I Falsi Miti delle Iscrizioni.

Iscrizioni Scuole secondarie di II grado – a.s. 2022/23

Fonte Ministero dell’Istruzione, le iscrizioni ai licei calano e lentamente salgono la china gli istituti tecnici e professionali.

L’inversione di tendenza dovrebbe far bene sperare per il rilancio dell’istruzione tecnica e professionale prevista nel PNRR e per il rilancio del sistema economico dopo gli anni di pandemia.

I licei restano comunque la scelta preferita con il 56,6%, i tecnici salgono al 30,7% e l’interesse per i professionali cresce di quasi un punto con il 12,7%.

Sta di fatto che su 100 quattordicenni circa 57 frequenteranno nel 2022/23 un liceo, indirizzo di studio che si completerà in un percorso universitario.

Tuttavia, secondo Almalaurea, già al primo anno di università solo il 71,7% degli studenti decide di continuare gli studi.
E il restante 28,3%?

È un grande e bel problema! Il 28,3% abbandona a non riesce a conseguire nemmeno la “triennale”.

La maggior parte proviene da un percorso liceale di tipo generalista con nessuna competenza tecnico-professionale in uscita e spendibile nel mondo del lavoro.

Allora questa massa di ex liceali si tradurrà in una massa di giovani inoccupati con scarse prospettive di inserimento lavorativo, se non in settori lavorativi a basse skill.

Ben venga allora l’inversione di tendenza, seppur timida, registrata nella scelta della scuola superiore.

Occorre continuare per questa strada, orientando “lealmente” studenti e genitori, per lo più distratti dal mito del liceo.

 

Pio Mirra DS IISS Pavoncelli – Cerignola (FG)




Sharenting

Come docente referente cyberbullismo, giustamente, mi formo ed informo per la prevenzione e la gestione dei rischi in rete.

Come libero cittadino, dipendente pubblico, devo aggiornarmi sul regolamento europeo GDPR 679/2016 inerente la privacy.

Senza tanti fronzoli, per chi, come me, vive e lavora nella scuola da oltre trent’ anni, è sempre più evidente che non si può più fare niente, neanche la foto ricordo di fine anno scolastico, senza autorizzazione dei genitori.

Non parliamo poi, del supporto psicologico gratuito, per aiutare i minori in caso di disagio.

Ancora un po’, ci vuole “la bolla papale” per far sì che un alunno vada a fare una chiacchierata con la psicologa…

Poi, frequentando piattaforme social quali Instagram, Facebook e TikTok vedi che è facile imbattersi in post di mamme e papà (gli stessi che ti remano contro a scuola!) che scelgono di pubblicare foto e video dei propri figli in maniera compulsiva e senza alcun tipo di filtro, divulgando momenti appartenenti alla sfera più intima.

Immagini tenere e spesso divertenti che attirano i followers, (Fedez e Ferragni docet) ma che, pur scatenando una pioggia di like e apprezzamenti, suscitano perplessità e fanno emergere una serie di domande.

Prima di tutto i dati.

Secondo una ricerca condotta dalla Northumbria University, oltre l’80% dei bambini britannici sarebbe presente in rete già prima di compiere 2 anni, e prima di raggiungere i 5 anni ognuno di essi arriverebbe a possedere addirittura 1500 foto sul web.

Un ulteriore studio, promosso da ParentZone, sottolinea come il 32% dei genitori pubblichi dalle 11 alle 20 foto al mese dei propri figli.

Di questi, il 28% non si sarebbe mai posto il problema di richiedere il consenso ai ragazzi.

Gli effetti futuri.

Quando però, quelli che ora sono bambini cresceranno, potrebbero non apprezzare la presenza online, né la narrazione portata avanti dai genitori, destinata, nonostante le migliori intenzioni, a rimanere incollata ai “futuri adulti” come una spiacevole etichetta (vedi spiacevoli inconvenienti digitali emersi in sede di selezione del personale per un futuro impiego)

Insomma, creare un’identità digitale propria e utilizzare i social (in maniera libera e serena) potrebbe, successivamente, rivelarsi difficile per coloro che, da piccoli sono stati esposti alla rete forzatamente, ed in modo esibizionistico dai genitori.

Tutto questo identifica il fenomeno dello “sharenting”, sempre più diffuso e a tratti allarmante, complici i rischi legati alla privacy dei minori, tangibili e sicuramente da non sottovalutare.

Definizione di sharenting.

Con il termine “sharenting” si fa riferimento alla condivisione in rete da parte dei genitori di immagini e video riguardanti i propri figli.

Coniato negli Stati Uniti, il neologismo è la crasi delle parole “share” (condividere) e “parenting” (genitorialità), anche se per precisione la pratica è meglio identificata come “over-sharenting”, ovvero l’eccessiva e protratta esposizione dei minori nel contesto web.

Nella maggior parte dei casi, tale esposizione avviene senza il consenso dei minori diretti interessati, proprio perché troppo piccoli (o non abbastanza grandi) da comprendere quali possano essere le implicazioni ed i rischi, così come l’importanza della tutela della privacy.

I rischi dello sharenting

Innumerevoli sono i rischi che comporta la pratica dello “sharenting”, tutti in grado di ledere seriamente la privacy del minore, esponendolo ai più comuni pericoli del web.

Il primo è rappresentato dalla violazione della privacy e della riservatezza dei dati personali e sensibili.

La privacy è un diritto, non solo degli adulti, ma anche dei bambini, come sancito dalla Convenzione dei diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza.

C’è poi la questione legata alla mancata tutela dell’immagine del minore, basti pensare alla concreta perdita di controllo relativa ai contenuti una volta pubblicati in rete.

L’identità digitale esercita un’influenza concreta e tangibile sul futuro dei minori, in questo modo esposti ai più comuni rischi legati al contesto telematico.

La relativa immagine appare dunque in balia di chiunque desideri sfruttare il materiale fotografico e video per scopi illeciti e denigratori, complice la relativa permanenza su web e l’impossibilità di eliminarne ogni traccia in un secondo momento.

Problema ancor più grave sono le ripercussioni psicologiche sul benessere del minore.

Quando i soggetti coinvolti inizieranno a navigare in rete in autonomia, dovranno inevitabilmente “pagare lo scotto” dell’essere (o dell’essere stati) esposti pubblicamente in maniera continua, col rischio di ritrovarsi a far fronte a un’identità digitale costituita anche da immagini intime per le quali non hanno prestato alcun consenso.

C’è poi il rischio di diffusione di materiali che potrebbero essere sfruttati in contesti pedopornografici.

Immagini o video, per quanto innocenti, possono essere condivisi liberamente da chiunque, sia attraverso semplici screenshot che mediante il download diretto, per poi venire pubblicati in altri contesti senza alcuna limitazione.

Non esiste dunque alcuna certezza circa l’utilizzo che ne verrà fatto da terzi, e occorre tenere ben presente che ad oggi, attraverso l’uso di semplici programmi di fotoritocco, è possibile manipolare il materiale personale con una certa facilità, rendendolo di carattere pedopornografico, con tutte le ripercussioni del caso.

Ultimo ma non meno importante il rischio di adescamento.

I dati dei minori, come le passioni, lo sport praticato, l’istituto frequentato e le abitudini degli stessi, se costantemente esposti online possono rappresentare terreno fertile per i malintenzionati che, dopo aver intrapreso una sorta di “percorso di avvicinamento”, possono praticare atti di adescamento online.

Sharenting e privacy

Tra le principali criticità che coinvolgono lo “sharenting” compaiono le ripercussioni che la condivisione – specie se compulsiva e ripetuta – ha sul minore.

Ad essere principalmente lesa è la privacy, poiché la pratica comporta la creazione di un vero e proprio archivio digitale, il più delle volte pubblico e fruibile da chiunque.

Spesso il minore non è in grado di capire cosa succede quando viene condivisa un’immagine che lo immortala, e ciò determina a tutti gli effetti una violazione della privacy, oltre che una lesione dell’individualità del soggetto.

Una volta cresciuti, i bambini sono costretti a “fare i conti” con una grande quantità di contenuti che li riguardano, con tutte le conseguenze e implicazioni psicologiche e sociali del caso.

In Italia non sono mancati proprio per questo casi in cui gli adolescenti coinvolti, una volta preso atto della quantità di contenuti online che li riguardavano, hanno scelto di rivolgersi ai tribunali, obbligando i genitori alla rimozione del materiale “incriminato” pubblicato sui social.

Ha acceso innumerevoli dibattiti l’ordinanza del 30 agosto 2021 emessa dal Tribunale di Trani, che ha condannato una madre a rimuovere i video della figlia, e a versare una somma di 50 euro sul conto corrente intestato alla bambina per ogni eventuale giorno di ritardo nell’esecuzione dell’ordine di rimozione, il tutto a fronte del disaccordo da parte del padre rispetto alla pratica dello “sharenting”.

Il considerando 38 del GDPR recita che “i minori meritano una specifica protezione relativamente ai loro dati personali, in quanto possono essere meno consapevoli dei rischi, delle conseguenze e delle misure di salvaguardia interessate, nonché dei loro diritti in relazione al trattamento dei dati personali”.

Come ha ricordato lo stesso Tribunale di Trani nell’ordinanza, è fondamentale che il consenso alla pubblicazione online di immagini dei figli minori sia prestato dai genitori, che devono al contempo essere in grado di porre limiti che non ledano in alcun modo la privacy dei bambini e dei ragazzi.

Occorre tuttavia considerare che la pratica dello “sharenting” non si limita a creare dinamiche che possono semplicemente compromettere la riservatezza del minore.

Ancor più rischioso è infatti metterne a repentaglio la sicurezza mediante la condivisione di materiale video e fotografico che può potenzialmente diventare virale.

Dunque, per concludere, un genitore, in quanto tale, non deve mai sottovalutare l’entità del possibile problema che lo “sharenting”, per quanto divertente, può comportare.

E certi altri genitori, analfabeti digitali, prima di puntare il dito contro la scuola, dovrebbero staccare il loro dito dal tasto condividi del loro smartphone…

 




Bullismo fenomeno dilagante

La “Prima Giornata nazionale contro il bullismo a scuola” si è svolta il 7 febbraio 2017, in coincidenza con la Giornata Europea della Sicurezza in rete indetta dalla Commissione Europea (Safer Internet Day).

Cinque anni dopo, il fenomeno del cyberbullismo è in costante e rapida crescita, comparendo tra le minacce più temute dai ragazzi dopo droghe e violenza sessuale.

Secondo le ultime ricerche, infatti, colpirebbe addirittura il 61% degli adolescenti italiani, rappresentando pertanto un notevole rischio, a discapito della potenziale utilità delle tecnologie più innovative legate al contesto web.

Per far fronte a questa vera e propria emergenza, e tutelare giovani e giovanissimi che utilizzano quotidianamente gli strumenti informatici, il Garante della privacy ha provveduto a divulgare una scheda informativa nella quale spiega come difendersi dal cyberbullismo su social network e web.

Dunque, per arginare tale problematica in maniera concreta, è possibile avvalersi di quanto previsto dalla legge 71/2017 per il contrasto del fenomeno del cyberbullismo, in tutte le sue manifestazioni, richiedendo la rimozione gratuita dei contenuti a carattere denigratorio pubblicati in rete.

Cyberbullismo. Cosa dice la legge 71/2017

Come illustra la scheda informativa promossa dal Garante della privacy, la legge 71/2017 offre ai minori l’opportunità di richiedere l’oscuramento, la rimozione o il blocco di contenuti a loro riferiti e diffusi per via telematica, qualora gli stessi vengano ritenuti a tutti gli effetti atti di cyberbullismo, (ad esempio immagini e video offensivi o che generino imbarazzo, pagine web o post social in cui si ritenga essere vittime di offese, minacce, insulti o vessazioni).

Le richieste di cancellazione dei contenuti ritenuti offensivi devono essere inoltrate al titolare del trattamento o al gestore del sito internet o del social media ove sono pubblicate le informazioni, le foto o i video ritenuti atti di cyberbullismo.

L’istanza può essere inviata direttamente dal minore, se di età superiore ai 14 anni, o in alternativa da chi esercita la responsabilità genitoriale.

Il titolare del trattamento, così come gestore del sito internet o del social media che ospita i contenuti ritenuti offensivi è tenuto a rispondere e a provvedere all’accoglimento della richiesta di eliminazione, il tutto nei tempi previsti dalla legge.

Qualora la richiesta non venga soddisfatta, è comunque possibile rivolgersi al Garante della privacy, che si attiverà entro 48 ore.

Per inoltrare le segnalazioni all’Autorità, è possibile utilizzare il modello preposto, che deve essere inviato via email all’indirizzo cyberbullismo@gpdp.it.

Cyberbullismo. Cosa dicono le statistiche.

Secondo un’indagine condotta, nel 2021, dall’Osservatorio Indifesa, portato avanti da “Terre des hommes” in collaborazione con “ScuolaZoo”, il 61% degli adolescenti italiani ha dichiarato di essere stato, almeno una volta, vittima di episodi di cyberbullismo.

Il 42,23% di ragazze e ragazzi intervistati, indifferentemente, evidenzia, mediante le risposte fornite, una palese sofferenza esercitata da episodi di violenza psicologica e verbale promossi da parte di coetanei.

Allo stesso tempo, un altro dato appare piuttosto chiaro: il 44,57% delle ragazze intervistate avrebbe manifestato un forte disagio causato dal ricevere commenti non graditi di carattere sessuale online.

L’8,02% delle ragazze ammette di aver compiuto atti di bullismo o cyberbullismo, percentuale in crescita fino al 14,76% tra i ragazzi.

Il 60% circa degli intervistati ha dichiarato inoltre di non sentirsi al sicuro online: sono in questo caso le ragazze (circa il 61,36% delle intervistate) ad avere più paura, soprattutto sui social network e sulle applicazioni per incontri.

I rischi percepiti in misura maggiore

Tra i rischi maggiori, sia per quanto concerne i maschi che le femmine, al primo posto compare proprio

il cyberbullismo in misura di circa il 66,34%,

seguito dalla perdita della privacy (49,32%),

dal “revenge porn” (41,63%),

dal rischio di adescamento da parte di malintenzionati (39,20%),

dallo stalking (36,56%)

e dalle molestie (33,78%).

Nella classifica dei peggiori incubi online, le ragazze pongono al secondo posto il “revenge porn” con una percentuale pari al 52,16%, unitamente al rischio di subire molestie online per il 51,24%.

A tali minacce seguono l’adescamento da parte di malintenzionati (49,03%) e la perdita della propria privacy (44,73%).

In particolare, lo stesso Osservatorio Indifesa ha evidenziato due novità di rilievo nell’indagine dedicata al 2020, sebbene nel 2021 il tutto sia ulteriormente incrementato: il “revenge porn” e il senso di isolamento percepito dai giovani.

Nel caso del “revenge porn”, un adolescente su tre ha infatti confermato di aver visto circolare foto intime personali o dei propri amici e conoscenti sui social network.

Quasi tutte le ragazze (circa il 95,17% delle intervistate) hanno consapevolmente preso atto che vedere le proprie foto o video hot circolare online senza il proprio consenso risulta grave al pari di subire una violenza fisica, percentuale in lieve discesa invece per i ragazzi, con cifre pari all’89,76%.

Non dimentichiamo, inoltre, che tendono a persistere i vecchi pregiudizi, legati soprattutto alle tradizioni famigliari e a contesti di degrado culturale.

Infatti, il 15,21% dei ragazzi considera una “ragazza facile” quella che sceglie liberamente di condividere foto o video a sfondo sessuale in compagnia del partner (per le ragazze tale asserzione risulta vera solo nell’8,39% dei casi).

Cyberbullismo, effetto covid e lockdown

Covid e locksown hanno peggiorato la situazione.

Infatti, forte e crescente è il senso di solitudine registrato dall’indagine, correlato quasi certamente alle misure precauzionali adottate durante il lockdown, al distanziamento sociale, e alla didattica a distanza.

Il 93% degli adolescenti ha infatti affermato di sentirsi solo, con un incremento del 10% rispetto a quella che era stata la rilevazione precedente.

Un aumento ancora più significativo se si pensa che la percentuale di chi ha indicato di provare solitudine “molto spesso” è cresciuta addirittura del 33%, giungendo rapidamente ad un drammatico quanto allarmante 48%.

Dati preoccupanti dunque quelli raccolti dall’Osservatorio Indifesa, che dovrebbero indurre a riflettere su come la tecnologia, per quanto all’avanguardia, implichi rischi di notevole entità, specie per gli adolescenti che non sempre accolgono con consapevolezza le innovazioni.

Concludendo, non aspettiamo il 7 febbraio per ricordarci dei rischi in rete.

Spegniamo il cellulare, accendiamo il cervello e controlliamo i nostri figli.

Noi, come redazione, non ci stancheremo mai di trattare questo fenomeno culturale, consapevoli che è un’emergenza sociale che, con effetto domino, si sta ribaltando su tutte le generazioni future.

La sola via utile da intraprendere è quella della tutela dei minori, messa in atto mediante una corretta e veritiera informazione (anche e soprattutto da parte delle istituzioni scolastiche, è vero, ma non basta).

La scuola, ma ancor prima la famiglia, devono formarsi ed informarsi in modo completo e responsabile.

Solo facendo rete, tutti insieme, genitori, professori, educatori, minori e fruitori possiamo prevenire tutti i rischi legati al cyberbullismo.

La parola d’ordine è EDUCAZIONE COME PREVENZIONE.

Perché, educando ed educandoci all’utilizzo delle nuove tecnologie web, con rigore, consapevolezza e maturità, forse, qualcosa di buono, da festeggiare, in futuro, ci sarà…

 




Adolescenti, social e suicidi

L’adolescenza, è un periodo di transizione dall’infanzia verso l’età adulta.

Durante l’adolescenza, i ragazzi attraversano numerosi cambiamenti nel corpo e nella mente, acquisiscono nuovi ruoli e responsabilità all’interno del contesto sociale e si trovano a dover strutturare una propria identità.

Ma, attenzione, tutti questi cambiamenti tipici dell’adolescenza, da sempre, vanno contestualizzati nelle coordinate spazio-temporali, variabili, in cui l’individuo vive.

Ecco perché, essere adolescenti, oggi, implica attraversare i compiti evolutivi dell’adolescenza declinandoli in un contesto, socio culturale, fortemente influenzato dai social.

A questo proposito, una ricerca interna di Facebook, del settembre 2021, ha evidenziato dei dati allarmanti, dati raccolti negli Stati Uniti e nel Regno Unito relativamente agli ultimi tre anni.

Tra i più rilevanti, emergerebbe che oltre il 40% dei soggetti presi in esame, che hanno dichiarato di sentirsi poco attraenti, avrebbe specificato come tale sensazione sarebbe stata amplificata dall’utilizzo di Instagram.

Ma, soprattutto, sarebbero soprattutto gli adolescenti ad incolpare Instagram per l’aumento del tasso di ansia e depressione.

Non solo, la ricerca di Facebook avrebbe altresì rilevato che gli adolescenti che hanno manifestato intenti suicidi (il 6% negli Stati Uniti e il 13% in UK), ricondurrebbero tale atteggiamento proprio all’uso di Instagram.

La notizia, resa nota dal Wall Street Journal – l’unica testata ad essere entrata in possesso delle slide relative a quanto espresso dal colosso di Menlo Park – fa molto discutere, in virtù del fatto che a prendere coscienza del pericolo è proprio la stessa società che possiede la piattaforma Instagram, la più usata dai giovani al pari di TikTok.

Secondo questa ricerca, Instagram rischierebbe dunque di essere uno strumento di continuo “confronto sociale”, una sorta di paragone costante con modelli che utilizzano, come solo metro di conversazione, il confronto della propria immagine.

Praticamente, agli utenti di questa piattaforma, attraverso il meccanismo del photo sharing, verrebbe veicolato il messaggio che, nella vita, per avere “successo”, bisogna incarnare un dato modello di prestazione fisica e di perfezione estetica.

In effetti, Instagram vede il continuo bombardamento di immagini perfette che appaiono nei feed e nella sezione “Esplora”, ma veramente, gli effetti di questo meccanismo sono così pesantemente negativi sui giovani?

Da anni, ormai lo sappiamo, si è sviluppato un acceso dibattito sugli effetti dei social che– se utilizzati in maniera scorretta e poco sana – possono generare problematiche da non sottovalutare, specie a fronte del fatto che sono i giovani a risentirne in prima persona, spesso in maniera evidente.

Del resto, è evidente, il vero fulcro di queste piattaforme web sono gli algoritmi, creati con l’obiettivo di alimentare interesse verso determinate tendenze, che possono incidere pesantemente su alcune persone più fragili di altre.

Ma come e perchè sul piano cognitivo e comportamentale Instagram è uno strumento dannoso per gli adolescenti?

Ne abbiamo parlato con la Dott.ssa Giulia Alleva Psicologa e Consulente sessuale, Specializzanda in psicoterapia cognitiva

Betapress- Dottoressa, partiamo dai dati, ovvero, una ricerca interna di Facebook, resa nota dal Wall Street Journal ha fatto emergere dati allarmanti su come l’utilizzo di Instagram possa risultare dannoso per gli adolescenti.

Cosa ci può dire in proposito?

Dott. Alleva- Instagram è una piattaforma nota per il photo sharing ed è molto popolare tra i giovani e non solo.

Basti pensare che, ad oggi conta oltre 500 milioni di utenti attivi, distribuiti in ogni parte del mondo.

Ma, attenzione, proprio per i più giovani, il photo sharing rappresenta uno strumento potenzialmente deleterio, in quanto causa un continuo confronto sociale che tende a generare ansia, stati depressivi e disagio tra i ragazzi.

Betapress- Perché, proprio gli adolescenti sono i più vulnerabili?

Dott. Alleva- Uno dei compiti evolutivi dell’adolescenza è la mentalizzazione del corpo. Cioè, proprio l’individuo in fase adolescenziale, prova ad affrontare e realizzare la costruzione di un’immagine corporea, ma anche la sua rappresentazione mentale.

Instagram rappresenta uno strumento dannoso per gli adolescenti perché peggiora i problemi di immagine corporea degli stessi.

Pensiamo che, proprio in una delle slide relative alla ricerca di Facebook, una ragazza su tre dichiara che Instagram peggiora l’idea di sé come corpo adeguato.

Vede, questo dato è molto significativo, perché, gli adolescenti presentano già problematiche legate all’aspetto fisico, all’ansia, alla depressione e ai disturbi alimentari a monte. Il continuo confrontare il proprio corpo reale, imperfetto, con l’altrui corpo virtuale, perfetto, aggrava il senso di inadeguatezza ed inferiorità. Viene da sé che, in un contesto di questo genere, Instagram appare tutt’altro che d’aiuto.

Betapress- Possiamo fare degli esempi?

Dott. Alleva- Certo! Proprio nell’inchiesta del Wall Street Journal è riportata la storia di un’adolescente, Anastasia Vlasova, che a soli 18 anni è in terapia per disturbi alimentari, attribuiti da lei stessa al tempo trascorso su Instagram.

La ragazza si era iscritta alla piattaforma a 13 anni, finendo per trascorrere addirittura tre ore al giorno sul social, incantata dalle vite e dai corpi apparentemente perfetti delle influencer di fitness.

“Quando sono andata su Instagram – ha raccontato la ragazza – tutto quello che ho visto erano immagini di corpi perfetti, addominali perfetti e donne che facevano 100 burpees in 10 minuti”.

Betapress- A quanto pare la storia di Anastasia è ormai piuttosto comune…

Ma ci sono stati degli interventi per arginare il problema?

Dott. Alleva- Sì, dal momento in cui gli stessi ricercatori di Instagram, nel 2019 hanno iniziato a studiare gli effetti indesiderati provocati dalla piattaforma, scoperchiando un vero e proprio vaso di pandora, gli stati hanno dovuto intervenire.

In particolare, ha fatto discutere qualche mese fa la decisione del Ministero per l’Infanzia e per la Famiglia in Norvegia, che ha reso obbligatoria all’interno di Instagram l’indicazione relativa a un’eventuale modifica digitale delle foto pubblicate.

Betapress- Secondo la sua esperienza, quest’intervento è adeguato a risolvere il problema.

Dott. Alleva- l’efficacia completa dell’intervento sarà misurabile nel tempo, certo è che questa indicazione rappresenta un intervento concreto.

Nei fatti, è stata presa una decisione d’obbligo, specie a fronte del dilagante fenomeno del dismorfismo corporeo, il pensiero continuo sui propri difetti fisici, percepiti come amplificati a causa di una visione distorta di sé e della propria fisicità.

Una situazione continuamente fomentata dalla ricerca di “like” e “vanity metric” che, come ampiamente espresso dalla ricerca, genera ansia in particolare negli adolescenti, accompagnata da depressione, frustrazione e bassa autostima, con tutte le conseguenze del caso.

Appare dunque più che opportuno informare su quanto Instagram possa risultare dannoso, specie per i soggetti potenzialmente più fragili, sensibili e insicuri.

L’intento non è certo quello di mettere in discussione una piattaforma in particolare, ma semplicemente di evidenziare quelle che possono essere le conseguenze che l’utilizzo e il format di molti social possono comportare sugli adolescenti e il relativo impatto, sia a livello psicologico che fisico.

Betapress- Ma Instagram stesso sta fronteggiando il problema?

Dott. Alleva- A fronte di quanto emerso, il vicepresidente per gli Affari globali di Facebook, Nick Clegg, ha spiegato in cosa consisteranno le misure per fronteggiare le problematiche relative a Instagram, sebbene per il momento sia ancora tutto in fase di progettazione e non sia stata resa nota alcuna data certa per il lancio di nuove funzionalità.

Entrando nel dettaglio, aggiungiamo noi, si parla di una nuova tecnologia in grado di permettere agli adolescenti di tenersi alla larga da contenuti potenzialmente dannosi per la loro salute mentale: “Quando i nostri sistemi vedranno che un teenager sta visualizzando un certo tipo di contenuto ripetutamente, ed è un contenuto che potrebbe nuocergli, lo spingeremo a guardare un contenuto diverso”.

Il manager avrebbe poi dichiarato momentaneamente sospeso il progetto “Instagram Kids”, piattaforma dedicata ai giovanissimi, per fare spazio alla nuova funzionalità “Take a break”, il cui obiettivo è quello di indurre ragazzi e ragazze a prendersi una pausa dal social dedicati al photo sharing.

Inoltre, ci limitiamo ad aggiungere che, come riportato da un articolo pubblicato su The Verge, si tratterebbe di una nuova feature la cui idea era stata presentata dal capo di Instagram lo scorso settembre, il quale ha ricordato anche l’impegno a sviluppare strumenti che consentano ai genitori di supervisionare gli account dei propri figli.

Certo è che un utilizzo più consapevole, informato e adeguato al proprio ideale di condivisione può sicuramente rappresentare un modello, anche e soprattutto per i più giovani.

Occorre quindi una maggiore attenzione, informazione e consapevolezza nell’utilizzo delle piattaforme social, rendendole non solo uno strumento ludico, ma anche e soprattutto di crescita e arricchimento personale.

 




SCUOLE SUPERIORI QUADRIENNALI, QUALI VANTAGGI?

Ad oggi ci sono 1000 classi che funzionano secondo un percorso quadriennale (Fonte: Anagrafe Nazionale Studenti agg. al 1/12/2021) e a queste il Decreto 344 del 3/12/2021 ne aggiunge altre 1000.

La sperimentazione permetterà agli studenti di conseguire il diploma a 18 anni, un anno prima rispetto a quanto previsto oggi con il vantaggio (?) di arrivare un anno prima all’Università o al mondo del lavoro, così come già accade in molti Paesi europei.

Intanto il CSPI ha espresso parere negativo perché il Decreto esplicita una prefigurazione della futura Riforma non suffragata dalla valutazione degli esiti della sperimentazione in atto.

Si sottolinea la necessità di una organica proposta metodologico-didattica, supportata da validi criteri di selezione del campione rappresentativo e di strumenti di verifica e valutazione condivisi.

Infatti per l’attualità gli studenti iscritti ai corsi quadriennali costituiscono un gruppo selezionato per capacità o background sociale e l’assenza di riscontri relativi alle esperienze effettuate e ancora in atto, non consente di utilizzare tali dati per analizzare la scelta di ampliare la sperimentazione.

Del resto per i più capaci la possibilità di completare il percorso in quattro anni è già prevista con “abbreviazione per merito”.

Tuttavia sembra questa la via tracciata dal Ministero, decisione che suscita qualche dubbio di metodo e di merito.

Innanzitutto non vi è alcun automatismo tra disponibilità di tempo e possibilità di occupazione, perché non sembra che ci siano reali vantaggi nel fare un anno di meno a scuola, visto che viviamo in media fino a 80-90 anni e che il mondo del lavoro è così variegato che non si può dire con certezza che un anno in meno a scuola comporterà un sicuro vantaggio competitivo.

Inoltre in un percorso ridotto è possibile che gli studenti soffrano di carenze organizzative, soprattutto se «la scuola non ha già avviato un rinnovamento del metodo didattico» e così un percorso di quattro anni invece di cinque rischia di essere troppo pesante per gli studenti, senza permettere loro una corretta assimilazione dei concetti.

Probabilmente sarebbe oggi più opportuno concentrarsi sulla perdita di apprendimenti causata della pandemia.

Il nodo è sempre quello, riemerso potentemente nel tempo della didattica a distanza: vogliamo più scuola perché crediamo nel ruolo della scuola nella crescita culturale, sociale e dunque anche economica del paese, o pensiamo di ridurre il tempo scuola solo per andare incontro ad un più rapido inserimento nel mondo del lavoro?

Certamente più tempo i ragazzi trascorrono in una scuola ricca di stimoli e proposte, più tempo avranno per studiare, ricercare, confrontarsi con la cultura, più libertà di scelta avranno nel costruire in autonomia e libertà il proprio futuro.

L’informazione è inutile se non si trasforma in conoscenza e la conoscenza per trasformarsi in competenza ha bisogno di tempo.

Avere più tempo a disposizione a scuola, mantenere le scuole aperte mattina e pomeriggio (e magari abolire la settimana corta) potrebbe realizzare più intrecci e scambi tra apprendimenti formali e informali.

Non si tratta solo di allungare il tempo scuola, ma di ripensare con flessibilità e intelligenza l’intera offerta formativa di una scuola aperta al territorio. Si potrebbero introdurre, infatti, accanto allo studio e alla ricerca intorno a saperi di base imprescindibili, proposte varie, anche opzionali, che valorizzino la conoscenza di sé e del mondo attraverso attività espressive come la musica, le arti plastiche, il teatro e la produzione di video, alimentando l’aspetto culturale e di ricerca di linguaggi largamente praticati dai più giovani.

Più si differenziano le proposte e meno studenti si perdono. Più si è capaci di coinvolgerli a partire dalle loro domande e inquietudini e più porte si aprono al futuro, arricchendo l’immaginario dei più giovani.

Solo in un contesto di ascolto capace di moltiplicare gli stimoli è infatti possibile sviluppare il rigore e l’impegno necessario a ogni vero apprendimento e contrastare sul nascere la dispersione scolastica.

Purtroppo la via sembra intrapresa e con un certo e unico vantaggio: il “Sole 24 Ore” ha calcolato che, se il percorso di quattro anni fosse adottato da tutte le scuole superiori, nelle casse dello Stato rientrerebbero circa 1,38 miliardi di euro con riduzione di personale docente e ata.

Allora, oltre al risparmio, quali i vantaggi del “biglietto ridotto” per accedere al diploma?

Pio Mirra DS IISS Pavoncelli, Cerignola (FG)




Competenze non Cognitive: dov’è la novità?

Competenze non cognitive a scuola.

Ma è una novità?

La Camera dei Deputati ha approvato la proposta di legge n.2372 per l’introduzione sperimentale delle competenze non cognitive nel metodo didattico, che ora passa al Senato.

È prevista l’introduzione sperimentale e volontaria, nell’ambito di uno o più insegnamenti delle scuole secondarie di primo e di secondo grado, delle competenze non cognitive, quali l’amicalità, la coscienziosità, la stabilità emotiva e l’apertura mentale, nel metodo didattico.

Obiettivo specifico è incrementare le cosiddette ‘life skills’, ovvero le abilità che portano a comportamenti positivi e di adattamento, che rendono l’individuo capace di far fronte efficacemente alle richieste e alle sfide della vita di tutti i giorni.

Tra questi, la capacità di gestire le emozioni, la comunicazione efficace, il pensiero creativo e quello critico, la capacità di prendere decisioni e quella di risolvere problemi (il problem solving).

Ma dov’è la novità? Si tratta di aspetti dell’ordinaria pratica di insegnamento che un bravo docente disciplinarista promuove a pieno titolo per far acquisire ai suoi allievi un buon metodo di studio.

Un bravo docente ha infatti un “occhio di riguardo” nei confronti dei processi di apprendimento dei propri allievi, spostando l’attenzione dal “che cosa” al “come”, puntando a far riflettere gli allievi su aspetti che riguardano la propria personale capacità di apprendere, di stare attenti, di concentrarsi, di ricordare, di risolvere i problemi, di argomentare, di lavorare in gruppo, di relazionarsi.

Sono pertanto i docenti disciplinaristi, che devono conoscere ed insegnare la loro disciplina scorporandone ed evidenziandone i processi mentali implicati.

Successivamente a turno saranno gli allievi-apprendisti ad essere messi alla prova con la medesima prassi, naturalmente su compiti diversificati ma simili, finché l’abitudine ad esternare processi cognitivi e non cognitivi sarà consolidata e finchè la competenza, che sappiamo si acquisisce “facendo”, quando ancora non si sa fare, un po’ alla volta si rafforzerà anche di fronte all’imprevisto.

Allora per aumentare la qualità dell’offerta formativa non sono necessarie nuove sperimentazioni, ma occorre puntare sulla qualità dei formatori per far acquisire ai nostri ragazzi basi solide del sapere.

Ulteriore riflessione.

La premessa alla nuova proposta di Legge fa riferimento ai test INVALSI 2019, che hanno rilevato una situazione allarmante per quanto concerne il livello di preparazione degli studenti e il «Rapporto sulla conoscenza» del 2018 dell’ISTAT da cui emerge che al termine del primo ciclo di istruzione il 34,4% dei giovani non aveva raggiunto un livello sufficiente di competenze alfabetiche, un dato che saliva al 40,1% se si consideravano le competenze numeriche.

Allora basta con l’eccessiva enfasi sulle “competenze”.

Si possono avere competenze senza conoscenze? È importante riprendere la strada maestra con un primo ciclo d’istruzione che punti sulla struttura del sapere (leggere, scrivere e far di conto!!!) e un secondo ciclo sulle competenze trasversali e specialistiche a seconda del corso di studi frequentato.

La scuola è una cosa seria!

Pio Mirra, DS IISS Pavoncelli di Cerignola (FG)




IN PRESENZA! A DISTANZA! C’È UNA TERZA VIA?

Come al solito sulla scuola si è sempre divisivi e per il rientro dopo le festività natalizie ci si divide tra coloro che, a ragione, propongono la scuola in presenza e chi suggerisce la “didattica a distanza”.

Certo è opportuno coniugare il diritto all’istruzione con il principio di assicurare la sicurezza sanitaria e il contrasto alla diffusione del virus in questo difficile contesto di emergenza. Ma c’è un’altra via?

Considerata la crescita esponenziale dei contagi, favorita dai convivi natalizi e dal più favorevole rigore invernale, probabilmente sarebbe stato utile rinviare il rientro a scuola, allungando il periodo di sospensione delle lezioni con successivo adattamento del calendario scolastico.

Salvaguardando la validità dell’anno scolastico, che per l’art.74, comma 3 del Testo Unico n.297/94 prevede lo svolgimento di almeno 200 giorni di lezione, il rientro a scuola poteva slittare di 12 giorni e fissarsi al 24 gennaio 2022 con recupero delle giornate non prestate per 4 giorni durante le vacanze pasquali e per i restanti 8 giorni nel mese di giugno, posticipando la fine delle lezioni dal 9 al 18 giugno, in tempo utile per gli esami di Stato fissati al 22 giugno.

Invece si è scelta la strada più semplice nella forma, ma nella sostanza? Le scuole al rientro si sono trovate a gestire assenze di docenti, sostituzione di docenti sospesi e classi semivuote per contagi, contatti o semplici fobie.

Nella sostanza il rientro si è tradotto in un giorno di scuola perso.

Allora? Allora speriamo che la situazione si stabilizzi nei prossimi giorni o forse sarebbe stato meglio seguire la terza via.

Pio Mirra, DS IISS Pavoncelli di Cerignola (FG)




La mia scuola è più bella della tua!

LICEI C/ TECNICI&PROFESSIONALI
ISCRIZIONI A.S. 2022/23

Come ogni anno le scuole iniziano le azioni di marketing, mascherate da orientamento, per promuovere i più belli e i più bravi: licei contro tecnici e professionali.

Ma l’Italia è il Paese dei temi “divisivi” e anche sulla scuola ci si divide come fazioni di opposte tifoserie.

Da un lato c’è chi sostiene la unicità della cultura liceale, dall’altro chi rivendica l’unicità degli orientamenti tecnici e professionali.

Ciò rimanda ad un immaginario appunto divisivo tra i licei di serie A e i tecnici e professionali di serie B e in questo immaginario svolge un ruolo importante la “percezione”.

Infatti la parola magica “liceo” rimanda ad un’istruzione “percepita” di livello superiore, non dimenticando che solo gli storici liceo classico e scientifico offrono un’istruzione generale completa, relegando di fatto gli altri licei a scuole di seconda serie.

Se anche i tecnici e professionali si chiamassero licei cambierebbe la “percezione” senza creare quella odiosa separatezza tra saperi, con buona pace di quei genitori che potrebbero dire: “anche mio figlio frequenta il liceo”.

La denominazione comune “Liceo”, peraltro, esiste da sempre in Francia, dove i percorsi tecnici e professionali non sono affatto percepiti come minori, ma come una scelta alternativa e degna, alla pari degli altri indirizzi. E Il nostro istituto agrario sarebbe chiamato lycée agricole.

Al di là delle future scelte ministeriali per il rilancio dell’istruzione tecnica e professionale, se vogliamo aumentare le competenze degli studenti, ridurre gli abbandoni, incrementare il numero dei diplomati, ridurre il gap con il mondo delle imprese, occorre investire nell’istruzione tecnico-professionale puntando sulla “contaminazione dei saperi”, teorici e pratici in un continuum tra la IdeAzione del prodotto e la RealizzAzione dello stesso.

Competenze intellettuali e pratiche devono mescolarsi continuamente per raggiungere il “saper fare”, possibile solo in una scuola legata al mondo delle Imprese, con uno sbocco lavorativo reale ma in un quadro di innovazione e non classista.

Pio Mirra, DS IISS Pavoncelli di Cerignola (FG)




LA SETTIMANA CORTA? DIDATTICA RIDOTTA!

Tra le novità per le iscrizioni 2022/23 il pezzo forte per “richiamare” nuovi studenti è la settimana corta.

Il sabato libero viene reclamizzato all’interno dell’offerta formativa.

Formativa?

Dovendo distribuire in cinque giorni 30/32 ore di lezione, gli studenti sono costretti a fare 6/7 ore di lezione al giorno.

Non serve essere un esperto di scienze dell’educazione per comprendere che non si possono reggere con profitto 6/7 ore di lezione.

Le ultime ore certamente sono poco produttive perché i ragazzi sono ormai stanchi ed affamati.

Si impone così un ritmo troppo stressante che ricade negativamente sull’efficacia del processo di apprendimento e sulla possibilità stessa di riuscire a completare a casa i compiti assegnati.

E tutto questo è ancora più deleterio per i ragazzi più fragili, con bisogni educativi speciali che semplicemente hanno bisogno di più tempo per apprendere.

La scuola, l’educazione ha bisogno di tempo per far consolidare la conoscenza che si trasforma in competenza, ha bisogno di “lentezza”.

Negli apprendimenti la lentezza è “fisiologica”, infatti il nostro cervello sembra sia dotato di due sistemi, uno rapido e istintivo e uno lento di supporto ai ragionamenti logici.

La combinazione del funzionamento di questi due sistemi, con una rapidità nelle reazioni (es. focalizzazione dell’attenzione su uno stimolo) alternata a una lentezza in alcuni processi cognitivi (es. elaborazione cognitiva approfondita dello stimolo), sia adattiva per la nostra specie, e che per questo sia ben radicata nel nostro funzionamento cerebrale.

I tempi di concentrazione di ognuno sono variabili, ma sembra che si possano tenere livelli ottimali di concentrazione per circa 25 minuti, prima che questa inizi gradualmente a diminuire, se non si fanno delle piccole pause.

È dimostrato che rallentare i ritmi diminuisce la tensione emotiva e, di conseguenza, migliora la “performance”, che sia di studio o di lavoro.

Allora la settimana corta non ha nessuna valenza “formativa”, ma è una scelta certamente dettata da motivazioni che nulla hanno di didattico, del tipo: un giorno di riposo in più; più tempo libero da passare con famiglia e amici; i docenti fuori sede possono tornare a casa per il weekend; risparmio sulle utenze scolastiche (luce, gas, acqua ecc.); minor traffico per le strade; vantaggi per locali, negozi, centri commerciali ed esercizi pubblici.

Da un lato si invoca la scuola aperta al territorio con attività pomeridiane per combattere le emergenze educative, dall’altro si chiude per un giorno intero.
Ma la scuola è coerenza!?

 

Pio Mirra, DS IISS Pavoncelli di Cerignola (FG)




Sciopero inutile, parola di Prof.!!!

“Adesso basta, la scuola si ribella”.

Questo il titolo che accompagna la campagna informativa per il nuovo sciopero proclamato dai sindacati.

Flc Cgil, Uil Scuola, Gilda e Snals – partecipa anche Anief ma in forma separata – hanno annunciato per venerdì 10 dicembre una nuova giornata di agitazione sindacale per protesta contro il presunto immobilismo del governo in materia di istruzione.

Un déjà vu, uno slogan datato, smentito dai fatti.

Non bastava lo sciopero nazionale proclamato per il 16 dicembre, secondo i sindacati, la scuola anticiperà la contestazione.

Ed i sindacati prevedono pure un’adesione massiccia del personale scolastico…

Per me, che vivo e lavoro nella scuola da quasi mezzo secolo, lo sciopero di dopo domani sarà un altro flop, perché pochissimi docenti vi parteciperanno, e quei pochi che andranno in piazza, anziché a scuola, provocheranno le famiglie e non le istituzioni…

Le famiglie, che oltre a tutte le difficoltà legate all’emergenza sanitaria e ai continui stop a singhiozzo, quarantene e Dad affannate e difficoltose, dovranno pure gestire uno sciopero di quei “fannulloni dei prof., che non gli bastava, l’8 dicembre, e due settimane di vacanze a Natale, pure lo sciopero dovevano fare!”

NO, tranquilli, i vostri figli andranno a scuola, vedrete, i prof. non faranno sciopero.

Ma quando mai, i prof. fanno sciopero?!?

Ma procediamo con ordine.

Le ragioni dello stop della scuola secondo i sindacati

Nel mirino dei lavoratori della scuola c’è la Manovra 2022: una Legge di Bilancio che porta in dote 33 miliardi, ma che destina “solo” lo 0,6% al fondo che dovrebbe premiare la professionalità dei docenti.

Una percentuale che i sindacati trovano “inadeguata” rispetto all’”effettiva necessità di rendere merito al lavoro della classe insegnante” attaccano.

Poi c’è la questione degli aumenti: 87 euro in più in busta paga, cifra che le sigle sindacali bollano come “decisamente troppi pochi”.

Altro tema caldo l’organico Covid, su cui il Governo avrebbe “fatto ben poco”: 300 milioni sono stati trovati per gli insegnanti, ma zero risorse, invece, per il personale Ata, spiegano Flc Cgil, Uil Scuola, Gilda e Snals.

Cosa chiedono i sindacati con lo sciopero

“Serve dare stabilità al lavoro di migliaia di precari valorizzando di più il lavoro che si fa in classe.

Aumento dei posti dei collaboratori scolastici, presìdi sanitari e sistemi di sanificazione nelle scuole.

E poi basta con le reggenze, un dirigente e un Dsga per ogni scuola” lamentano i sindacati.

Secondo le confederazioni le misure che servono immediatamente sono:

  • concorso Dsga Facenti Funzioni anche se privi del titolo di studio
  • riduzione del numero di alunni per classe
  • abolizione dei vincoli sui trasferimenti del personale
  • fine delle incursioni legislative in materia di contratto
  • snellimento delle procedure e meno burocrazia
  • rispetto degli impegni sottoscritti con le organizzazioni sindacali nel Patto per la Scuola
  • risorse per un aumento salariale a 3 cifre nel rinnovo del contratto
  • proroga dei contratti Covid anche per il personale ATA
  • risorse per la valorizzazione professionale e non per un premio alla “dedizione”
  • percorsi riservati per la stabilizzazione dei precari con 3 anni di servizio
  • sblocco della norma di legge del vincolo sulla mobilità per i neo immessi in ruolo dal 2020/21
  • intervento strutturale sulle classi numerose non a costo zero.

Tante belle parole, demagogia allo stato puro.

Ecco perché, come vi dicevo, cari genitori, state tranquilli, i vostri figli andranno a scuola, vedrete, i prof. non faranno sciopero.

Ve lo dice una prof che è pronta a scommettere su una verità sperimentata in più di trent’anni di esperienza.

Gli insegnanti non scioperano.

 

Gli insegnanti non scioperano da anni, ormai.

E non perché sono “pecoroni” come spesso la società li indica ma, perché scioperare è un sacrificio economico inutile che ingrassa solo i sindacati.

Se solo pensiamo che una giornata di sciopero costa 100 euro sul misero stipendio dei docenti, si capisce come e perché non sia possibile lo sciopero ad oltranza…

E allora, cosa fare per protestare contro un governo che vuole i docenti poveri tra i più poveri ed un ministro che non sa neanche di cosa sta parlando?

Insegno da 35 anni, ho sempre speso tutte le mie energie per un lavoro che amavo (oggi lo amo un po’ meno grazie a chi la scuola l’ha distrutta), ho sempre fatto parte delle varie commissioni (orientamento, inclusione, salute, bullismo…).

Mi sono sempre dedicata anima e corpo ai miei alunni (insegnando francese, ho minimo 9 classi su due scuole)

Non ho mai “rubato” il mio stipendio, non ho mai lesinato ore alle mie classi.

Nonostante diversi km di distanza, sono tornata a casa a pomeriggio inoltrato per anni, e vi assicuro che, seppure retribuite, molte attività extracurricolari, visto il lavoro svolto, sono spesso state ore di missione e volontariato.

A scuola non esiste il pagamento degli “straordinari” come per tutti gli altri impieghi della PA, non esiste il conto delle ore effettive in più (pagate a cottimo a 17,50 euro lordi), non esiste l’avanzamento di carriera…esistono gli IMPEGNI, quelli sì…

Allora, per provocare disagi (e non ai DS che sono consapevoli di quanto ho scritto e mai contro il corpo Docenti) cosa fare?

 

– Le tessere sindacali?

 

Mi viene da ridere, più volte ho espresso il mio pensiero sui sindacati ormai burocrati e difensori di se stessi…

 

– Piegarsi al principio del minimo sforzo?

 

Faremmo contenti tutti…

Ministro, genitori e studenti…tutti promossi, anche gli asini!

(Ma questo un vero insegnante non riesce più a farlo!)

 

Cosa ci resta per protestare?

 

Dopo lunghe riflessioni con me stessa, ritengo ci sia un unico modo per protestare e cercare di ottenere qualche risultato che ci dia un minimo di dignità, cioè,

 

RIFIUTARE QUALSIASI INCARICO AGGIUNTIVO…

 

Semplicemente fare solo lezione e tutto quanto previsto dal nostro contratto e dalla nostra etica professionale e

 

STRAPPARE TUTTI LE TESSERE DEI SINDACATI.  

 

Pensate ad una scuola senza collaboratori, senza FS, senza referenti di alcun tipo, consigli di classe senza coordinatori e segretari, senza tutor…

Allora sì, il caro Ministro si renderebbe conto di quanto e quale sia il lavoro degli insegnanti, allora si, i sindacati ritornerebbero -forse- a svolgere il loro ruolo, allora si, potremmo riacquistare dignità e riconoscimenti anche economici …

Pensiamoci!