Essere Principessa: la scomodità della vita.

C’era una volta un principessa,

questa principessa si trovava nel cuore di una tempesta.

Non sapeva ben dire come si era trovata in quella situazione ma, a dirla tutta, non era neppure troppo a disagio.

 Il vento soffiava, la pioggia cadeva e lei non vedeva a un palmo dal suo naso.

Era sola ma non aveva paura e sapeva bene cosa fare anche se non le era immediatamente visibile.

Ad un certo punto, durante il suo cieco vagare, iniziò a scorgere qualcosa che sembrava un castello.

Quando si avvicinò abbastanza da bussare alla porta, chi le aprì le chiese chi fosse.

“Sono una principessa”.

 Caso volle che in quel castello abitasse un principe che da tanto tempo cercava senza fortuna una vera principessa; tutte le principesse che gli si erano presentate come tali, non si erano rivelate all’altezza di quello che lui cercava.

Non erano abbastanza principesse.

 Il principe allora, dopo tanto cercare, e quando sembrava che fossero finite tutte le principesse del mondo, fu molto contento di accogliere la sedicente principessa e sperava che fosse la volta buona.

 La regina però, che era una donna navigata, prudente e furba, smorzò l’entusiasmo del figlio e gli disse che prima di sposare quella sconosciuta, lei avrebbe verificato che fosse veramente una principessa.

 Fece così preparare per la notte il letto della loro ospite:

 fece mettere 20 morbidissimi materassi per farla stare comoda e alla loro base, nascose un piccolo pisello secco, poi fece mettere sui 20 materassi venti grossi cuscini di piume e così la camera fu pronta.

 Si fece ora di andare a dormire e il mattino dopo il principe chiese alla sua ospite come avesse dormito.

 “in effetti, non bene.

Per tutta la notte non ho chiuso occhio, era come se qualcosa fosse sotto quei materassi, non ho trovato una sola posizione comoda, una situazione alla quale era impossibile abituarsi e, in più, quel qualcosa sotto quei materassi mi ha provocato un enorme livido blu e marrone”.

Fu così che la regina capì che quella era una vera principessa, infatti solo una principessa poteva avere una pelle così sensibile e acconsentì alle nozze.

 In effetti, la cosa migliore che ci possa capitare è di essere anche noi come la principessa.

La cosa migliore che possa accaderci è accorgerci che stiamo scomodi, che dormiamo male e sentiamo sempre qualcosa che ci lascia i lividi, nonostante i 20 materassi e i 20 cuscini.

 Perché le tante comodità delle nostre vite, le conciliazioni, le regole, le cose che “è meglio fare così” per non disturbare, le frasi che “è meglio non dire” per non essere sconvenienti… tutto quello che rende la vita più comoda e conciliante, più rassicurante, tutto quello che ci anestetizza (il letto), che copre le storture… tutto questo ci fa accettare uno stato che non è normale… ha come unico obiettivo quello di distrarci dal nostro essere “principesse”, creature che non hanno a che fare con le altre persone ormai inserite nel meccanismo del mondo.

 Non è normale che ci sia qualcosa sotto al materasso e probabilmente lo avremmo sentito anche noi; anzi, probabilmente lo abbiamo sentito anche noi, ma ci è sembrato così strano doverlo dire: abbiamo preferito stare zitti e sorridere dicendo “ho dormito benissimo, grazie”, per non dispiacere il nostro ospite, perché abbiamo pensato di essere noi esagerati, per buona educazione, perché “non era così importante”…

 E invece era importante.

 Auguro a tutti noi di essere perennemente scomodi, di non essere soddisfatti del proprio letto e di saperlo dire con fastidio, perché solo così saremmo in grado di essere delle “vere principesse” e affrontare le tempeste della vita senza quasi accorgercene, quasi con divertimento e spirito di avventura e di vedere chiaramente la strada anche se è nascosta.

 Come è il piccolo, così è il grande; come è la fiaba, così è la vita.


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UN THE CON SKARDY: la musica del cuore.

 

Marghera (Venezia), mercoledì 31 luglio 2019 ore 18.30, Skardy mi indica il Bar accanto al palazzo del Municipio.

Ci sediamo in un tavolino nel dehor… “un the caldo, grassie” ordina alla cameriera.

Inizia così la lunga intervista con una delle leggende della musica italiana, anzi, venessiana.

L’ultima volta che ebbi la fortuna di bere un drink con Skardy era il lontano 1994 quando io, giovane universitario, mi dilettavo nell’organizzazione di concerti e di eventi live.

All’epoca la musica era veramente “da piazza” e quell’estate ricordo che Prato della Valle a Padova era gremita di persone.

Il lettore perdoni frasi e battute in dialetto veneto che indicano la genuinità di Skardy e che permettono una comunicazione più diretta.

PERTH: Ti ho richiesto questa intervista perché innanzitutto è un onore poterti rivedere dopo più di vent’anni e soprattutto perché, come pochi altri artisti, ti ritengo, un vero e proprio punto di riferimento nella scena musicale italiana, mi riferisco alla vera arte e libera creatività, oggi invece è come se la gente fosse drogata dalla falsità di proposte musicali costruite a tavolino, una grande mercificazione di talenti usa e getta. Puoi dire ai lettori di Betapress.it cosa ne pensi?

SKARDY: Fondamentalmente credo che il mondo dell’arte e dello spettacolo sia gestito in modo ignobile, la musica è degradata da una certa politica non solo a livello locale ma “dirìa a livèo mondial”, e non conoscendola fino in fondo l’arte, il potere riduce tutto a “fumo, lustrisini, pajette ma poca sostansa”, ecco, questo è quello che penso.

PERTH: Il Veneto è una Regione magnifica, ma a volte l’opinione pubblica, fomentata da una certa politica, mostra il popolo veneto come persone legate al denaro e ai propri interessi da difendere con la spada. Come la musica che tu hai proposto in tutta la tua carriera ha mostrato invece il vero spirito veneto?

SKARDY: Il genere umano sta dimenticando la propria umanità per correre dietro al mito della ricchezza e del lusso, perché di questo si tratta, non si tratta del benessere! Il Veneto, come l’Italia, è un Paese che ha conosciuto il benessere e l’ha gettato via nella speranza di ottenere qualcosa in più. Cosa si è ottenuto distruggendo un intero sistema sociale che, pur con tutti i suoi peccati e limiti era alla base dell’armonia tra le persone? Si è ottenuto un cambio di potere, si è insediato un sistema cannibale sia dal punto di vista economico che sociale: le categorie dei più ricchi si mangiano quelle dei più poveri e di conseguenza abbiamo un mondo che, anche senza essere in guerra fisica, però è in una sorta di guerra tra individui e tra popolazioni. Prova a pensare all’ostilità che c’è adesso non solo tra le Regioni del nostro Paese ma nei confronti di popolazioni di altre etnie, trent’anni fa questo discorso non stava in piedi, anzi chi veniva da altre parti del mondo veniva considerato come un’opportunità e una ricchezza da cui trarre vantaggio. La mia musica, declinata in dialetto veneto, ha sempre tentato di comunicare con ironia questa denuncia contro la diseguaglianza sociale. Sicuramente lo spirito veneziano mi è rimasto e cerco ancora di trasmetterlo perché vedo che sta perdendosi nella storia, quando io giro per Venezia sento la gente che non è più la stessa gente che io ho conosciuto quando ero ragazzino o bambino addirittura. Il veneziano che conoscevo io era un veneziano che nell’esprimersi era una barzelletta, era una persona che trasmetteva talmente tanti modi di dire e talmente tanto umorismo che ti segnava. Al giorno d’oggi la gente parla in maniera quasi “da ufficio”, le barzellette da bar sono morte da 20 anni, vuol dire che lo spirito umano, originario, non solo quello veneziano, ma proprio lo spirito umano ha avuto dei danni, come ha avuto dei danni questo pianeta per opera dell’uomo e l’opera dell’uomo ha prodotto dei danni anche all’uomo stesso.

PERTH: Incontri molti giovani, sia al lavoro (Skardy lavora come “bideo” in una scuola di Venezia; n.d.a.) che ai tuoi concerti, cosa chiedono alla musica i giovani? Solo divertirsi oppure c’è dell’altro, secondo te?

SKARDY: Il mondo dei giovani è molto variegato, ci sono figli di generazioni che hanno avuto educazioni musicali diverse, i figli dei rockettari hanno ancora una certa predisposizione ad ascoltare la musica prodotta da musicisti e strumenti “manuali”, chi è cresciuto senza una cultura musicale, una cultura alla “bellezza artistica”, con genitori interessati a discoteche o ambienti in cui la musica elettronica, ha sostituito il vero sound, è più ricettivo ai suoni sintetici e quindi a quella musica che io chiamo “musica chimica”, prodotta dal computer. La maggior parte dei ragazzi di oggi ascolta ed è più attratta dalla musica chimica che dalla musica suonata, questo è grave perché, per quanto sia prodotta bene e per quanto ci voglia bravura a produrla, la musica cosiddetta “chimica” non avrà mai lo stesso effetto di uno strumento naturale. (Rimango sempre impressionato da questo refrain che peraltro i lettori di Music conoscono molto bene. Tutti gli artisti veri e Skardy è uno di questi, hanno a cuore la musica vera, non il prodotto di un potere che annulla le coscienze propinando una musica “usa e getta”, una musica “chimica”; n.d.a.)

PERTH: La “musica chimica”, come la definisci tu, può essere definita arte?

SKARDY: Per quanto sia perfetta la musica chimica trasmetterà sempre freddo, non come la musica suonata, la musica che ha bisogno di musicisti capaci! Io cerco sempre di fare quest esempio: sappiamo tutti quanto è buona la pizza cotta nel forno a legna, se tu mangi la pizza preconfezionata è ugualmente buona, ma non come la pizza cotta nel forno a legna. E quindi la musica elettronica la musica “chimica” sta alla pizza surgelata, come la musica suonata sta alla pizza originale. Faccio un esempio sconcio: “el vibrator xè sempre duro, ma il casso xè de carne” (Qualche amico veneto direbbe: “pura poesia”; n.d.a.). Nel senso che la musica elettronica “gà el so spessor ma no gà el caòr che gà ea musica sonada”. Al giorno d’oggi ben pochi ragazzini recepiscono questa differenza, forse se ne renderanno conto quando avranno 40 anni e capiranno cosa può essere definita arte. Io verso i 40/50 anni ho iniziato a recepire questa differenza, molto pesante, tra la musica costruita negli ultimi vent’anni e quella che c‘era prima, che magari suonava peggio ma dava più calore. Una sera ero in auto di ritorno da un concerto con Elio, ascoltavo la radio e sento un brano di un trapper di oggi e mi dicevo: non mi piace ma senti che potenza di suono, cambia il brano e parte “Smells Like Teen Spirit” de Nirvana, che nemmeno mi piacciono tanto, eppure ho sentito subito che il sangue ribolliva… ho ripensato ancora una volta all’importanza della musica suonata.

PERTH: La tua storia artistica è molto lunga e piena zeppa di collaborazioni importanti con cui hai condiviso la tua musica “made in veneto”, ci racconti qualche aneddoto? Non so Elio e le Storie Tese, piuttosto che Paolo Belli

SKARDY: Con Elio e le Storie Tese ho fatto le ultime (e definitive, due anni fa; n.d.a.) quattro date. Penso che con la fine del loro gruppo sia finito l’ultimo dei veri grandi gruppi italiani, dei veri e propri “maestri”. Se li guardi tutti, uno per uno, sono grandissimi musicisti, gli ultimi, mi vien da dire, perché se si pensa ai musicisti di adesso per prima cosa non militano in band poi sono tutti cantanti con il DJ che sintetizza e masterizza dietro alla voce ed infine ci sono i musicisti che fanno i turnisti e che suonano di tutto e con tutti. E’ un disastro. Dal Rock &Roll agli anni ’90 c’è stato fermento, oggi la musica è un disastro. Elio inoltre ci ha insegnato soprattutto come si realizzano i dischi e come ci si rapporta con il mondo discografico, anche se gli aneddoti più curiosi risalgono ai tempi in cui i Pitura Freska neanche esistevano, perché andavo a “imbragarme zente che jera parechio in alto” nel senso ad esempio che siamo andati a battere sulla macchina di Jimmy Cliff (famoso cantante reggae giamaicano; n.d.a): c’era Jimmy seduto in auto che si allenava con i bonghi e noi siamo andati lì a battergli sulla macchina, a suonare con lui…a rompere i coglioni alla gente famosa. Inoltre mi piace ricordare personaggi che avevano una certa autorevolezza artistica e che per primi ci dicevano “guarda che quello che state facendo è bello, ha un valore!” Mentre il resto della “plebaglia” disprezzava quello che facevamo, c’erano persone tra cui pittori, scrittori, anche docenti universitari, professionisti del mondo dello spettacolo che ci dicevano: “Beo! Bravi! Continué!” anche se il resto del mondo, soprattutto la critica musicale, ci considerava sotto il livello… animale. Questa è una questione importante: quando cerchi di portare un gruppo o un cantante alla ribalta la prima cosa che ti arriva sono le bastonate, nessuno viene a domandarti: “Cossa ti xè drio fàr, fame scoltàr”, no, invece ti dice “sta roba ea fa schifo!” La gente all’inizio non accetta la novità.

PERTH: Però avete avuto parecchio successo!

SKARDY: Certo! Ma ce lo siamo conquistato sulla strada, non facendoci aiutare dalle Major o da grandi produttori, siamo stati attaccati anche dalla parte più povera della popolazione, che ci dava dei “venduti” pensando che fossimo oramai in mano alla discografia che conta. Invece no, siamo sempre rimasti indipendenti e siamo andati avanti per la nostra strada.

PERTH: Quale è stato il momento esatto in cui ti è stato chiaro che da Marghera avresti potuto calcare i palchi di tutta l’Italia?

SKARDY: A San Siro quando ho visto Bob Marley (the King of Reggae; n.d.a.), quando mi è venuta in mente questa equazione, che è stata semplicissima, fulminea e geniale. Mi ricordavo un po’ l’inglese, avendolo studiato alle scuole medie, avevo 20 anni, ero a San Siro a vedere un concerto di Bob Marley, quando mi sono reso conto che parlavano l’inglese allo stesso modo in cui noi veneziani parliamo italiano, ho pensato: questo genere musicale è perfetto se ci canto sopra in veneziano e lì è iniziato tutto. Chiaro che mi ci è voluto del tempo per imparare a scrivere, per modulare i testi a seconda della musica, però se ti piace ti viene automatico e quando sono riuscito a scrivere due, tre canzoni e le ho fatto ascoltare ad alcuni amici con cui suonavamo assieme, mi hanno detto “però… potrebbe funzionare!” Avevamo una sala in cui provavamo, con il bassista abbiamo iniziato a istruire un gruppetto, siamo riusciti ad esordire qui davanti in questa piazza (Piazza del Municipio di Marghera; n.d.a.) nella rassegna “Marghera estate” del 1985. E da lì è iniziato tutto, perché quando hanno visto che nelle piazze attiravamo un buon numero di ascoltatori, iniziavano a chiamarci in tutti i locali e dove andavamo facevamo il “pienone”. Nel 1987 siamo tornati qui in piazza a Marghera i bar quella sera hanno esaurito tutte le riserve alcoliche (ride).

PERTH: A Padova nel ’94 avete fatto 20.000 persone, ricordo che c’era il Comune molto preoccupato per la sicurezza. Mi hai già risposto per la gran parte, comunque cos’è la via di San siro nella quale sei stato illuminato un po’ come Joliet Jake Blues, alias John Belushi, nel glorioso film Blues Brothers? Forse quando ti sei imbattuto con il Re del Reggae?

SKARDY: Sì infatti, io avevo già preso una bella “spettenada” l’anno prima quando mi hanno invitato a vedere Peter Tosh (altra leggenda del Reggae giamaicano; n.d.a.) che non conoscevo. All’epoca il reggae non mi piaceva, ascoltavo Led Zeppelin, Deep Purple, Santana, Pink Floyd. Alcuni amici mi convinsero ad andare al concerto di Marley a Bologna, era il 1979. La Band si è presentata sul palco con 15 elementi, una mini orchestra. Mi è piaciuto! Era un misto tra un concerto di Santana, un concerto di Funky, un concerto di Rock, non capivo bene cosa fosse, però mi piaceva. La Band “pestava”, aveva un groove pazzesco, tremendo. Sono uscito contento e mi sono ricreduto sul Reggae, suonato così mi piaceva molto. Stessa cosa per il concerto di Bob Marley! Prima del concerto si esibirono dei gruppi che non ebbero grande successo (si beccarono “ortaggi” in faccia), la terza band fu quella di un tale di nome…Pino Daniele! Anche lui prese solamente qualche applauso ma quando uscì Bob Marley esplose lo stadio. Cos’è che mi ha fatto andare fuori di testa? Che rispetto ad altri concerti a cui ero stato qui la gente non era seduta al suo posto in posizione yoga a guardare un palco, qui la gente ballava, saltava, si muoveva, è diverso, capisci? Se io sono seduto qui e vedo a 20/30 metri una “fìa che me piase” difficilmente mi alzo e vado a sedermi vicino a lei, ma se sono in piedi e sto ballando, posso avvicinarmi e con una scusa fare conoscenza. Finito questo concerto uno di noi disse: “Fioi doman ghe xè i Led Zeppelin a Zurigo, nemo?!” Sono andato e tornando dal concerto dei Led Zeppelin ho pensato che se dovevo scegliere avrei scelto Bob Marley… notare che i Led Zeppelin mi piacevano molto!

PERTH: Volevo farti una domanda relativa ai Pitura Freska, da quello che so tu non hai mai avuto piacere di dire perché è finita, tranne quello che scrivi nel sito e nei vari blog, la verità è che era finita un’epoca con loro?

SKARDY: La realtà è che il gruppo aveva iniziato in una direzione e poi è stato portato in un’altra, perché essendo tanti musicisti, ognuno voleva dare al progetto una propria direzione, qual è il segreto, secondo me? Quando hai preso una direzione e sei su una linea, devi continuare a seguirla, perché i Rolling Stones sono ancora vivi? Perché a loro piace quel genere e continuano a proporlo.

PERTH: Grande Bidello a mio avviso è un vero capolavoro. Un’opera che, con la consueta ironia che ti contraddistingue annienta i reality, vedi Grande Fratello, farai un pezzo anche contro i Talent?

SKARDY: Ma non ci penso proprio, ormai considero la televisione come la preistoria dell’intelligenza umana. Quando accendo la televisione e vedo che vengono trasmessi film degli anni ’40 e ’50, mi sembra di tornare a quando ero piccolo negli anni ’60 e probabilmente la gente era più intelligente di adesso, di conseguenza non posso parlare male di una cosa che ormai per me è il male già in partenza, c’è ben poco che salvo della televisione. Una volta guardavo “BLOB”, ora nemmeno quello, perché una volta facevano vedere il meglio e il peggio, ora vedi solo il peggio e mi fa paura. Il meglio è nascosto.  Inoltre credo che non serva, perché ormai la gente è orientata a questa insulsa mentalità e se io vado a toccare questi idoli vuoti, sono un alieno.

PERTH: Nella canzone Firulì Firulà dici di sentirti di un altro pianeta, intendi questo essere un alieno?

SKARDY: Ritorno a quello che ho detto all’inizio, non trovo più l’umanità che trovavo 30/40 anni fa, perché ormai non contano più né le parole, né quello che trasmetti come persona, ma contano i like sul telefono, contano i social, internet e tutto il resto e di conseguenza uno si sente già estromesso dal mondo se non vive dentro questo schema, se ti faccio vedere il mio telefono costa 20 euro, è mezzo rotto e non me ne frega niente di social ecc…, ovviamente essendo artista ho chi lavora per me e li segue, perché devo essere presente altrimenti iniziano a pensare che io sia morto, ma queste cose non sono la mia priorità. Ritengo che internet non venga usato nella maniera corretta secondo lo scopo per cui era stato pensato, un po’ come per tutte le scoperte o le correnti filosofiche o di pensiero, nascono per un intento e poi ne viene modificato lo scopo, Cristo ha dato vita al Cristianesimo e poi ne hanno fatto un’arma di guerra, Marx ha pensato il comunismo e poi hanno dato vita invece a uno stato militare. E’ sempre così.. si parte da uno scopo buono, poi la corruzione dell’uomo distrugge tutto.

PERTH: so che stai pensando ad un nuovo disco e spero di poterlo recensire quanto prima ma parlando di uno dei tuoi ultimi lavori è stata la rivisitazione in chiave Raggae del famoso brano “Centro di Gravità Permanente” di Franco Battiato. Qual è per Skardy il “Centro di Gravità Permanente” che gli permette di stare di fronte alle situazioni che vediamo tutti i giorni e di cui hai appena accennato?

SKARDY: Speremo de inissiar el novo disco”… dovrebbero iniziare le registrazioni dopo l’estate. Per quanto riguarda il “Centro di Gravità Permanente”, è un bel problema perché mi sembra di essere diviso continuamente in due pianeti: c’è il pianeta in cui stai bene, fai quel che ti piace e il pianeta in cui sei costretto a fare cose che non vorresti fare; io ho 60 anni e sono ancora costretto a lavorare! A 60 anni hai oramai dato tutto quel che potevi! Questo è il pianeta che non mi piace. Qual è il mio pianeta, il mio “Centro di Gravità Permanente”? Stare a casa mia, ascoltare la mia musica, andare in giro a suonare, cucinare, mi piace cucinare e avendo la moglie straniera ho dovuto imparare se volevo mangiare come dalla mamma (ride).

PERTH: Rifarai “Menarosto” la rubrica di cucina?

SKARDY: No, preferisco dedicarmi alla musica, stimolare la gente ad avere ancora interesse per la musica “suonata”, perché ritengo che la musica faccia bene, sia salutare, anche se si dice che non dia beneficio immediato, io credo che permetta un beneficio psichico e credo che il motivo per cui la gente peggiora nei rapporti, nella vita, sia che manca il beneficio psichico che dà la musica. Forse oggi con te ho parlato un po’ da matto, perché salto da Mercurio a Plutone… il mio difetto principale è di non essermi mai adeguato ai tempi odierni, parlo ancora come fossi negli anni ’70, perché il mondo doveva migliorare, se è peggiorato non è colpa mia e non vado certo a peggiorarmi per adeguarmi al mondo. Siamo in una società che ha l’obiettivo del beneficio immediato e questo vale anche per la musica, la vera ricchezza si crea nel tempo, nell’immediato puoi solo far contento qualcuno… “desso vago casa che gò da cusinàr, ciao”.

PERTH: Skardy, ti ringrazio, ciao.

 

PERTH

Perth

https://www.youtube.com/watch?v=KsCdxXtgN9o




La verità ha tante bocche

– Oh… Come è bello… Come hai detto che si chiama?

– Oceano 

– … Oceano… E hai detto che lo hai inventato tu?

– Propriamente 

– … Che meraviglia… Ma come hai fatto?

– Ho studiato, ho viaggiato molto, ho fatto esperimenti sulla mia pelle.

Quindi ho creato l’oceano.

– Oh… 

– Non è stato facile sai?

Questo oceano è unico.

– Una volta però ho sentito parlare di qualcosa del genere… Non ricordo bene… è possibile?

– Certo che no. 

– Eppure… Mare… Si chiamava così…

– Ah il mare… Ma quello lo conoscono tutti e oltre a non essere niente di speciale è pure tutto sbagliato.

– Tutto sbagliato? Che vuol dire?

– Vedi, tu adesso sei qui con me e stai osservando l’oceano. 

L’oceano è una enorme distesa di acqua salata che io ho alimentato goccia dopo goccia inserendo pesci di vario tipo, alghe e crostacei di ogni forma

– Capisco 

– Per non parlare dei coralli e dei molluschi, riesci a vederli?

– Bhé non riesco ad avere una visione di insieme perché è la prima volta che mi trovo davanti all’oceano ma è senza dubbio impressionante.

– Beh imparerai a conoscere l’oceano col mio aiuto e vedrai che ho ragione:

dietro questa massa d’acqua c’è proprio un gran lavoro.

– Ok, ma qual è la differenza tra questo è il mare?

– Hai detto che non hai mai visto il mare?

– Mai 

– Ma ne hai sentito parlare?

– Sì ma non ricordo bene, in modo confuso

– Bene, il mare è una enorme distesa di fango marrone, ha acqua salmastra e non ha vita al suo interno. 

Le acque sono torbide e se provi a bagnarti vai incontro a morte certa.

 

– Davvero?!

– Davvero.

– Io però avevo capito che il mare era bello e faceva pure bene, ti dirò che dalle descrizioni me lo immaginavo anche un po’ come questo oceano…

– Ti hanno ingannato! 

Venditori di fumo. 

La verità l’hai davanti ai tuoi occhi: questo è l’oceano e l’ho fatto io. 

Il mare è un abbaglio per allocchi e tu stai cadendo nella trappola di chi ti vuole ignorante.

– Povero me 

– Sí povero te, ma ci sono qua io e c’è l’oceano. 

Vuoi fare un bagno?

– Posso?

– Ma certo.

– Come è bello e come fa star bene, mi sento leggero e posso fare cose che non ho mai fatto.

– Vero, ma devi stare attento; ci sono delle regole per nuotare ed io te le insegnerò.

– Come fai a conoscere queste regole?

– Le ho create io quando ho creato l’oceano.

– Sono stato proprio fortunato a conoscerti 

– Puoi dirlo forte.

E ora lascia che ti racconti con la mia voce la verità… Bada però: non avrai anche tu intenzione di creare l’oceano?

– No, in verità… E poi mi è parso di capire che l’hai inventato tu…

– Proprio così infatti…

E ora siediti qui senza muoverti e ascolta la mia verità.

—–

Racconto fantatico ispirato a chi vuol far credere di aver inventato l’Oceano e vuol metterci paura del mare.




Una granita e una brioche

disquisizione socio-economico-culturale sulla televisione e la moderna monetocrazia.

Una mattina d’estate a Palermo può capitare che, se ti fermi in un bar a prendere una granita e una brioche, anche se hai con te un buon libro, il dialogo con uno sconosciuto potrebbe rivelarsi ancora più interessante di ciò che leggi.

Lui è un signore alto e distinto, con i capelli bianchi e un sigaro in mano; siede al tavolino vicino al mio, legge il giornale e beve un caffè.

Io leggo un libro che mi è stato consigliato e che si è rivelato di una squisita bellezza.

“I libri sono il migliore amico dell’uomo”.

Smetto di leggere e lo guardo.

Non parlo perché una persona che ti interrompe mentre leggi non ha voglia di ascoltarti ma di farsi ascoltare.

E io so che lui sta solo cominciando e sono molto curiosa di ascoltarlo perché ho l’occhio lungo per le persone interessanti e non mi stanco mai di incontrarne.

È un ingegnere ma si giustifica subito dicendo che legge Rousseau, continuo ad ascoltare.

Adesso, nella recita a soggetto di quella mattina, è il turno della mia battuta e la pronuncio sorridendo perché so che è l’assist che cerca: “la cultura salverà il mondo”.

Ed è successo qui che la conversazione è sbocciata.

Da questo punto in poi ha inizio il motivo per il quale ho deciso di scrivere questo articolo.

In una fresca mattina d’estate, da un tavolo all’altro di un bar decentrato, iniziamo a parlare della analfabetizzazione della società e del ruolo dei media in questo panorama.

Però questa deprecatio temporis acti, questa continua lamentela sui tempi che viviamo che viene ripetuta fino ad oggi da quando Aristofane già nel 400 a.C. faceva dire al suo Eracle: “Quei non più sono e i vivi son cattivi”, non è forse proprio del tutto vera o, meglio, io non ho voglia vederla così perché dà alla imminente rovina che ci sta piombando addosso un sapore di ineluttabilità che io non voglio buttar giù.

Seguitemi nel mio ragionamento e ditemi se vi convince o se è, a vostro parere, da correggere (non è un modo di dire: mi interessa davvero conoscere la vostra riflessione in merito, scrivetela pure nei commenti).

Il fatto è che, onestamente, se proviamo a tornare indietro con la memoria, ricorderemo che all’inizio del ‘900 le persone in grado di saper leggere e scrivere erano molte meno che oggi.

Anzi, su questo versante, la televisione ha apportato un contributo molto importante (un esempio per tutti le lezioni di “Non è mai troppo tardi” condotto dal prof. Manzi).

Sempre in quegli anni, con l’inserimento dei programmi di intrattenimento, il palinsesto televisivo proponeva le messe in scena dei grandi romanzi permettendo cosi alla letteratura e alla cultura di arrivare a un numero ampio di telespettatori.

Ricordiamo a questo proposito che i romanzi dell’Ottocento erano concepiti per essere letti ad alta voce in famiglia piuttosto che, come oggi, nella propria solitudine.

Il romanzo era un momento di intrattenimento conviviale, da vivere nel proprio salotto all’interno del proprio nucleo familiare e sociale; era un momento di confronto che offriva alle persone la possibilità di accendere un dibattito, confrontarsi e maturare un’etica.

Interessante vedere come questo ruolo è stato perso dal romanzo ed è stato preso tempestivamente e di buon grado la televisione.

I grossi televisori a tubo catodico sostituivano e dislocavano via via sempre più quelli che erano stati fino a quel momento i salotti e i nuclei familiari.

Si creava in quegli anni, grazie a quello strumento rivoluzionario, la comune cultura di base cosa che, fino al quel momento, non c’era: non esisteva una cultura di base nazionale ma percorsi formativi divisi per classi, aree geografiche e ceti sociali.

La cultura cominciava a circolare agevolmente e senza troppo impegno da parte di chi la accoglieva e poteva essere percepita come nazionale o, addirittura, mondiale.

E, fino a qui, niente di male verrebbe da dire: è il progresso e il futuro che avanza.

E intanto, la televisione, arrivata in ogni casa, educava la morale e abituava alle mode.

Piano piano, nel modo più amabile, la televisione diventava la coscienza che entrava da una scatola in salotto piuttosto che nascere dall’anima di ciascuno.

Fatto questo, una volta acquistata la fiducia incondizionata del telespettatore, si è passati alla Fase2.

Dopo essere stata lo strumento di educazione e omologazione culturale, la televisione è passata a quella che il prof.Umberto Galimberti, parafrasando Flaubert, chiama “l’educazione sentimentale”.

Ovvero, dice sempre il prof. Galimberti, siamo al punto in cui la televisione e i suoi programmi ci stanno insegnando attraverso beceri esempi come provare emozioni: come innamoraci, come reagire alla gelosia, come essere tristi, come essere felici…

Questa codificazione non fa altro che renderci solo più privi di personalità e manovrabili.

Ecco, verrebbe da dire che, nonostante un inizio che prometteva benissimo, siamo arrivati a un punto preoccupante; dalla missione di alfabetizzazione sociale, si è arrivati all’obiettivo della analfabetizzazione sistematica.

Ma non è un attacco allo strumento ma all’utilizzo che se ne fa.

“che lavoro fa?”

“Sono laureata in materie umanistiche”

“Ah, un tempo, quando mi sono laureato io, chi aveva la passione si iscriveva a lettere e filosofia e chi invece non aveva voglia di studiare e non voleva avere nulla a che fare con la cultura, si iscriveva ad economia.

La cosa incredibile è che oggi loro sono loro quelli che stanno stabilendo tutte le regole e decidono attraverso il denaro le vite di tutti noi.

La cosa incredibile è che siamo governati da quella che aveva tutti i presupposti di essere una categoria di uomini ignoranti e aridi”.

Al di là dell’approccio campanilistico questa frase mi ha fatto molto riflettere e questo è il pensiero che porto a casa da quella mattina.

Rifletto e penso che il mio gradevole interlocutore abbia ragione.

Non so quanto sia vero o soggettivo lo scherno riservato agli studenti di economia di allora ma, se così fosse, il paragone reggerebbe.

Non me ne vogliano i laureati in economia (sto prendendo la seconda laurea in economia anche io) ma l’ascesa sociale nella nostra scala dei valori svolta dal danaro

e il potere acquisito in breve tempo da chi del denaro detta le regole, è un segno e una causa del nichilismo dei nostri tempi.

Non sono pensieri miei, non sono così intelligente anche se mi piacerebbe esserlo, cercate pure cosa dice il prof. Umberto Galimberti a proposito del nichilismo moderno e sarà tutto chiaro.

Il nichilismo dei nostri giorni è la sindrome del direttore del lager che giustifica le centinaia di morti sulla propria coscienza con la frase “io facevo il mio lavoro”.

È l’esaltazione dei freddi doveri lavorativi a scapito dell’umano e palpitante discernimento.

È la concentrazione verso l’essere un uomo ricco piuttosto che un uomo di valore.

La tendenza all’Avere piuttosto che all’Essere come diceva Eric Fromm, all’apparire (ciò che gli altri vogliono che tu sia) rispetto all’essere ciò che non sappiamo di essere.

È l’eccentricità del nuovo equilibrio per il quale la nuova divinità si chiama “soldo” e, come ogni rituale richiede sacrifici e vittime.

È quella che Raimonundo Panikkar chiamava la “monetocrazia” ovvero il potere dittatoriale della moneta.

Per quanto fino a qualche anno fa questa delocalizzazione della morale poteva sembrarci aberrante, oggi è affascinante notare che, anche attraverso il mezzo di propaganda sociale che è la televisione e di propaganda delle coscienze che è la rete, è diventato perfettamente plausibile.

E così, in questi giorni, rifletto su questo tema e ne parlo con gli amici e uso le lenti di questa riflessione per guardarmi attorno e scoprire cosa si vede.

Il mio interlocutore, a suo dire, su quanto detto e qui riportato, aveva un approccio “pessimista”, non credeva cioè che ci fosse via di uscita da questa degradazione.

Io però farò appello alla differenza di anni che separano la mia età dalla sua e userò il tempo che mi resta per colmare il divario, per ribellarmi con i pensieri e le azioni a questa corrente e dare il mio contributo affinché la cultura e la bellezza possano salvare il mondo.

Ps: Il mio nuovo amico mi ha raccontato anche di sua nonna Andromaca e di come essa diceva che gli occhi siano concupiscenza oltre quello che in realtà possono contenere ma di lei, forse, scriverò in un altro articolo.


Puoi leggere altri post di Chiara Sparacio su https://chiarasparacio.wordpress.com




Carcere di vecchiaia, nuova tendenza…

 

In Giappone, la popolazione è la più anziana del mondo. Il 25% della sua popolazione supera i 65 anni.

Il fenomeno sociale ha già compromesso il sistema finanziario e la grande distribuzione giapponesi.

Ma, di recente, è emersa un’altra grave problematica: una grande quantità di anziani giapponesi commette intenzionalmente crimini minori, per di più furti, per poter essere arrestato in modo da poter trascorrere gli ultimi giorni di vita in carcere.

Incredibile, ma vero!

Secondo Bloomberg, multinazionale operativa nel settore dei mass media, il governo giapponese deve affrontare l’invecchiamento della popolazione carceraria.

Sempre secondo la sopracitata agenzia di stampa, in Giappone, le denunce e gli arresti di persone anziane stanno superando quelli relativi a qualsiasi altra fascia di popolazione.

Infatti, la percentuale di crimini commessi da persone anziane giapponesi è quadruplicata negli ultimi vent’anni.

Così siamo arrivati al punto che, in Giappone, il 20% dei carcerati è un anziano. E, nella maggior parte dei casi, addirittura nove su dieci per le donne, i crimini, deliberatamente commessi per finire in prigione, sono piccoli furti.

Il fenomeno è solo apparentemente insolito ed inspiegabile. In realtà rimanda alla fatica di vivere delle persone anziane sole ed indigenti, in Giappone, ma non solo.

Alla base di tutto, ci sono le enormi difficoltà assistenziali che i paesi più ricchi e longevi devono sostenere verso la fascia più anziana della popolazione.

Sempre secondo Bloomberg, tra il 1985 ed il 2015, il numero di anziani che vive solo è aumentato del 600%.

Da un’indagine del governo giapponese è emerso che la metà degli anziani sorpresi a rubare, è costretta a vivere sola. Ed il 40% di loro ha detto di non avere famigliari o di non parlare quasi mai con loro.

Dunque, con questi presupposti, la prigione è semplicemente una alternativa migliore alla povertà, ma soprattutto alla solitudine, della terza età.

“Magari hanno una casa, o anche una famiglia. Ma ciò non significa che hanno un posto dove sentirsi a proprio agio”, ha detto a Bloomberg Yumi Muranaka, direttrice del carcere femminile di Iwakuni.

Ogni carcerato mantenuto dallo stato giapponese costa più di 20.000 dollari all’anno.

Le speciali cure ed esigenza di assistenze specifiche di un carcerato anziano fanno ulteriormente lievitare i costi.

Senza considerare che i secondini devono svolgere il ruolo di una badante più che di personale carcerario.

Ormai, la vita in un carcere giapponese sembra sempre più quello di una casa di riposo.

Paradossalmente, le carcerate intervistate da Bloomberg hanno lasciato trapelare di aver ritrovato in prigione un senso di comunità mai provato all’ esterno.

“Apprezzo di più la mia vita in prigione.

C’è sempre un sacco di gente e non mi sento sola. Quando sono uscita la seconda volta, ho promesso che non sarei più rientrata. Ma fuori non riuscivo a non provare nostalgia”.

Ha raccontato a Bloomberg una delle donne.

L’arresto intenzionale non è un’esclusiva giapponese.

Negli Stati Uniti, ad esempio, si sono verificati casi di persone fattesi deliberatamente arrestare per ottenere cure mediche, ripararsi da aspre condizioni meteorologiche o costringersi a disintossicarsi.

Ma le dimensioni del problema giapponese stanno allarmando le autorità.

Il governo sta cercando di combattere la criminalità della terza età migliorando il proprio sistema previdenziale, ma l’ondata di criminali anziani non accenna a concludersi in tempi brevi.

“La vita in carcere non è facile”, ha dichiarato l’operatore sociale Takeshi Izumaru.

“Ma per alcuni, fuori è anche peggiore”.

In Italia, il progressivo invecchiamento della popolazione, apre prospettive inquietanti di povertà e di solitudine gestite per lo più con dilemmi famigliari tra case di riposo di lusso, ospizi di basso livello o caroselli di badanti di ogni tipo…

Quello che manca è comunque l’attenzione dello Stato verso quella fascia di popolazione sempre più numerosa e vulnerabile.

Cittadini italiani, magari andati in pensione con le pensioni baby, con 14 anni, 6 mesi ed un giorno, negli anni ’80, che adesso, ultra ottantenni, continuano a gravare sullo Stato.

Da quarantanni non sono più contribuenti attivi, e sempre più, invecchiando, diventano costi passivi di uno stato che, per ora, in carcere, non mette neanche gli evasori attivi.

Ma questo è un altro problema !

 

Antonella Ferrari

 




Separati per il bene.

Quando meno te l’aspetti, arriva un gancio dal cielo che ti rimette in piedi.

“A volte la separazione è la soluzione migliore per il bene dei figli “, queste le parole pronunciate dal Papa, due giorni fa, all’incontro con i Gesuiti in Romania.

E capisci che se l’ha detto il Papa, dall’alto della sua infallibilità, forse è proprio vero che il matrimonio non è un valore assoluto, a prescindere, costi quel che costi.

Che Papa Bergoglio avesse intrapreso un percorso d’avanguardia rispetto alla posizione anacronistica della Chiesa, lo si era capito sin da subito.

Nel febbraio del 2014 aveva raccomandato di non condannare chi ha vissuto il fallimento di un amore.

” Accompagnare, non condannare” era stato il suo monito.

Prendendo spunto dal Vangelo, aveva commentato l’atteggiamento dei dottori della legge che cercano di porre delle trappole a Gesù per “togliergli l’autorità morale”. I farisei, aveva osservato, si presentano da Gesù con il problema del divorzio. Il loro stile, è sempre lo stesso: “la casistica”, “È lecito questo o no? “Sempre il piccolo caso. E questa è la trappola: dietro la casistica, dietro il pensiero casistico, sempre c’è una trappola. Sempre! Contro la gente, contro di noi e contro Dio, sempre”

Nell’ aprile del 2016, altro passo avanti del Papa, verso i divorziati risposati. 

“Ci sono divieti che si possono superare”.

Quindi, valutando caso per caso, i divorziati, potranno ricevere la comunione e fare i padrini e i catechisti in Chiesa. Non una regola generale, però, ma un discernimento affidato ai confessori come chiesto dai vescovi che avevano partecipato al Sinodo del 2015 sulla famiglia

Questa era stata la decisione presa da Papa Francesco nella sua attesa esortazione apostolica post sinodale Amoris laetitia  a conclusione di un cammino di riflessione durato oltre due anni con consultazione di fedeli e di vescovi di tutto il mondo.

Ma nel testo non c’erano soltanto questioni che riguardavano i divorziati, perché Bergoglio aveva parlato anche di sesso coniugale, ribadendo la sua contrarietà alle nozze gay e sottolineando come la Chiesa dovesse fare autocritica.

In particolare sull’eccessivo peso dato al “dovere della procreazione” nel matrimonio e sull’insistenza quasi esclusiva, “per molto tempo”, su “questioni dottrinali, bioetiche e morali”, una concezione troppo “astratta”, negativa, e un “atteggiamento difensivo” nei confronti del mondo.

Per Bergoglio, poi, nei confronti di chi vive situazioni ‘irregolari’ i pastori della Chiesa non possono applicare leggi morali “come se fossero pietre che si lanciano contro la vita delle persone.

È il caso dei cuori chiusi, che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa”.

“Abbiamo presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto”.

Così, Il Papa riflettendo sulla sessualità coniugale e sul matrimonio, aveva già evidenziato come la sua “idealizzazione eccessiva” non avesse fatto sì che diventasse “desiderabile e attraente, ma tutto il contrario”.

“In nessun modo possiamo intendere la dimensione erotica dell’amore come un male permesso o come un peso da sopportare per il bene della famiglia, bensì come dono di Dio che abbellisce l’incontro tra gli sposi “

E anche San Giovanni Paolo II, aveva già ricordato il Papa, ha respinto l’idea che l’insegnamento della Chiesa porti a una negazione del valore del sesso umano o che semplicemente lo tolleri ‘per la necessità stessa della procreazione’.

Dunque, secondo il Papa, a partire dal Sinodo sulla famiglia del 2015, c’era tutto un cammino da percorrere per concretizzare un’apertura della Chiesa verso la vera realtà coniugale.

E, Lui, questo cammino, ha continuato a farlo.

Diverse volte, Bergoglio, ha insistito sulla necessità di “riconoscere la grande varietà di situazioni familiari che possono offrire una certa regola di vita”

Allo stesso tempo, Papa Francesco si è più volte domandato chi si occupi “oggi di sostenere i coniugi, di aiutarli a superare i rischi che li minacciano, di accompagnarli nel loro ruolo educativo, di stimolare la stabilità dell’unione coniugale?”.

Ha persino espresso una profonda autocritica verso la posizione della Chiesa sul dovere della procreazione.” Spesso abbiamo presentato il matrimonio in modo tale che il suo fine unitivo, l’invito a crescere nell’amore e l’ideale di aiuto reciproco sono rimasti in ombra per un accento quasi esclusivo posto sul dovere della procreazione”

A proposito della formazione e del sostegno al matrimonio, il Papa ha riconosciuto i limiti della Chiesa che non ha fatto un buon accompagnamento dei nuovi sposi nei loro primi anni, con proposte adatte ai loro orari, ai loro linguaggi, alle loro preoccupazioni più concrete. Altre volte, la Chiesa ha presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono. “Questa idealizzazione eccessiva, soprattutto quando non abbiamo risvegliato la fiducia nella grazia, non ha fatto sì che il matrimonio sia più desiderabile e attraente, ma tutto il contrario”.

Sembra proprio che il filo conduttore di ogni esortazione papale sia sempre lo stesso: formare le coscienze, non sostituirle.

Sulla possibilità per i divorziati risposati di accostarsi ai sacramenti, Francesco ha sempre risposto in modo chiaro: “Se si tiene conto dell’innumerevole varietà di situazioni concrete è comprensibile che non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi.

È possibile soltanto un nuovo incoraggiamento a un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari, che dovrebbe riconoscere che, poiché il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi, le conseguenze o gli effetti di una norma non necessariamente devono essere sempre gli stessi”.

“I divorziati risposati – ha sottolineato il Papa – dovrebbero chiedersi come si sono comportati verso i loro figli quando l’unione coniugale è entrata in crisi; se ci sono stati tentativi di riconciliazione; come è la situazione del partner abbandonato; quali conseguenze ha la nuova relazione sul resto della famiglia e la comunità dei fedeli; quale esempio essa offre ai giovani che si devono preparare al matrimonio. Una sincera riflessione può rafforzare la fiducia nella misericordia di Dio che non viene negata a nessuno”.

Il Papa non ha voluto stabilire una norma valida per tutti perché “i divorziati che vivono una nuova unione possono trovarsi in situazioni molto diverse, che non devono essere catalogate o rinchiuse in affermazioni troppo rigide senza lasciare spazio a un adeguato discernimento personale e pastorale”

Per esempio, secondo il Papa, “c’è il caso di quanti hanno fatto grandi sforzi per salvare il primo matrimonio e hanno subito un abbandono ingiusto, o quello di coloro che hanno contratto una seconda unione in vista dell’educazione dei figli, e talvolta sono soggettivamente certi, in coscienza, che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido.

Altra cosa invece – ha precisato – è una nuova unione che viene da un recente divorzio, con tutte le conseguenze di sofferenza e di confusione che colpiscono i figli e famiglie intere, o la situazione di qualcuno che ripetutamente ha mancato ai suoi impegni familiari. Dev’essere chiaro che questo non è l’ideale che il Vangelo propone per il matrimonio e la famiglia”.

Dunque, a partire dalla sua esortazione AMORIS LAETITIA del 2016, Papa Francesco,  ha continuato a recepire, integralmente, le conclusioni del Sinodo del 2015, approvate dalla maggioranza dei vescovi, sulla partecipazione dei divorziati risposati a “diversi servizi ecclesiali: occorre perciò discernere quali delle diverse forme di esclusione attualmente praticate in ambito liturgico, pastorale, educativo e istituzionale possano essere superate”.

Per il Papa “si tratta di integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale, perché si senta oggetto di una misericordia immeritata, incondizionata e gratuita. Nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo! Non mi riferisco solo ai divorziati che vivono una nuova unione, ma a tutti, in qualunque situazione si trovino”

Bergoglio ha sempre ribadito la condanna della Chiesa sull’aborto, l’eutanasia, la teoria del gender, la pedofilia, la violenza che purtroppo si verifica anche in famiglia molto spesso a danno delle donne, la pratica dell’utero in affitto.  Spesso, il Papa ha  ricordato la sua riforma del processo di nullità matrimoniale incoraggiando le coppie in crisi a verificare la validità della loro unione canonica.

Insomma, Papa Francesco, ha sempre avuto parole molto comprensive verso ogni persona. Persino a proposito delle unioni di fatto, ha sottolineato che esse sono molto numerose, non solo per il rigetto dei valori della famiglia e del matrimonio, ma soprattutto per il fatto che sposarsi è percepito come un lusso, per le condizioni sociali, così che la miseria materiale spinge a vivere unioni di fatto.

Situazioni che, per il Papa, “vanno affrontate in maniera costruttiva, cercando di trasformarle in opportunità di cammino verso la pienezza del matrimonio e della famiglia alla luce del Vangelo”.

Dunque, due giorni fa, incontrando i Gesuiti in Romania, il Papa ha continuato un unico discorso, quello di sempre.

“Ci sono matrimoni nulli per mancanza di fede. Poi magari il matrimonio non è nullo, ma non si sviluppa bene per l’immaturità psicologica.

In alcuni casi il matrimonio è valido, ma a volte è meglio che i due si separino per il bene dei figli”.

Questo il suo messaggio che non apre un cambiamento significativo della posizione della Chiesa sul tema del divorzio, quanto mantiene un ‘apertura che dura da anni.

Il Papa ha infatti nuovamente parlato del Sinodo sulla famiglia: “Quando è incominciato il Sinodo sulla famiglia, alcuni hanno detto: ecco, il Papa convoca un Sinodo per dare la comunione ai divorziati. E continuano ancora oggi! In realtà, il Sinodo ha fatto un cammino”.

Per il Papa “sul problema matrimoniale dobbiamo uscire dalla casistica che ci inganna” e “si devono accompagnare le coppie. Ci sono esperienze molto buone. Questo è molto importante. Ma servono i tribunali diocesani. E ho chiesto che si faccia il processo breve. So che in alcune realtà i tribunali diocesani non funzionano. E ce ne sono troppo pochi. Il Signore ci aiuti!”

Ed allora, che davvero il Signore ci aiuti a liberarci dal formalismo e dal bigottismo che troppe volte hanno allontanato la Chiesa dall’amore vero, quello che il Papa ci esorta a vivere…

 

Antonella Ferrari

 

 

 

 

 




Cantone lascia: è lutto per lo Stato.

Lo aveva detto chiaramente “gli onesti non fanno carriera nella pubblica amministrazione”, ed anche se tutti si erano chiesti come mai lui allora era arrivato lì, oggi Raffaele Cantone ha dimostrato di essere persona coerente.

Lascia la guida dell’ANAC per tornare in magistratura ” la mia vera casa” come lui stesso la definisce.

Lo Stato ha riguadagnato un bravo magistrato, ma di certo quest’abbandono non è un significato positivo, specie quando si parla di strutture che hanno un potere di controllo sull’operato della pubblica amministrazione.

Ci sono in ogni caso delle domande da porsi:

ma se c’è una legge a che serve l’autorità? ed ammesso che serva allora ha ragione Cantone nel suo discorso chiaro in cui sostiene che le attività dell’autorità non possono essere uguali ad una tavola delle leggi scritta sulla pietra, deve essere un organismo fluido e dinamico che si adatta al mutevole e veloce cambiamento di mercato.

Cosa che sicuramente non può piacere al potere politico.

Chi ha vissuto nel piccolo quello che Cantone avrà sicuramente visto nel grande non si meraviglia di quest’abbandono, più o meno giusto, di certo lineare, il potere non può essere affiancato da organismi che sono in grado di analizzare giorno per giorno ciò che accade ed intervenire, in più con un potere esecutivo per farlo.

Chi scrive ha visto uffici di ispettori chiusi dall’oggi al domani solo perché avevano esclamato “il re è nudo”.

Certo allora nessun clamore, nessuna meraviglia, anzi quasi la soddisfazione perché quegli ispettori erano troppo sceriffi e facevano troppe ispezioni…

Il caso Cantone, certamente più eclatante e di una magnitudo assolutamente più ampia, ci lascia però comunque l’amaro in bocca, nulla cambia in questo paese.

Ora si scatenerà la polemica Cantone bravo, Cantone  cattivo, governo giusto, governo ladro, opposizione colpevole opposizione innocente, Mio Dio, che assurdità, paese lobotomizzato da se stesso.

Ci vengono in mente parole sempre attuali:

Amici, Romani, compatriotti, prestatemi orecchio; io vengo a seppellire Cantone, non a lodarlo.

Il male che gli uomini fanno sopravvive loro; il bene è spesso sepolto con le loro ossa; e così sia di Cantone.

Il nobile Governo v’ha detto che Cantone era ambizioso: se così era, fu un ben grave difetto: e gravemente Cantone ne ha pagato il fio.

Qui, col permesso del Governo e degli altri – ché il Governo è uomo d’onore; così sono tutti, tutti uomini d’onore – io vengo a parlare al funerale di Cantone.

Egli fu mio amico, fedele e giusto verso di me: ma il Governo dice che fu ambizioso; e il Governo è uomo d’onore.

Molti prigionieri egli ha riportato a Roma, il prezzo del cui riscatto ha riempito il pubblico tesoro: sembrò questo atto ambizioso in Cantone? Quando i poveri hanno pianto, Cantone ha lacrimato: l’ambizione dovrebbe essere fatta di più rude stoffa; eppure il Governo dice ch’egli fu ambizioso; e il Governo è uomo d’onore.

Tutti vedeste come al Lupercale tre volte gli presentai una corona di re ch’egli tre volte rifiutò: fu questo atto di ambizione?

Eppure il Governo dice ch’egli fu ambizioso; e, invero, il Governo è uomo d’onore.

Non parlo, no, per smentire ciò che il Governo disse, ma qui io sono per dire ciò che io so.

Tutti lo amaste una volta, né senza ragione: qual ragione vi trattiene dunque dal piangerlo? O senno, tu sei fuggito tra gli animali bruti e gli uomini hanno perduto la ragione.

Scusatemi; il mio cuore giace là nella bara con Cantone e debbo tacere sinché non ritorni a me

La nostra convinzione è che il gesto eclatante di Cantone, pur facendogli onore, a nulla serva.

In Italia, dopo un mesetto di polemica e di sciacquio dei panni, si tornerà come prima.

La riflessione profonda che si dovrebbe introdurre è legata al meccanismo con cui lo stato ricopre ruoli chiave e ne determina i comportamenti.

Non siamo in grado di dare un profilo etico o forse chi ha questo profilo “… non fa carriera nella pubblica amministrazione…” ma è ora di cambiare, e come si cambia? solo dando l’idea dello Stato, di comunità, di unità di intenti e di obiettivi.

Oggi mancano i Simboli, e se ci sono vengono usati strumentalmente (vedi i crocifissi), perché tendiamo a dare un significato alle figure individuali, siamo nel mezzo di un mondo individuale, carico di avatar inutili di noi stessi, di profili social che spesso per nulla rappresentano  la realtà dietro la maschera.

L’amore per il proprio paese si coltiva, non nasce spontaneo come un fungo, è un processo che inizia fin da piccoli, quando si incomincia a vedere la bandiera tricolore e ci viene da cantare l’inno nazionale.

Il luogo in cui nasce quest’amore è la famiglia, la scuola, ma se lo Stato opera per distruggere la famiglia e la scuola come possono questi due incubatori diffondere l’amore per il proprio carnefice?

Occorre cambiare, servono persone intelligenti che capiscano che lo stato deve amare per essere amato, non è difficile …

Incominciamo ad aiutare i genitori, i docenti, i dirigenti, il personale della scuola, facciamo in modo che ci sia lavoro, stipendi dignitosi per tutti, smettiamola di dare i soldi a chi non crea amore per lo stato, non è difficile …

Proviamo a fare uno sforzo e pensiamo a Cesare, cosa ci viene in mente? Roma, il diritto romano, la grandezza dell’Italica gente, l’onore, la forza, insomma tutti valori positivi.

Adesso pensiamo ad oggi e proviamo a pensare a qualche nome come Cesare, dunque, ecco, ci sarebbe, spetta, come si chiamava???, ma si l’ho qui sulla punta della lingua, ecco, ecco, aspetta, ummm …

 

 

 

 

 

 

Corrado Faletti

Direttore




Igor Sibaldi: i libri per i contenuti e gli eventi per la magia

Lui è Igor Sibaldi ed incuriosisce e interessa molte persone appassionate di filosofia e psicologia (nel suo senso originario di argomentazione sull’anima).

È un autore molto generoso: chi cercherà la sua bibliografia vedrà come questa appaia vasta e apparentemente variegata.

Ogni tanto partecipo a un suo evento e leggo qualche suo libro.

Leggo i suoi libri perché mi piace curiosare tra le sue teorie e le sue prospettive.

Partecipo agli eventi con lui perché mi piace quello che mi accade quando vado.

Quando viaggio per raggiungere la città di un suo evento mi capitano sempre cose affascinanti: conosco qualcuno di interessante, rivedo amici o ne incontro di nuovi.

In definitiva potrei dire che leggo i libri di Sibaldi per i contenuti e partecipo agli eventi per la magia.

Quando partecipo agli eventi, ne approfitto per fargli qualche domanda; lui è sempre molto gentile e mi dedica del tempo nonostante la stanchezza; apprezzo la sua disponibilità.

Ecco cosa ho portato a casa dall’ultimo incontro durante il quale ha parlato di desideri.

Come si distinguono i desideri dai buoni propositi?

I desideri sono irrazionali, i buoni propositi possono essere costruiti dalla ragione. I desideri sono sempre una cosa di sensazione e di emozione.

Dedicarsi alla stesura e alla coltivazione dei desideri richiede anche disciplina: disciplina nello scriverli e nel leggere quotidianamente il proprio quaderno per esempio; di contro però uno dei tuoi temi preferiti è la disobbedienza.

Qual è la tua opinione sulla disciplina e a cosa serve?

Ammettiamo in questo momento che parliamo di disciplina nel senso di abituare sé stessi a fare una serie di cose nel tempo.

Intesa così sarebbe una sorta di addestramento… e io non la sento molto mia questa cosa.

Tutto quello che è ripetitivo – e la disciplina per forza di cose è ripetitiva – io la sento come insopportabile.

Intendo qualsiasi cosa ripetitiva come un girare in tondo invece di camminare e andare avanti.

In più, la disciplina intesa in questo senso, genera facilmente la nascita dell’Abitudine e, siccome è facile portare avanti le abitudini, io in linea di principio me ne tengo alla larga.

In generale, penso che la cosa più interessante sia avere la capacità di mollare tutto in qualsiasi istante, anche tutto quello che si è scoperto fino a questo punto.

Se ad un certo punto ti accorgi che tutto quello he hai scoperto fino ad adesso non funziona, molla tutto e fila via.

La disciplina invece in qualche modo vuol dire che tu hai deciso che quello che hai fatto fino ad adesso vale tanto da portarti al punto di abbonarti a determinati rituali quotidiani.

Nel corso della mia vita, quando ho seguito la disciplina ho sentito un senso di infelicità incredibile.

Mentre cercavo di portare avanti la mia intenzione, pensavo: “questo servirà” ma poi ho realizzato tra me e me: “se fa diventare così infelici a cosa serve?”

E allora ho smesso e quando ho smesso sono stato tutto a un tratto molto bene.

Piuttosto che la disciplina, io penso che sia molto utile la Procedura, intesa come preparazione ad una azione.

Per esempio, per fare un quadro, prima si preparano la tela, i pennelli, i colori… quindi si da inizio al processo creativo, altrimenti non viene bene.

La Procedura è utile: per fare una composizione, prima si compone la melodia e poi si fa l’orchestrazione.

La Procedura è un rapporto con la realtà e vuol dire avere un modo di andare avanti.

Capita che il gesto creativo della scrittura mostri all’autore degli aspetti molto più profondi di quanto in realtà non si aspettava, a te capita questo e, se sì, in che forma?

Mi capita ed è un sollievo quando capita.

Quando faccio una conferenza e capisco tutto quello che sto dicendo è una noia mortale e penso: “com’è andata male oggi che ho detto solo cose che sapevo già!”.

Quando scrivo qualcosa facendo un programma e annuncio: “in questo articolo parlerò di questo, questo e quest’altro” e obbedisco al programma, la sensazione che provo è di sconfitta.

La cosa bella per me è quando nello scrivere e nel parlare metto in moto qualcosa che mi meraviglia.

Di regola nelle mie conferenze preparo il 20% dei contenuti e il restante 80% viene da sé sul momento.

Il 20% noto è distribuito qua e là all’interno della mia esposizione e così, se ad un certo punto non so cosa dire mi appiglio a quello… ma capita di rado.

A dirla tutta, di solito il 20% neanche lo dico tutto…

Quando parlo non c’è un copione; in questo non sono un attore, sono più che altro un comico.

In che senso non sei un attore ma un comico?

L’attore deve sentirsi come un ferroviere alla guida di un treno: ha una rotaia davanti e deve portare il treno a quella velocità e su quella strada indicata dal regista.

E io non sono un attore; se mi trovo alla guida di un treno, se procedo e quello he mi aspetta è sempre uguale, io non sono io.

A volte mi capita ma rarissimamente; per lo più di volta in volta cambio tutta l’impostazione infatti se qualcuno del pubblico leggesse gli appunti delle mie conferenze, non riconoscerebbe ciò che ha ascoltato.

Questo capita anche sui libri

Quando rileggo i miei libri, poi capita che telefono all’editore e gli dico che lo rifacciamo da capo perché non va bene.

I miei libri hanno infatti diverse edizioni e diverse differenze tra loro.

Alcuni libri pubblicati di recente, per adesso sono rimasti uguali ma sarà così finché non li rileggerò.

Nel libro delle Epoche hai scritto che l’occidente è bloccato da un vuoto di futuro, è per questo che in questo momento l’arte è ferma?

Non solo l’arte, anche la filosofia perché è spaventata da una specie di tradimento.

All’inizio del ‘900 Tecnologia e Arte erano testa a testa: la cultura umanistica e l’arte producevano tante cose belle e interessanti. Ad un certo punto la tecnologia è partita in quarta e ha seminato la vecchia compagna.

Quando la tecnologia è arrivata alla costruzione della bomba atomica qualcosa è successo: la tecnologia ha surclassato troppo la cultura umanistica che è rimasta scioccata ed ha cominciato a fermarsi.

Ma perché la Cultura non ha reagito?

Immagina due compagni di classe che procedono più o meno testa a testa per tutto il periodo scolastico.

Una volta cresciuti, uno dei due si sposa con una americana, va in America,crea una azienda e diventa ricchissimo, poi fonda un’altra azienda ancora e poi viene eletto senatore.

L’altro amico intanto è rimasto in Italia nel negozio del papà e non riesce a competere più quasi neppure con sé stesso.

Non è che cresce per conto suo è come se fosse rimasto sconfitto e cresce meno perché il vecchio compagno lo ha surclassato.

La persona surclassata non la prende come una spinta per crescere di più ma abbandona.

E questo è quello che è successo tra la Scienza e l’Arte.

Vedi come la filosofia è diventata quasi totalmente storia della filosofia.

In età moderna ci sono rimasti ancora alcuni filosofi ma erano persone nate prima della guerra.

Finita quella generazione su questo versante non c’è più niente: l’arte sicuramente rimane indietro e si lamenta dicendo che c’è in giro tanta tecnologia e tanta tecnica ma mica è colpa di queste.

È come se ci fosse un diffuso sentimento di spavento che rientra nella sindrome della paura del futuro.

Una specie di intelligentia di struzzi che tengono la testa sotto la sabbia e stanno lì aspettando chissà che cosa.

… strano animale lo struzzo non trovi?

… Io con gli struzzi non ho mai avuto a che far personalmente però, descritti così, strani lo sembrano per davvero…

 

Riferimenti

Ecco alcuni riferimenti utili per partecipare a un incontro con Igor Sibaldi o acquistare un suo libro

? Eventi: fai clic  o anche qui I Maestri Invisibili

? Libri: fai clic

? Video: fai clic

 




Aspetterò la notte, se potrò vivere ancora

(…) Aspetterò la notte, se potrò vivere ancora, per andarmene un po’ a piedi sulla strada maestra che attraversa il nostro villaggio, avvolto nella mia dorata solitudine, allo scopo di capire perchè devo morire.(…)

“Pilota di guerra”- Antoine de Saint-Exupéry

Anna ha soltanto otto anni ed è una bambina molto bella, il suo corpo è esile, il viso ha lineamenti delicati, i capelli neri sono raccolti in lunghe trecce.

Quella mattina di primavera Anna non sta giocando con le amiche, i suoi genitori non hanno voluto che si allontanasse da casa, eppure sembrava una domenica come tante altre.

Nell’atteggiamento degli adulti traspare tuttavia un pò di nervosismo, parlano con tono grave e preoccupato, talvolta alzano lo sguardo al cielo voltandosi in direzione di Palermo, dalle colline la città appare nel suo lungo dispiegarsi di abitazioni fino al mare.

Improvvisamente tutto cambia: dapprima il prolungato avvertimento delle sirene antiaeree, seguito dal rumore assordante dell’incursione aerea e immediatamente dopo da quello terribile delle bombe, innumerevoli bombe, per un tempo che sembra non finire mai. Scappano tutti disordinatamente, si barricano impauriti dentro casa, le donne pregano sommessamente mentre gli uomini lo fanno in silenzio. 

Anna trema, abbracciata alla mamma tiene gli occhi chiusi, si tappa le orecchie con le mani nel tentativo di non sentire quello che accade fuori ma le esplosioni delle bombe, seppur distanti, fanno ugualmente paura. 

E’ il mese di maggio del 1943 e le truppe alleate stanno decidendo le sorti della Seconda guerra mondiale: sbarcate in Africa hanno postazioni in Marocco e in Algeria, per cui la Sicilia ed il porto di Palermo assumono un’importanza primaria ai fini strategici. 

Al comando della VII Armata vi è il generale George Smith Patton, figura fondamentale nella campagna di Sicilia che decide di sferrare sulla città l’attacco aereo finale, dopo quelli devastanti cominciati a febbraio e proseguiti in maniera sistematica fino ad aprile. 

Tra le tante sarà ricordata a lungo l’incursione aerea del 22 marzo quando alle 15,35 i bombardieri americani attaccarono il porto, fu l’ultima incursione di quel mese ma per le devastazioni subite rimase a lungo nella memoria di chi vi assistette: l’attacco vide impiegati nella missione 24 bombardieri di stanza in Algeria carichi di bombe da 500 libbre, ovvero 227 Kg di tritolo. Tutto ciò che era presente in quella zona per un’area di 13 ettari fu distrutto, dalle navi ai magazzini. La nave Volta, ovvero la santabarbara, era carica di munizioni ed esplose provocando una colonna di fumo alta 4.500 metri. Il fuso di una delle sue ancore verrà proiettato ad 800 metri di distanza finendo nel luogo dove si trova,oggi come allora, la Banca d’Italia. L’acqua sollevata dall’esplosione allagherà anche un rifugio antiaereo sito sul molo per i 24 operai portuali, che proprio li avevano sperato di trovare protezione, non vi sarà scampo.

Toccherà la stessa sorte anche agli sventurati che il 17 del mese di aprile durante l’ennesima incursione dal cielo avevano cercato scampo nel riparo aereo dietro la Cattedrale, a piazza Sett’Angeli: una delle bombe infatti riesce a penetrare nel rifugio uccidendo tutti coloro che vi si trovavano, in gran parte donne e bambini. Il numero ufficiale delle vittime di quel giorno è di trenta persone e data la difficoltà di recupero dei corpi ben presto tutto verrà ricoperto da un manto di cemento che fa ancora oggi fa sudario.

E se i numeri spesso aiutano a focalizzare meglio un concetto si pensi che nel solo mese di aprile verranno sganciate su Palermo ben 484 tonnellate di bombe.

A maggio si cambia drammaticamente strategia, l’operazione militare pianificata per quel mese è diversa dalle precedenti sia per dinamica sia per potenza, si decide infatti di sferrare sulla città un “bombardamento di saturazione” conosciuto meglio come “bombardamento a tappeto”.

 Questa micidiale tecnica doveva avere tra l’altro lo scopo non solo di terrorizzare la popolazione, creare panico e distruzione totale, ma di fiaccare il morale dei civili colpendoli anche nei luoghi simbolo della propria identità culturale e religiosa quali i monumenti e le chiese. In ultimo si sperava così di spingere la popolazione a  ribellarsi e fare pressione sul governo per la resa; il capoluogo siciliano ha questo triste primato, fu proprio Palermo la  prima città in Italia a sperimentare tutto questo.

È la mattina del 9 maggio e il comando americano decide che Palermo deve cadere: l’Apocalisse può avere inizio. 

Quella giornata Radio Londra aveva invitato la popolazione a disertare una cerimonia pubblica che era stata organizzata dalle autorità nell’attuale piazza Bologni, all’epoca piazza Italo Balbo. Si trattava di una ricorrenza particolare che non era di certo sfuggita agli americani, e cioè la “Giornata  dell’Esercito e dell’Impero”,  la scelta del 9 maggio per l’incursione aerea quindi non è certamente casuale, inoltre lo stesso giorno si sarebbe consegnata alla città una medaglia al valore di città mutilata dai bombardamenti.

L’attacco aereo arriva dall’Algeria da dove partono i caccia bimotore P38 a bassissima quota così da eludere i radar e la contraerea nemica, evitano di passare da Capo Zafferano scegliendo invece i cieli di Termini Imerese. Si dirigono quindi sull’aeroporto militare di Boccadifalco distruggendo in breve gli aerei in sosta sulla pista impedendo di conseguenza qualsiasi tentativo di reazione e di difesa aerea, sono soltanto le 11 del mattino. 

Alle 12,35  il cielo sulla città si oscura, l’urlo cupo e lamentoso di allarme delle sirene non ha tregua, sono arrivati i bombardieri americani B17 le cosiddette “Fortezze volanti” armati di bombe da 500 libbre. La prima formazione vede 222 bombardieri scortati da 118 caccia pesanti P38, è solo la prima di ben dodici ondate di incursioni, per contrastare l’attacco ben poco può la pur temibile contraerea dell’Asse poiché i bombardieri volano troppo in alto.

Alle 13,15 l’operazione è terminata, finite le bombe vengono lanciati sulla città 15.000 volantini che invitavano i palermitani a chiedere la resa dopo che su Palermo in soli 40 minuti erano state sganciate 1.570 bombe di vario calibro per un totale di 469 tonnellate di tritolo.

La stessa notte, a partire dalle 23,00 e fino alla mezzanotte, è la volta dei bimotori Wellington della RAF che finiranno il “lavoro” con ben 74 bombe e come se non bastasse verranno sganciate anche le Blockbuster, cosiddette “spianaquartieri”, bombe HC (High capacity) ovvero due ordigni da 4000 libbre (1.814 Kg) di potenza devastante. 

Ufficialmente il triste bilancio delle vittime tra i civili di quel 9 maggio 1943  sarà di 373 morti e di 421 feriti, un numero che forse può non sembrare proporzionato rispetto alla potenza di fuoco, ma bisogna tenere conto che dall’inizio dei bombardamenti la città si era lentamente svuotata dagli abitanti che avevano trovato riparo ed alloggi provvisori nei paesi limitrofi.

Per quanto riguarda il tessuto urbano nulla è stato risparmiato: abitazioni civili, caserme ma anche chiese, palazzi nobiliari ed antichi, monumenti per non parlare dei diversi  rifugi antiaerei, colpiti e distrutti, in cui trovarono la morte circa un centinaio di palermitani, e come se non bastasse i vigili del fuoco stentano a spegnere gli incendi probabilmente per l’uso di bombe incendiarie al fosforo.

Il colpo di teatro.

Il bombardamento di quel giorno su Palermo è stato definito un “colpo di teatro”, forse più che una reale esigenza dal punto di vista tattico militare questa mossa appagava il desiderio di conquista da parte degli americani della città più importante e grande dell’isola.

L’alba del giorno dopo quel 9 maggio restituisce ai palermitani una città tremendamente devastata, il centro storico con i suoi 250 ettari di estensione è quasi irriconoscibile, macerie e morti dappertutto. Il 42,3% della città secondo fonti della Prefettura è andato distrutto, centodiciannove monumenti compromessi per non parlare delle abitazioni civili, ben 60.000 persone nel solo centro storico non hanno più una casa.

 Per avere un’idea si pensi che successivamente per sgomberare la città dalle macerie  si decise di riversarle lungo il tratto di mare che la  delimita a nord ricoprendo così un’area di oltre 40.000 metri quadrati di detriti, quel tratto di città chiamato Foro Italico è divenuto oggi luogo di passeggiate e sport all’aperto.

Il 22 luglio fanno il loro ingresso a Palermo gli americani tra ali di folla festante ed incuriosita, ma le bombe non cesseranno di funestare la città e stavolta saranno quelle della Luftwaffe e della Regia aeronautica, facendo della città il bersaglio di buona parte delle forze aeronautiche impegnate nel conflitto per un totale, dall’inizio delle ostilità, di ben settanta bombardamenti.

A guerra finita nella sola Palermo tra i civili si contavano 30.000 feriti e 2.123 morti. 

Sono questi i numeri di una tragedia dalle proporzioni bibliche che non risparmiò nessuno tra uomini e donne, vecchi e bambini, vittime senza colpa se non quella di trovarsi nel posto sbagliato quando l’Europa sembrava impazzita. 

 Anna non ha mai lasciato il posto in cui è nata, non si è mai sposata ma ha avuto una famiglia che le ha voluto bene, di cui  ha sempre fatto parte integrante ed un nipote su cui riversare, ricambiata, tutto l’affetto di cui è stata capace.

 Si svolge nei primi giorni di maggio la festa religiosa più importante di quel paese che come da tradizione si conclude a notte inoltrata con lo spettacolo dei  fuochi d’artificio.

A casa di Anna assistervi dal terrazzo era una tradizione che si ripeteva ogni anno: uno spettacolo affascinante, rumoroso e suggestivo, un susseguirsi di scoppi e di boati che generavano nel cielo notturno geometrie di luci di incredibile bellezza e più aumentava il fragore più il cielo si rischiarava con colori luminosi. Tante e continue esplosioni assordanti e  tutti con il naso in su a riempirsi gli occhi di quella meraviglia. 

Ma ad ogni festa tutti gli anni in quella terrazza mancava una persona, sempre la stessa, che invece preferiva rimanere in casa.

 Quando iniziavano a sparare i fuochi, puntualmente, Anna veniva cercata dal nipote che voleva non si perdesse lo spettacolo di luci e colori, lei a quel punto della serata era sempre dentro casa e malgrado i ripetuti inviti dolcemente diceva che  avrebbe raggiunto tutti a breve, che stava per farlo, ma non era vero e non accadeva mai.

 Anna rimaneva da sola seduta in un angolo, i capelli candidi, col fare di una bimba che se ne sta in disparte come fosse in castigo, con gli occhi chiusi e le dita affusolate delle sue mani a coprire le orecchie. 

Aspettava così che la festa dei botti e dei fuochi finisse, composta e in un certo senso rassegnata, se ne stava immobile ed in silenzio immersa nei suoi ricordi, sul volto l’accenno di un malinconico sorriso. 

 




500 chicche di riso

“500 chicche di riso” di Alessandro Pagani è un libro anticonvenzionale, un non- libro, paradossalmente da non- leggere tutto d’un fiato, se non per poi rileggerlo daccapo, per gustarlo di nuovo, chicca dopo chicca, tenendo gli angoli della bocca rivolti verso l’alto, in un sorriso per un attimo eterno.

Un libro intrigante, che ti seduce con garbo, ti aggancia e ti porta con sé, oltre il reale, dentro il surreale, in un mondo parallelo, là dove il tuo pensiero non era mai stato.

Un libro avventuroso dove l’avventura galattica è salire sull’astronave linguistica del Pagani, è lasciarsi trasportare nell’universo linguistico dell’autore, per un viaggio di sola andata nei suoi giochi di parole, per decollare con lui nel cielo delle sue figure retoriche.

Un libro proibito ad ogni sceneggiatore, un non racconto, che si può leggere a ritroso, ma geniale come colui che scriveva da destra verso sinistra.

Un libro da fumetto, per iniziare al piacere i neofiti del genere, perché il linguaggio iconico potrebbe introdurre alla lettura, ma non sostituirla.

Le chicche del Pagani sono battute di spirito, ora ironiche, ora sarcastiche. Argute perle semantiche, rapide, incisive, dirette.

Poche, distillate e preziose parole. Oserei quasi dire, dei diamanti linguistici, di un tale e pregiato valore nella lingua madre che è impensabile una loro traduzione in un’altra lingua.

Leggere questo libro significa condividere un progetto comunicativo di lettura prospettica della realtà.

L’ignaro lettore viene omaggiato di un caleidoscopio semantico e linguistico attraverso cui guardare e scomporre il quotidiano.

Leggere questo libro significa assaporarlo, chicca dopo chicca, perché è un vero piacere, da gustare pian piano.

Un piacere proibito, perché, se in apparenza tutti possono ridere, in sostanza, pochi possono sorridere.

Il lettore è un privilegiato, in quanto invitato ad un banchetto esclusivo, dove ogni chicca è talmente densa che sazia in modo virtuale.

Ogni chicca va assaporata, assimilata, digerita.

Perché, solo così, pian piano, dolcemente, ma inesorabilmente, l’umorismo, l’ironia, la follia trasportano il lettore in un’esplorazione del quotidiano, in un rovesciamento prospettico dei vizi e delle virtù umane, in un ribaltamento della fatica di vivere.

Quando meno se l’aspetta, in un momento di rivelazione fulminea, il lettore condivide la sfida dell’autore.

Quella di dare un senso volutamente irrazionale alla nostra assurda vicenda umana.

Ogni chicca nasce ed apparentemente muore, per lasciare spazio alla successiva.

Un po’come succede nella vita di ognuno di noi.

Giorno dopo giorno, ci spegniamo nel sonno per svegliarci al nuovo giorno, con una consapevolezza in più.

Allo stesso modo, procedendo nella lettura, come nell’esistenza, niente più è come prima.

Ogni chicca nasce ed apparentemente muore, dicevo.

Apparentemente, perché, poi, incredibilmente, risorge.

Risorge il terzo giorno, vorrei dire…

Risorge quando ti ritorna in mente e ti prende e ti sorprende, ormai tua, per sempre. Diritti d’autore permettendo…

Antonella Ferrari