sociale ha già compromesso il sistema finanziario e la grande distribuzione giapponesi.

Ma, di recente, è emersa un’altra grave problematica: una grande quantità di anziani giapponesi commette intenzionalmente crimini minori, per di più furti, per poter essere arrestato in modo da poter trascorrere gli ultimi giorni di vita in carcere.

Incredibile, ma vero!

Secondo Bloomberg, multinazionale operativa nel settore dei mass media, il governo giapponese deve affrontare l’invecchiamento della popolazione carceraria.

Sempre secondo la sopracitata agenzia di stampa, in Giappone, le denunce e gli arresti di persone anziane stanno superando quelli relativi a qualsiasi altra fascia di popolazione.

Infatti, la percentuale di crimini commessi da persone anziane giapponesi è quadruplicata negli ultimi vent’anni.

Così siamo arrivati al punto che, in Giappone, il 20% dei carcerati è un anziano. E, nella maggior parte dei casi, addirittura nove su dieci per le donne, i crimini, deliberatamente commessi per finire in prigione, sono piccoli furti.

Il fenomeno è solo apparentemente insolito ed inspiegabile. In realtà rimanda alla fatica di vivere delle persone anziane sole ed indigenti, in Giappone, ma non solo.

Alla base di tutto, ci sono le enormi difficoltà assistenziali che i paesi più ricchi e longevi devono sostenere verso la fascia più anziana della popolazione.

Sempre secondo Bloomberg, tra il 1985 ed il 2015, il numero di anziani che vive solo è aumentato del 600%.

Da un’indagine del governo giapponese è emerso che la metà degli anziani sorpresi a rubare, è costretta a vivere sola. Ed il 40% di loro ha detto di non avere famigliari o di non parlare quasi mai con loro.

Dunque, con questi presupposti, la prigione è semplicemente una alternativa migliore alla povertà, ma soprattutto alla solitudine, della terza età.

“Magari hanno una casa, o anche una famiglia. Ma ciò non significa che hanno un posto dove sentirsi a proprio agio”, ha detto a Bloomberg Yumi Muranaka, direttrice del carcere femminile di Iwakuni.

Ogni carcerato mantenuto dallo stato giapponese costa più di 20.000 dollari all’anno.

Le speciali cure ed esigenza di assistenze specifiche di un carcerato anziano fanno ulteriormente lievitare i costi.

Senza considerare che i secondini devono svolgere il ruolo di una badante più che di personale carcerario.

Ormai, la vita in un carcere giapponese sembra sempre più quello di una casa di riposo.

Paradossalmente, le carcerate intervistate da Bloomberg hanno lasciato trapelare di aver ritrovato in prigione un senso di comunità mai provato all’ esterno.

“Apprezzo di più la mia vita in prigione.

C’è sempre un sacco di gente e non mi sento sola. Quando sono uscita la seconda volta, ho promesso che non sarei più rientrata. Ma fuori non riuscivo a non provare nostalgia”.

Ha raccontato a Bloomberg una delle donne.

L’arresto intenzionale non è un’esclusiva giapponese.

Negli Stati Uniti, ad esempio, si sono verificati casi di persone fattesi deliberatamente arrestare per ottenere cure mediche, ripararsi da aspre condizioni meteorologiche o costringersi a disintossicarsi.

Ma le dimensioni del problema giapponese stanno allarmando le autorità.

Il governo sta cercando di combattere la criminalità della terza età migliorando il proprio sistema previdenziale, ma l’ondata di criminali anziani non accenna a concludersi in tempi brevi.

“La vita in carcere non è facile”, ha dichiarato l’operatore sociale Takeshi Izumaru.

“Ma per alcuni, fuori è anche peggiore”.

In Italia, il progressivo invecchiamento della popolazione, apre prospettive inquietanti di povertà e di solitudine gestite per lo più con dilemmi famigliari tra case di riposo di lusso, ospizi di basso livello o caroselli di badanti di ogni tipo…

Quello che manca è comunque l’attenzione dello Stato verso quella fascia di popolazione sempre più numerosa e vulnerabile.

Cittadini italiani, magari andati in pensione con le pensioni baby, con 14 anni, 6 mesi ed un giorno, negli anni ’80, che adesso, ultra ottantenni, continuano a gravare sullo Stato.

Da quarantanni non sono più contribuenti attivi, e sempre più, invecchiando, diventano costi passivi di uno stato che, per ora, in carcere, non mette neanche gli evasori attivi.

Ma questo è un altro problema !

 

Antonella Ferrari

 




Separati per il bene.

Quando meno te l’aspetti, arriva un gancio dal cielo che ti rimette in piedi.

“A volte la separazione è la soluzione migliore per il bene dei figli “, queste le parole pronunciate dal Papa, due giorni fa, all’incontro con i Gesuiti in Romania.

E capisci che se l’ha detto il Papa, dall’alto della sua infallibilità, forse è proprio vero che il matrimonio non è un valore assoluto, a prescindere, costi quel che costi.

Che Papa Bergoglio avesse intrapreso un percorso d’avanguardia rispetto alla posizione anacronistica della Chiesa, lo si era capito sin da subito.

Nel febbraio del 2014 aveva raccomandato di non condannare chi ha vissuto il fallimento di un amore.

” Accompagnare, non condannare” era stato il suo monito.

Prendendo spunto dal Vangelo, aveva commentato l’atteggiamento dei dottori della legge che cercano di porre delle trappole a Gesù per “togliergli l’autorità morale”. I farisei, aveva osservato, si presentano da Gesù con il problema del divorzio. Il loro stile, è sempre lo stesso: “la casistica”, “È lecito questo o no? “Sempre il piccolo caso. E questa è la trappola: dietro la casistica, dietro il pensiero casistico, sempre c’è una trappola. Sempre! Contro la gente, contro di noi e contro Dio, sempre”

Nell’ aprile del 2016, altro passo avanti del Papa, verso i divorziati risposati. 

“Ci sono divieti che si possono superare”.

Quindi, valutando caso per caso, i divorziati, potranno ricevere la comunione e fare i padrini e i catechisti in Chiesa. Non una regola generale, però, ma un discernimento affidato ai confessori come chiesto dai vescovi che avevano partecipato al Sinodo del 2015 sulla famiglia

Questa era stata la decisione presa da Papa Francesco nella sua attesa esortazione apostolica post sinodale Amoris laetitia  a conclusione di un cammino di riflessione durato oltre due anni con consultazione di fedeli e di vescovi di tutto il mondo.

Ma nel testo non c’erano soltanto questioni che riguardavano i divorziati, perché Bergoglio aveva parlato anche di sesso coniugale, ribadendo la sua contrarietà alle nozze gay e sottolineando come la Chiesa dovesse fare autocritica.

In particolare sull’eccessivo peso dato al “dovere della procreazione” nel matrimonio e sull’insistenza quasi esclusiva, “per molto tempo”, su “questioni dottrinali, bioetiche e morali”, una concezione troppo “astratta”, negativa, e un “atteggiamento difensivo” nei confronti del mondo.

Per Bergoglio, poi, nei confronti di chi vive situazioni ‘irregolari’ i pastori della Chiesa non possono applicare leggi morali “come se fossero pietre che si lanciano contro la vita delle persone.

È il caso dei cuori chiusi, che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa”.

“Abbiamo presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto”.

Così, Il Papa riflettendo sulla sessualità coniugale e sul matrimonio, aveva già evidenziato come la sua “idealizzazione eccessiva” non avesse fatto sì che diventasse “desiderabile e attraente, ma tutto il contrario”.

“In nessun modo possiamo intendere la dimensione erotica dell’amore come un male permesso o come un peso da sopportare per il bene della famiglia, bensì come dono di Dio che abbellisce l’incontro tra gli sposi “

E anche San Giovanni Paolo II, aveva già ricordato il Papa, ha respinto l’idea che l’insegnamento della Chiesa porti a una negazione del valore del sesso umano o che semplicemente lo tolleri ‘per la necessità stessa della procreazione’.

Dunque, secondo il Papa, a partire dal Sinodo sulla famiglia del 2015, c’era tutto un cammino da percorrere per concretizzare un’apertura della Chiesa verso la vera realtà coniugale.

E, Lui, questo cammino, ha continuato a farlo.

Diverse volte, Bergoglio, ha insistito sulla necessità di “riconoscere la grande varietà di situazioni familiari che possono offrire una certa regola di vita”

Allo stesso tempo, Papa Francesco si è più volte domandato chi si occupi “oggi di sostenere i coniugi, di aiutarli a superare i rischi che li minacciano, di accompagnarli nel loro ruolo educativo, di stimolare la stabilità dell’unione coniugale?”.

Ha persino espresso una profonda autocritica verso la posizione della Chiesa sul dovere della procreazione.” Spesso abbiamo presentato il matrimonio in modo tale che il suo fine unitivo, l’invito a crescere nell’amore e l’ideale di aiuto reciproco sono rimasti in ombra per un accento quasi esclusivo posto sul dovere della procreazione”

A proposito della formazione e del sostegno al matrimonio, il Papa ha riconosciuto i limiti della Chiesa che non ha fatto un buon accompagnamento dei nuovi sposi nei loro primi anni, con proposte adatte ai loro orari, ai loro linguaggi, alle loro preoccupazioni più concrete. Altre volte, la Chiesa ha presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono. “Questa idealizzazione eccessiva, soprattutto quando non abbiamo risvegliato la fiducia nella grazia, non ha fatto sì che il matrimonio sia più desiderabile e attraente, ma tutto il contrario”.

Sembra proprio che il filo conduttore di ogni esortazione papale sia sempre lo stesso: formare le coscienze, non sostituirle.

Sulla possibilità per i divorziati risposati di accostarsi ai sacramenti, Francesco ha sempre risposto in modo chiaro: “Se si tiene conto dell’innumerevole varietà di situazioni concrete è comprensibile che non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi.

È possibile soltanto un nuovo incoraggiamento a un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari, che dovrebbe riconoscere che, poiché il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi, le conseguenze o gli effetti di una norma non necessariamente devono essere sempre gli stessi”.

“I divorziati risposati – ha sottolineato il Papa – dovrebbero chiedersi come si sono comportati verso i loro figli quando l’unione coniugale è entrata in crisi; se ci sono stati tentativi di riconciliazione; come è la situazione del partner abbandonato; quali conseguenze ha la nuova relazione sul resto della famiglia e la comunità dei fedeli; quale esempio essa offre ai giovani che si devono preparare al matrimonio. Una sincera riflessione può rafforzare la fiducia nella misericordia di Dio che non viene negata a nessuno”.

Il Papa non ha voluto stabilire una norma valida per tutti perché “i divorziati che vivono una nuova unione possono trovarsi in situazioni molto diverse, che non devono essere catalogate o rinchiuse in affermazioni troppo rigide senza lasciare spazio a un adeguato discernimento personale e pastorale”

Per esempio, secondo il Papa, “c’è il caso di quanti hanno fatto grandi sforzi per salvare il primo matrimonio e hanno subito un abbandono ingiusto, o quello di coloro che hanno contratto una seconda unione in vista dell’educazione dei figli, e talvolta sono soggettivamente certi, in coscienza, che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido.

Altra cosa invece – ha precisato – è una nuova unione che viene da un recente divorzio, con tutte le conseguenze di sofferenza e di confusione che colpiscono i figli e famiglie intere, o la situazione di qualcuno che ripetutamente ha mancato ai suoi impegni familiari. Dev’essere chiaro che questo non è l’ideale che il Vangelo propone per il matrimonio e la famiglia”.

Dunque, a partire dalla sua esortazione AMORIS LAETITIA del 2016, Papa Francesco,  ha continuato a recepire, integralmente, le conclusioni del Sinodo del 2015, approvate dalla maggioranza dei vescovi, sulla partecipazione dei divorziati risposati a “diversi servizi ecclesiali: occorre perciò discernere quali delle diverse forme di esclusione attualmente praticate in ambito liturgico, pastorale, educativo e istituzionale possano essere superate”.

Per il Papa “si tratta di integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale, perché si senta oggetto di una misericordia immeritata, incondizionata e gratuita. Nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo! Non mi riferisco solo ai divorziati che vivono una nuova unione, ma a tutti, in qualunque situazione si trovino”

Bergoglio ha sempre ribadito la condanna della Chiesa sull’aborto, l’eutanasia, la teoria del gender, la pedofilia, la violenza che purtroppo si verifica anche in famiglia molto spesso a danno delle donne, la pratica dell’utero in affitto.  Spesso, il Papa ha  ricordato la sua riforma del processo di nullità matrimoniale incoraggiando le coppie in crisi a verificare la validità della loro unione canonica.

Insomma, Papa Francesco, ha sempre avuto parole molto comprensive verso ogni persona. Persino a proposito delle unioni di fatto, ha sottolineato che esse sono molto numerose, non solo per il rigetto dei valori della famiglia e del matrimonio, ma soprattutto per il fatto che sposarsi è percepito come un lusso, per le condizioni sociali, così che la miseria materiale spinge a vivere unioni di fatto.

Situazioni che, per il Papa, “vanno affrontate in maniera costruttiva, cercando di trasformarle in opportunità di cammino verso la pienezza del matrimonio e della famiglia alla luce del Vangelo”.

Dunque, due giorni fa, incontrando i Gesuiti in Romania, il Papa ha continuato un unico discorso, quello di sempre.

“Ci sono matrimoni nulli per mancanza di fede. Poi magari il matrimonio non è nullo, ma non si sviluppa bene per l’immaturità psicologica.

In alcuni casi il matrimonio è valido, ma a volte è meglio che i due si separino per il bene dei figli”.

Questo il suo messaggio che non apre un cambiamento significativo della posizione della Chiesa sul tema del divorzio, quanto mantiene un ‘apertura che dura da anni.

Il Papa ha infatti nuovamente parlato del Sinodo sulla famiglia: “Quando è incominciato il Sinodo sulla famiglia, alcuni hanno detto: ecco, il Papa convoca un Sinodo per dare la comunione ai divorziati. E continuano ancora oggi! In realtà, il Sinodo ha fatto un cammino”.

Per il Papa “sul problema matrimoniale dobbiamo uscire dalla casistica che ci inganna” e “si devono accompagnare le coppie. Ci sono esperienze molto buone. Questo è molto importante. Ma servono i tribunali diocesani. E ho chiesto che si faccia il processo breve. So che in alcune realtà i tribunali diocesani non funzionano. E ce ne sono troppo pochi. Il Signore ci aiuti!”

Ed allora, che davvero il Signore ci aiuti a liberarci dal formalismo e dal bigottismo che troppe volte hanno allontanato la Chiesa dall’amore vero, quello che il Papa ci esorta a vivere…

 

Antonella Ferrari