Avulso

Avulso

di Cassandra è figlio erede di commedie, arti 
oracolo certamente
scomodo e disprezzato
  Nemico della gente..
Invidiato e all’indice tenuto.
Sacerdote  laico a suo modo di retorica poetica  e di ambiente.
Non voglio cerimonie
Non voglio facce lavate e lavate  di faccia
  Date retta, L’incenso risparmiate.
Tanto lo so che morto  mi volevate..
Tanto lo
so’ che appena giravo l’angolo si facevano grasse risate
E dicevano:”
Perché devi essere meglio di me?
Perché devi avere più di me?
Non ho io …e non devi avere nemmeno te!.
Ti preferivo quando eri  uno dei tanti
innocuo  tra gli inconcludenti
quando ti potevamo controllare quando non ti montavi la testa e  volevi scrivere cose amare…
Quando non scrivevi cose che suscitano interesse e ammirazione
Togliendo protagonismo a tutta la popolazione..:
“Mio figlio si è laureato con 110  e lode
Adesso è magistrato
Anch’io ho  ho preso il master e sono ricercato ..”.
“E tu che cosa hai fatto ? Che cosa hai partorito?
Hai solo pubblicato parole alla rinfusa
Inconcludente dissennato!”
  miserabili maestri  di voi stessi
Accademia  unica dell’illazione,
dell’ingiuria, del sarcasmo vigliacchetto del non sono stato io…
Del fuori luogo,
infelice infelicitante
occhiante…
Bisbiglio tagliente meditato …
Del non detto ,dell’approssimato …
Del trattenuto tra i denti…
serrati e impenitenti.
sì… come la propria esistenza
ombra maligna  decisa
di chi è solo un povero ignorante.
…ma chi ti credi di essere non sai niente…
Baci di giuda e abbracci di rito a coronamento
Sorriso di circostanza simulato miserabile e forzato ma dovuto per apparire .. congiurante
Ora sono morto
In quelle pagine c’è tutto il mio torto
Quello fatto a voi… Naturalmente…
essenza del mio creato
Ma Sento e vedo tutto
Non a caso
Vedo Chi vivo non mi  poteva vedere e morto non si pareva a saziare.
Ma a tutti dico …
Io… A differenza vostra ,
ho amato.
E mo’…. come state?!
E mo’… Che non ci son più… Che fate?!.
E quando la barba allo specchio ogni mattina vi farete
Vedrete l’immagine di un Dorian Gray a cui  appartenete
Vergognandovi un pochino
Di quel che siete …




CELLINI, PAOLO BATTAGLIA LA TERRA BORGESE RACCONTA LO SCULTORE

«…durante tutta la sua vita di lavoro indefesso lo scultore, orafo e scrittore, mantenne non solo una sorella vedova con sei figli ma anche un’altra famiglia in miseria che non aveva nessuna parentela con lui e molti giovani artisti e modelli…»

 

Riuscì sempre a cavarsela – racconta Paolo Battaglia La Terra Borgese -. Era lo spadaccino più permaloso di tutta l’Italia del Cinquecento e i suoi nemici pagarono con la vita. Si prese le donne che gli piacquero.

Fu maestro d’avventure. La battaglia gli metteva allegria. Il carcere più profondo non bastava a tenerlo.

 

Ma quest’avventuriero spaccone fu soprattutto il più grande orefice del mondo. Tale era l’opinione che aveva di se stesso Benvenuto Cellini, e i collezionisti la condividono ormai da oltre 400 anni.

La storia in genere conferma le pittoresche avventure narrate nella sua Vita.

 

Benvenuto Cellini – prosegue Battaglia La Terra Borgese – nacque a Firenze nel 1500. Dal padre, fabbricante di strumenti musicali, ereditò l’abilità manuale.

Fin dall’infanzia si fermava davanti alle botteghe degli orefici, attratto dal ticchettio dei martelletti, dal soffiare dei mantici, dall’incandescenza delle braci.

S’infilava dentro per vedere lo splendore che i tagliatori di gemme traevano dalle pietre preziose ancora grezze e per osservare gli artigiani che lavoravano l’oro nella sua infinita e lucente duttilità.

 

Ben presto si fece assumere come apprendista in una delle botteghe – continua Battaglia La Terra Borgese -.

Questo scatenò un finimondo perché Cellini padre aveva deciso in cuor suo che Benvenuto dovesse diventare un musicista. È vero che quelle agili piccole dita sul flauto sapevano far sgorgare lacrime di gioia dai teneri occhi paterni.

Ma Benvenuto non era il tipo da esercitarsi con le scale tutto il giorno.

Per sfuggire alle odiate note scappava di casa e stava via parecchi mesi di seguito, guadagnandosi la vita come apprendista orefice nelle città vicine.

A 19 anni, avendo litigato più del solito col padre, s’incamminò a piedi per Roma, dove si diceva che il papa era prodigo di oro con gli artisti come le fontane della città erano prodighe d’acqua.

 

Il suo primo lavoro a Roma – riferisce Battaglia La Terra Borgese – consisté nell’adornare uno scrigno d’argento per un cardinale.

Lo fece in bassorilievo, decorandolo molto più di quanto non gli fosse stato ordinato, con fogliami intrecciati, frutta, putti e maschere grottesche. Il maestro della bottega era così fiero di questo scrigno che lo mostrò a tutta la città.

E ancor più fiero fu Benvenuto di mandare il compenso che gli spettava al padre, che continuò a mantenere generosamente finché visse. Poiché la mano di Cellini era pronta a dare come a colpire; durante tutta la sua vita di lavoro indefesso mantenne non solo una sorella vedova con sei figli ma anche un’altra famiglia in miseria che non aveva nessuna parentela con lui e molti giovani artisti e modelli.

 

A Roma guadagnò largamente e in breve ebbe una bottega sua. Da questa uscirono anelli, cammei e spille di squisita fattura, coltelli e pugnali dal manico intarsiato, cinture d’argento per le spose e una brocca d’oro per un vescovo.

Cellini fece anche fucili, per suo proprio uso, perché era schiavo della  violenta e persistente passione di andare a caccia di folaghe nelle paludi intorno alla Città Eterna.

 

Fu un colpo da maestro – precisa Paolo Battaglia La Terra Borgese – che dette inizio al susseguirsi delle eccitanti avventure di Benvenuto Cellini. Nel 1527 Roma era assediata dalle forze dell’imperatore Carlo V, al comando del connestabile di Borbone.

Cellini, che era volontario nel corpo di guardia sulle mura, scrutando attraverso la nebbia vide un gruppo di nemici che si avvicinava. Puntando l’archibugio uccise il capo del gruppo con un solo colpo.

Cellini racconta che questi, come si vide poi, era il connestabile in persona. Pura vanteria? La storia ci dice che proprio in quel giorno il connestabile fu ucciso da una sentinella sconosciuta.

 

Dopo di ciò Benvenuto Cellini ebbe il comando delle artiglierie sul mastio di Castel Sant’Angelo. Lo stesso papa Clemente VII, venne fuori a osservare la mira del Cellini che martellava le trincee del nemico.

Per un mese, con gioia a metà puerile e a metà diabolica, Benvenuto dimenticò la sua arte delicata – dichiara Battaglia La Terra Borgese –.

 

Il Critico prosegue: Finita la guerra, Cellini fu nominato maestro della Zecca Vaticana. Oltre a ciò foggiò una quantità di splendidi ornamenti per i dignitari della Chiesa. Un bottone per il piviale pontificio richiese anni di lavoro.

Grande come un piattino, raffigurava Dio Padre circondato da 15 angeli in oro sbalzato, e c’erano incastonati smeraldi, zaffiri, rubini e un magnifico brillante. Quest’oggetto fece parte del

tesoro vaticano per 250 anni, ma fu poi unito alla «indennità» pretesa da Napoleone Bonaparte nel 1797 e mani vandaliche ne estrassero i gioielli e ne fusero l’oro.

 

Non bisogna però credere che la vita di Benvenuto fosse tutta spesa a lavorare per la Chiesa – avverte Battaglia La Terra Borgese -.

Una volta gettò via il cesello per seguire un bel visetto siciliano fino a Napoli. Le modelle dell’artista Cellini, sembravano essere irresistibili per l’uomo Benvenuto.

 

Nell’odio era ardente come nell’amore. Quando il fratello fu ucciso in una rissa, Benvenuto non pensò neppure a chiamare i custodi dell’ordine: a che sarebbe servito, visto che l’uccisore era un caporale delle guardie della città?

«Presi a vagheggiare quello archivitabusiere» dice Benvenuto «come se fosse stato una mia innamorata.» Infine in un vicolo buio col pugnale si fece giustizia.

 

Alla morte del vecchio papa – racconta il critico d’arte Battaglia La Terra Borgese -, prima che fosse eletto il nuovo, a Roma non c’era altra legge fuorché l’anarchia.

Un orefice del Vaticano, suo rivale, di nome Pompeo, si mise in cerca del Cellini con dieci armati.

Benvenuto s’imbatté in questi per la strada. Nella zuffa uccise Pompeo con una pugnalata e mise in fuga i suoi scherani.

Ma la figlia di Pompeo andò sposa a un amico intimo di Pier Luigi Farnese “nipote” del nuovo papa, e per sua istigazione il Cellini veniva continuamente perseguitato.

Un assassino còrso gli tese un agguato, sicari lo seguirono a Venezia, un’altra banda lo costrinse a fuggire di notte.

Riuscì sempre a cavarsela. Ma nel 1537 fu arrestato per ordine del papa. Fu chiuso in una cella «dove fu decisa la mia morte» come egli dice.

 

Con grande astuzia – nota Paolo Battaglia La Terra Borgese – preparò la fuga. Prima rubò delle tenaglie a un operaio del carcere.

Quando i suoi apprendisti gli portarono delle lenzuola pulite, nascose quelle sudice nel materasso.

Con le tenaglie estrasse quasi tutti i chiodi dai cardini di ferro della porta lasciandone appena quanti bastavano per tenerla a posto.

Ci vollero parecchie settimane per tirarli fuori e contraffare le borchie con della cera di candele mista a ruggine onde trarre in inganno i carcerieri.

Quando tutto fu pronto s’inginocchiò e rimase a lungo in preghiera.

 

Rimanevano soltanto due ore di oscurità quando estrasse gli ultimi chiodi dai cardini e sgusciò fuori dalla cella.

Si attorcigliò sulla schiena le strisce di lenzuola annodate, usci sul bastione e di lì si calò nel cortile.

 

La notte volgeva al termine e Benvenuto – riferisce Battaglia La Terra Borgese – spiava le sentinelle aspettando il momento opportuno per superare il muro esterno.

Arrampicatosi su questo con l’aiuto di una pertica che aveva trovato per caso, assicurò le lenzuola rimaste a una pietra in cima al muro e iniziò la discesa verso la libertà.

Ma o le lenzuola o le sue mani esauste cedettero, perché Cellini cadde e si ruppe una gamba.

La legò stoicamente e si trascinò fino alla porta della città; era ancora chiusa, ma il Cellini riuscì a rimuovere una grossa pietra da sotto la porta e a infilarsi in quel buco nonostante i dolori strazianti.

Passata la porta fu assalito dai cani da difesa. Ma un servitore del cardinale Cornaro di Venezia lo riconobbe e lo portò al palazzo del suo padrone.

 

Disgrazia volle – fa notare Battaglia La Terra Borgese – che il cardinale desiderasse una sede vescovile per un suo amico e che il pontefice non gliela volesse concedere.

Così fu concluso un patto: il cardinale ottenne il vescovado e il papa riebbe il suo prigioniero.

Questa volta il Cellini fu chiuso in una segreta nei sotterranei di Castel Sant’Angelo: una fossa piena d’acqua, in cui egli giacque in delirio per parecchi giorni.

 

Ma allora, al palazzo di Fontainebleau in Francia, il re Francesco I aveva espresso il desiderio di avere come orefice di corte questo Benvenuto Cellini del quale aveva sentito fare tanti elogi. Un altro cardinale influente parlò in suo favore al papa.

Così dalla sua immonda cella il Cellini fu trasportato alla corte più brillante d’Europa – afferma Battaglia La Terra Borgese -. Qui gli furono dati splendidi appartamenti, un gruppo di aiutanti e ricevette un’ordinazione dopo l’altra per opere di grande impegno, d’oro, d’argento e di bronzo, tra cui una «saliera» d’oro – in realtà è un centro da tavola per banchetti – che è oggi il vanto di un museo di Vienna

 

Il re e la regina, il cardinale e i nobili venivano spesso a visitare la sua bottega sempre attiva.

Tutto prometteva bene.

Ma Cellini aveva fatto i conti senza la favorita del re e, sebbene fosse un esperto adulatore, aveva trascurato di richiedere l’opinione di quest’ultima. In seguito alla sottile opposizione che lei gli mosse – afferma Battaglia La Terra Borgese -, Cellini poté portare a compimento ben poco di ciò che aveva progettato per Francesco I, e nel 1545, deluso, tornò a Firenze e divenne il protetto del duca Cosimo I, ben noto patrono delle arti.

Cosimo suggerì a Benvenuto di scolpire una statua di Perseo, il leggendario eroe greco che uccise Medusa, la Gorgone anguicrinita (che ha serpenti al posto dei capelli, ndr) che impietriva chiunque la guardasse.

 

Cellini fece un modello dopo l’altro, di cera, di stucco, di marmo. Infine, dopo nove anni, riuscì a compiere una figura più grande del vero, che lo soddisfece – lo elogia così Paolo Battaglia La Terra Borgese -.

Ora si trattava di gettarla in bronzo! Questa era una delle operazioni più difficili che la scultura avesse mai tentato fino allora. Cellini doveva progettare da sé le fornaci e le forme, ed escogitare le leghe. Il duca scosse la testa e predisse un disastro.

 

Ecco come il Cellini – riporta il Critico – racconta la sua impresa, forse la più appassionante di tutta la sua vita.

 

«Alla fine gridai che fosse accesa la fornace. I tronchi di pino vi erano accatastati e la fornace lavorava tanto bene, che io fui necessitato a soccorrere ora da una parte e ora da un’altra per alimentarla.

Non resistevo più e mi saltò addosso la febbre, per la qual cosa io fui sforzato andarmi a gittare nel letto.

Quando due ore dopo tornai nella bottega trovai tutto rappreso il metallo e il tetto della bottega in fiamme.

Mandai sul tetto a riparare al fuoco e dissi a due manovali che andassino a prendere una catasta di legne di quercioli giovani, e quando queste presono fuoco, oh come quel metallo rappreso si cominciò a schiarire, e lampeggiava in quel terribile fuoco.»

 

«In un tratto è si sente un romore con un lampo di fuoco grandissimo. Mi avvidi che il coperchio della fornace si era scoppiato e il bronzo si versava fuori. Subito feci aprire le bocche della mia forma. Ma veduto che il metallo non correva con quella prestezza ch’ei soleva fare, forse per essersi consumata la lega per virtù di quel terribile fuoco, io feci pigliare tutti i mia piatti e scodelle e tondi di stagno, i quali erano in circa dugento, e a uno a uno li gittai drento. In tal modo riuscii nell’intento e ora il mio bronzo s’era benissimo fatto liquido e la forma si empiva. Quando vidi il mio lavoro compiuto m’inginocchiai, e con tutto il cuore ne ringraziai Iddio.»

 

La statua di Perseo – spiega Paolo Battaglia La Terra Borgesefu posta in una loggia in Piazza della Signoria nel cuore di Firenze. Là si erge oggi, nel bronzo immortale il vigoroso eroe che solleva la testa di Medusa.

 

Con questa sola opera Cellini prese posto tra i grandi scultori. In questo periodo fecondo fece altri lavori in bronzo e in marmo: busti, figure mitologiche e un grande crocifisso per la propria tomba (pur tuttavia aveva ucciso umani e altri animali).

 

Con l’avanzare degli anni, quest’uomo che aveva vissuto così felicemente seguendo i suoi principi, pian piano si conformò a quelli del resto dell’umanità.

A 64 anni sposò la sua domestica e cominciò ad allevare i propri figli in stato coniugale. Laddove un tempo aveva elargito le sue sostanze liberamente, ora ascoltò il parere dei savi e le investi… e così perse tutto (banchieri dell’epoca).

 

Il 13 febbraio 1571 le avventure terrene di Benvenuto Cellini ebbero termine. Eppure continuano per sempre, poiché ogni generazione le riscopre nella sua scintillante autobiografia. Per quasi due secoli il manoscritto fu perduto.

Quando venne alla luce e fu pubblicato tutta l’Europa ne rimase affascinata. Goethe, che lo tradusse in tedesco, dichiarò che costituiva un miglior quadro di quei tempi che non qualunque rigoroso testo storico.

Dumas lo divorò e poi offrì al mondo il suo allegro cavaliere D’Artagnan, il capo dei Tre Moschettieri. Da allora in poi la figura di un intrepido spadaccino, burlone, rubacuori e femminaro è balzata da cento libri ed è comparsa su mille schermi.

Il primo di tutti era stato Benvenuto Cellini – chiude così, Paolo Battaglia La Terra Borgese il suo Cellini-.




Dirigenti esterni nella PA??? Troppe differenze non solo culturali!!!

La mancanza di manager di livello nella pubblica amministrazione rispetto al settore privato è un argomento complesso che può essere analizzato sotto diversi punti di vista.

Le differenze tra i due settori in termini di gestione, incentivi, struttura organizzativa e cultura del lavoro sono significative e influenzano la qualità e la competenza della leadership.

Anche quando la PA prende dirigenti dall’esterno, non intendiamo da altre PA ma dal settore privato, cosa di cui parleremo bene più avanti, la situazione si rivela fallimentare.

Ecco alcuni dei principali fattori che contribuiscono a questa situazione:

 

Differenze nei Sistemi di Incentivi

 

 Settore Privato:

– Retribuzione: Nel settore privato, i manager ricevono compensi spesso molto alti, compresi stipendi, bonus basati sulle performance e stock options.

– Incentivi basati sulla performance: Gli incentivi finanziari sono strettamente legati ai risultati aziendali. Questo motiva i manager a migliorare costantemente le loro prestazioni e a raggiungere obiettivi specifici.

 

 Pubblica Amministrazione:

– Retribuzione fissa: I compensi sono generalmente regolati da leggi e regolamenti, con minore flessibilità per premi o bonus basati sulle performance.

– Incentivi limitati: Gli incentivi basati sulla performance sono meno comuni, riducendo la motivazione a eccellere o innovare.

 

Processi di Selezione e Reclutamento

 

 Settore Privato:

– Selezione competitiva: Le aziende private tendono a selezionare i candidati attraverso processi competitivi, cercando i migliori talenti disponibili sul mercato.

– Flessibilità nel reclutamento: Il settore privato può adattare rapidamente i propri processi di assunzione alle esigenze del mercato e delle proprie strategie aziendali.

 

 Pubblica Amministrazione:

– Burocrazia e rigidità: I processi di selezione nella pubblica amministrazione sono spesso lunghi e burocratici, con rigide procedure e requisiti formali.

– Limitazioni regolamentari: La selezione e il reclutamento sono soggetti a regolamentazioni che possono limitare la capacità di attrarre talenti altamente qualificati.

 

Struttura Organizzativa e Cultura del Lavoro

 

 Settore Privato:

– Organizzazione dinamica: Le aziende private tendono ad avere strutture organizzative più flessibili, che permettono una rapida adattabilità ai cambiamenti del mercato.

– Cultura della performance: C’è una forte enfasi sui risultati e sulla performance, che spinge i manager a innovare e migliorare costantemente.

 

 Pubblica Amministrazione:

– Struttura gerarchica: La pubblica amministrazione è spesso caratterizzata da strutture gerarchiche rigide, che possono limitare l’innovazione e la rapidità decisionale.

– Stabilità e sicurezza del lavoro: La cultura lavorativa nella pubblica amministrazione può essere più orientata alla stabilità e alla sicurezza del lavoro piuttosto che alla performance e all’innovazione.

 

Formazione e Sviluppo Professionale

 

 Settore Privato:

– Investimenti nella formazione: Le aziende private spesso investono significativamente nella formazione continua dei loro manager per sviluppare competenze specifiche e aggiornate.

– Sviluppo della carriera: Ci sono molte opportunità per la crescita professionale e la progressione di carriera, incentivando i manager a migliorarsi costantemente.

 

 Pubblica Amministrazione:

– Limitazioni di budget: Gli investimenti nella formazione e nello sviluppo professionale possono essere limitati dai vincoli di bilancio pubblico.

– Percorsi di carriera meno definiti: Le opportunità di crescita professionale possono essere meno definite e meno accessibili, influenzando negativamente la motivazione dei manager a sviluppare nuove competenze.

 

Valutazione delle Performance

 

 Settore Privato:

– Valutazione rigorosa: Le performance dei manager vengono costantemente valutate in base a criteri specifici e misurabili, con un feedback continuo che consente correzioni rapide.

– Accountability: I manager sono strettamente responsabili dei risultati delle loro unità o dipartimenti.

 

 Pubblica Amministrazione:

– Valutazione limitata: Le valutazioni delle performance possono essere meno rigorose e meno frequenti, riducendo la pressione per migliorare continuamente.

– Minore responsabilità individuale: La responsabilità può essere diffusa, rendendo più difficile attribuire successi o fallimenti a singoli manager.

 

La mancanza di manager di livello nella pubblica amministrazione rispetto al settore privato è il risultato di una combinazione di fattori che includono sistemi di incentivi, processi di selezione, struttura organizzativa, cultura del lavoro, formazione e valutazione delle performance.

Per migliorare la qualità della leadership nella pubblica amministrazione, sarebbe necessario rivedere questi aspetti, aumentando la flessibilità, gli incentivi basati sulla performance e gli investimenti nella formazione e nello sviluppo professionale dei manager.

L’assunzione di personale dirigenziale dall’esterno nella pubblica amministrazione italiana, come previsto dal comma 6 dell’articolo 19 della legge 165/2001, è un processo che, sebbene pensato per introdurre competenze e know-how del settore privato, spesso si scontra con varie problematiche che portano a fenomeni di mobbing e impediscono ai nuovi dirigenti di lavorare al meglio.

Questa situazione può essere spiegata attraverso diverse cause legate alla cultura organizzativa, alle dinamiche interne e ai conflitti d’interesse esistenti all’interno della pubblica amministrazione.

 

Resistenza al Cambiamento

 

 Cultura Organizzativa Radicata:

– Tradizionalismo: La pubblica amministrazione è spesso caratterizzata da una cultura organizzativa molto radicata e tradizionalista. L’introduzione di dirigenti esterni, che portano nuove idee e metodi di lavoro, può essere percepita come una minaccia allo status quo.

– Resistenza al cambiamento: Il personale interno può manifestare una forte resistenza al cambiamento, vedendo i dirigenti esterni come agenti di cambiamento indesiderato che alterano le pratiche consolidate e i flussi di lavoro esistenti.

 

Conflitti di Interesse e Invidia Professionale

 

 Conflitti con il Personale Interno:

– Invidia: I dirigenti interni possono nutrire sentimenti di invidia verso i nuovi dirigenti esterni, specialmente se percepiscono che questi ultimi sono stati assunti con compensi più elevati o con percorsi di carriera privilegiati.

– Competizione: L’assunzione di dirigenti esterni può creare una competizione interna, alimentando tensioni tra il personale di lungo corso e i nuovi arrivati, che vengono visti come concorrenti piuttosto che come collaboratori.

 

Dinamiche di Potere e Politiche

 

 Ostacoli Politici e Amministrativi:

– Difesa delle posizioni di potere: I dirigenti interni e altri funzionari possono vedere i nuovi arrivati come minacce alle loro posizioni di potere e influenza. Questo può portare a comportamenti di boicottaggio e ostracismo per proteggere i propri interessi.

– Supporto insufficiente: Spesso i dirigenti esterni non ricevono il supporto necessario dai loro superiori o colleghi interni, rendendo difficile l’implementazione delle loro idee e iniziative.

 

Problematiche Legate alla Formazione e all’Inserimento

 

 Mancanza di Adeguata Formazione:

– Inserimento inadeguato: Spesso, i dirigenti esterni non ricevono un’adeguata formazione o orientamento specifico per comprendere le peculiarità della pubblica amministrazione e adattarsi al nuovo contesto lavorativo.

– Isolamento professionale: I nuovi dirigenti possono essere isolati dal resto del personale, non ricevendo il supporto necessario per integrarsi efficacemente e comprendere le dinamiche interne.

 

Burocrazia e Inerzia Amministrativa

 

 Complessità Burocratica:

– Procedure rigide: La pubblica amministrazione è caratterizzata da procedure burocratiche rigide e complesse che possono limitare la capacità dei nuovi dirigenti di apportare cambiamenti significativi e miglioramenti.

– Lentezza decisionale: La lentezza nelle decisioni e nei processi amministrativi può frustrare i dirigenti esterni, abituati a un ambiente più dinamico e orientato ai risultati.

 

Fenomeni di Mobbing

 

 Mobbing Organizzativo:

– Strategie di esclusione: Il personale interno può attuare strategie di esclusione nei confronti dei nuovi dirigenti, come la mancata condivisione di informazioni, l’assegnazione di compiti di scarso valore o l’esclusione dalle decisioni importanti.

– Delegittimazione: I dirigenti esterni possono essere delegittimati attraverso critiche costanti, sabotaggio delle loro iniziative e diffusione di voci negative, con l’obiettivo di farli apparire incompetenti.

 

 

L’inserimento di dirigenti esterni nella pubblica amministrazione italiana attraverso il comma 6 dell’articolo 19 della legge 165/2001, sebbene inteso a portare nuove competenze e dinamiche innovative, si scontra spesso con una resistenza culturale, conflitti di interesse, dinamiche di potere e problematiche burocratiche.

Per migliorare questa situazione, sarebbe necessario adottare misure che favoriscano un’accoglienza più positiva e un’integrazione efficace dei nuovi dirigenti, come programmi di orientamento, politiche di supporto e promozione di una cultura organizzativa più aperta al cambiamento e alla diversità di esperienze professionali, e forse occorrerebbe cacciar via tutti gli attuali vertici, perché non sono i dirigenti il problema vero, e sostituirli con manager proveniente dal privato e dalla consulenza, così magari qualche speranza per questo paese potrebbe esserci.




“Tutte per Donna Sufì”

Sophia Loren a sedici anni.
Ritratto di Sophia Loren, attrice italiana dall’aspetto glamour. Indossa un abito senza spalline, una collana e orecchini di diamanti. Su sfondo bianco, scattato intorno al 1950. (Photo by Silver Screen Collection/Getty Images)

Tutte le strade portano alla realizzazione di un Sogno

Chi non ha avuto almeno un sogno da bambino? 

Poi, strada facendo, c’è chi se ne è scordato, chi lo ha perso fra i grovigli dei più urgenti impegni quotidiani, chi ne ha fatto un hobby preferendogli un lavoro “vero”, chi invece lo ha inseguito fino a raggiungere la vetta del successo e da lì, brillando, illumina il sentiero di chi è ancora in viaggio.

La storia che sto per raccontarvi vede per protagoniste cinque donne, ciascuna nel proprio ruolo, tutte impegnate nello stesso bellissimo progetto: celebrare in un radiodramma lo splendore di una stella di prima grandezza del migliore cinema italiano e internazionale: Sophia Loren. 

Lei, che il suo Sogno lo vive da decenni, può ispirare i sognatori che ambiscano a distinguersi nell’arte cinematografica.

Ed ecco i nomi dei personaggi coinvolti in quest’opera, in ordine di apparizione.

Francesca Giorzi: Responsabile della fiction radiofonica della RSI, la Radio della Svizzera Italiana con sede a Lugano.

Jasmine Laurenti: (la scrivente) giornalista culturale per betapress.it, scrittrice nonché “voce” di Nunziatina, cameriera dell’attrice Sophia Loren nella sua residenza ginevrina.

Francesca Quattromini: attrice amatoriale napoletana, mia provvidenziale “coach” in accento partenopeo.

Margherita Coldesina: Attrice e scrittrice di poesie nonché autrice, regista e coprotagonista del radiodramma dedicato all’intramontabile figura di Sophia Loren.

Mariangela D’Abbraccio: nota e pluripremiata attrice italiana di cinema e teatro, “voce” della Signora Loren.

La cosa che più amo del mestiere di attrice è il suo sorprendermi in modi sempre nuovi e arricchenti.

Questo radiodramma, scritto, diretto e interpretato per la Radio Svizzera Italiana dall’artista ticinese Margherita Coldesina, ne è un esempio. Intorno al suo bellissimo lavoro dedicato a Sophia Loren, ci siamo riunite nello studio otto, presso la sede di Lugano Besso, il 23 aprile scorso; ciascuna con il proprio bagaglio esperienziale, ciascuna in cammino verso la realizzazione del proprio Sogno.

La Chiamata

Ma andiamo per ordine. 

Tutto comincia, per la sottoscritta, il 19 marzo, quando ricevo una chiamata da Francesca Giorzi, responsabile della fiction radiofonica della RSI a Lugano.

“Jasmine, c’è questo personaggio carino, una cameriera napoletana… Come sei messa con l’accento partenopeo?”

“Grazie per aver pensato a me! Sai Francesca, il dialetto napoletano non rientra fra le mie specialità. Temo di non potervi aiutare, stavolta…” 

“Le battute non sono tante, e poi hai più di un mese per prepararti…”

“Vabbè, dai, ci provo.” E mentre lo dico, mi vedo lanciarmi fra le braccia di un tanghero argentino, io, che del tango ignoro pure i passi base. 

Il Mentore

Comincio a passare in rassegna le donne di Napoli che conosco. Mi viene in mente Chiara Sparacio, vicedirettore di Betapress.it, che è di origine siciliana ma vive a Napoli. È lei a mettermi in contatto con la giovane attrice Francesca Quattromini. Quest’ultima si presta gentilmente ad aiutarmi. Le propongo di lasciarmi un vocale su whatsapp, mentre legge le mie battute con accento partenopeo. Il gioco è fatto. Ho la sua traccia. Mi metto subito a “studiare”. Tanto, ho tutto il tempo che mi serve. 

Le Compagne di Viaggio

E arriva il grande giorno, alla radio.

Nella grande sala dove si registrano i radiodrammi, Margherita Coldesina è in postazione nelle vesti di autrice dell’opera, regista e attrice coprotagonista nella parte di… Se stessa!

Sin dalla più tenera età, lei scrive e recita. Il suo sogno è realizzarsi come attrice nel grande cinema. Come chi mira all’eccellenza, prende ispirazione da un’icona del cinema internazionale: Sofia Costanza Brigida Villani Scicolone, in arte Sophia Loren.

Ha appena sedici anni quando, sullo scaffale più alto di una videoteca, “incontra” la sua ignara mentore. Consuma, letteralmente, il nastro delle videocassette di novantatré su centoundici film, che vedono la sua stella polare brillare sul set accanto ad altri astri di fama mondiale.

Accanto a lei c’è Mariangela D’Abbraccio: stimata attrice napoletana, figlia e nipote d’arte, ha lavorato coi migliori in ambito cinematografico e teatrale. È lei che darà voce a “Donna Sufì”.

Da parte mia, Nunziatina, ce l’ho messa tutta per calcare le intonazioni suggeritemi da Francesca Quattromini nel suo vocale. Mi sento abbastanza pronta, ma l’incognita è grande. Margherita ha avi partenopei, Mariangela è un’attrice napoletana verace, Francesca pure… In “scova l’intruso” individuarmi è un gioco da ragazzi. 

E va bene, lo confesso: sono un’infiltrata, veneta da parte di padre e di madre. Non ho scampo, ma farò del mio meglio. Sudo freddo. 

La trama del radiodramma

Il radiodramma, che ha il sapore di un sogno lucido, profuma di caffè e ragù come si fanno a Napoli. Si svolge a Ginevra, nell’abitazione della mitica Sophia. Accanto a lei c’è la cameriera, “Nunziatina Esposito nata a Pozzuoli di anni sessantasette”, intenta a preparare il pranzo. 

A un certo punto suona il campanello e, per andare ad aprire, lascia il ragù sul fuoco. Trova una ragazza riversa sul pianerottolo, a “quatt’e bastune”: Margherita, appunto, nei panni della fan della celebre attrice. Le è bastato suonare il campanello e sentire la voce della domestica in arrivo per svenire, letteralmente, per la troppa emozione. Svenimento provvidenziale, il suo: la Loren, per consentire alla giovane donna di riprendersi, non solo decide di accoglierla in casa, ma anche di invitarla a pranzo.

Segue un divertente dialogo fra Sophia e Nunziatina la quale, scocciata per l’imprevisto che l’ha costretta a lasciare incustodito il suo ragù, se ne ritorna in cucina. 

Quindi serve a tavola e lascia le due donne a conversare, gustando il loro piatto di pasta. Tra una forchettata e un sorso di buon vino, Sophia e Margherita si scambiano memorie e aneddoti, via via arricchiti da dettagli inediti rivelati dalla Loren alla sua sempre più entusiasta ammiratrice.

Alla ricerca della Verità

Prima di registrare si fa una prova.

In sala nello studio otto siamo in tre: Margherita nei panni di se stessa, Mariangela nel ruolo di Sophia e la sottoscritta come Nunziatina. 

No, non va: il mio accento suona eccessivo, caricaturale. Ed è così che accade con i non nativi: per fingere di esserlo, si sforzano. Del resto, è quello a cui ci siamo abituati nel teatro goldoniano. Se gli attori non sono veneti, fingono di esserlo e si sente. Insomma: dobbiamo escogitare qualcos’altro. Un lieve accento francese? Un po’ mi dispiace, lo ammetto, per l’impegno che ci ho messo e anche per l’attrice di Napoli, Francesca Quattromini, che tanto gentilmente mi aveva aiutata. Del resto, comprendo che l’obiettivo è la naturalezza, non l’accento napoletano a tutti i costi. Così, si arriva alla conclusione che è meglio accennarlo appena. Interiorizzarlo, addirittura. Il risultato è più che dignitoso. Margherita è felice. Mariangela, sorridente e rilassata, annuisce. Francesca Giorzi entra in sala e ci scatta delle foto, immortalando la nostra avventura.

Funziona. Tiro un sospiro di sollievo. 

Mentre torno col pensiero a quei momenti, realizzo che noi donne eravamo spettatrici del graduale manifestarsi del sogno di Margherita.

L’Autrice infatti, come nelle migliori favole, aveva posto le premesse per avverare ben tre desideri: scrivere per la radio, incontrare di persona il suo Mito e, calcandone le orme, imporsi all’attenzione del grande cinema. 

Le auguro di cuore di seguire il brillìo della sua Stella fino a prenderne il testimone, sulla Vetta riservata a pochi eletti.

Mentre il suo viaggio è in corso, la raggiungo per un’intervista. 

 

L'attrice e scrittrice ticinese Margherita Coldesina

Il Sogno di Margherita Coldesina: “Non c’è nessuna porta”

J.L.: Chi è Margherita, oltre le parole che scrive e interpreta?

M.C.: È quella persona che la sta aspettando alla fermata successiva a quella in cui scende sempre.

J.L.: Qual era il suo sogno da bambina?

M.C.: Fare l’attrice oppure il falegname.

J.L.: A che punto è della sua realizzazione?

M.C.: Il falegname dell’anima sta scolpendo tutte le facce dell’attrice, compresa quella vera, incorruttibile anche dall’arte o dalle richieste di interpretare questo e l’altro personaggio.

J.L.: Aldilà del fatto che sia la leggenda vivente del cinema italiano e internazionale, perché proprio Sophia?

M.C.: Mi ha scelto lei, lei intesa come parte del tutto. Sophia è il frammento di un universo che ho conosciuto intimamente in altre vite, è un espediente incaricato di ricordarmi chi sono e perché sono qui sulla Terra con questa brama di calarmi in ruoli senza cinture di sicurezza allacciate. Quando entro in qualcosa, io ci entro del tutto, mi sporgo da me stessa e rischio tutto.

J.L.: Nella fiaba a lieto fine della tua icona, quali sono i momenti della sua vita privata e professionale che più ti ispirano nei momenti più sfidanti del tuo percorso?

M.C.: È nata sbagliata, con un padre che non l’ha riconosciuta. E invece di subire gli eventi conseguenti a un’infanzia fatta di miseria e fame, ha imbrigliato la sua sofferenza con le redini della disciplina e ha liberato il purosangue che sentiva intuitivamente di essere. E prima o poi, se sei un purosangue, corri talmente veloce che cambi il mondo e chi assiste alla tua corsa. Il coraggio, quando è incarnato, sconvolge, cambia le persone.

J.L.: So che, per poter scrivere di lei, hai passato in rassegna circa tremila tra giornali dell’epoca, riviste, rotocalchi e documenti d’archivio. E poi, le ore che hai trascorso a guardare novantotto dei suoi più che cento film e non una, ma più volte. Infine, ti ci sono voluti due anni per trovare il suo indirizzo di casa a Ginevra. Quanto è importante la perseveranza, nella realizzazione di un sogno?

M.C.: Direi che è l’unico requisito. Ma prima viene il talento. E la cosa bella è che ognuno ne ha uno. Una cosa in cui brilli ce l’hai tu, lui, la barista, quel bambino che gioca a calcio, la signora imbronciata qui vicino che beve un Martini. E col talento, se lo addestri, diventi un supereroe.

J.L.: E se il radiodramma fosse un modo per profetizzare il tuo incontro con Sophia nella vita reale? 

M.C.: Ne sono convinta. Ma, come dicono i saggi: “Tua è l’azione, ma non il frutto dell’azione.” Vedremo.

J.L.: Nell’opera riveli, di Sophia, l’aver vissuto il trauma del non riconoscimento da parte del padre. Se, come ipotizzi, è stato il dolore per quel rifiuto primordiale a spingerla sulla scala di un Successo planetario… Cos’è a spingere te a raggiungere la vetta del tuo successo?

M.C.: Anche io ho un Edipo consistente, mettiamola così. È sempre tutta una faccenda d’amore impastata con la tragedia, la vita. È come venire al mondo: funesto ed epifanico, no?

J.L.: A un certo punto, mentre si rivolge alla cameriera che minaccia di buttare il ragù rimasto a cuocere troppo a lungo, attribuisci alla Loren la frase: “Non l’hai patita tu la fame come me e mia sorella… E zia Dora, e mamma che cercava disperatamente tutto il giorno qualcosa da mangiare per noi, e mica si arrendeva.” E ancora: “Non un mito, ma una diva, sì. Coi piedi bene a terra, perché ho conosciuto la povertà, quella vera, ma ho anche vissuto un mondo dello star system che oggi ve lo sognate.” Sono parole che rendono l’idea di un’infanzia così umile e dura, che sembrerebbe impossibile poter soltanto immaginare, per la protagonista, un radioso futuro. Quanto può incidere e in che modo, secondo te, un critico esordio, sul buon esito di un destino? 

M.C.: Se non hai fame, non seminerai la terra, e non raccoglierai; se ti arrendi a soggiornare nella parte di te più diurna e ti rifiuti di sbirciare cosa c’è nascosto nel precipizio che ogni giorno ti sussurra all’orecchio le emozioni più violente, e le paure, e ciò che è inammissibile per te confessare, allora la vetta che ti è dato conquistare sarà rassicurante come una collinetta, al massimo un monte. Io punto alle stelle: quando arriverò in cima all’Everest cercherò una scala per il cielo e mi appenderò alla coda di un astro.

J.L.: Ecco, come vedi la tua ascesa nello Star System? Ritieni che al giorno d’oggi sia ancora possibile, per un’attrice, cogliere delle Opportunità, pur rimanendo fedele a se stessa e ai propri valori?  

M.C.: Credo che non esistano le epoche, esistono le proprie oscurità dalle quali emanciparsi; e non esistono le opportunità, esiste l’autolegittimazione a illuminare col proprio talento il mondo.

J.L.: Se il primo giro di boa artistico Sophia l’ha fatto grazie al sodalizio con il regista Vittorio De Sica, qual è il regista con cui stringeresti il tuo sodalizio artistico, per il tuo giro di boa?

M.C.: Se fossero vivi: Cassavetes e Visconti. Amo Woody Allen e Carlo Verdone, per restare sulla Terra. Ma anche centinaia di altri. Non è questione di registi, è questione di missione: so che mi verrà incontro chi favorirà l’esercizio di questo mandato che sento di avere.

J.L.: Quanto è importante, per te, il riconoscimento pubblico, come lasciare l’impronta delle proprie mani sulla Walk of Fame o l’assegnazione di un prestigioso premio? 

M.C.: Il mio piccolo io dice tantissimo, non vedo l’ora; il mio sé evoluto sorride. Indovina quale dei due è lecito ascoltare? Quale dei due ti rende più grande (e, di conseguenza, magicamente, artisticamente una bomba)?

J.L.: Sai, ho un debole per la mia bimba interiore. L’ho trascurata troppi anni per non tifare per lei. Oggi è a lei che dò la precedenza. E alla voce del Creatore, che tuona quando serve. Ma torniamo a Margherita. Riusciresti a conservare la tua semplicità, nonostante il Successo? 

M.C.: Chi mi conosce dice di sì. Vedremo, magari comprerò quattro limousine e girerò malvestita purché griffata, diventerò arrogante e smetterò di leggere i grandi maestri d’Oriente. Ma sospetto di no…

J.L.: La scena madre de “La Ciociara”, quella in cui Sophia, nei panni di Cesira, inveisce contro gli stupratori della figlia, è stata girata una volta sola. Com’è immedesimarsi in un ruolo al punto da viverne le emozioni in modo così vero, da non dover ripetere la scena una seconda volta? Come si fa a interpretare un ruolo in modo così autentico?  

M.C.: La bravura di un attore non è frutto di magia: è, banalmente, direttamente proporzionale al suo progresso spirituale in quanto essere umano, tutto lì.

J.L.: Nel tuo radiodramma Sophia dice: “Niente rende una donna più bella della convinzione di essere bella. Te lo devi sentire dentro, qui, nel petto.” Sono parole effettivamente sue, o gliele hai attribuite tu e se sì, in che modo rispecchiano il tuo approccio nei confronti dell’aspetto esteriore di una donna?

M.C.: Sono parole che le ho messo in bocca io, perché Sophia – se la guardi nelle interviste in TV appare in maniera eclatante – è così luminosa e ammantata di fascino perché dentro di sé ha costruito un edificio virtuoso. Una donna bella è bella solo perché è bella dentro, “sennò non ti innamori”. A dispetto di ciò che appare in superficie, la bellezza è meritocratica.

J.L.: Sophia, per te, non è soltanto il trionfo di curve e istinto: è l’emblema dell’incontro fra intelligenza e cuore: lì dove si incontrano il talento e l’opportunità. Come si fa a mettere d’accordo intelligenza e cuore?

M.C.: Avendo coraggio.

J.L.: E come si fa a riconoscere l’Opportunità della vita, quando si presenta?

M.C.: È ineludibile, suppongo. Io di sicuro la riconoscerò come riconoscerei un figlio.

J.L.: Per Sophia il coraggio è – parlando di Picasso – “Sapere di poter corrispondere perfettamente a ciò che vuole il costume dell’epoca – nel suo caso il realismo, e lui disegnava perfettamente – e decidere di spingersi oltre.” Cos’è il coraggio per Margherita?

M.C.: Avere una fede incrollabile nella missione che sento albergare in me. Esserne all’altezza. Proseguire, qualsiasi cosa (non) accada.

J.L.: Alla Loren fai dire: “Il cinema, cosa credi? Non è mica una passeggiata. Il cinema pretende; dà tanto, ma pretende.” A che cosa Margherita è disposta a rinunciare, per amore del suo Sogno?

M.C.: Alla versione di me che ha un minimo dubbio.

J.L.: Prima di lasciarci, vorrei tu dedicassi un pensiero a tutte le donne che stanno avanzando verso la realizzazione del proprio Sogno. 

M.C.: “La chiave è che non c’è nessuna porta.” È una delle mie ultime poesie, sicuramente una fra le mie preferite, ed è anche la frase-guida di un progetto di danza che sto sviluppando insieme a mia sorella Alessia, meravigliosa ballerina, donna e mamma.

J.L.: Ecco, appunto! Stai lavorando a nuovi progetti dietro le quinte? Ti va di anticiparci qualcosa?

M.C.: Quanto tempo abbiamo??!

J.L.: Eh, mi sa che è ora che raggiunga Francesca! (Saltando sul treno per Napoli) Ne parliamo la prossima volta, se ti va! (Esclamo, con voce portata, dal finestrino del treno in corsa).

 

Margherita Coldesina: Attrice, Scrittrice e Autrice di Radiodrammi per la Radio Svizzera Italiana

Il Sogno di Francesca Quattromini: “Illuminare il mondo”

Come già detto, a Francesca ho affidato le battute di Nunziatina, affinché le leggesse con accento napoletano in un vocale da inviarmi su whatsapp.

Riascoltando il suo messaggio più volte, sono riuscita – proprio io, veneta dal paleolitico da parte di padre e di madre – a interpretare il ruolo di una nativa di Pozzuoli che, in Svizzera da decenni, conserva ancora un’ombra delle proprie origini, nel modo di parlare spiccio e ironico.  

Attrice “non professionista” come tiene a precisare, recita da quando aveva tredici anni. Oggi va per i trentotto, ed è sempre attiva nel teatro amatoriale e nella produzione di audio fiction. Per lei la gavetta è quasi più importante del raggiungimento della… Vetta. 

La raggiungo per una breve chiacchierata e, visto che ci sono, le chiedo se ha un Sogno nel cassetto. Tutto quello che so, al momento, è che il 9 giugno prossimo, al Teatro Il Piccolo a Fuorigrotta (Napoli), sarà protagonista della commedia in due atti di Salvatore Barruffo “Un mistero al cimitero”. 

J.L.: A tredici anni hai preso parte a un laboratorio teatrale e da lì, non hai più smesso di recitare…

F.Q.: A undici anni, con le mie amiche, giocavo a interpretare i personaggi di alcuni film. È da lì che è nata, in me, la voglia di recitare. Poi un giorno mia madre venne a sapere che, vicino a dove abitavamo, si svolgeva un laboratorio teatrale. È lì che si è accesa in me la passione per il teatro, che amo con tutta me stessa.

J.L.: Hai preso parte a delle audio fiction con Yuri Salvatore (figlio dello scomparso artista napoletano Federico Salvatore, famoso per la sua canzone “Sulla Porta” ndr). Cosa ti ha lasciato questa esperienza come “voce”? Ti ha aiutata a crescere anche come attrice teatrale e se sì, in che modo?

F.Q.: Sono contentissima di aver preso parte a due audio fiction di Yuri Salvatore. Ha fondato la compagnia “Le Voci di Dentro”, di cui fanno parte attori di tutta Italia. Ogni attore manda a Yuri la registrazione della propria voce, così che possa essere aggiunta alle altre nella creazione dell’audio fiction. Aver potuto collaborare con lui mi ha arricchita tantissimo. Per noi attori, infatti, abituati ad avvalerci della gestualità e della mimica facciale per esprimere emozioni, riuscire a farlo con la voce soltanto è cosa non da poco. E poi, tieni conto che “Le Voci di Dentro” è nato proprio nel 2020, nel periodo più difficile per noi artisti, che non potevamo fare praticamente niente. Il suo è stato un modo per non far morire l’arte.

J.L.: Che consiglio daresti a chi volesse fare l’attore teatrale?

F.Q.: Il consiglio che gli darei è di non correre e fare la gavetta. Purtroppo i giovani d’oggi, anche per colpa dei talent, vogliono tutto e subito. Ma non funziona così. Se vuoi fare teatro, ad esempio, devi cominciare da zero e, magari, portare il caffè agli attori bravi cercando di carpire loro, dietro le quinte, i segreti del mestiere. Poi, pian pianino, iniziare con parti piccole e andare avanti, un passo alla volta, fino ad arrivare in cima. Se parti dalla vetta non impari nulla e “ti bruci”.

J.L.: So che sei stata scelta come protagonista di “Un Mistero al Cimitero”, commedia in due atti scritta e diretta da Salvatore Barruffo, in cartellone il prossimo 9 giugno al Teatro Il Piccolo a Fuorigrotta (NA).

F.Q.: Sì, reciterò il 9 giugno nella commedia “Un Mistero al Cimitero” del maestro Salvatore Barruffo, che recita da oltre quarant’anni – ha preso parte a “Un Posto al Sole” e a “La Squadra” – ha scritto moltissime commedie ed è autore di libri come “Cercasi cuore disperatamente” e “Tre casi per casa”.

J.L.: È la prima volta che reciti da protagonista?

F.Q.: No, non è la prima volta, ho interpretato il ruolo di Lisetta nella versione di Gianfranco Gallo della Lisistrata, “Quartieri Spagnoli”. Stavolta però è diverso, il personaggio di Lucia in “Un Mistero al Cimitero” è più importante… 

J.L.: Importante al punto di farti cambiare idea riguardo al tuo futuro come attrice di professione?

F.Q.: No, non cambio idea su questo. Non mi interessa né guadagnarci, né partire per le tournée. Sono felice della mia vita privata e disposta a tutto pur di proteggerla. A maggior ragione, ringrazio il maestro Salvatore Barruffo per avermi dato questa opportunità: lui ha visto e vede in me tante qualità. Lo ringrazio dal profondo del mio cuore, ma sto bene così. 

J.L.: Prendendo a pretesto il radiodramma scritto e diretto per la Radio Svizzera dall’attrice Margherita Coldesina, abbiamo parlato di sogni e del nostro viaggio verso la loro realizzazione. Qual è il tuo Sogno?

F.Q.: Il mio sogno è mantenere accesa, in me, la luce del mio amore per il teatro, che amo immensamente ed è una parte di me, e un’altra luce più grande: l’amore che sento per le persone che mi circondano e per la mia famiglia, mio figlio e mio marito. Il mio sogno è rimanere una fonte di positività per chi mi sta accanto e, per grazia di Dio, essere una brava persona. Mi auguro di riuscirci. 

J.L.: Grazie ancora Francesca, per avermi aiutata ad acquisire una prosodia partenopea! 

F.Q.: Grazie a te Jasmine ♥

 

 

 




Non esistono le gite scolastiche!

la normativa di riferimento in materia di uscite/visite guidate e viaggi di istruzione, in Italia e all’estero è composta dal DPR dell’8/03/1999 n. 275 e del 6/11/2000 n. 347 che hanno dato completa autonomia alle istituzioni scolastiche anche in materia di uscite/visite guidate e viaggi di istruzione, in Italia e all’estero.

Per amore di legge ricordiamo che le gite scolastiche non esistono, ma esistono i viaggi/uscite di istruzione, ma soprattutto  non sono semplicemente “premi” o interruzioni dal curriculum standard, ma componenti fondamentali di un sistema educativo che mira a formare individui ben arrotondati, critici e consapevoli.

Integrando le uscite didattiche con il curriculum regolare, le scuole possono arricchire notevolmente l’esperienza educativa degli studenti, preparandoli meglio a interagire con il mondo in modo informato ed efficace, infatti la norma di riferimento dice che:

L'autonomia delle istituzioni scolastiche e' garanzia di  liberta'
di insegnamento e  di  pluralismo  culturale  e  si  sostanzia  nella
progettazione e nella  realizzazione  di  interventi  di  educazione,
formazione e istruzione mirati allo  sviluppo  della  persona  umana,
adeguati ai diversi contesti, alla  domanda  delle  famiglie  e  alle
caratteristiche  specifiche  dei  soggetti  coinvolti,  al  fine   di
garantire loro il successo formativo, coerentemente con le  finalita'
e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e  con  l'esigenza
di  migliorare  l'efficacia  del  processo  di  insegnamento   e   di
apprendimento.

Da questo ne declina che le uscite didattiche sono interventi formativi integrati nella progettazione degli interventi educativi, a tutti gli effetti fanno parte del programma.

Le gite scolastiche, frequentemente percepite solo come momenti di svago o ricompense per gli studenti, rivestono in realtà un ruolo ben più significativo e sostanziale nel contesto educativo.

Queste esperienze sono parte integrante del processo di apprendimento, poiché contribuiscono allo sviluppo personale e culturale degli studenti in modi che l’ambiente convenzionale di una classe non può sempre offrire.

Le gite scolastiche contribuiscono vieppiù a una visione più olistica dell’educazione, che va oltre la semplice trasmissione di conoscenze.

Esse promuovono una comprensione più completa della realtà, incoraggiando gli studenti a sviluppare una coscienza critica e una migliore comprensione delle diverse sfaccettature sociali, storiche e ambientali.

In questo senso sono inspiegabili le esclusioni degli studenti dalle gite o la scelta di parteciparvi in conseguenza dell’andamento del voto di condotta.

Sarebbe un poco come dire che se un ragazzo ha un voto di condotta basso viene escluso da alcune lezioni, magari dalle più divertenti, per fargli sentire meglio la punizione.

I viaggi di istruzione non devono essere visti come un premio, al contrario sono dei momenti educativi molto importanti che dovrebbero richiedere agli studenti impegno ancora maggiore.

E’ veramente grave dal punto di vista educativo usare uno strumento a tutti gli effetti di programma per dare un contentino o una punizione agli alunni.

Il mondo della scuola dovrebbe fare una seria riflessione sull’argomento, valutandone le conseguenze e gli eventuali messaggi sbagliati che ne derivano.

Io credo che chi parla di certi argomenti dovrebbe conoscerli, ma purtroppo spesso non li conosce nemmeno chi siede al ministero, quindi di cosa ci meravigliamo? 




Alla scoperta della Teoria del Ponte Empatico nelle Organizzazioni

Betapress: Grazie per essere qui con noi oggi dott. Faletti. Lei gioca un poco in casa essendo anche il direttore di questa testata.

Faletti: Si in effetti credo molto nella divulgazione e il giornalismo fatto bene è sempre stato un mio peculiare interesse. Da ormai vent’anni svolgo attività nel mondo del giornalismo in tantissime forme.

Betapress: La “Teoria del Ponte Empatico” è una nozione che sta guadagnando molta attenzione nel mondo aziendale. Potrebbe spiegare cosa rappresenta questa teoria e come è nata?

Faletti: La Teoria del Ponte Empatico ha ormai nella mia mente più di vent’anni di gestazione, deriva da un saggio che avevo scritto, ovvero l’organizzazione fruibile, e prende spunto dalla necessità di comprendere e migliorare le interazioni all’interno delle organizzazioni, specialmente tra gruppi diversi. È basata sull’idea che l’empatia—la capacità di comprendere e condividere i sentimenti altrui—possa servire come un “ponte” per superare differenze e barriere, facilitando una collaborazione più profonda e significativa.

Betapress: Interessante. Ricordo che Lei ha anche molti titoli in Pedagogia, e da anni si occupa di questa scienza, come si applica concretamente questa teoria all’interno di un’organizzazione?

Faletti: Si in effetti il mio lavoro di pedagogista mi ha molto aiutato nel definire questa teoria del ponte empatico, soprattutto interagendo nei molti ruoli lavorativi da me ricoperti; ho avuto modo di definire la teoria che si focalizza su tre pilastri principali: formazione, leadership e politiche organizzative. Per impiantare il Ponte nell’organizzazione occorre partire da  workshop di formazione per sviluppare le competenze empatiche dei dipendenti a tutti i livelli. I leader, inoltre, sono formati per riconoscere ed esprimere empatia, agendo da modello per i loro team. Infine, le politiche organizzative sono rivedute per assicurare che promuovano inclusione e comprensione reciproca.

Betapress: Quali potrebbero essere le sfide nel promuovere questa teoria nel contesto aziendale?

Faletti: Una delle maggiori sfide sarà quella di convincere le leadership aziendali che l’empatia non è solo una “bella qualità” da avere, ma una componente essenziale per il successo e la sostenibilità aziendale. Inoltre, c’è sempre il rischio di resistenza al cambiamento, specialmente in organizzazioni con culture ben radicate che valorizzano la competitività rispetto alla collaborazione.

Betapress: Ha riscontri su come la teoria possa impattare nelle organizzazioni ?

Faletti: Sì, da piccoli esperimenti da me realizzati sui luoghi di lavoro i risultati sono molto positivi. Le organizzazioni in cui ho provato ad implementare la teoria hanno mostrato un miglioramento nel morale dei dipendenti, una diminuzione dei conflitti interni e un incremento della collaborazione. Questo non solo migliora l’ambiente lavorativo ma spesso si traduce anche in migliori performance complessive. E’ solo, per ora, un percorso minimale quello da me fatto, ma i risultati sono promettenti.

Betapress: Qual è il suo obiettivo a lungo termine con la Teoria del Ponte Empatico?

Faletti: Il nostro obiettivo è vedere questa teoria adottata come standard nel mondo organizzativo. Vogliamo che diventi una prassi comune considerare l’empatia non solo come una competenza sociale, ma come una strategia di business cruciale, essenziale per la crescita e l’innovazione sostenibili.

Betapress: riesce a darci un assaggio di come è costruita questa teoria?.

Faletti: L’elaborazione di una teoria organizzativa basata sull’empatia tra i gruppi sociali ha richiesto una riflessione profonda su come le relazioni interpersonali e intergruppi possano essere orientate e strutturate per promuovere una collaborazione efficace e un benessere collettivo.

Una tale teoria è strutturata attorno a vari pilastri fondamentali che includono la comprensione, la comunicazione, la condivisione di esperienze e la promozione di una cultura dell’empatia.

Ho sviluppato un approccio teorico basato su questi elementi che riassumo per brevità:

Definizione e riconoscimento dell’empatia intergruppi

L’empatia intergruppi può essere definita come la capacità di comprendere e condividere i sentimenti e le prospettive di membri di altri gruppi sociali, e di essere motivati a rispondere con compassione alle loro esigenze e difficoltà.

Questo richiede un riconoscimento attivo delle differenze e delle somiglianze tra gruppi, senza cadere nella trappola di stereotipi e pregiudizi.

Sviluppo di competenze empatiche

Per favorire l’empatia tra gruppi diversi, è essenziale promuovere l’educazione e la formazione sulle competenze empatiche all’interno delle organizzazioni.

Questo include la formazione su ascolto attivo, comunicazione non violenta, e tecniche di risoluzione dei conflitti.

Inoltre, le simulazioni e i giochi di ruolo possono essere utilizzati per permettere ai membri di sperimentare situazioni dal punto di vista degli altri.

Strutture e politiche organizzative

Le strutture organizzative dovrebbero essere progettate per promuovere incontri e collaborazioni tra gruppi diversi.

Ciò può includere la creazione di team misti su progetti, programmi di scambio tra diversi settori o dipartimenti, e la creazione di comitati di diversità e inclusione che lavorano attivamente per identificare e abbattere le barriere all’empatia intergruppi.

Leadership empatica

La leadership gioca un ruolo cruciale nel modellare la cultura organizzativa. Leader empatici possono servire da modelli, mostrando come l’empatia possa guidare decisioni etiche e giuste.

Essi dovrebbero essere formati per riconoscere e valorizzare le diversità, facilitare dialoghi aperti tra gruppi e intervenire in modo costruttivo quando emergono tensioni.

Valutazione e feedback

Una cultura basata sull’empatia richiede meccanismi di valutazione e feedback che non solo misurino il successo in termini di risultati economici, ma anche in termini di benessere sociale e collaborazione tra gruppi.

Feedback regolari possono aiutare a identificare le aree di miglioramento e a celebrare i successi nel costruire un ambiente organizzativo più empatico.

Ricerca e sviluppo continuo

Infine, è vitale che le organizzazioni investano nella ricerca continua sulle dinamiche di gruppo e sull’empatia intergruppi.

Ciò può includere collaborazioni con accademici e istituti di ricerca per studiare l’efficacia delle politiche implementate e per esplorare nuove strategie per rafforzare l’empatia organizzativa.

In conclusione, una teoria organizzativa basata sull’empatia tra i gruppi sociali può offrire un potente framework per costruire organizzazioni più inclusive, resilienti e produttive.

Promuovere l’empatia non solo migliora il clima interno, ma può anche rafforzare la reputazione dell’organizzazione all’esterno, attrarre e trattenere talenti, e promuovere l’innovazione attraverso una maggiore comprensione e collaborazione tra diversi gruppi sociali.

Betapress: Grazie per aver condiviso queste intuizioni con noi. Sembra davvero che la Teoria del Ponte Empatico possa essere un cambio di paradigma per il futuro del lavoro, uscirà anche un libro?

Faletti: Siamo solo all’inizio di questo percorso, ma sono fiducioso che possiamo costruire ponti di empatia che porteranno a un futuro più collaborativo e inclusivo per tutti, si un libro è già in lavorazione come può vedere dalla bozza di copertina.




Politicallllllly Corrrrrect … che freno al confronto!!!

La critica al concetto di “political correctness” (PC), o correttezza politica, può essere articolata da diverse prospettive, che includono questioni linguistiche, socioculturali, e politiche.

Il termine “correttezza politica” è stato utilizzato per la prima volta negli Stati Uniti negli anni ’80 e ’90 per descrivere una serie di norme linguistiche e comportamentali intese a evitare l’esclusione o l’offesa di gruppi sociali minoritari o svantaggiati.

La correttezza politica nasce come uno sforzo per promuovere il rispetto e la dignità di individui e gruppi spesso marginalizzati nella società, come le minoranze etniche, le donne, e le persone LGBTQ+.

In teoria, il concetto si fonda sull’idea che il linguaggio e le pratiche inclusive possano contribuire a una società più equa e giusta.

Uno degli argomenti principali oggi contro la correttezza politica è che essa venga utilizzata come censura indiretta, limitando la libertà di espressione.

I critici sostengono che il timore di contravvenire alle norme di PC possa scoraggiare le persone dal discutere apertamente di questioni sensibili o controversie.

Questo sta portando ad un ambiente in cui le opinioni sincere vengono sopite per evitare conflitti o accuse di insensibilità.

In aggiunta si osservi che si tende a generalizzare eccessivamente le esperienze e le identità di individui e gruppi, ignorando le complessità e le differenze interne a questi gruppi.

Questo può risultare in un approccio paternalistico che assume una vulnerabilità uniforme tra coloro che sono considerati “protetti” da queste norme.

Il PC è spesso visto come uno strumento di divisione politica, specialmente in contesti come gli Stati Uniti, ma ultimamente anche da noi, dove le questioni di correttezza politica hanno spesso diviso l’opinione pubblica lungo linee ideologiche.

La certezza che il PC sia una prerogativa della sinistra politica aliena ulteriormente la destra, contribuendo a una maggiore polarizzazione.

Molti studi suggeriscono che l’imposizione rigida di norme di correttezza politica possa avere effetti controproducenti.

Per esempio, può indurre rancore o resistenza tra coloro che si sentono ingiustamente limitati o accusati di pregiudizi.

Inoltre, può ridurre l’efficacia del dialogo autentico e dell’engagement in questioni di uguaglianza e giustizia sociale.

La PC dovrebbe promuovere una maggiore consapevolezza delle differenze e un rispetto per le esperienze altrui, tuttavia, è proprio la modalità con cui è applicata e percepita che può determinare se diventi un’utile strumento di inclusione sociale o un meccanismo repressivo.

Oggi in realtà il politically correct viene usato per desertificare il confronto politico e sociale, utilizzato soprattutto da chi ritiene necessario che le uguaglianze soffochino le diseguaglianze senza rendersi conto che non è questione di differenze o similitudini, ma di differenti prospettive dialettiche.

La semantica del confronto richiede impegni maggiori rispetto alla uniformità, richiede livelli culturali più alti ma soprattutto richiede un’apertura mentale ormai privilegio di pochi.

Come al solito gli ignoranti che si appropriano di strumenti troppo evoluti li applicano scadendo nel ridicolo; da qui le fin troppo assurde questioni decidere se il presidente se è una donna deve essere presidentessa o presidenta, senza tener conto del senso della parola che invece deriva da un participio asessuato che vuol dire presiedere, o togliere i bagni uomini/donne e fare i bagni unici, o peggio ancora arrivare a cancellare delle fiabe perché contenevano parole come ottentotti.

Qui entra una deriva della politically correct che è la cancel culture, altra fesseria cosmica che non tiene conto dei necessari rapporti esegetici da fare quando ci si confronta con temi soprattutto del passato.

Ma tutto questo avviene perché il livello culturale è drammaticamente calato, perché la curiosità intellettuale è quasi sparita, ma perché soprattutto la volontà di controllo da parte delle oligarchie del potere passa esclusivamente per la massificazione delle menti del popolo.

Infatti la realtà è foriera di verità inoppugnabili: quali sono gli interessi oggi del ministero dell’istruzione?

La copertura delle vacanze estive, ritornare ai voti, creare delle ulteriori figure (tutor dell’orientamento) inutili, le bocciature, meno stranieri nelle classi, e così via.

Niente rispetto a cosa si insegna e come, all’aggiornamento dei programmi, a nuovi percorsi didattici, alla revisione generale del mondo della scuola?

Ma dov’è la riforma della scuola che Valditara aveva promesso a Salvini quando fu nominato ministro? Sembrava tra l’altro che fosse già pronta, a meno che non stiamo parlando dei tutor dell’orientamento …

Come si può vedere quello che conta e su cui tutti noi dovremmo batterci non è la correttezza politica o fesserie simili, ma la strada per ritrovare la cultura ormai persa dalle nuove generazioni, per dare ai nostri figli la capacità di comprendere il mondo che li circonda, quell’empatia necessaria per vivere un sociale differente.

In conclusione, il dibattito sulla correttezza politica riflette tensioni più ampie relative alla cultura delle generazioni, alla libertà di espressione, all’identità sociale, e al cambiamento culturale.

Dibattito che stiamo perdendo alla grande.

 




L’intelligenza Artificiale novello Frankenstein

L’intelligenza artificiale (IA) moderna, spesso vista come un culmine delle aspirazioni tecnologiche umane, rappresenta una metafora contemporanea del classico mostro di Frankenstein di Mary Shelley.

Nel racconto, Victor Frankenstein crea una creatura dalla combinazione di scienza avanzata e ambizioni trascendenti, il che rispecchia il nostro moderno percorso di sviluppo dell’IA.

Questo parallelo si manifesta in diverse dimensioni etiche, sociali e tecnologiche.

Shelley descrive Frankenstein come un individuo ossessionato dall’idea di sfidare le leggi naturali della vita e della morte, creando una creatura vivente da parti di corpi non viventi.

Analogamente, l’IA moderna è spesso il risultato di un insieme eterogeneo di dati e algoritmi, progettata per emulare e talvolta superare le capacità cognitive umane.

In entrambi i casi, il creatore deve confrontarsi con questioni di responsabilità morale per le azioni della propria creazione.

Nel contesto dell’IA, questo solleva interrogativi urgenti sulla responsabilità degli algoritmi che prendono decisioni autonome o semiautonome, influenzando la vita delle persone in modi significativi e talvolta irrevocabili.

Il mostro di Frankenstein è inizialmente ostracizzato e temuto non per le sue azioni, ma per il suo aspetto e l’origine non naturale.

Questo è parallelo alla percezione pubblica dell’IA, spesso vista con sospetto e paura a causa della sua complessità e del potenziale impatto incompreso.

I media e la narrativa popolare tendono ad accentuare queste paure, presentando l’IA come una forza potenzialmente incontrollabile o minacciosa, simile al mostro che si rivolta contro il suo stesso creatore.

Frankenstein si trova a riflettere troppo tardi sugli aspetti etici della sua impresa, specialmente riguardo al benessere della sua creazione e al suo impatto sugli altri.

Allo stesso modo, il rapido sviluppo dell’IA ha superato la riflessione etica su molti aspetti importanti, come la privacy, la sicurezza dei dati e le implicazioni a lungo termine dell’autonomia delle macchine.

La necessità di una regolamentazione etica è diventata evidente, con accademici e regolatori che chiamano a una maggiore attenzione su come le IAs sono progettate, implementate e gestite.

Il mostro di Frankenstein è essenzialmente solo, senza compagni o pari, un destino che riflette un potenziale scenario futuro per l’umanità stessa nell’era dell’IA.

Man mano che le macchine assumono ruoli sempre più complessi esiste il rischio che l’umanità si trovi alienata dalle proprie creazioni o addirittura dipendente da esse.

Questo può portare a una nuova forma di isolamento sociale, dove le interazioni umane sono sempre più mediate dalla tecnologia.

Il racconto di Frankenstein solleva comunque importanti questioni sulla responsabilità dei creatori nel considerare l’impatto delle loro invenzioni sulla società.

L’IA, con le sue capacità di trasformare industrie intere, modi di vita e persino le interazioni interpersonali, rappresenta una sfida molto vicina a quella della creazione.

La sua integrazione nella società deve essere gestita con cura per evitare disuguaglianze amplificate, perdita di posti di lavoro, e altre potenziali crisi sociali.

Paradossalmente, ma forse molto realisticamente, oggi l’intelligenza artificiale può essere vista come il “nuovo mostro di Frankenstein”, non solo per il suo potenziale di sfuggire al controllo umano ma anche per le profonde implicazioni etiche e sociali che comporta.

Come nel romanzo di Shelley, l’IA sfida le nostre concezioni tradizionali di vita e responsabilità, spingendo l’umanità verso nuovi confini morali e tecnologici.

L’imperativo rimane quello di guidare questo progresso con una riflessione etica adeguata, garantendo che le tecnologie che creiamo servano veramente il bene dell’umanità piuttosto che precipitarla verso nuove forme di tragedia, ma per far questo dovremmo essere a monte convinti di quale sia il bene dell’umanità, che non è il benessere economico ma quello spirituale.




Fascismo e Antifascismo nel XXI Secolo: mogli e buoi dei tempi tuoi.

L’evocazione di termini storico-politici quali “fascismo” e “antifascismo” nel discorso contemporaneo solleva questioni di notevole rilevanza.

Sarebbe come trasportare ai tempi moderni altri dualismi storici; infatti il concetto di entità che sono logicamente collegate in un certo periodo storico ma non in altri può essere approfondito attraverso l’analisi di specifici fenomeni o ideologie che emersero e si svilupparono in risposta a circostanze storiche particolari.

Queste entità spesso perdono la loro rilevanza diretta o la loro relazione logica quando le condizioni cambiano drasticamente.

Qui di seguito, descriverò due coppie di entità storiche che illustrano questo principio.

Assolutismo monarchico e mercantilismo (XVII – XVIII secolo)

Assolutismo monarchico: Durante il XVII e XVIII secolo, molte nazioni europee erano governate secondo il principio dell’assolutismo monarchico, che sosteneva che il sovrano avesse poteri illimitati, non soggetti a leggi terrene ma solo alla volontà divina.

Questa forma di governo era particolarmente prevalente in Francia, con sovrani come Luigi XIV.

Mercantilismo: Parallelamente all’assolutismo, si sviluppò il mercantilismo, un sistema economico nazionalista che mirava a massimizzare le riserve di metalli preziosi di una nazione attraverso una bilancia commerciale positiva, spesso sostenuta da politiche protezionistiche e coloniali.

Il mercantilismo era logico in un’epoca di assolutismo perché entrambi promuovevano un forte controllo statale, sia dell’economia che della società, e il sovrano poteva dirigere l’economia in modo che servisse gli interessi dello stato.

Differenze in altri periodi: Nel contesto moderno o post-industriale, né l’assolutismo né il mercantilismo sono praticabili o desiderabili.

L’assolutismo contrasta con le moderne concezioni di diritti umani e democrazia, mentre il mercantilismo è stato soppiantato da teorie economiche che favoriscono il libero scambio e la globalizzazione.

Guerra fredda e corsa agli armamenti nucleari (circa 1947 – 1991)

Guerra fredda: Il periodo della Guerra fredda, caratterizzato dalla rivalità ideologica, politica, economica e militare tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, ha definito l’ordine mondiale per gran parte della seconda metà del XX secolo.

Questo periodo è stato segnato da un costante sospetto e da un confronto indiretto attraverso guerre per procura e influenze politiche in nazioni terze.

Corsa agli armamenti nucleari: In questo clima di tensione e competizione, entrambe le superpotenze investirono enormemente in armamenti nucleari, portando a una corsa agli armamenti senza precedenti.

La logica dietro questo massiccio accumulo di armi nucleari era la deterrenza, con l’idea che un arsenale sufficientemente potente avrebbe scoraggiato l’altro da qualsiasi attacco diretto.

Differenze in altri periodi: Dopo la fine della Guerra fredda nel 1991, con il collasso dell’Unione Sovietica, la logica della corsa agli armamenti nucleari è diventata molto meno centrata.

Anche se le questioni di non proliferazione e disarmo rimangono cruciali, l’acuta bipolarità e la corrispondente corsa agli armamenti non hanno più lo stesso significato strategico nel contesto multipolare odierno, dove le minacce sono più diffuse e meno concentrata tra due sole superpotenze.

In entrambi questi casi, le entità discusse erano strettamente interconnesse e logiche nei loro contesti storici specifici, ma perdono questa connessione logica quando trasportate in altri periodi storici, dimostrando come le circostanze storiche possano profondamente influenzare la pertinenza e la funzionalità delle pratiche politiche ed economiche.

In un’epoca caratterizzata da una complessità socio-politica crescente, l’applicazione di categorie storiche come appunto fascismo ed antifascismo a contesti nuovi può risultare problematica, oltre che stupida.

In queste brevi note, si argomenterà che il riferimento a tali termini è non solo anacronistico, ma potenzialmente nocivo, influenzando negativamente il dibattito pubblico e politico attuale.

Il fascismo, nato nel contesto post-bellico italiano del XX secolo, era caratterizzato da una forte componente nazionalistica, una politica economica corporativa, il totalitarismo e una repressione violenta dell’opposizione. L’antifascismo, d’altra parte, rappresentava un ampio spettro di movimenti e ideologie politiche che si opponevano a questi principi, spesso sostenendo valori democratici, libertari e progressisti.

Esiste a tutti gli effetti una discontinuità storica: le condizioni politiche, economiche e sociali che hanno dato origine al fascismo degli anni ’20 e ’30 non sono replicabili nella società contemporanea globalizzata e tecnologicamente avanzata.

Utilizzare il termine “fascismo” per descrivere fenomeni moderni può portare a una comprensione errata di questi ultimi, ignorando le loro specificità.

Fin troppo facile ammantarsi di mantelli antifascisti sic et simpliciter, semplificazione e riduzionismo distruggono la verità storica contemporanea.

Etichettare indiscriminatamente come “fascisti” gli avversari politici moderni può ridurre la complessità dei problemi attuali a una dicotomia obsoleta, impedendo un’analisi più matrice e differenziata delle questioni politiche.

L’antifascismo, pur nascendo come risposta necessaria e morale al fascismo, oggi rischia di trasformarsi in un etichettamento che non riflette le reali dinamiche politiche.

Il pericolo è duplice:

Da una parte un vero e proprio fenomeno di polarizzazione e alienazione, anche culturale.

L’uso del termine “antifascista” come sinonimo di virtù può creare un ambiente in cui chiunque non si allinei completamente a una certa visione politica viene marginalizzato o etichettato negativamente, alimentando divisioni e incomprensioni.

Senza dubbio dall’altra si crea una distrazione dai veri problemi: concentrarsi sul combattere un “fascismo” che non corrisponde alla realtà contemporanea, può distogliere l’attenzione da minacce più immediate e concrete alla democrazia e ai diritti umani, come il populismo autoritario, il razzismo sistematico, la disuguaglianza economica e la crisi climatica.

Il rischio di chi continua ad ostinarsi in questa dialettica inutile è che passi per incapace di affrontare seriamente altri problemi e quindi si trinceri dietro una inutile ed ormai suberata diatriba storica per non mostrare la propria inadeguatezza a combattere i temi veri del presente. 

Sostenere che parlare di fascismo e antifascismo sia deleterio non equivale a negare l’importanza storica o l’impatto di tali movimenti, né implica l’ignoranza delle loro tragiche conseguenze.

Piuttosto, si propone una riflessione critica sulla pertinenza e l’efficacia di questi termini nel contesto attuale.

Nel formulare politiche e nel dibattito pubblico, è fondamentale promuovere un linguaggio che rifletta la realtà contemporanea, evitando anacronismi che possano semplificare eccessivamente complesse realtà sociali.

Inoltre, è essenziale che il discorso politico rimanga centrato su questioni attuali, promuovendo un dialogo inclusivo e produttivo anziché divisivo.

In questo modo, la società può effettivamente affrontare e risolvere le sfide del presente con strumenti adeguati e un’analisi accurata.

Lo stesso Slavoj Žižek, anche se non nega l’esistenza di correnti neofasciste, ha criticato l’uso del fascismo come categoria onnicomprensiva che impedisce un’analisi più fine delle condizioni politiche attuali.

Žižek, in particolare, ha sottolineato come l’ossessione per il fascismo possa distogliere l’attenzione da altre forme emergenti di dominio e oppressione che non rientrano facilmente nella categoria del fascismo tradizionale.

In effetti, mentre il fascismo e l’antifascismo resteranno concetti significativi nella comprensione degli eventi storici del XX secolo, la loro applicazione indiscriminata ai fenomeni attuali può non solo distorcere la realtà, ma anche impedire un’efficace risposta alle sfide politiche del nostro tempo.

Viene spontaneo chiedersi: ma è forse proprio quello che qualcuno vuole? Trincerarsi dietro l’evocazione di un periodo ormai estinto per non fare vedere la propria pochezza politica?




Stan Laurel e Oliver Hardy amici oltre il tempo.

La “Cultura” concorre alla formazione dell’Individuo sul piano intellettuale e morale, oltre all’acquisizione della consapevolezza del ruolo che gli compete nella società.

E’ infatti l’insieme delle cognizioni intellettuali che, acquisite attraverso lo studio la letteratura, l’esperienza, l’influenza dell’ambiente ed elaborate in modo soggettivo ed autonomo , diventano elemento costitutivo della personalità, contribuendo ad arricchire lo spirito, a migliorare le facoltà individuali, specialmente nella capacità di giudizio.

E’ con questo spirito che ci Pregiamo di dare spazio da oggi alla Collega Cristina Ciferri.

Prima del suo interessantissimo pezzo, che leggete a seguire, un suo brevissimo curriculum che la pone al top di quelle discipline che vanno dall’arte, alla moda, dal food al turismo.

Non a caso fondatrice e CEO di Accademie di grande interesse Nazionale ed Internazionale.

 

Cristina Ciferri Giornalista Pubblicista,

Comunicatore d’Impresa e Tecnico Pubblicitario;

Vocational Education Specialist; Instructional Designer; Press Relations &

Event Manager.

Dal 1993 Amministratore Unico ANCI srl – Accademia Nazionale Comunicazione e Immagine.

Dal 2004 CEO & Founder ANPA – Accademia Nazionale Professioni Alberghiere prima Scuola -Albergo d’Italia

specializzata nel campo della formazione professionale e manageriale dei settori Hospitality & Food & Beverage Management.

Dal 2017 CEO & Founder dell’Ateneo del Gelato Italiano, Scuola Internazionale di Gelateria Artigianale Made in Italy e Laboratorio Creativo del Gusto.

 

 

“STANLIO & OLLIO” – Amici fino all’ultima risata

Comicità e commozione per ridere fino a piangere e piangere dal ridere

 

Al Teatro Vittoria di Roma, lo scorso Martedì 23 Aprile in scena un elegante e esilarante cammeo di raffinata e intelligente comicità, un equilibrato esercizio di stile recitativo, un concentrato di toccanti emozioni, un intreccio di sovrapposti e a volte contrastanti sentimenti dipinti con pennellate di vite recitate e vissute, a comporre una tela astratta senza confini dove storie umane e professionali tinte di gloria e sofferente decadenza, creano un arcobaleno di intense e ammalianti suggestioni, riportando in vita il più famoso ed immortale duo comico Hollywoodiano: Stan Laurel e Oliver Hardy.

 

Esperimento pienamente riuscito grazie alla straordinaria capacità recitativa della coppia protagonista dello spettacolo, Claudio Insegno nei panni di Stanlio e Federico Perrotta in quelli di Ollio (Babe) e dell’intera compagnia teatrale, composta da altri 5 attori abilissimi nell’interpretare in sequenza addirittura 24 diversi ruoli, tra i quali in particolare quelli delle tanti mogli e amanti del duo comico (portate in scena da Valentina Olla, Sabrina Pellegrino e Federica De Riggi), dell’attore Jimmy Finlayson, il leggendario burbero ometto dagli enormi baffi e occhi strabuzzati, continuamente in lite con i due protagonisti e di Hal Roach, l’ideatore e primo produttore della coppia Stanlio e Ollio (interpretati entrambi da Franco Mennella). Non di minor valore artistico l’interpretazione di Giacomo Rasetti, impegnato in scena nel ruolo di tecnico, aiuto regista e pazzo maniaco.

 

Vincente il testo inedito scritto dallo stesso Insegno con Sabrina Pellegrino e diretto sempre da Insegno, che ha dato vita ad una commedia musicale dal grande e incalzante ritmo, costruita sullo stile ispirato al genere Slapstick del cinema muto, basato sul linguaggio del corpo e sulla esilarante costruzione di azioni spericolate e esagerate, colpi, risse, incidenti e lancio di oggetti e torte in faccia, che da subito fa decollare lo spettacolo strappando risate e applausi e riuscendo al contempo a trasportare il pubblico all’interno di spazi improbabili, dove tutto si mescola e si separa, si fonde e confonde, creando un feel rouge tra la vita privata e quella artistica dei due grandi comici, complementari quanto assolutamente diversi e caratterialmente opposti nella realtà come in scena e proprio per questo straordinariamente uniti dal sentimento vero dell’Amicizia.

 

Storie di amori sbagliati, persi e ritrovati. Storie di fragilità umane, di errori e rivincite, di glorie e decadenze, di geni artistici e talenti, di maturità e eterna fanciullezza. Storia di una amicizia sincera e autentica, di promesse giurate, di valori mai traditi.

 

“STANLIO & OLLIO” – Amici fino all’ultima risata, in scena al Teatro Vittoria fino al 5 Maggio, toglie la maschera ai due straordinari artisti e attraverso un sapiente apparato scenografico pensato da Alessandro Chiti, ci introduce senza soluzione di continuità, nelle abitazioni dei comici per spiare le rispettive turbolente atmosfere domestiche e le difficili dinamiche relazionali con mogli e amanti, dai litigi coniugali, alle separazioni, ai matrimoni, per poi farci piombare all’interno di un set cinematografico dove la coppia si appresta a girare una stravagante scena di un film e ancora portarci a riviere come se fossimo al cinema, alcune delle più esilaranti e famose gags comiche del duo, fino ad accompagnarli nella storica tournée teatrale britannica, occasione per una intima, pura, reciproca confessione dei personali sentimenti che consacrerà una forte, leale e indissolubile amicizia.

 

Nella vita uomini fragili e complessi, insicuri, ostinati e perseveranti, accomodanti e combattenti. In scena, maschere maldestre e infantili, distratte e fallibili, argute e geniali, sempre nei guai e nei pasticci anche nell’affrontare e risolvere situazioni semplicissime.

 

Braccio e mente, protagonista e spalla… nella vita come in scena, un continuo scambio di ruoli che confondono le personalità dei due colossi della comicità mondiale del cinema muto e sonoro, geni indiscussi della risata sana e contagiosa e di una comicità elegante, studiata e ragionata, fatta di gesti, espressioni mimiche e facciali, di sguardi buoni e ingenui, intelligenti e malinconici sempre puntati dritti in camera verso lo spettatore, di smorfie e sberleffi, di scambi assurdi di bombette e divertenti e pantomimici balletti.

 

Uno spettacolo da vedere e perché no rivedere anche più volte, per godere l’emozione di rivivere i miti artistici della nostra infanzia, far conoscere alle nuovissime generazioni una comicità di assoluto stile, ma anche per guarire con il potere terapeutico della risata la mente e il corpo.

 

Perché come già sosteneva Ippocrate, “Il buonumore equivale a un elisir di lunga vita”!

Cristina Ciferri

www.anpascuola.it

www.ateneodelgelatoitaliano.com