Dislessia: un modo diverso di vedere le cose…

In Italia nel 2017 se ne contavano quasi 2 milioni.

Per fortuna è un esercito numeroso perché non sarebbe stato facile combattere in pochi contro tanti preconcetti.

Sono i ribelli della scrittura, i sovversivi della sillabazione, i disobbedienti delle cifre, al secolo noti come ragazzi con caratteristiche di DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento), sono i disgrafici, dislessici o discalculici.

Sono tanti ma rischiano di essere ancora di più i preconcetti sul loro conto:

  • Sono malati -> poverini
  • Sono dei geni -> sono incompresi
  • Sono pigri -> ci vogliono i ceffoni
  • Vanno aiutati -> poverini
  • Sono lenti -> poverini
  • Anche Einstein era dislessico -> sono tutti scienziati
  • Semplicemente non si impegnano abbastanza -> sono pigri
  • Adesso che esiste la malattia, sono tutti dislessici -> ci vogliono i ceffoni
  • Nelle prove orali sono più bravi che in quelle scritte -> poverini
  • Hanno la testa tra le nuvole -> sono pigri
  • Non potranno mai leggere -> poverini
  • Leggono ma non capiscono -> poverini
  • Confondono le lettere -> poverini
  • Confondono la destra con la sinistra -> poverini
  • Sono dislessici perché da bambini non giocavano abbastanza per terra -> colpa dei genitori

E avanti fino all’infinito.

A chiedere in giro a cosa viene da pensare quando si parla di dislessia, se ne sentono proprio di tutti i colori.

Quasi viene da pensare che questi ragazzi siano malati, eppure non ci sono i presupposti per definirli tali.

Questi piccoli eroi, ogni giorno, combattono delle guerre senza quartiere contro l’opinione comune e il diffuso “sotuttismo” (vogliamo togliere la possibilità di dire la propria anche a chi si occupa di tutt’altro?), contro madri ansiose, insegnanti superficiali, fratelli geniali, medici pressappochisti e scuole rigide.

Super eroi circondati da tante opinioni sulla dislessia ma poche su di loro.

Ovviamente quella che ho presentato non è l’unica realtà, ma è solo quella che mi disturba di più.

Di contro, naturalmente, esistono genitori pacificanti, insegnati competenti e professionali, fratelli che sono fratelli con i quali giocare e litigare e non poli di paragone, medici preparati e scuole all’avanguardia.

Esistono anche realtà di supporto molto belle ed è con una di queste che mi sono fermata a parlare.

Loro sono Alessandro Rocco, Paola Saba e Valentina Conte, sono i volti e le voci di W la Dislessia e io sono una fan del loro lavoro perché, a guardarli all’opera e a parlare con loro, sembrano felici e al posto giusto e queste, per me, sono qualità di valore.

Operano a Vicenza ma seguono ragazzi provenienti da tutta Italia.

All’interno della loro struttura, seguono ragazzi con riconosciuta dislessia insegnano loro tecniche di lettura e metodo di studio.

Secondo il loro metodo, non si parte dal problema ma dalle difficoltà dei ragazzi.

Se si va sul loro sito (il link tra i riferimenti) si legge che hanno seguito fino ad oggi 3756 ragazzi e formato attraverso i loro corsi 6034 genitori.

Mi spiegano Paola e Alessandro che il lavoro che fanno avviene su più livelli: si lavora coi ragazzi e coi genitori.

Spesso il primo incontro è con i genitori che li contattano perché sono preoccupanti per i loro figli ai quali o è stato diagnosticato una difficoltà di apprendimento; o accusano una difficoltà scolastica (spesso dovuta alla mancanza di un metodo di studi) più o meno circostanziale.

I ragazzi faranno una valutazione con Paola o Valentina mentre i genitori, che avranno portano tutte le documentazioni del caso, dovranno affrontare Alessandro che, di solito, un po’ li richiama all’ordine.

Spesso i genitori portano dai ragazzi di W la dislessia i propri figli per farli “curare” e alla fine può capitare che siano proprio i genitori i primi a dover cambiare certi atteggiamenti, abbattere certe ansie e farsi una sorta di esame di coscienza per le proprie pretese.

Non per cambiare la diagnosi specialistica ma per aiutare i propri figli a concentrarsi sui propri talenti.

Quello che cercano di fare i ragazzi di W la dislessia, è creare l’esigenza nelle persone di continuare ad avere voglia di imparare.

Per riassumere, i ragazzi, attraverso il gioco e la relazione (non facendo i compiti) valorizzano le loro doti compensando e mirando a colmare altre lacune; i genitori imparano a gestire la dislessia dei figli e, quando ci sono, la propria ansia o fragilità genitoriali.

W la dislessia entra anche nelle scuole grazie a giornate dedicate e a incontri specifici, un modo controintuitivo di affrontare delle realtà giovani (i DSA), numerosissime e che ancora   capita che non si sappia bene come prendere.

Ci auguriamo che venga un giorno in cui, come dicono Paola, Valentina e Alessandro, si decodifichi quella D dell’acronimo DSA non come Disturbi ma come Difficoltà perché “tuo figlio non è malato”.

Riferimenti

 

 

 

 

 

 

Per conoscere meglio il lavoro svolto da W La dislessia visita i link riportati cliccando sulle parole

On line 

?? Gruppo facebook

Canale you tube 

? Sito: www.wladislessia.com

Libri: 

? W la Dislessia – tuo figlio non è malato

W i Compiti – come dire definitivamente addio i pomeriggi di urla e litigi

 




Come le bugie manovrano la nostra vita

“C’era una volta… – Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori. 

No, ragazzi, avete sbagliato. 

C’era una volta un pezzo di legno. 

Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta… ”

Ci sono oggi tante persone fatte con quel povero ciocco di legno da catasta.

Ci sono oggi tante persone che, nonostante questo,

vengono amate… 

amate da un povero vecchio cuore che darebbe qualunque cosa per il bene di quei burattini di carne.

Questi moderni burattini, così come quello della favola, hanno una cosa che li accomuna: dicono le bugie.

Ma non parliamo di loro.

Parliamo del burattino famoso 

di quello del libro per bambini che tutti conoscono.

Parliamo di Pinocchio.

Le bugie lo tenevano prigioniero e non gli davano la possibilità di diventare un bambino vero.

Ma lui questo non lo sapeva.

Lui viveva di piccole bugie innocenti che lo aiutavano a non affrontare la realtà.

Di grosse bugie impegnative che lo rendevano prigioniero e gli facevano rischiare la morte.

La morte.

Bugie che riuscivano a portarlo così lontano da quello che era (con i suoi difetti ma anche con i suoi pregi) fino a trasformarlo in qualcosa di ancora peggiore e più pericoloso di un burattino: in un ciucchino in pericolo di vita.

Non era un bambino vero ma poteva morire.

Non era un burattino ma un animale da soma.

Tutto questo per colpa delle bugie.

Poi un giorno qualcosa cambia.

Pinocchio mette la testa a posto.

Capisce i suoi errori, impara ad affrontare la realtà con tutte le sue amarezze 

ed ecco che avviene la magia:

Pinocchio diventa un bambino vero.

La maschera di legno che credeva lo avrebbe salvato da qualunque cosa, cade e viene fuori l’essenza, la verità.

Ed è così che comincia il cammino di crescita dell’uomo.

————

Il fatto è che la verità fa paura.

La verità è quella parte del nostro animo che urla le nostre debolezze e per questo non la vogliamo vedere.

Ma la verità è ambrosia.

La verità è quell’aspetto del nostro essere che taglia i fili che ci rendono burattini e schiavi.

La verità ci rende divini.

In tutti i percorsi iniziatici (che mi vengono in mente in questo momento) è la verità a rendere liberi.

Ma probabilmente, come è successo a Pinocchio, è per questo che fa così paura.

——–

Dedicato a chi ha il coraggio di scoprire la verità

guardarla in faccia 

e abbracciarla.

E a chi prima o poi di stancherà di restare un ciuccio.




Lo scaffale delle cose vergognose

Grande subbuglio nella Casa dalle Finestre Rosse.
In questi giorni ho fatto ordine.

Sono stati giorni belli, di cornici appese e penne scariche buttate vie.
Mattonelle decorate e fogli strappati in modo da far scomparire i dati sensibili;
candele accese, tisane calde, gatti che correvano di qua e di là.
Vecchie foto ritrovate e tanto, tanto, tanto spazio in più.

In tutto questo mettere ordine ho creato un posto segreto, nascosto.
L’ho chiamato lo Scaffale delle Cose Vergognose.

È un posto che si trova a casa mia, che ha a che fare con me ma che ospita degli aspetti che in questo momento, non voglio che altri vedano perché stonano con il resto esposto.

Alcuni di questi aspetti sono sulla porta per andar via,
altri, chissà, potrebbero stare per entrare,
altri ancora sono segreti e basta.

Le cose che non hanno più a che fare con me le ho buttate o date via (credo molto nel regalare la roba che non ha più motivo di stare con me: abiti, oggetti ecc… perché così continueranno ad essere utili e a migliorare la vita di qualcun altro)
Gli oggetti dello Scaffale delle Cose Vergognose, invece, hanno bisogno di rimanere ancora perché, anche se in modo non ben definito, hanno a che fare con me ma non voglio che tutti lo sappiano.

Tutti noi abbiamo uno scaffale delle cose vergognose.
Si trova dentro un mobile o in bella vista nascosto dai libri.

Conserviamo quella roba dentro di noi come in alcune case si nascondono le bomboniere che non piacciono e che non si possono buttare perché chi ce le ha regalate viene spesso a farci visita.

Lo Scaffale delle Cose Vergognose lo abbiamo tutti,
è giusto che esista ed è giusto saperlo perché riusciamo a fare un ordine in questo scaffale e possiamo amarci.

In questo scaffale ci si può trovare di tutto.

C’è chi ci tiene i regali degli ex, chi le corrispondenze segrete, chi i diari, chi libri di cui si vergogna, chi i video privati, chi le maschere della propria vita segreta.

Sullo Scaffale delle Cose Vergognose trovi la pornografia, i diari, le foto, la collezione degli harmony e il libro di poesie dell’ex con la dedica scritta sopra, la Bibbia.

Cose di cui ci vergogniamo, un po’ perché non vogliamo accettarle come nostre,
un po’ perché in cuor nostro sappiamo che tra poco non saranno più nostre e usciranno da casa,
un po’ perché parlano di una nostra identità che non siamo ancora pronti a mettere sullo scaffale centrale o buttare.

Questo scaffale però esiste ed è dentro casa nostra.

Ed è importante sapere che ha a che fare con noi, amarlo e avere pazienza con lui.

Nel mio scaffale ci sono libri e video che stonano con il resto della mia nuova libreria; come precedentemente avevo tolto gli altri testi per far spazio a loro, ieri ho fatto un nuovo trasloco.

E sul vostro Scaffale delle Cose Vergognose cosa c’è?




L’umile fioraia, la figlia talentuosa e il seme della presunzione

C’era una volta una umile fioraia.

Nel villaggio tutti conoscevano l’umile fioraia e tutti andavano a comprare i fiori da lei.

Era brava nel suo lavoro e tutti le volevano bene.

La fioraia aveva una figlia che cresceva nella sua bottega.

La bambina aveva molta passione per i fiori e osservava con fame di sapere tutto quello che faceva e diceva la madre.

La madre insegnò alla figlia tutto quello che sapeva.

Poiché l’umile fioraia sapeva che il talento va nutrito per diventare virtù,
quando capì che la figlia era migliore di lei e lei non aveva più nulla da insegnarle, cercò in giro a chi poter affidare la figlia talentuosa.

Cercò e cercò
Chiese e chiese
Verificò e verificò.

Fu così che seppe che in un villaggio lontano viveva la regina dei fiori.
Una coltivatrice di fiori con grande esperienza e tanto da insegnare.

L’umile fioraia prese la figlia talentuosa e la accompagnò, attraverso valli, fiumi e montagne, dalla regina dei fiori affinché imparasse da lei.

La regina dei fiori prese in simpatia la figlia talentuosa tanto che desiderò farla diventare coltivatrice.

Ogni volta la regina dei fiori insegnava qualcosa alla figlia talentuosa e la rimandava a casa affinché applicasse la regola sul suo piccolo e nascente giardino.

La figlia talentuosa era diventata così brava e famosa che nel villaggio e dai villaggi vicini altre figlie volevano imparare la virtù.

Così chiesero aiuto all’umile fioraia che, di buon grado, insegnava loro tutto ciò che sapeva per coltivare il talento e poi le mandava a imparare la virtù dalla regina dei fiori.

Fu un periodo bellissimo:

Nel villaggio e nei villaggi vicini era tutto un fiorire di nuovi bellissimi giardini e l’aria era piena di inebrianti profumi.

Un giorno accadde una cosa.
Un seme nero e sconosciuto germogliò nel cuore della fioraia e fece sbocciare un pensiero triste nella sua mente:

“Ormai sono anni che accompagno la mia virtuosa figlia dalla regina dei fiori.
Ho ascoltato ogni sua parola e visto mettere in pratica ogni suo insegnamento.
Cosa ha oggi la regina dei fiori da insegnare alle mie allieve che io non sappia già?”

Quello fu l’inizio della fine.

Purtroppo una fioraia, a differenza di una coltivatrice, non conosce la natura dei semi e non sa come estirpare le piante maligne.

E così il triste fiore divenne, nel cuore della fioraia, una robusta pianta infestante.

Da allora, a poco a poco, l’arida fioraia dissuase le sue giovani giardiniere dall’affrontare tutti quei viaggi e quei disagi dicendo che avrebbe lei insegnato quello che c’era da imparare.

Sua figlia, d’altronde, era la prova della sua bravura.

Le giovani giardiniere si fidarono della loro maestra e si affidarono a lei per i loro giardini.

Ma una fioraia non è una coltivatrice.

La fioraia sa scegliere i fiori e farne belle confezioni,
sa insegnare come migliorare la vita delle piante
ma non sa nulla di come si prepara la terra e di quante stagioni cattive bisogna aspettare per averne una buona.

Né come fronteggiare le condizioni avverse per trasformarle in propizie.

La fioraia sa curare ma non conosce la pazienza della coltivatrice.

È facile allora immaginare quello che accadde:

nel giro di poco la bellezza cominciò a venir meno e i profumi si affievolirono.

Per colpa della presunzione della fioraia i giardini cominciarono a seccare.

Alcuni mantennero qualcosa di bello, ma molti altri andarono perduti.

Tra chi scelse di continuare a fidarsi della fioraia presuntuosa, chi aveva talento lo mantenne ma tutta la virtù andò perduta.

Delle altre non sappiamo in questa fiaba.

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Dedicato ai delicati animi che hanno trovato il loro talento e lo vogliono trasformare e consolidare ogni giorno in virtù.

Che nessuno pensi mai che la conquista delle virtù possa essere fatta e mantenuta con la comodità.




Chi è lo schiavo e chi è il padrone?

Riflessioni a seguito della lettura de La capanna dello zio Tom di Harriet Beecher Stowe

Noi, che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, che troviamo, tornando a sera, il cibo caldo e visi amici, consideriamo la nostra umanità.

L’incipit di questo articolo è chiaramente una parafrasi della poesia “se questo è un uomo” di Primo Levi.

Ho scelto queste parole perché, lo confesso, sono in difficoltà nel trovarne di mie.

Come tanti, sono una lettrice di romanzi, di essi mi piace il fatto che, naturalmente, passano sottobanco una serie di stimoli che da sola non saprei neppure di voler cercare.

Purtroppo questo non è del tutto un bene perché non sempre quello che troviamo è quello davanti a cui vogliamo trovarci.

Il lettore sa che può capitare che si legga per il piacere di farlo e poi, alla fine, ci si ritrovi come “scomodi”.

Un sorta di spina nella carne, come mutuava Kierkegaard da Paolo di Tarso.

Ma forse la letteratura, come l’arte in genere, potrebbe essere questo: un pungiglione.

Alle volte potrebbe venire da pensare che se concilia non è arte.

Ma torniamo alle mie scelte letterarie che, per caso, questa volta sono ricadute su “La capanna dello zio Tom” di Harriet Beecher Stowe, romanzo celeberrimo, soprattutto per i solutori di parole crociate.

Romanzo notissimo, dicevo, ma nei confronti del quale io, oltre al nome di Tom inserito più volte nelle caselle in senso orizzontale o verticale, non ero andata.

L’incipit sembra quello di un classico romanzo dell’Ottocento che racconta le romantiche (nel senso etimologico del termine) dinamiche dei personaggi 

Andando avanti le cose cambiano velocemente e arrivano già le prime avvisaglie della vergogna.

Per chi come me avesse sottovalutato la trama del romanzo, la capanna dello zio Tom racconta le dinamiche della schiavitù nell’America dell’Ottocento, di come venivano percepiti e trattati di schiavi e di come fosse mortificante e mortificata l’umanità degli schiavi e dei padroni.

Oltre ai personaggi con nomi e caratteri, i protagonisti trasversali del romanzo sono la religione cristiana, la cultura e la schiavitù.

Le vittime, come in tutti i romanzi, siamo noi lettori che pensiamo di passare qualche ora di benessere e ne usciamo scossi.

La storia è ambientata nella prima metà del 1800, per un periodo lungo una vita (quella di Tom), siamo prima del 1850 e siamo in America.

Quello che fa pensare è che si tratta di meno di 200 anni fa, un lasso di tempo che interessa ancora le storie di qualche bisnonno, praticamente l’altro ieri.

La schiavitù

In America, la terra dei grandi sogni e della libertà, era accettata la schiavitù ed esistevano gli schiavi, bene mobile del patrimonio umano.

In Europa, non da meno, la prima rivoluzione industriale portava in seno e dava alla luce la classe operaia paragonata nel corso del romanzo, a una simile schiavitù.

Il pretesto letterario è la storia di Tom: schiavo fedele venduto controvoglia dal suo amato padrone e in attesa di essere riscattato per tornare dalla sua famiglia.

Tom, viaggiando con un carico di schiavi e l’altro, attraversa stati e fiumi e incontrata tanti schiavi, tanti padroni e tanti mercanti di schiavi.

Gli schiavi dalla descrizione della storia hanno nella loro essenza il marchio di infamia della loro origine cattiva (ovvero legata alla cattività), di loro si pensa che non abbiano affezioni né sentimenti umani, anche il padrone più progressista e pio li guarda con benevolenza ma non riesce a vederli come pari a lui.

Più simili a quelli che per noi oggi sono gli animali domestici che agli uomini, gli schiavi portavano le catene ai piedi e dentro l’anima.

Chi conosce il romanzo, la tematica e la critica, sa che questo romanzo ha gettato le basi per tanti stereotipi che descrivono lo schiavo negro americano.

Può piacere o non piacere, può apparire troppo sentimentale o penoso o, addirittura, riduttivo, ma è comunque un documento e una testimonianza.

Le storie raccontate sono vere e i sentimenti sinceri ed è questo che destabilizza e scuote dal torpore

La religione


La religione viene offerta loro come placebo per sopportare i dolori e diventare esempi di santità; dà la forza per cambiare vita ed è il pretesto e la strada per acculturarsi.

Leggere la bibbia e scrivere alle persone care, sono le leve che spingono i protagonisti a voler imparare a leggere e scrivere.

La religione è la doppia leva che, se da un lato spinge i padroni – soprattutto le donne – alla carità, dall’altro lato legittima la schiavitù.

La cultura

La cultura distingue schiavi da padroni.

Chi sa leggere e scrivere ha diritto di avere sentimenti perché anche il più sciocco e vuoto personaggio, grazie alla cultura, è un uomo e non uno schiavo.

Lo schiavo che sa più o meno leggere diventa prezioso e acquista valore commerciale, lo schiavo che sa leggere e scrivere, si è insinuato nella società.

E tutto questo, lo ripeto, avveniva meno di 200 anni fa.

E oggi dove sta la nostra schiavitù?

Di che colore è la pelle dei nostri schiavi?

E quella dei padroni? 

Noi chi siamo? Schiavi o padroni?
Ci sono persone che, crediamo, non abbiano i nostri stessi sentimenti?
Ci sono persone rispetto alle quali, crediamo di avere passioni inferiori?

C’è qualcosa di tangibile che ci fa sentire superiori o inferiori ad altri?

C’è per caso una schiavitù che sopportiamo perché pensiamo non ci riguardi o sia naturale?

Quanto devono essere recenti le disumanità perché possiamo dimenticarle o ignorarle?

Riferimenti:

Poesia Se questo è un uomo di Primo Levi

https://www.riflessioni.it/testi/primo_levi.htm

Audiolibro de La capanna dello zio Tom

https://www.liberliber.it/online/autori/autori-s/harriet-beecher-stowe/la-capanna-dello-zio-tom-audiolibro/




Il punto di vista di Barbablu

Quelli come me tagliano carne ed ossa.

C’è chi dice persino che certe notti ululiamo alla luna
ma non vi dirò se questa diceria sia vera o no.

Una cosa però non potremmo negare né dissimuleremo mai, neppure se lo volessimo: 

siamo predatori e del predatore portiamo il segno.

Quelli come me hanno fatto la guerra e praticato la magia.

Dalla guerra abbiamo preso il gusto del sangue, 

a causa della magia ci è cresciuta la barba blu.

La nostra razza l’abbiamo scritta in faccia.

La barba ci rende riconoscibili e racconta i nostri segreti.

In guerra abbiamo imparato che il compagno è l’unico del quale ci possiamo fidare e che senza di lui che ci guarda le spalle, saremo spacciati.

Dalla magia abbiamo imparato la potenza della parola e come essa possa costruire, se ben usata, e distruggere, se abusata.

Non siamo persone raccomandabili e a prima vista non piaciamo a nessuno.

Siamo sinistri, inquietanti, scontrosi, silenziosi e predatori;

brutti, offensivi, efferati e furiosi.

E anche noi abbiamo bisogno di amare.

Anche noi sentiamo il bisogno di una compagna.

Una piccola creatura da amare, di cui prenderci cura e da fare ricca.

Qualcuno in grado di prendere e dare e non distrarsi in altre cose.

Cercavo anche io qualcuna che si fidasse di me e non mi tradisse 

qualcuna dalla parola sincera 

qualcuna a cui la mia barba non sembrasse poi così blu…

L’ho cercata 

e l’ho trovata.

Sono entrato nei salotti e mi sono fatto civile, ho corteggiato un fiore e l’ho sposato.

Portai la mia giovane sposa nel mio palazzo dalle infinite stanze.

Le ho dato le chiavi di tutte le porte e del mio cuore e mi sono fidato di lei.

Le ho permesso di aprire tutte le porte tranne una.

Era una buona prova: anche Dio l’aveva usata con Adamo ed Eva.

E lei non l’ha superata.

Mia sposa amara,

sono uscito dal castello, ti ho lasciata libera e mi hai tradito.

Ti è sembrata troppo bella la vita con me da cercare un segreto che ti avevo detto di non violare.

Mi conoscevi quando hai accettato la promessa e, nella sincerità del tuo cuore, non potrai dire che non te lo aspettavi.

Mi hai mentito, hai negato e vuoi dare a me la colpa

Ma io ora soffro 

e per colpa tua, 

mia vecchia amata, 

dovrò ucciderti.

—–

Simbolico dialogo interno, personale e opinabile del Signor Barbablu tradito e ferito dalla sposa scelta e amata.

Dedicato a chi crede di riconoscersi.