ISRAELE e GERUSALEMME: gradiente di separazione

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Trump riconosce Gerusalemme capitale d’Israele: «scelta necessaria per la pace», ma è subito violenza

Mercoledì 6 dicembre il presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump ha rilasciato pubblicamente delle dichiarazioni molto forti su un argomento molto delicato, ovvero lo storico conflitto fra Israele e Palestina.

Dal lontano 1967, quando le forze armate israeliane si appropriarono dell’intera parte orientale di Gerusalemme scacciando i palestinesi che l’abitavano e costringendoli a rifugiarsi nei campi profughi, la questione mediorientale rappresenta una delle principali fonti di preoccupazione per la comunità internazionale, avendo ormai assunto le fattezze di una bomba a orologeria pronta a esplodere per l’ennesima volta.

A seguito dell’annessione israeliana di Gerusalemme, l’Onu e la politica internazionale hanno scelto di non riconoscere la città santa come «unificata capitale» dello Stato ebraico, prediligendo piuttosto il mantenimento di un atteggiamento neutro e prudente; anzi, la carta del riconoscimento della capitale è sempre stata utilizzata, soprattutto dagli Stati Uniti, per ottenere da parte di Israele concessioni a favore dei palestinesi.

In seguito, con lo scoppio della Prima Intifada nel 1987, la situazione si è inasprita a tal punto da spingere la politica internazionale a scegliere, in occasione dei negoziati di pace di Oslo nel 1992-93, di affrontare la questione Gerusalemme in un momento successivo e specificamente dedicato.

Tuttavia, gli innumerevoli sforzi compiuti dalla politica internazionale in direzione di una mediazione ponderata tra le due parti, sono stati completamente vanificati nella giornata di mercoledì 6 dicembre, quando, con la nonchalance di un cameriere che comunica il piatto del giorno ai suoi clienti, Donald Trump ha dichiarato pubblicamente che gli Stati Uniti d’America riconoscono Gerusalemme «capitale di Israele» e che sono già state approntate le misure per trasferire l’Ambasciata americana da Tel Aviv alla città santa.

Ovviamente Benjamin Netanyahu, primo ministro d’Israele, ha accolto la notizia con l’entusiasmo di un attaccante che segna al novantesimo: «è una svolta storica. Spero che altri governi seguano presto l’esempio americano. Ogni trattato di pace deve includere Gerusalemme come la nostra capitale».

D’altronde Donald Trump non ha fatto altro che prestar fede alle promesse elettorali, presentando quest’ennesima gaffe come una decisione atta a realizzare una rottura rispetto alle amministrazioni del passato: «antiche sfide domandano nuove soluzioni», dice il tycoon, sostenendo che «il riconoscimento di Gerusalemme aprirà a nuove prospettive di pace».

In realtà, gli effetti funesti di questa dichiarazione non hanno tardato a manifestarsi e, di certo, non preannunciano l’avvento di «nuove prospettive di pace».

L’annuncio del presidente americano, infatti, ha acceso la rabbia e l’indignazione in molti paesi del mondo, suscitando un’ondata di critiche da parte della comunità internazionale a cui sono ovviamente cadute le braccia.

Forte la reazione di Ismail Haniya, leader degli estremisti palestinesi di Hamas, che ha definito le parole di Trump una «dichiarazione di guerra contro i palestinesi» e ha richiesto una nuova intifada per sconfiggere il nemico sionista.

A Gaza alcuni palestinesi hanno dato in pasto alle fiamme le bandiere di Israele e degli USA e, solo due giorni dopo le dichiarazioni di Trump, la violenza si è riaccesa in prossimità dell’omonima Striscia, laddove a Ramallah, in Cisgiordania, e in altri luoghi, si sono verificati una serie di scontri armati tra manifestanti palestinesi e soldati israeliani.

Ai margini della città palestinese di Ramallah, le forze israeliane hanno sparato dozzine di proiettili di gas lacrimogeni e granate stordenti a centinaia di manifestanti palestinesi riuniti per dar sfogo alla propria rabbia per le dichiarazioni di Trump.

Scontri sono scoppiati anche a Gerusalemme Est e al confine tra Israele e Gaza: a Betlemme l’atmosfera natalizia ricreata dalle luci colorate è stata bruscamente soppiantata dalla paura e dalla tensione a seguito del lancio di pietre e lacrimogeni.

Ad uno dei principali punti di controllo tra Gerusalemme e Ramallah, i soldati sparavano proiettili di spugna contro i bambini che lanciavano pietre da dietro bidoni della spazzatura.

Nel frattempo, l’esercito israeliano si sta preparando per un aumento della violenza nei prossimi giorni e ha rinforzato le sue truppe in Cisgiordania, aggiungendo unità all’intelligence e alle truppe che si occupano della difesa territoriale.

Anche le istituzioni statunitensi in queste ore si stanno preparando a fronteggiare ripercussioni violente: il Dipartimento di Stato ha limitato i viaggi per gli impiegati del governo degli Stati Uniti a Gerusalemme e in Cisgiordania, sconsigliando ai suoi cittadini la frequentazione di zone solitamente affollate.

Insomma, a pochissime ore dalle dichiarazioni del presidente Trump, già dilagano violenza, tensione e paura e la situazione sembra essere destinata a peggiorare.

Per la giornata di venerdì 8 dicembre è prevista una “giornata della rabbia” fortemente voluta da Haniya, leader di Hassad, da cui, come lui stesso afferma, avrà inizio «un ampio movimento di liberazione» per Gerusalemme.

Il livello di tensione è altissimo, si teme fortemente che la situazione possa degenerare in un altro sanguinoso conflitto; ormai, però, alea iacta est e non si può tornare indietro, non si possono cancellare le parole di un leader politico che sembra proprio non riuscire a comprendere quanto enorme sia la responsabilità legata al suo ruolo e quanto sia fondamentale porre fine agli innumerevoli tentativi di portare scompiglio in un mondo già così problematico.

 

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