Guardando il Vajont

La brama di denaro compra l’intelletto dei vanesi a scapito della vita degli innocenti.

Guardiamoci da noi stessi quando accettiamo condizioni che comprano la nostra anima perché le nostre coscienze dovranno sostenere il prezzo che innocenti fiduciosi hanno pagato.
Badiamo bene a ciò che siamo perché se cederemo, non saranno loro gli scemi creduloni ma noi i colpevoli predatori sanguinari.

Diga del Vajont
9 ottobre 1963
Disastro causato dalla cupidigia umana.




Il caffè sospeso e il diritto di ogni donna di sentirsi bella

Vorrei cominciare questo articolo con “una dei fattori distintivi di Napoli è…” ma il problema è che Napoli è una città talmente variegata, ricca di simboli e luoghi comuni che un incipit di questo genere farebbe cadere immediatamente nella banalità il mio articolo.

Dire “Napoli”, richiama alla mente troppe parole: pizza, babà, caffè, Pino Daniele, inventiva, scaltrezza…

Il punto è che il riferimento che vorrei usare io è quello del “caffè sospeso”.

Il caffè sospeso è un gesto di estrema civiltà sociale presente in città: consiste nell’usanza, in chi vuole, di consumare il proprio caffè e pagarne uno per chi in quel momento lo desidera ma non può permetterselo.

Chi vorrà consumare il caffè sospeso entrerà al bar e chiederà se ci sono caffè sospesi approfittando del proprio.

Questa usanza parla della grande generosità di un popolo abituato all’accoglienza e di un senso civico che dovrebbe essere sempre attuale: fare in modo che tutti possano avere le stesse possibilità di benessere.

Quando ho incontrato Giuseppe Morra e Michele De Gregorio, fondatori della “Di Benedetto Parrucchieri”, questo è stato il concetto espresso per spiegarmi il loro progetto: 

Ci siamo voluti ispirare al caffè sospeso, perché desideriamo che ogni donna possa avere la gratificazione di sentirsi bella sempre.

Qui lo shampoo e la piega non sono “sospesi” ma hanno certamente un prezzo accessibile a fronte di un trattamento da “grande salone”.

Effettivamente, ad entrare in uno dei saloni Di Benedetto, si ha la sensazione di essere in un salone di alto listino: receptionist accogliente, arredamento moderno (progettato dall’architetto Andrea Improta), musica in sottofondo, personale munito di auricolare in modo da non dover alzare la voce per comunicare, staff affiatato, consulenti per il tipo di trattamento da fare.

Di Benedetto Parrucchieri non è un franchising (per lo meno, non ancora) ma  il suo approccio aziendale è lo stesso: ogni salone segue lo stesso listino, le stesse procedure e ha lo stesso arredamento; i dipendenti seguono costantemente la formazione interna.

È Michele a occuparsi della formazione e degli aggiornamenti dei parrucchieri dello staff, segue la formazione della Wella, della Sassoon Academy e della Maison Academy.

L’azienda è nata 3 anni fa, ad oggi conta 3 saloni e entro la fine dell’anno ne verrà aperto un quarto e raggiungeranno un totale di circa 52 dipendenti.

(A proposito, sono anche in cerca di ulteriore personale, quindi è possibile candidarsi tramite il link in calce all’articolo).

La forza del loro lavoro, spiegano Giuseppe e Michele, sta nella capacità di contrattazione e acquisizione di credibilità che sono riusciti ad avere nei confronti delle grandi case cosmetiche come Wella e GHD che in genere evitano di legare il proprio nome a saloni con standard di prezzo bassi.

Nei loro saloni vengono utilizzati solo prodotti italiani.

Mi è venuta voglia di raccontare la loro storia perché è la storia di una azienda composta da persone che hanno voluto fare le cose in modo diverso dagli altri; che, misurandosi direttamente sul campo, senza il bisogno dei grandi guru del marketing settoriale che nell’era di internet vanno tanto di moda, hanno avuto una serie di intuizioni coraggiose e premianti.

A guardarli da fuori si possono dire tante cose: i competitors rischiano, usando il loro listino, di andare clamorosamente sotto dal punto di vista economico non riuscendo a sostenere il tipo di servizio offerto.

Gli esperti di marketing potrebbero criticare il listino troppo basso che spacca il mercato in modo irrecuperabile.

Per infrangere il tabù del prezzo, dico subito che una piega è prezzata a 5,00 euro.

Ma non è solo la piega a un prezzo ridicolo, questa sparisce in fretta nella percezione.

È il trattamento che si riceve dentro il salone, la gentilezza a cui si viene esposti, la professionalità dei dipendenti, la qualità delle pieghe, dei tagli e di ogni trattamento, è l’attenzione che si riceve e, per nulla trascurabile, il fatto che nessuno cerca i vendere con insistenza “cose in più”.

Da Di Benedetto Parrucchieri si può davvero andare per un servizio ottimo, con il solo intento di sentirsi belle, importanti e in piena fiducia del fatto che nessuno ti tratterà come un limone da spremere con continue vendite aggiuntive.

Insomma, quello che sembra è che Di Benedetto Parrucchieri possa trasformarsi in un caso aziendale interessante e a noi piacerebbe pensare di essere tra i primi ad averlo raccontato.

Napoli ha la caratteristica di saper sfornare grandi storie di impresa: Carpisa e YamamaY, Piazza Italia, Kimbo, Pastificio Garofalo, Caffè Borbone sono aziende che dal Sud Italia hanno conquistato la nazione (e oltre), chissà che questa piccola realtà non trovi la forza di posizionarsi in modo innovativo in un panorama più grande di Napoli così come già chiedono alcune “fan” sui social network.

Riferimenti

? Instagram di_benedettoparrucchieri

ⓕ Facebook : Di Benedetto Parrucchieri per passione – https://www.facebook.com/Di-Benedetto-Parrucchieri-Per-Passione-742522389182822/

? sito web Www.dibenedettoparrucchieri.com 

canditatura spontanea http://www.dibenedettoparrucchieri.com/contattaci/ 




Una granita e una brioche

disquisizione socio-economico-culturale sulla televisione e la moderna monetocrazia.

Una mattina d’estate a Palermo può capitare che, se ti fermi in un bar a prendere una granita e una brioche, anche se hai con te un buon libro, il dialogo con uno sconosciuto potrebbe rivelarsi ancora più interessante di ciò che leggi.

Lui è un signore alto e distinto, con i capelli bianchi e un sigaro in mano; siede al tavolino vicino al mio, legge il giornale e beve un caffè.

Io leggo un libro che mi è stato consigliato e che si è rivelato di una squisita bellezza.

“I libri sono il migliore amico dell’uomo”.

Smetto di leggere e lo guardo.

Non parlo perché una persona che ti interrompe mentre leggi non ha voglia di ascoltarti ma di farsi ascoltare.

E io so che lui sta solo cominciando e sono molto curiosa di ascoltarlo perché ho l’occhio lungo per le persone interessanti e non mi stanco mai di incontrarne.

È un ingegnere ma si giustifica subito dicendo che legge Rousseau, continuo ad ascoltare.

Adesso, nella recita a soggetto di quella mattina, è il turno della mia battuta e la pronuncio sorridendo perché so che è l’assist che cerca: “la cultura salverà il mondo”.

Ed è successo qui che la conversazione è sbocciata.

Da questo punto in poi ha inizio il motivo per il quale ho deciso di scrivere questo articolo.

In una fresca mattina d’estate, da un tavolo all’altro di un bar decentrato, iniziamo a parlare della analfabetizzazione della società e del ruolo dei media in questo panorama.

Però questa deprecatio temporis acti, questa continua lamentela sui tempi che viviamo che viene ripetuta fino ad oggi da quando Aristofane già nel 400 a.C. faceva dire al suo Eracle: “Quei non più sono e i vivi son cattivi”, non è forse proprio del tutto vera o, meglio, io non ho voglia vederla così perché dà alla imminente rovina che ci sta piombando addosso un sapore di ineluttabilità che io non voglio buttar giù.

Seguitemi nel mio ragionamento e ditemi se vi convince o se è, a vostro parere, da correggere (non è un modo di dire: mi interessa davvero conoscere la vostra riflessione in merito, scrivetela pure nei commenti).

Il fatto è che, onestamente, se proviamo a tornare indietro con la memoria, ricorderemo che all’inizio del ‘900 le persone in grado di saper leggere e scrivere erano molte meno che oggi.

Anzi, su questo versante, la televisione ha apportato un contributo molto importante (un esempio per tutti le lezioni di “Non è mai troppo tardi” condotto dal prof. Manzi).

Sempre in quegli anni, con l’inserimento dei programmi di intrattenimento, il palinsesto televisivo proponeva le messe in scena dei grandi romanzi permettendo cosi alla letteratura e alla cultura di arrivare a un numero ampio di telespettatori.

Ricordiamo a questo proposito che i romanzi dell’Ottocento erano concepiti per essere letti ad alta voce in famiglia piuttosto che, come oggi, nella propria solitudine.

Il romanzo era un momento di intrattenimento conviviale, da vivere nel proprio salotto all’interno del proprio nucleo familiare e sociale; era un momento di confronto che offriva alle persone la possibilità di accendere un dibattito, confrontarsi e maturare un’etica.

Interessante vedere come questo ruolo è stato perso dal romanzo ed è stato preso tempestivamente e di buon grado la televisione.

I grossi televisori a tubo catodico sostituivano e dislocavano via via sempre più quelli che erano stati fino a quel momento i salotti e i nuclei familiari.

Si creava in quegli anni, grazie a quello strumento rivoluzionario, la comune cultura di base cosa che, fino al quel momento, non c’era: non esisteva una cultura di base nazionale ma percorsi formativi divisi per classi, aree geografiche e ceti sociali.

La cultura cominciava a circolare agevolmente e senza troppo impegno da parte di chi la accoglieva e poteva essere percepita come nazionale o, addirittura, mondiale.

E, fino a qui, niente di male verrebbe da dire: è il progresso e il futuro che avanza.

E intanto, la televisione, arrivata in ogni casa, educava la morale e abituava alle mode.

Piano piano, nel modo più amabile, la televisione diventava la coscienza che entrava da una scatola in salotto piuttosto che nascere dall’anima di ciascuno.

Fatto questo, una volta acquistata la fiducia incondizionata del telespettatore, si è passati alla Fase2.

Dopo essere stata lo strumento di educazione e omologazione culturale, la televisione è passata a quella che il prof.Umberto Galimberti, parafrasando Flaubert, chiama “l’educazione sentimentale”.

Ovvero, dice sempre il prof. Galimberti, siamo al punto in cui la televisione e i suoi programmi ci stanno insegnando attraverso beceri esempi come provare emozioni: come innamoraci, come reagire alla gelosia, come essere tristi, come essere felici…

Questa codificazione non fa altro che renderci solo più privi di personalità e manovrabili.

Ecco, verrebbe da dire che, nonostante un inizio che prometteva benissimo, siamo arrivati a un punto preoccupante; dalla missione di alfabetizzazione sociale, si è arrivati all’obiettivo della analfabetizzazione sistematica.

Ma non è un attacco allo strumento ma all’utilizzo che se ne fa.

“che lavoro fa?”

“Sono laureata in materie umanistiche”

“Ah, un tempo, quando mi sono laureato io, chi aveva la passione si iscriveva a lettere e filosofia e chi invece non aveva voglia di studiare e non voleva avere nulla a che fare con la cultura, si iscriveva ad economia.

La cosa incredibile è che oggi loro sono loro quelli che stanno stabilendo tutte le regole e decidono attraverso il denaro le vite di tutti noi.

La cosa incredibile è che siamo governati da quella che aveva tutti i presupposti di essere una categoria di uomini ignoranti e aridi”.

Al di là dell’approccio campanilistico questa frase mi ha fatto molto riflettere e questo è il pensiero che porto a casa da quella mattina.

Rifletto e penso che il mio gradevole interlocutore abbia ragione.

Non so quanto sia vero o soggettivo lo scherno riservato agli studenti di economia di allora ma, se così fosse, il paragone reggerebbe.

Non me ne vogliano i laureati in economia (sto prendendo la seconda laurea in economia anche io) ma l’ascesa sociale nella nostra scala dei valori svolta dal danaro

e il potere acquisito in breve tempo da chi del denaro detta le regole, è un segno e una causa del nichilismo dei nostri tempi.

Non sono pensieri miei, non sono così intelligente anche se mi piacerebbe esserlo, cercate pure cosa dice il prof. Umberto Galimberti a proposito del nichilismo moderno e sarà tutto chiaro.

Il nichilismo dei nostri giorni è la sindrome del direttore del lager che giustifica le centinaia di morti sulla propria coscienza con la frase “io facevo il mio lavoro”.

È l’esaltazione dei freddi doveri lavorativi a scapito dell’umano e palpitante discernimento.

È la concentrazione verso l’essere un uomo ricco piuttosto che un uomo di valore.

La tendenza all’Avere piuttosto che all’Essere come diceva Eric Fromm, all’apparire (ciò che gli altri vogliono che tu sia) rispetto all’essere ciò che non sappiamo di essere.

È l’eccentricità del nuovo equilibrio per il quale la nuova divinità si chiama “soldo” e, come ogni rituale richiede sacrifici e vittime.

È quella che Raimonundo Panikkar chiamava la “monetocrazia” ovvero il potere dittatoriale della moneta.

Per quanto fino a qualche anno fa questa delocalizzazione della morale poteva sembrarci aberrante, oggi è affascinante notare che, anche attraverso il mezzo di propaganda sociale che è la televisione e di propaganda delle coscienze che è la rete, è diventato perfettamente plausibile.

E così, in questi giorni, rifletto su questo tema e ne parlo con gli amici e uso le lenti di questa riflessione per guardarmi attorno e scoprire cosa si vede.

Il mio interlocutore, a suo dire, su quanto detto e qui riportato, aveva un approccio “pessimista”, non credeva cioè che ci fosse via di uscita da questa degradazione.

Io però farò appello alla differenza di anni che separano la mia età dalla sua e userò il tempo che mi resta per colmare il divario, per ribellarmi con i pensieri e le azioni a questa corrente e dare il mio contributo affinché la cultura e la bellezza possano salvare il mondo.

Ps: Il mio nuovo amico mi ha raccontato anche di sua nonna Andromaca e di come essa diceva che gli occhi siano concupiscenza oltre quello che in realtà possono contenere ma di lei, forse, scriverò in un altro articolo.


Puoi leggere altri post di Chiara Sparacio su https://chiarasparacio.wordpress.com




Il dolore che annienta

A metà degli anni sessanta, Martin Seligman e un allegro gruppo di altri psicologi sperimentali, hanno fatto un esperimento simpatico come il pizzicotto sulla guancia da parte dello zio ridanciano quando eri piccolo.

Il curioso gruppetto, mise un cane in una grande gabbia e ne elettrificò una parte.

In poco tempo il cane capì il trucco è si spostò sul lato opposto.

Una volta che il cane aveva capito, invertirono i settori di elettrificazione 

ma il cane, che non era stupido e sapeva che doveva scappare dalle scosse, 

sì riadattò sull’altra parte della grande gabbia.

Gli psicologi non erano ancora contenti ed elettrificarono l’intera prigione.

Non trovando scampo, il cane si rassegnò e si sdraiò adattandosi al dolore.

A questo punto, il gruppetto di scienziati aprì la porta della gabbia aspettandosi che il cane sarebbe fuggito spinto dall’istinto di sopravvivenza.

Ma non fu così.

Abituato al dolore, il cane si era arreso e non cercava più scampo.

——–

Ed ecco

alle volte capita pure a noi.

Alle volte ci troviamo in una gabbia 

e ci sbattiamo tanto per trovare il punto in cui non ci arrivano le torture.

Lo troviamo e lo ritroviamo ogni volta 

finché poi però non esiste più punto franco

e ci rassegnamo.

Tanto che quando possiamo fuggire non lo facciamo.

Questo succede quando siamo vittime di un lavoro che non ci soddisfa,

quando stiamo con una persona che ci maltratta,

quando vogliamo stare con amici che ci tradiscono.

Su di noi nessuno fa esperimenti 

ma qualcuno vuole fare prove di forza.

Non permettiamogli di vincere.

Non adattiamoci al dolore ma vegliamo sempre e stiamo reattivi in attesa della possibilità di fuga.

Non c’è vergogna nel lasciare una gabbia




In memoria di Sandro Musco

“Cchiu longa è ‘a pinzata,
Cchiu grossa è ‘a minchiata”

Trad. “più a lungo ci si sofferma a rimuginare su una decisione,
più è facile che questa porti delle conseguenza avventate e sprovvedute”.

Caro Sandro la versione originale era uno delle tue frasi più note.
In questo periodo di profonda riflessione e di paure da bambini, ti riprendi il mio pensiero.
Ti ho sognato e mi dicevi come ti si confaceva: “tu devi fare quello che ti dico io e basta”
E “Oggi” è il tempo di obbedirti.

Caro Sandro,
ci sono voluti anni per riconciliarci
e non perché dovessi riconciliarmi con un uomo controverso come te che, comunque, era “solo un uomo”, ma per riconciliarmi con me che ero una bussola impazzita con un Nord enorme ma non ancora ben tarato che si confondeva con le altre direzioni.

Sono stata la tua più grande delusione e tu il mio boccone più amaro.
Non ci siamo perdonati
per tanto tempo.
Non mi hai capita, non ti ho capito fino alla fine.

Ma alla fine ha senso.
Il figlio ha il dovere di deludere suo padre se vuole essere un individuo indipendente.

In quei giorni si giocavano le nostre vite.
La mia per lo meno.
E te l’ho sempre rimproverato.
Ma oggi so che in realtà è stato tutto perfetto (molto doloroso ma perfetto).
Oggi che siamo passati sulle nostre carcasse, vedo che su ogni cosa esiste ciò che i tuoi filosofi chiamano “spirito immortale” e ha l’aspetto di un grosso filo rosso.

Caro Sandro, in questo momento in cui o si salta o si sprofonda, mi ricordo che “Cchiu longa è ‘a pinzata, cchiu grossa è ‘a minchiata” e … niente, è chiaro così… e non a caso oggi è il tuo compleanno




Eneide nello spirito

Dopo i lunghi viaggi e le grandi avventure, spesso iniziate al primo vagito,

dopo le digressioni e gli errores 

distraenti e devianti,

alla fine della fiera, 

il desiderio dell’eroe è quello di tornare a casa propria.

Sintomatico e notevole è 

che la caratteristica dell’eroe sia riconoscere la casa propria.

Beato chi guarda il proprio cuore e vi riconosce l’approdo.




Ciò in cui credo

C’è una moderna tendenza diffusa orientata a trattare male le persone.

Maestri che maltrattano gli allievi (perché non capiscono)
Venditori che maltrattano acquirenti (perché sono scemi)
Consulenti che maltrattano clienti (perché non ascoltano)
Manager che maltrattano subalterni (perché sono incapaci)

Uomini e donne schiumanti sopra un piedistallo di pelle umana che giudicano insofferenti e incompresi, che ricordano i cattivi di certi cartoni animati che si trovavano alla fine dell’episodio sconfitti e ringhianti: “sono circondato da incompetenti”.

Pare vada di moda un certo machismo arrogante che, anche se non è per niente utile a ottenere risultati positivi, per lo meno soddisfa il piccolo ego di chi lo esercita.

Poi passa, prima o poi si cresce
E si comprende che il miglior modo per ottenere risultati e ragione sono le buone maniere, la gentilezza e il confronto onesto.

Io credo in questo.




Igor Sibaldi: i libri per i contenuti e gli eventi per la magia

Lui è Igor Sibaldi ed incuriosisce e interessa molte persone appassionate di filosofia e psicologia (nel suo senso originario di argomentazione sull’anima).

È un autore molto generoso: chi cercherà la sua bibliografia vedrà come questa appaia vasta e apparentemente variegata.

Ogni tanto partecipo a un suo evento e leggo qualche suo libro.

Leggo i suoi libri perché mi piace curiosare tra le sue teorie e le sue prospettive.

Partecipo agli eventi con lui perché mi piace quello che mi accade quando vado.

Quando viaggio per raggiungere la città di un suo evento mi capitano sempre cose affascinanti: conosco qualcuno di interessante, rivedo amici o ne incontro di nuovi.

In definitiva potrei dire che leggo i libri di Sibaldi per i contenuti e partecipo agli eventi per la magia.

Quando partecipo agli eventi, ne approfitto per fargli qualche domanda; lui è sempre molto gentile e mi dedica del tempo nonostante la stanchezza; apprezzo la sua disponibilità.

Ecco cosa ho portato a casa dall’ultimo incontro durante il quale ha parlato di desideri.

Come si distinguono i desideri dai buoni propositi?

I desideri sono irrazionali, i buoni propositi possono essere costruiti dalla ragione. I desideri sono sempre una cosa di sensazione e di emozione.

Dedicarsi alla stesura e alla coltivazione dei desideri richiede anche disciplina: disciplina nello scriverli e nel leggere quotidianamente il proprio quaderno per esempio; di contro però uno dei tuoi temi preferiti è la disobbedienza.

Qual è la tua opinione sulla disciplina e a cosa serve?

Ammettiamo in questo momento che parliamo di disciplina nel senso di abituare sé stessi a fare una serie di cose nel tempo.

Intesa così sarebbe una sorta di addestramento… e io non la sento molto mia questa cosa.

Tutto quello che è ripetitivo – e la disciplina per forza di cose è ripetitiva – io la sento come insopportabile.

Intendo qualsiasi cosa ripetitiva come un girare in tondo invece di camminare e andare avanti.

In più, la disciplina intesa in questo senso, genera facilmente la nascita dell’Abitudine e, siccome è facile portare avanti le abitudini, io in linea di principio me ne tengo alla larga.

In generale, penso che la cosa più interessante sia avere la capacità di mollare tutto in qualsiasi istante, anche tutto quello che si è scoperto fino a questo punto.

Se ad un certo punto ti accorgi che tutto quello he hai scoperto fino ad adesso non funziona, molla tutto e fila via.

La disciplina invece in qualche modo vuol dire che tu hai deciso che quello che hai fatto fino ad adesso vale tanto da portarti al punto di abbonarti a determinati rituali quotidiani.

Nel corso della mia vita, quando ho seguito la disciplina ho sentito un senso di infelicità incredibile.

Mentre cercavo di portare avanti la mia intenzione, pensavo: “questo servirà” ma poi ho realizzato tra me e me: “se fa diventare così infelici a cosa serve?”

E allora ho smesso e quando ho smesso sono stato tutto a un tratto molto bene.

Piuttosto che la disciplina, io penso che sia molto utile la Procedura, intesa come preparazione ad una azione.

Per esempio, per fare un quadro, prima si preparano la tela, i pennelli, i colori… quindi si da inizio al processo creativo, altrimenti non viene bene.

La Procedura è utile: per fare una composizione, prima si compone la melodia e poi si fa l’orchestrazione.

La Procedura è un rapporto con la realtà e vuol dire avere un modo di andare avanti.

Capita che il gesto creativo della scrittura mostri all’autore degli aspetti molto più profondi di quanto in realtà non si aspettava, a te capita questo e, se sì, in che forma?

Mi capita ed è un sollievo quando capita.

Quando faccio una conferenza e capisco tutto quello che sto dicendo è una noia mortale e penso: “com’è andata male oggi che ho detto solo cose che sapevo già!”.

Quando scrivo qualcosa facendo un programma e annuncio: “in questo articolo parlerò di questo, questo e quest’altro” e obbedisco al programma, la sensazione che provo è di sconfitta.

La cosa bella per me è quando nello scrivere e nel parlare metto in moto qualcosa che mi meraviglia.

Di regola nelle mie conferenze preparo il 20% dei contenuti e il restante 80% viene da sé sul momento.

Il 20% noto è distribuito qua e là all’interno della mia esposizione e così, se ad un certo punto non so cosa dire mi appiglio a quello… ma capita di rado.

A dirla tutta, di solito il 20% neanche lo dico tutto…

Quando parlo non c’è un copione; in questo non sono un attore, sono più che altro un comico.

In che senso non sei un attore ma un comico?

L’attore deve sentirsi come un ferroviere alla guida di un treno: ha una rotaia davanti e deve portare il treno a quella velocità e su quella strada indicata dal regista.

E io non sono un attore; se mi trovo alla guida di un treno, se procedo e quello he mi aspetta è sempre uguale, io non sono io.

A volte mi capita ma rarissimamente; per lo più di volta in volta cambio tutta l’impostazione infatti se qualcuno del pubblico leggesse gli appunti delle mie conferenze, non riconoscerebbe ciò che ha ascoltato.

Questo capita anche sui libri

Quando rileggo i miei libri, poi capita che telefono all’editore e gli dico che lo rifacciamo da capo perché non va bene.

I miei libri hanno infatti diverse edizioni e diverse differenze tra loro.

Alcuni libri pubblicati di recente, per adesso sono rimasti uguali ma sarà così finché non li rileggerò.

Nel libro delle Epoche hai scritto che l’occidente è bloccato da un vuoto di futuro, è per questo che in questo momento l’arte è ferma?

Non solo l’arte, anche la filosofia perché è spaventata da una specie di tradimento.

All’inizio del ‘900 Tecnologia e Arte erano testa a testa: la cultura umanistica e l’arte producevano tante cose belle e interessanti. Ad un certo punto la tecnologia è partita in quarta e ha seminato la vecchia compagna.

Quando la tecnologia è arrivata alla costruzione della bomba atomica qualcosa è successo: la tecnologia ha surclassato troppo la cultura umanistica che è rimasta scioccata ed ha cominciato a fermarsi.

Ma perché la Cultura non ha reagito?

Immagina due compagni di classe che procedono più o meno testa a testa per tutto il periodo scolastico.

Una volta cresciuti, uno dei due si sposa con una americana, va in America,crea una azienda e diventa ricchissimo, poi fonda un’altra azienda ancora e poi viene eletto senatore.

L’altro amico intanto è rimasto in Italia nel negozio del papà e non riesce a competere più quasi neppure con sé stesso.

Non è che cresce per conto suo è come se fosse rimasto sconfitto e cresce meno perché il vecchio compagno lo ha surclassato.

La persona surclassata non la prende come una spinta per crescere di più ma abbandona.

E questo è quello che è successo tra la Scienza e l’Arte.

Vedi come la filosofia è diventata quasi totalmente storia della filosofia.

In età moderna ci sono rimasti ancora alcuni filosofi ma erano persone nate prima della guerra.

Finita quella generazione su questo versante non c’è più niente: l’arte sicuramente rimane indietro e si lamenta dicendo che c’è in giro tanta tecnologia e tanta tecnica ma mica è colpa di queste.

È come se ci fosse un diffuso sentimento di spavento che rientra nella sindrome della paura del futuro.

Una specie di intelligentia di struzzi che tengono la testa sotto la sabbia e stanno lì aspettando chissà che cosa.

… strano animale lo struzzo non trovi?

… Io con gli struzzi non ho mai avuto a che far personalmente però, descritti così, strani lo sembrano per davvero…

 

Riferimenti

Ecco alcuni riferimenti utili per partecipare a un incontro con Igor Sibaldi o acquistare un suo libro

? Eventi: fai clic  o anche qui I Maestri Invisibili

? Libri: fai clic

? Video: fai clic

 




La storia della bambola di sale

La storia della bambola di sale

C’era una volta una bambola di sale.

La bambola aveva un sogno: voleva vedere il mare.

Non c’era un giorno o un secondo che lei non pensasse al mare.

Non lo aveva mai visto, non sapeva come poteva essere fatto, però sapeva che doveva esserci e che lei voleva vederlo.

Tutti deridevano la bambola e il suo assurdo sogno.

Ma lei era sorda a critiche, biasimi e tentativi di scoraggiamento.

Fu così che un giorno prese una decisione e disse a tutti che sarebbe partita.

Salutò i genitori, gli amici e gli affetti.

“Ragiona” le dissero.

Ma lei aveva già ragionato.

E allora lasciò tutti e, sola, si mise in viaggio.

Camminò e viaggiò.

Affrontò notti buie e lunghi silenzi.

Ma lei voleva arrivare al mare.

Ad un certo punto si trovò davanti a una vastità di acqua e sentì di aver trovato quello che cercava.

Si avvicinò e una piccola onda le toccò il piede.

Fu un dolore mai provato.

In quel momento sentì un forte bruciore e si tirò indietro.

E capì.

Nonostante il dolore che la corrodeva, saltellò con l’unico piede nuovamente verso l’onda e di nuovo sentì il bruciore che la corrodeva ma non si fermò e andò avanti e si sciolse. 

Le gambe, il busto, le braccia, il collo e, prima di scomparire, mormorò: “io sono il mare”.


Dedicato a chi cerca il mare

che non sa come è fatto e, in un certo senso, non ha neppure la certezza che esiste, però ha il coraggio di separarsi dalle certezze e dalle sicurezze per cambiarsi in qualcosa di infinito.

 

Crediti

Storia ispirata a Il canto degli uccelli: frammenti di saggezza nelle grandi religioni di Antony De Mello

Biblioteche in cui trovi questo libro clicca qui

Storia clicca qui




L’amato maestro

Supera il maestro ma non odiarlo.

Ognuno di noi ha un maestro.

Qualcuno che lo ha guidato o portato fino a quel punto,

qualcuno da cui ha imparato e che lo ha reso diverso da ciò che era il giorno prima.

Il maestro cambia,

e questo è naturale.

Nella relazione tra maestro e allievo, la tensione del maestro deve essere orientata verso l’allievo: nel farlo crescere 

la tensione dell’allievo deve essere tutta orientata verso il maestro fino ad eguagliarlo al livello in cui esso è, fino anche a superarlo.

Se l’allievo non supera il maestro, il sistema impazzisce:

A) viene generato un allievo malato.

B) non si permette al maestro di crescere ancora nella sua scala personale.

Gurdjeff faceva un esempio molto chiaro.

Maestro e allievo stanno su una lunga scala dove la tensione comune è quella di andare verso l’alto.

Su questa scala affollata e movimentata, l’allievo si trova esattamente al gradino sottostante il suo maestro.

Non importa per quanto l’allievo sia rimasto sul suo gradino: egli non può avere allievi del suo stesso livello per semplice anzianità di servizio.

La scalata si fa solo prendendo il posto di un altro.

Chi vuole fare da maestro a chi sta sul suo stesso livello, perde tempo e ne vorrebbe far perdere al compagno.

Assurdo inoltre pensare di trovare un allievo del primo gradino che vuole come maestro quello del ventesimo.

Non può.

Gli mancano 18 gradini prima di riuscire a capire di che parla il suo maestro ideale.

E questo l’allievo, nella scelta cosciente del suo maestro, lo deve sapere.

Proprio per questo Gurdjeff diceva: “il più stolto degli uomini non vorrà che Gesù Cristo come maestro”.

Ma torniamo alla scala.

Su questa scala, 

Se il maestro vuole salire e prendere il posto del suo attuale maestro, dovrà lasciare il posto al suo attuale allievo.

Non c’è altro modo.

A ogni gradino guadagnato, il maestro può cambiare.

La scelta si applica sempre sul catalogo del gradino successivo.

E così per sempre.

 

L’immagine del superamento della figura guida, la troviamo sparsa qua e là in molti approcci:

– a scuola ci raccontano subito di come Giotto superò Cimabue;

– gli psicologi freudiani ci parlano dell’importanza di uccidere (simbolicamente) i genitori;

– certuni dicono “se incontri Buddha, uccidilo”;

– certi altri completano “se vedi Cristo, crocifiggilo”;

– persino il cavaliere di Atena Cristal ha dovuto uccidere il cavaliere d’oro Acquarius… (giusto per far vedere che conosco tanti campi ?)

– …

Insomma vale così

Questo è il ciclo e l’imperativo categorico dell’uomo spirituale: 

migliorarsi e far migliorare.

Questo è ciò che sappiamo.

 

Quello però che non è sempre chiaro o scontato è che al maestro, per quanto lo si uccida, superi, scavalchi… Si deve gratitudine.

Nella scala dell’ascesa spirituale il maestro che lasciamo farà la sua strada e noi faremo la nostra.

Ma se lui non lascia quel gradino per lasciarlo a noi, non c’è scampo.

Il guru che muore è il guru che si lascia uccidere.

E quella è l’ultima prova dell’allievo.

Chi uccide senza rancore, passa di livello.

Chi uccide e rinnega il maestro sputando su quanto imparato, si illude di salire ma in realtà resta indietro.

Salire un gradino non è diventare onniscienti (per quanto presi dallo stupore e dall’entusiasmo del nuovo ambiente e della nuova prospettiva, può sembrarlo) 

È solo aver fatto un passo in più.

Nel momento in cui ci si dimentica del cammino per guardare l’ambiente, si resta intrappolati di noi stessi.

Se questo avviene, se non andiamo avanti e non cediamo a nessuno il nostro posto, alle lunghe, senza accorgercene, ci accasceremo sul gradito e verremo calpestati.

Nutriamo lo spirito 

di qualunque cibo si tratti.