MANIPOLAZIONE E CORRUZIONE ARMI DEL POTERE

 

La vittimizzazione è spesso uno strumento di manipolazione, usato come arma per produrre nell’altro, negli altri o nella società incline a cadervi, certi cambiamenti a beneficio del manipolatore.

Si riesce con successo anche a provocare un senso di colpa negli altri per le azioni che hanno causato tale vittimizzazione reale o presunta.

In politica il suo uso è consapevole e premeditato e con risultati estremamente significativi nell’inconscio collettivo.

Si verifica con maggiore intensità nel populismo, perché è chiaro che l’oppresso si senta vittimizzato e a sua volta, quando il manipolatore esercita un comportamento quasi «religioso», trasformi comportamenti individuali e/o collettivi in ​​una risposta di idolatria e di idealizzazione della figura del salvatore.

Nasce così la figura dell’eroe e del capo cui vanno tributati onori e sottomissione, consapevole e inconscia.

La storia ci mostra come tali tentativi vadano a scapito della dignità, della solidarietà e della fraternità. Dietro la vittimizzazione si nasconde sempre un’intenzione empia.

Il vittimismo manipolatore in politica a volte è un’arma a doppio taglio. Ci sono persone che scelgono di raccontare la loro situazione di vittime perché scoprono che porta loro più benefìci che costi.

Il vittimismo manipolatore è presente in molti tipi di personalità. Così, è comune che appaia, ad esempio, tra i narcisisti, tra coloro che sono specializzati nel ricatto emotivo e anche tra coloro che si avvalgono di questo comportamento per trarne qualche beneficio.

La vittima, in un modo o nell’altro, è sempre protetta dalle critiche degli altri. Inoltre, ha la compassione e la comprensione di molti, qualunque cosa faccia. Infatti, chi osa mettere in discussione gli atti di una presunta vittima passa per insensibile o spietato.

Il vittimismo è, quindi, in molti casi, una strategia che porta più vantaggi che problemi.

Questa condizione consente ai manipolatori di avere una sorta di immunità, per cui tutto ciò che dicono è vero, tutto ciò che fanno è ben intenzionato, tutto ciò che pensano è legittimo. Ora, in più di un caso, questa vittimizzazione calcolata, consciamente o inconsciamente, nasconde un chiaro ricatto. Ma, alla lunga, è difficile immaginare come tutto questo possa finire bene.

Su questo terreno «malato», infatti, verrà ad esempio ad allignare e a riprodursi la corruzione.

 

La corruzione nasce all’interno della società, che è composta di tutta una serie di abitanti (individui) la cui cultura è variabile in base alla loro educazione, insegnamento familiare, circostanze dell’epoca e altre specifiche e generali peculiarità che contribuiscono alla formazione integrale dell’essere.

Indubbiamente, chi ha il mandato del popolo per governare ha una responsabilità maggiore rispetto agli altri, ma questo non esclude del tutto la responsabilità del resto della società.

La corruzione è antica quanto l’uomo stesso e solo una chiara educazione può contrastarla interiormente. E quando si parla di educazione, tutto inizia con la famiglia, in quanto lasciare tutto allo Stato significa totale ignoranza, indifferenza e mancanza di amore.

Una politica educativa correttamente attuata contribuirà indubbiamente alla riduzione della corruzione, ma non sarà mai completamente combattuta perché è in qualche modo radicata nella condizione umana. Quando riconosciamo che in ognuno di noi, attraverso il famoso «conosci te stesso», c’è il seme di tutto questo, la società nel suo insieme potrà compiere una svolta sostanziale verso l’etica e i valori che dovrebbero prevalere in qualsiasi società sana.

È nostro obbligo personale combattere la corruzione nei diversi ambiti in cui dobbiamo agire se veramente vogliamo ridurla al minimo.

 

Così scrive Miquel Seguró (Biografia. Miguel Seguró, 1979, Ricercatore presso la Cattedra Ethos dell’Università Ramon Llull e professore di Filosofia presso l’Università Aperta della Catalogna. Coordinatore della rivista Argumenta Philosophica. Journal of the Encyclopaedia Herder) nella presentazione del libro Stanco della corruzione: «Siamo stanchi e vogliamo esprimerlo, in modo che nessuno ci chieda in futuro: perché non hai fatto qualcosa?».

 

C’è molto di più in ballo che non il denaro rubato. La corruzione mette a repentaglio il futuro stesso di qualsiasi società democratica, quindi non possiamo rimanere in silenzio. La parola è l’unica arma che abbiamo. Potrà non portarci da nessuna parte; ai corrotti potranno non interessare le nostre parole, ma, per favore, almeno non rinunciamo a esse. Almeno diciamo forte e chiaro che non c’è nessun diritto alla corruzione, che basta, che siamo stanchi!

Sappiamo che il problema della corruzione non è nuovo, ma chiediamoci: da dove viene? Di chi è la colpa? Si può superare? Vorrei che fossero loro, «i mandanti», l’origine di ogni male. Eppure la corruzione sembra essere qualcosa di «umano, troppo umano».

Come le due facce di una moneta: ha a che fare sia con la struttura del potere sociale e le sue ombre sia con l’ambiguità antropologica che ognuno di noi rappresenta. E l’una senza l’altra è impensabile.

La corruzione è il peccato che, invece di essere riconosciuto come tale e renderci umili, si eleva a sistema, diviene abitudine mentale e stile di vita, perché la corruzione non è un atto, ma una condizione, uno stato personale e sociale in cui ci si abitua a vivere.

di Barbara de Munari




Strategie di Potere: Perché ai Dittatori Non Conviene Uccidere i Loro Oppositori

Ma siamo proprio sicuri che a Putin conveniva uccidere Alexei Navalny?

Un’attenta analisi ci porterebbe a pensare che fosse l’ultima cosa da fare, e in effetti noi al posto di Putin avremmo piuttosto fatto il contrario, ovvero avremmo tenuto in vita Alexei il più possibile, e comunque non siamo così sicuri che Putin non sia consapevole di queste tematiche.

Verrebbe da pensare che chi ci guadagna di più con la morte di Alexei non è Putin, ma i suoi oppositori, Zaleski compreso …

Nel complesso scacchiere della politica autoritaria, la gestione degli oppositori rappresenta un cruccio costante per ogni dittatore.

La tentazione di sopprimere fisicamente le voci dissenzienti per consolidare il proprio potere potrebbe sembrare, a prima vista, una soluzione efficace.

Tuttavia, un’analisi più approfondita delle dinamiche politiche, sociali e storiche rivela che questa pratica non solo è eticamente riprovevole, ma si rivela spesso controproducente per la stabilità e la legittimità del regime.

Esploriamo le ragioni per cui l’eliminazione fisica degli oppositori non solo è moralmente inaccettabile, ma rappresenta una strategia miope che può portare a conseguenze destabilizzanti per il dittatore stesso.

Le Conseguenze della Repressione Violenta

La storia è costellata di regimi che hanno cercato di cementare il proprio potere attraverso l’eliminazione fisica degli avversari politici.

Questi atti di violenza, tuttavia, tendono a generare un ciclo di ritorsione, alimentando ulteriormente la resistenza piuttosto che sopprimerla.

La repressione violenta può radicalizzare coloro che erano precedentemente neutrali, trasformando moderati in militanti e aumentando la base di sostegno all’opposizione.

La violenza genera violenza, creando un ambiente di instabilità cronica che può minare le fondamenta stesse del potere autoritario.

L’Effetto Martyrdom

Quando un dittatore sceglie di eliminare fisicamente i suoi oppositori, corre il rischio di trasformarli in martiri.

La morte di un oppositore politico può catalizzare il dissenso pubblico, trasformando una figura che poteva essere relativamente oscura o controversa in un simbolo potente di resistenza contro l’oppressione.

Questo fenomeno, noto come effetto martyrdom, può unificare e galvanizzare l’opposizione, rendendo la lotta contro il regime più determinata e coesa.

La Legittimità Internazionale e le Relazioni Estere

Nell’era della globalizzazione e dell’interconnessione, le azioni di un regime sono sottoposte all’esame critico della comunità internazionale.

L’uccisione degli oppositori politici può portare a condanne internazionali, sanzioni economiche e isolamento politico.

Queste conseguenze non solo possono danneggiare l’economia del paese, ma possono anche erodere la legittimità del regime agli occhi della comunità internazionale e, cosa altrettanto importante, tra la popolazione interna

Alternativi alla Repressione Fisica

Esistono strategie alternative attraverso le quali un dittatore può cercare di neutralizzare gli oppositori senza ricorrere alla violenza fisica.

La cooptazione, ad esempio, ovvero l’integrazione degli oppositori nel sistema politico attraverso concessioni o incarichi, può ridurre l’antagonismo mantenendo al contempo un’apparenza di pluralismo.

La censura e il controllo dei media, pur eticamente discutibili, possono essere strumenti meno destabilizzanti per limitare l’influenza degli oppositori.

Inoltre, l’investimento in programmi sociali e lo sviluppo economico possono migliorare la legittimità del regime riducendo le cause sottostanti del dissenso.

 

L’uccisione degli oppositori politici da parte di un dittatore, lungi dall’essere una via di fuga dalla sfida del dissenso, si rivela una strategia miope che può avere conseguenze profondamente destabilizzanti.

Le dinamiche storiche, insieme alle considerazioni etiche e pratiche, suggeriscono che la violenza repressiva non solo è moralmente indifendibile, ma può anche erodere la base di potere del dittatore nel lungo termine.

Nell’interesse della stabilità politica e del benessere sociale, è imperativo che i regimi autoritari




Alexei Navalny, Chi è?

La morte di Alexei Navalny, il principale oppositore di Vladimir Putin, ha scosso l’opinione pubblica internazionale ed è destinato a restare  di estrema attualità soprattutto dopo le dichiarate intenzioni della moglie Yulia di succedergli nella battaglia politica contro l’egemonia del dittatore russo.

Chi era Alexei Navalny?

La risposta a questa domanda è indispensabile per comprendere il futuro della Russia alle soglie delle elezioni presidenziali previste per il prossimo mese di marzo.

Figlio di un ufficiale dell’esercito Alexei Navalny, ricco di una laurea in legge e di doti di intraprendenza comunicativa, si è espresso non sempre in nodo trasparente nel mondo della imprenditoria e della politica mostrando in più occasioni una simpatia verso i movimenti nazionalisti russi.

Dopo il 2017 diventa il principale oppositore della leadership di Putin contro il quale concentra una battaglia politica declinata con le cifre della comunicazione social in un  Paese che non tollera le proteste in piazza.

Alla guida di un team di giornalisti e testate on line come la britannica Bellingcat, la russa The Insider e la CCN arriva a smascherare il patrimonio segreto di Putin ma soprattutto i piani del Cremlino per avvelenarlo attraverso la potente organizzazione, FSB, l’organo dei servizi segreti russi specializzato nell’utilizzo di armi chimici tra i quali il Novichok, l’arma chimica utilizzata nell’ attentato alla vita di Navalny nel 2020 e poi fallito per cause accidentali.

Indimenticabile l’intervista  fatta, sotto una falsa identità sul finire del 2020, ad uno dei killer del Team, FSB, inviato per ucciderlo.

All’altro capo di un telefono fisso vi è, invero, Konstantin Kudryavtsev,  l’esperto chimico del team di spie che ammette il tentativo di avvelenamento, le modalità utilizzate ed i motivi del fallimento della iniziativa.

L’omicidio di Stato, del resto, è un’attività routinaria per i servizi segreti russi.  

Basti ricordare i nomi delle vittime degli ultimi anni, quelle conosciute, almeno, da Litvinenko a Politkovskaja fino a Prigozhin ed all’aviere disertore in ucraina Kuzminov durante il conflitto in corso, finito a colpi di pistola in Spagna, dove si era rifugiato.

La morte di Alexei Navalny, tuttavia, può rappresentare l’innesco di in processo più profondo di quello che il dittatore russo può aver immaginato.

Navalny era un oppositore politico ma prima ancora un blogger, un Social Media Manager capace di mediatizzare con successo ogni inchiesta anche quelle che lo vedevano bersaglio di un complotto omicida trattato, al pari delle altre vicende, come una notizia attraverso la quale mettere in luce l’attività criminale di Putin ed il destino del popolo russo.

Un ossessione per la ricerca della verità che non si è fermata di fronte a nulla neanche  la morte preconizzata come un evento certo al punto di consegnare ai suoi sostenitori ed all’opinione pubblica internazionale un testamento politico diffuso tramite un video postumo.

Navalny è morto ma non le sue idee che continueranno ad avere una voce nelle parole di sua moglie Yulia intenzionata a continuare una lotta politica con le stesse modalità comunicative.

Le elezioni del prossimo marzo in Russia avranno un esito, forse, scontato ma la Storia insegna che le rivoluzioni, nel Paese degli Zar, sono veloci e definitive.

Navalny è morto ma ora il suo fantasma si sovrappone all’ombra del gerarca russo.

 




Meloni, Made in Italy, che succede?

Pubblichiamo un intervento, che auspichiamo primo di molti, del Dott. Marco Filisetti, esperto di scuola, di istruzione, di contabilità pubblica e di normativa.

 

Giorgia Meloni già nel comizio ad Ancona del 22 agosto 2022 per l’avvio della  campagna delle ultime elezioni politiche (al quale ho avuto occasione di assistere),  aveva annunciato l’istituzione del nuovo indirizzo liceale Made in Italy   quale elemento rilevante del programma elettorale di Fratelli d’Italia in materia d’Istruzione.

Assunta la Presidenza del Consiglio dava coerentemente seguito all’impegno elettorale, ribadendone l’importanza ed affidando la declinazione attuativa per l’a.s. 2024/25 con la Legge 206/2023 al neo Ministro per l’Istruzione e per il Merito Giuseppe Valditara, espresso dalla Lega, con un esito diverso dalle aspettative.

Il ridotto numero (92) di licei made in Italy autorizzati per l’a.s. 2024/25  a richiedere l’attivazione delle classi prime risulta determinato (anche)  da una errata interpretazione restrittiva ministeriale del combinato disposto dai commi 4 e 5 dell’art. 18 della citata legge 206 del 27 dicembre 2023.  

ll comma 4 dell’art. 18 della legge   dispone   l’attivazione dei percorsi liceali del made in Italy , a partire dalle classi prime,  nell’ambito  della programmazione regionale , senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica .

Ricordo che La L.n.59/1997 e il D.lgs. n. 112/1998 attribuiscono infatti alle Regioni la competenza per la programmazione dell’offerta formativa integrata istruzione e formazione professionale, fermo restando che lo Stato assegna alle istituzioni scolastiche statali il personale scolastico nei limiti della disponibilità del bilancio statale.

Il successivo comma 5  prevede in via transitoria per l’a.s. 2024/25, che  le istituzioni scolastiche che erogano l’opzione economico sociale del liceo scienze umane  possono chiedere l’istituzione delle classi prime del liceo made in Italy, subordinatamente alla disponibilità di risorse umane, strumentali e finanziarie nel limite della legislazione vigente  nonché senza creare esuberi di personale (statale) e comunque maggiori oneri alla finanza pubblica ed in accordo con la Regione, fermo restando la programmazione regionale come  previsto al comma 4.

La limitazione  di cui al comma 5  risulta rivolta   alle istituzioni scolastiche pubbliche statali individuando, in ragione dell’esigenza di evitare aggravi d’organico, nei licei con opzione economico sociale gli ammissibili alla richiesta, senza  limitare (né potrebbe) la facoltà programmatica di esclusiva competenza regionale (purché non determini ulteriori oneri a carico dello Stato) .

Le scuole paritarie,  la cui offerta formativa è  finanziariamente irrilevante per la finanza pubblica, atteso che le loro risorse principali non sono costituite da prelevamenti obbligatori (elemento che contraddistingue le Istituzioni -scolastiche- Pubbliche),   non sono destinatarie della limitazione transitoria di cui al predetto comma 5 e pertanto possono richiedere l’attivazione  delle classi prime del liceo made in Italy nell’ambito della programmazione regionale.

E’ pertanto erronea l’interpretazione data alla norma in argomento da una nota del Ministero ( DGOSV 41318 del 28 dicembre 2023 ) con la quale si indicano nelle scuole paritarie che erogano l’opzione economico sociale le sole ammissibili alla richiesta di attivazione di prime classi del Liceo del made in Italy per l’anno scolastico 2024/2025 e ciò  “A garanzia del rispetto delle clausole di invarianza finanziaria previste dalla legge” (?).

Tale nota  Ministeriale pertanto poteva, doveva, essere disattesa dalle Regioni, favorendo, nell’esercizio della propria competenza programmatica, il diverso esito auspicato dalla Legge, pregiudicato (anche) dalla predetta iniziativa burocratica  .

 

Marco Filisetti

ex Direttore Generale USR Marche




Italia – Romania: condivisione di intenti.

L’Ing. Angelo Sinisi – profondo conoscitore della reltà socio-economica della Romania e acuto osservatore delle vicende politiche in ambito comunitario, ci ha inviato una sua nota in merito all’incontro Intergovernativ o tra Italia e Romania.  

Chi scrive si scusa con l’Ing. Sinisi dal momento che – per un disguido tecnico dovuto all’accavallarsi di eventi significativi nello scacchiere internazionale – il suo interessantissimo intervento non è apparso ai Lettori di BETAPRESS.IT con l’usuale nostra tempestività.

La mattina del 15 febbraio, si è svolto il vertice intergovernativo tra Italia e Romania a Villa Pamphilj, dove il presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni, ha accolto il primo ministro romeno Marcel Ciolacu.

Questo è stato il terzo vertice tra i due paesi, evidenziando la continuità dei rapporti diplomatici.

Ciolacu ha portato con sé un mazzo di rose bianche per la premier italiana, aggiungendo un tocco di cortesia e gentilezza al momento dell’incontro.

Nel pomeriggio dello stesso giorno, sempre nell’ambito del vertice intergovernativo, si è tenuto un Business Forum presso la Farnesina, che ha visto la partecipazione di circa 200 aziende provenienti da entrambi i paesi.

Le principali aziende italiane operanti in Romania sono state rappresentate da Confindustria Romania, guidata dal presidente dott. Giulio Bertola e dall’Ambasciatore d’Italia in Romania, S.E. Alfredo Durante Mangoni.

L’obiettivo del forum è stato quello di rafforzare ulteriormente i rapporti economici bilaterali, concentrandosi anche su settori innovativi e tecnologie emergenti, con un’attenzione particolare alla transizione ecologica e digitale.

Durante il vertice, Meloni e Ciolacu hanno sottoscritto un impegno reciproco: gli italiani condannati in via definitiva in Romania devono poter scontare la pena in Italia, e viceversa per i romeni nelle carceri italiane.

Questo accordo mira a garantire una maggiore equità nel trattamento dei detenuti e a rafforzare la cooperazione giudiziaria tra i due paesi. Oltre a ciò, sono state firmate sette intese tra Italia e Romania, che spaziano dalla difesa al turismo, passando per la cooperazione nel settore dell’energia nucleare, la cybersicurezza e la formazione dei funzionari pubblici.

Questi accordi evidenziano la vastità e la profondità dei rapporti bilaterali, toccando settori chiave per entrambe le nazioni.

È interessante notare che la delegazione rumena è stata ricevuta anche da Papa Francesco, evidenziando l’importanza dei legami culturali e religiosi tra i due paesi.

Inoltre, il primo ministro di Bucarest ha annunciato il coinvolgimento della Romania nel restauro della Colonna Traiana, un monumento di grande significato storico e culturale per entrambe le nazioni, simboleggiando la volontà di preservare e promuovere il patrimonio condiviso.




Congresso conservatore americano: forse occorre tornare a riveder le stelle.

Primo giorno di un CPAC storico, anche per la UE

Il CPAC è il congresso del mondo conservatore statunitense, ed è ritenuto riferimento per tutto il conservatorismo mondiale, oggi viene definito “sovranismo”.

Per questo vi partecipano delegazioni dei partiti sovranisti di ogni dove.

Oggi in Virginia, in Stati Uniti, prende inizio uno dei CPAC più importanti della storia repubblicana americana.

La causa si può trovare in tutto quanto è accaduto dalle elezioni presidenziali del 2020 ad oggi.

Periodo nel quale il tema dei brogli elettorali durante quelle elezioni non si è mai spento.

Tema sempre messo al centro dal Presidente Trump ed ostentatamente non affrontato dall’attuale inquilino della Casa Bianca e non solo.

Non solo in Stati Uniti.

Il 6 gennaio 2021, infatti, una enorme folla protestava davanti alla sede del Congresso, Capitol Hill, a Washington DC.

Una folla che riteneva che il risultato delle appena avvenute elezioni presidenziali fosse stato invertito attraverso brogli elettorali.

Un fatto storico da molti punti di vista che trovava origine da una inquietante sequenza di eventi.

Dalla, incredibile dichiarazione del candidato Biden alla chiusura dei seggi “oggi non sapremo chi avrà vinto le elezioni”, fatto mai avvenuto in Stati Uniti, a cui fece seguito un black out del sistema elettronico di calcolo per ben tre giorni, per terminare con una, per alcuni inquietante, ripresa del conteggio delle schede elettorali attraverso lo stesso sistema elettronico ed il rovesciamento dell’andamento dello scrutinio in molti Stati della federazione. Improvvisamente le schede erano tutte, il cento per cento, favorevoli a Biden.

Molti elettori statunitensi non credettero alla “casualità” e una parte di loro decise di protestare davanti a Capitol Hill.

Alcuni la invasero. Fatto storico perché mai era stata profanata la sacralità della sede del Congresso americano.

Storico perché, forse ancora di più, quella parte di corpo elettorale statunitense non credeva nella legalità delle elezioni presidenziali svolte nel precedente novembre.

Per la prima volta nella storia della democrazia americana, infatti, il popolo statunitense metteva in dubbio la legalità del voto in tutta la federazione, non in uno Stato come già accadde in Florida nel 2000.

Di tutto questo fu incolpato il Presidente Trump.

Purtroppo, da quel giorno ad oggi, nulla di serio è avvenuto per fare chiarezza su quella giornata e, fatto ancor più sconcertante, su quel voto.

Il “dubbio” nel popolo americano è nel frattempo accresciuto, in molti è divenuto “certezza”.

Questo proprio per la protervia del negare senza documentare la negazione. Doppia negazione, in politica come nella vita, cela sempre una “verità”.

Questo atteggiamento, diciamo così, alla “Marchese del Grillo” ha causato una unica certezza negli analisti e sondaggisti politici, quella che il Presidente Trump ha, tuttora, una gran parte dei cittadini statunitensi dalla sua parte ed è stabilmente avanti per distacco nel risultato elettorale del novembre 2024.

D’altronde l’uomo di Mar a Lago ha sin dal primo momento ritenuto di aver vinto con ampio margine anche quelle del 2020 tanto da aver lasciato al momento di abbandonare il famoso studio ovale uno scritto assai emblematico, quello che diceva a Biden “lo sai che hai perso”.

Certezza, condivisa con il suo popolo, che oggi esplicita dichiarando in ogni dove “vincerò per la terza volta”.

“Terza volta”, appunto, un modo neanche tanto subliminale per ricordare che l’elezione nel 2020 di Biden alla Casa Bianca non ha mai visto superati i dubbi dei primi giorni.

In ogni caso Biden e la sua parte le stanno provando tutte per impedire al leader indiscusso del Partito Repubblicano statunitense di correre alle elezioni del novembre 2024.

Forse sarebbe più corretto dire al leader del movimento sovranista nel mondo.

Un solo caso simile nella storia moderna del nostro occidente tutto, quella giudiziaria di Silvio Berlusconi.

C’è quasi da chiedersi se vi sia qualche “cattivo maestro” italiano a far da consulente a chi sta cercando di usare la magistratura come strumento politico anche in Stati Uniti.

In Stati Uniti, però, le radici democratiche e la fiducia nella necessità di scindere il ruolo politico da quello giudiziario sono molto più profonde.

Questo si comprende nel prendere atto dello scetticismo dei nove membri della Corte Suprema americana ad accogliere positivamente la sentenza della Corte del Colorado che dichiara ineleggibile il Presidente Trump proprio a causa delle vicende di Capitol Hill.

Due dei tre giudici nominati da Obama alla Alta Corte, Elena Kagan e Ketanji Brown Jackson, hanno dichiarato, infatti, che “permettere ad uno stato di decidere chi può candidarsi per una carica nazionale è un pericoloso precedente da evitare”.

La giudice Kagan, in particolare, ha ampliato la propria preoccupazione al fatto che “consentendo al Colorado di rimuovere Trump dal ballottaggio si creerebbe un precedente pericoloso nel conferire ai singoli Stati un potere straordinario che permetterebbe ad un singolo Stato di influenzare le elezioni nazionali”.

La giudice Kagan ha continuato dichiarando che “pur continuando a ritenere che il Presidente Trump sia responsabile di quell’assalto alla sede del Congresso americano, la Costituzione non autorizza un singolo Stato ad escludere un candidato per la presidenza federale degli Stati Uniti” ed ancora “sarà compito del Parlamento, nel caso lo ritenesse, di attivare una procedura di impeachment nei confronti del neo eletto, se dovesse vincere le future elezioni presidenziali, Presidente Trump per quanto avvenne il 6 gennaio 2021”.

Lezione alta di cultura democratica!

A causa di questa molti iniziano ad essere assai convinti che fermare la corsa vincente del leader repubblicano sia, oramai, impossibile.

“La protesta del 6 gennaio a Capitol Hill fu pacifica e patriottica” ha detto l’inquilino di Mar a Lago dopo l’udienza della Corte Suprema che molto probabilmente produrrà la sentenza entro il Super Tuesday del 5 marzo.

Anche questo è un messaggio chiaro e forte.

Quel martedì 15 stati voteranno per le primarie e il mondo, non solo gli statunitensi, saprà chi correrà a novembre per i repubblicani e, a guardare i sondaggi, questi vincerà le presidenziali.

La Corte Suprema visse un momento in cui fu chiamata a decidere chi avrebbe governato gli Stati Uniti nel 2000 allorquando annullò il riconteggio dei voti in Florida determinando la vittoria di Bush contro Gore.

L’opinione pubblica, in quell’occasione, ritenne la decisione della Corte Suprema una sentenza politica, per cui lontana da quella terzietà che la Costituzione americana garantisce ai membri della Corte attraverso la nomina a vita.

Anche nel 2022 una sentenza dell’alta corte fu ritenuta politica allorquando essa rovesciò la sentenza Roe contro Wade in ordine al diritto costituzionale ad abortire.

In questa occasione, da quel che si apprende dai media, sembrerebbe veramente che la Alta Corte voglia tenere al centro il dettato costituzionale a prescindere dalle opinioni che i singoli membri hanno sia sulla vicenda di Capitol Hill sia sulla figura del Presidente Trump.

Dovesse confermassi questo noi cittadini occidentali tutti non potremmo che esserne lieti, una sentenza basata esclusivamente sul diritto e non sulla ideologia politica sarebbe una lezione per molti, anche magistrati, nel mondo.

Allo stesso tempo tutto questo sta aprendo degli scenari particolarmente interessanti sul fronte democratico americano.

Mentre fino a pochi giorni fa nei salotti dei bene informati si sentiva sempre più spesso parlare di Michelle Obama come candidata democratica alle presidenziali del 2024, gli stessi salotti oggi iniziano con forza a ritenere la candidatura della consorte dell’ex presidente degli Stati Uniti come improbabile.

La motivazione è chiara, il presidente Trump è ritenuto un avversario “non affrontabile” perché amato e “voluto” da una gran parte del popolo americano e la famiglia Obama non ama rischiare di perdere.

Anche da questo cambio di orientamento si può facilmente comprendere che la possibilità che il mondo tutto, la nostra Italia forse più di altri, dovrà confrontarsi nuovamente con il Presidente Trump è sempre più vicina.

Un uomo che in questi quattro anni ha dovuto lottare come una belva per difendersi da attacchi di ogni genere.

Un uomo che in questi quattro anni ha dovuto accettare di subire molte umiliazioni che reputa totalmente dovute a quei brogli che lui è certo ci siano stati.

Un uomo che in questi quattro anni ha dovuto vedere il suo popolo soffrire ed impoverirsi a causa di una leadership alla Casa Bianca che lui ritiene inetta.

Un uomo che in questi quattro anni ha dovuto vedere suoi amici e sostenitori subire processi, andare in carcere, essere ghettizzati, per il solo fatto di non averlo abbandonato e tradito dopo il 2020.

Un uomo che in questi quattro anni, proprio da tutta questa sofferenza, ha imparato molto e, lo si vede facilmente seguendolo, vuole tornare per mettere le cose a posto.

Tutte a posto, al loro posto.

Ovunque.

Ignoto Uno

 

Ettore Lembo News




L’Italia Trionfa al Festival di Los Angeles “Kick The Rules”

“Lia non deve morire” di Alfonso Bergamo Trionfa al Festival di Los Angeles “Kick The Rules”

Los Angeles, CA – Il cortometraggio “Lia non deve morire”, diretto dal premiato regista Alfonso Bergamo e

scritto in collaborazione con Valentina Morricone, ha ricevuto il prestigioso riconoscimento di Best Short

Film al festival “Kick The Rules” di Los Angeles.

Il Festival “Kick The Rules” è  uno degli appuntamenti cinematografici più significativi della California.

Il film è stato premiato grazie alla qualità narrativa e registica di Alfonso Bergamo e per le eccellenti musiche composte

da Sergio Cammariere.

Al film sono andati anche i premi per Miglior Corto LGBTQ e Miglior Fotografia diretta, questa, da Daniele Poli.

Alfonso Bergamo
Alfonso Bergamo

Il cortometraggio

“Lia non deve morire” esplora la lotta interiore di Vincenzo, un stand up comedian sposato e padre che si

confronta con la parte di sé che ha sempre rifiutato di accettare: Lia, la sua “amica immaginaria” e

allontanata dal padre durante l’infanzia.

Un giorno il suo segreto viene scoperto dalla figlia e Vincenzo si ritrova di fronte a una scelta drammatica che lo porterà a un confronto finale sul binario 3 di una stazione ferroviaria.

Angela, unica spettatrice del suo ultimo atto, tenterà di salvare Vincenzo da un gesto estremo, dimostrando che Lia esiste e non deve morire.

Alfonso Bergamo, attraverso questo potente cortometraggio, tocca tematiche delicate come l’identità di genere, l’omofobia e il suicidio, evidenziando come quest’ultimo rappresenti una realtà troppo spesso ignorata, soprattutto quando legata alla

discriminazione.

“L’arte – afferma Bergamo – è resistenza al tempo e alla morte, e con ‘Lia non deve morire’ vogliamo offrire la forza di resistere a chi si trova in situazioni emotive simili”.

La produzione

La produzione è stata curata da GiKa Production, sotto la guida di Gian Gabriele Foschini e Francesca

Cornelia Tosetti.

Co-produzione con BRANDOS Film e Produttore Associato Giuseppe Esposito.

Chi è Alfonso Bergamo

Alfonso Bergamo, ha recentemente terminato la lavorazione per il suo ultimo film “The Garbage Man”, con

Paolo Briguglia, Tony Sperandeo, Randall Paul e Roberta Giarrusso.

Attualmente ha creato una community di attori e artisti in tutta Italia con l’obiettivo di tessere una rete solidale nel mondo dell’arte e del cinema.

Il progetto ha già coinvolto oltre 300 partecipanti, dimostrando l’impatto e l’importanza dell’iniziativa.

Il cortometraggio verrà presto reso disponibile sulla piattaforma WeShort, rendendolo accessibile a un pubblico ancora più ampio.




Critica d’arte, Paolo Battaglia La Terra Borgese: critica artistica è la corretta definizione

 

Intervista al critico d’arte Paolo Battaglia La Terra Borgese: criticare la critica artistica

Lei, Battaglia La Terra Borgese, ha di recente affermato che la riflessione su un’opera d’arte, allo scopo di conoscerla e di giudicarla, consiste nel compito ultimo di insegnare a godere educando al gusto estetico di fronte a una scultura, un dipinto, un’architettura, per il progredire delle possibilità intellettuali e morali di una persona. Vorremmo dunque e intanto sapere, in proposito, se sia più corretto dire critica d’arte o è giusto dire critica artistica?

È migliore, e certamente più corretto, sostenere critica artistica, poiché critica d’arte nasceva dal fatto che quello del critico d’arte fosse un ruolo, un tempo, esclusivamente o prevalentemente maschile, oramai questa definizione va considerata del tutto superata, e per critica d’arte deve necessariamente intendersi un critico d’arte donna, cioè una donna la cui professione è quella di critica d’arte, così come avvocata, ministra e via dicendo. I critici, uomini o donne che siano, si occupano dunque di critica artistica.

Ma è possibile criticare la critica artistica?

Se vogliamo distinguere, anche perché è doveroso! e dal punto di vista professionale perfino obbligatoriamente etico, e soprattutto perché ricorre un dovere intellettibile per differenziare un critico d’arte da un showman televisivo o dall’intrattenitore di una mostra, possiamo a nostra volta valerci della critica finta tipica degli imbonitori: è quella che va bene per qualsiasi artista di qualsiasi tendenza, quella superlativamente descritta nel 1971 dal milanese Bruno Munari, grande artista e designer capace: “Con la sua personale tecnica e con un modo di esprimersi del tutto adeguato, attraverso segni, colori, forme e materie particolari, il Nostro ci propone, nelle sue opere, delle sensazioni elaborate secondo il suo schema, alle quali lo spettatore è libero di partecipare o meno. Il lungo e paziente lavoro, fatto sotto la guida spirituale del suo grande maestro preferito, giorno dopo giorno, nel segreto del suo luminoso studio al settimo piano di via Roma 18, lo ha condotto a queste inevitabili scelte. Le sue opere sono quindi il frutto prezioso di una ispirazione personale e di una esperienza che il Nostro ha dovuto farsi da solo, a tu per tu col mondo esterno dal quale capta il bene e il male. Non si può negare il valore artistico di queste opere proprio per le qualità specifiche che le formano. Ancora una volta il Nostro ci dimostra le sue qualità estetiche con rara coscienza ed esemplare equilibrio… I veri critici d’arte termina Munaridovrebbero protestare vivacemente contro questo malcostume che ridicolizza il lavoro serio di una categoria socialmente valida quando aiuta la gente a capire. Il danno che può provocare questa falsa critica va tutto a scapito della critica vera per cui il pubblico, non avendo la possibilità di giudicare l’opera di questi falsari, mescola falsi e buoni in un unico calderone.”

Il vero critico, quello migliore, chi è?

Quando il lavoro del critico si rivolge al pubblico, il professionista insegna a godere educando al gusto estetico di fronte a una scultura, un dipinto, un’architettura, per il progredire delle possibilità intellettuali e morali di una persona. Quello è il vero critico, e non ne esiste uno migliore degli altri, perché la critica artistica non ha mai fine: ogni professionista esperto aggiungerà sempre qualcosa all’impianto critico già costituito.

Siamo tutti in grado di comprendere l’arte?

C’è un’enorme differenza di contatto: occorre mostrare agli inesperti soltanto il valore della scena delle opere in senso lirico e concettuale, per educare al gusto e alla definizione dello stile, un po’ come fa la guida nei musei; il valore estetico e quello puramente tecnico-artistico-costruttivo deve invece essere diretto agli addetti ai lavori, per non creare all’inesperto confusione tra arte ed erudizione».

Secondo una sua battuta che abbiamo rispolverato, in Italia ci sono più pittori che Vendesi ai muri! Ci può dire quali sono i dati reali?

A proposito di muri, mi si conceda una nota a favore dei murali, dove molto frequentemente si rileva una perizia o un talento singolare. Il muralismo meglio dei monumenti, avvicina l’arte figurativa alla gente, sia perché è esso stesso che si porta agli occhi dei passanti e non il contrario, quanto perché in maniera esplosiva e catturante, con le sue superfici di grande estensione, con effetti ipnotici creati dalla magistrale bravura tecnica dei suoi autori, trasmette, risveglia e promuove la sensibilità estetica. A differenza delle decine di migliaia di c.d. opere che se pure esposte – ogni anno nelle oltre 4.200 sedi del sistema espositivo italiano dove si inaugurano 40 mostre al giorno per un totale di circa 15.000 mostre annuali – non producono bellezza. È facile intuire da questi dati che possa non trattarsi sempre di vera arte.

Siamo dunque alla mistificazione dell’arte? Possiamo dirlo?

Ad alta voce. In pochi sanno tradurre la forma in valori d’espressione, sanno cioè fondere i contenuti con la forma. Assistiamo così a un generale risibile rifiuto della forma che in realtà nasconde l’incapacità artistica dei più.

Un’ultima domanda: come acquistare un’opera d’arte in sicurezza?

A rassicurarci è la congruità del prezzo sollecitato. Occorre richiedere sempre al pittore o allo scultore che non lo esibisca palesemente il suo coefficiente d’arte, che deve immancabilmente essere certificato e calcolato da un critico d’arte di chiara fama: non sono bastevoli assegnazioni, aggiudicazioni d’asta e musealizzazioni.




Pace, solidarietà e democrazia: Europa.

Il 17 luglio 1979, durante la prima seduta del primo Parlamento europeo direttamente eletto, il nuovo Presidente del Parlamento, Simone Weil, sottolineò con parole molto toccanti l’importanza dei valori europei di pace, solidarietà e democrazia.

Secondo l’ottica del proprio humus culturale e del personale impegno sociale, Simone Weil affronta la “lettura” della domanda “Quale Europa per il Futuro?” o, meglio: “Quale Futuro per quale Europa?”.

Un’analisi lucida e appassionata, con riflessioni embricate fra loro, colte e misurate, sintetiche ed efficaci, di fronte al clima che si sta insinuando nelle società europee e, in particolare, in quella italiana, riguardo al futuro dell’Europa – e di fronte al nuovo nazionalsocialismo con il quale l’Unione Europea si deve confrontare, così come sui programmi europei; osservando le sfide e interrogandosi sulle risposte possibili.

Di fronte a questo panorama complesso, si trovano sentimenti alimentati dall’ignoranza della realtà, dal fanatismo arrogante e dalle ambizioni sovraniste: «le civiltà non muoiono, ma si suicidano, perché non danno risposte adeguate alle sfide in atto» – diceva Arnold Toynbee – e questa tesi si adatta perfettamente alla situazione attuale dell’Europa, oggetto e soggetto di sfide che vanno da quelle esterne, globali, a quelle interne, culturali.

Alcune di esse possono essere considerate esiziali, per il grado di civiltà raggiunto dall’Europa: Ambiente, Migranti, Guerre, Terrorismo, Sicurezza, Populismo, Sovranismo, Austerità, nuove Autarchie, negazionismi vari, ma anche i nuovi razzismi, l’antisemitismo risorto e mai sepolto, l’intolleranza del diverso – ammesso che esista «un diverso» – secondo un canone unico di discrimine di chi è diverso da chi, per cosa, in quale contesto.   

Fondamentali risultano i richiami alla Coscienza, alla Democrazia, all’Etica, alla Coerenza, alla Laicità (da intendersi come quella affermazione della libertà di pensiero e di culto che trova limiti solo nel rispetto della libertà di pensiero e di culto altrui e come valore etico che favorisce l’armonia sociale ed il dialogo fra le diverse confessioni), alla Libertà e alla Responsabilità.

Un occhio cinico e disincantato potrà leggere queste parole e giudicarle «desuete». Esse sono, invece, più che mai attuali, e saremo noi europei ad essere «desueti» o, meglio, «suicidati», se non vi rifletteremo con un po’ di attenzione – prima che sia troppo tardi, per tutti.

Barbara de Munari, 20 febbraio 2024

 

Di seguito, pubblichiamo alcuni stralci del discorso di Simone Weil.

 

«Non possiamo dimenticare i successi sostanziali delle Assemblee che ci hanno preceduto, ma voglio ora sottolineare con forza il nuovo passo fatto dalle Comunità Europee con questo Parlamento eletto, per la prima volta, a suffragio universale diretto.

È infatti la prima volta nella storia, una storia in cui così spesso siamo stati divisi, contrapposti, dediti alla distruzione reciproca, che i popoli europei hanno eletto insieme i loro delegati in un’assemblea comune che rappresenta, in questa Camera oggi, più di 260 milioni di persone.

Non si lasci adito a dubbi: queste elezioni sono una pietra miliare del percorso dell’Europa, la più importante dalla firma dei Trattati.

È vero che i sistemi elettorali variano ancora da uno Stato membro all’altro – e questo è stato stabilito dall’Atto del 20 settembre 1976 sull’elezione dei rappresentanti dell’Assemblea a suffragio universale diretto – e starà a noi delineare un sistema elettorale uniforme per le elezioni future.

Questo è un compito al quale, insieme a voi, dedicherò le mie energie.

Qualunque sia il vostro credo politico, siamo tutti consapevoli che questo passo storico, l’elezione del Parlamento Europeo a suffragio universale, è stato compiuto in un momento cruciale per il popolo della Comunità.

 

Tutti i suoi Stati membri si trovano ora di fronte a tre grandi sfide: la sfida della pace, la sfida della libertà e la sfida della prosperità, e sembra chiaro che esse possano essere affrontate solo nella dimensione europea.

 

Iniziamo con la sfida della pace.

In un mondo in cui l’equilibrio dei poteri finora ci ha permesso di evitare la violenza suicida di un conflitto armato fra le superpotenze, le guerre localizzate, per contro, hanno proliferato. Il periodo di pace di cui abbiamo goduto in Europa è stato una fortuna incredibile, ma nessuno di noi dovrebbe sottovalutarne la fragilità.

C’è bisogno di sottolineare la novità di questa situazione in Europa, la cui storia è un lungo capitolo di guerre fratricide e sanguinarie?

Come i suoi predecessori, anche la nostra Assemblea, indipendentemente dalle differenze che ci sono tra noi, ha una responsabilità fondamentale per mantenere la pace, che probabilmente è la risorsa più importante di tutta l’Europa.

La tensione che prevale nel mondo di oggi rende questa responsabilità ancora più grave, e la legittimità conferita a questa Assemblea dall’elezione a suffragio universale, speriamo, ci aiuterà a farcene carico, e a diffondere questa nostra pace nel mondo esterno.

 

La seconda sfida fondamentale è quella della libertà.

Le frontiere del totalitarismo si sono espanse così tanto che le isole di libertà sono circondate da regimi nei quali prevale la forza bruta.

La nostra Europa è una di queste isole; accogliamo dunque con gratitudine il fatto che la Grecia, la Spagna e il Portogallo, con tradizioni antiche come le nostre, si sono aggiunti alle fila dei Paesi liberi.

La Comunità sarà contenta di accogliere anche loro.

Anche qui, la dimensione europea dovrebbe aiutare a rafforzare la libertà il cui valore troppo spesso non viene colto finché non è perduta.

 

Infine, l’Europa deve affrontare la grande sfida della prosperità, il che per me vuol dire far fronte alla minaccia ai nostri livelli di vita posta da quello sconvolgimento essenziale che negli ultimi cinque anni è stato sia scatenato, sia rivelato in tutta la sua ampiezza, dalla crisi petrolifera.

Dopo avere sperimentato per una generazione una rapida e continua crescita nei livelli di vita senza precedenti nella storia, ogni Paese in Europa ora si trova di fronte a una sorta di guerra economica che ha portato al ritorno di quella piaga dimenticata, la disoccupazione, e sta minando la crescita degli standard di vita.

Questo sconvolgimento sta portando a cambiamenti di ampia portata.

Nei nostri Paesi, ognuno è pienamente consapevole che il cambiamento è inevitabile, ma allo stesso tempo lo teme.

Tutti si aspettano garanzie, salvaguardie e azioni di rassicurazione dai governi e dai rappresentanti eletti, a livello sia nazionale che locale.

 

Tutti noi sappiamo che queste sfide, la cui portata viene avvertita in tutta l’Europa con pari intensità, si possono affrontare in modo efficace solo con la solidarietà.

Oltre alle superpotenze, solo l’Europa è un’entità capace di svolgere le azioni necessarie, che superano quelle di ogni singolo membro isolato.

Tuttavia, per agire efficacemente, le Comunità Europee devono unirsi e raccogliere le forze. Il Parlamento Europeo, che ora è eletto a suffragio universale, in futuro sarà il portatore di una speciale responsabilità.

Se dobbiamo affrontare le sfide che l’Europa ha di fronte, abbiamo bisogno di un’Europa capace di solidarietà, di indipendenza e di cooperazione.

Per «Europa di solidarietà» intendo solidarietà fra i popoli, le regioni e gli individui.

Nelle relazioni fra i nostri popoli non vi può essere questione di passare sopra o di trascurare gli interessi nazionali fondamentali di ciascuno Stato membro della Comunità.

Tuttavia, è senza dubbio vero che, molto spesso, gli interessi di tutti sono soddisfatti meglio da soluzioni europee piuttosto che da una persistente opposizione a esse.

Mentre nessun Paese può considerarsi esente dalla disciplina e dagli sforzi che ora sono richiesti a livello nazionale dai nuovi vincoli di carattere economico, la nostra Assemblea deve continuamente far pressione per una riduzione delle disparità esistenti, dato che un deterioramento della situazione distruggerebbe l’unità del Mercato Comune e, con essa, la posizione privilegiata di alcuni dei suoi membri.

 

La solidarietà sociale, o, in altre parole, la riduzione delle diseguaglianze economiche e a volte finanziarie, è necessaria anche se si vogliono ridurre le disparità regionali.

La Comunità ha già preso misure pratiche ed efficaci in questo campo e dovrebbe continuare a perseguire questa politica finché i risultati non siano proporzionati alla spesa.

La politica dovrebbe anche adattarsi per gestire la situazione, non solo nelle regioni tradizionalmente depresse, ma anche nelle regioni considerate fino a poco fa forti e prospere, ma ora afflitte da disastri economici.

 

Infine, e cosa ancora più importante di tutte le altre, bisogna promuovere la solidarietà tra gli uomini. Nonostante i progressi reali, e certamente notevoli, raggiunti in questa sfera negli ultimi decenni, molto rimane da fare.

Tuttavia, in un tempo in cui tutti i cittadini dovranno senza dubbio accettare il fatto che l’aumento nei livelli di vita dovrà fermarsi o progredire più lentamente, e accettare altresì la frenata nella crescita della spesa pubblica, i sacrifici necessari non dovranno essere affrontati senza una reale riduzione delle diseguaglianze sociali».

 

SIMONE WEIL, Parlamento Europeo, 17 luglio 1979

 

 

 




IL SONNO DELLA RAGIONE

 

C’è una parola, che dovrebbe appartenere al frutto acquisito della Storia, trasparente e matura, di cui oggi si fa abuso: si tratta della parola «Libertà».

Peccato che molti non stiano parlando della stessa «cosa», o meglio, che non si attribuisca a questa parola lo stesso significato, in sostanza, lo stesso valore.

Che cosa è andato storto?

Come è possibile che un improvviso velo oscuro sia calato sulle menti, ottenebrandole?

Come è possibile che quel dono fragile, umile, prezioso, ineliminabile, sia improvvisamente andato in frantumi – disperso in mille pezzi?

E fa male, è doloroso, leggere con quanta disinvoltura la parola «Libertà» sia usata, trascurandone – non si sa se volontariamente o per ignoranza – le valenze e le implicanze, perché la Libertà, come la Memoria, è «cosa» preziosa, fragile, delicata e importante. 

 

Da Socrate e Platone in poi, si ragiona sul concetto di «Libertà».

Abbiamo capito che si tratta non di un concetto assoluto ma di un concetto relativo: esiste la «libertà da…», la «libertà di…»;  abbiamo imparato che la libertà si deve eticamente rapportare con il mondo e, in questo mondo, ciascuno è, o dovrebbe essere, responsabile delle proprie scelte e delle proprie azioni.

Plotino, va oltre, e riconduce la libertà del volere non a un impulso, bensì «al retto ragionamento e alla giusta tendenza».

 

La libertà è, di solito e a ragione, invocata a proposito delle rivendicazioni e delle difese dei «diritti» dell’essere umano: diritto alla vita, alla salute, all’istruzione, alla comunicazione, all’informazione, alla proprietà, al muoversi e all’associarsi, al difendere le proprie opinioni, al praticare il proprio culto religioso, e così via.

Meno di frequente, anzi mai, in questo periodo, la libertà è messa a confronto con la «Responsabilità»: responsabilità di fronte alle azioni compiute; responsabilità di fronte alle scelte fatte o da fare; responsabilità sulla verità di quello che si dice e sulle testimonianze che si rendono; responsabilità come dovere di rispondere delle proprie azioni, semplicemente e arrogantemente non rispondendo alle domande e alle richieste di quanti rimangono delusi, stupefatti, indignati, o rispondendo deviando, o cercando di deviare, l’attenzione su falsi problemi.

Si rimane toccati e coinvolti, o anche solo più consapevoli, attoniti di fronte alla totale mancanza di coerenza.

Ci si sente come traditi, nel profondo del nostro essere, delle nostre anime.

E assistiamo al dilagare dell’ignoranza, della mancanza di una cultura, anche minima, e dell’abuso di potere.

 

L’abuso dei poteri è prassi: fatti più o meno gravi sono volutamente ignorati: non se ne parla, o se ne parla il meno possibile, sperando che ci se ne dimentichi in fretta.

Se, per caso, si denunciano situazioni grottesche, ben oltre il limite del ridicolo, ci si difende dicendo: «È tutto un equivoco. Avete frainteso. Non mi avete capito».

Dobbiamo avere ben presente che la libertà è violata e impedita ogni volta che si ostacolano i diritti, e questo può essere fatto in tante forme, dalle più aperte e manifeste, a quelle più nascoste e insidiose.

A fronte di determinate situazioni e pur di preservare la propria sfera, il proprio «cortile dietro casa», spesso al singolo non interessa partecipare, preferisce rinunciare, tacere.

 

Ed è qui, in questa frattura, che altri si inseriscono abilmente.

Abilmente e senza scrupoli.

Il singolo è indotto a dimenticare che ognuno di noi è responsabile anche nei confronti di chi c’era prima, di chi c’è ora, e di chi ci sarà dopo. 

Perché la storia non comincia da me.

Prima di me dovrebbe esserci sempre «l’altro» che mi interroga, a cui sono chiamato a rispondere.

Perché è in questa «tensione verso l’altro» che dovrebbe orientarsi l’agire umano, guidato da princìpi che, per quanto possibile, se pur relativi, tendano all’universalità.

 

In un libro di Hannah Arendt,  «Tra passato e futuro», si considera la crisi in vari settori dell’agire umano, determinata da una lacuna (o frattura) nell’agire, che interrompe qualsiasi solco etico e morale sia stato tracciato dalla tradizione.

Hannah Arendt coglie questo aspetto, evidenziandolo con l’aforisma del poeta René Char «La nostra eredità non è preceduta da alcun testamento», per indicare che il filo della tradizione si è spezzato e manca di continuità.

Ciò rappresenta un aspetto importante poiché permette di scoprire che cosa, e perché, è andato perduto nella voragine attuale, tra passato e futuro.

Negli ambiti in cui ognuno si muove e agisce, questa voragine rende ogni giorno di più qualcuno vittima e, se da questa voragine si «deve» uscire, in questa voragine, invece, qualcun altro sembra muoversi a proprio agio.

 

Barbara de Munari in supporto alla redazione di Betapress