Il famoso Cristo di Dalì a Roma

Verso il Giubileo: Salvator Dalì e il Crocifisso di Port Lligat

Si è conclusa il 23 giugno 2024 l’esposizione, a Roma, nella chiesa di San Marcello al Corso, dell’ opera di Salvator Dalì “Cristo di San Giovanni della Croce”.

La famosa tela,  detta Il Crocifisso di Port Lligat, è stata dipinta nel 1951 da Salvador Dalì.

La mostra è stata inaugurata il 13 maggio nell’ambito della terza esposizione della Rassegna artistica ‘I Cieli Aperti’.

È stata inserita nel percorso culturale verso l’Anno Santo, il Giubileo 2025.

Il celebre dipinto di Dalì a Roma

Si è conclusa pochi giorni fa  l’esposizione a Roma, nella Chiesa di San Marcello al Corso, della tela di Salvator Dalì “Cristo di San Giovanni della Croce”.

Il celebre dipinto ‘Cristo di San Giovanni della Croce’, anche detto ‘Il Cristo di Port Iligat’, è stato realizzato dall’artista spagnolo Salvator Dali, nel 1951.

Il Cristo di Salvator Dalì
Il Cristo di Salvator Dalì

La novità è che, per la prima volta, a Roma, nella chiesa di San Marcello al Corso, non è stato esposto solo il capolavoro di Salvador Dalì.

Accostato ai piedi della grande tela del famoso pittore surrealista si notava, quasi con sorpresa, il piccolissimo disegno-reliquia del santo carmelitano San Giovanni della Croce.

Si tratta del disegno reliquia che ha ispirato il celebre Cristo di Dalì.

La reliquia - disegno di San Giovanni della Croce
La reliquia – disegno di San Giovanni

La reliquia – disegno del Santo carmelitano spagnolo Giovanni della Croce

La reliquia consiste in un minuscolo disegno del mistico carmelitano.

Fu realizzato tra il 1574 e il 1577 in seguito ad un’estasi nella quale il santo vide il Crocifisso.

Si tratta dell’unico disegno dal santo carmelitano spagnolo giunto fino a noi.

Il mistico rappresenta in quel minuscolo disegno, la visione cui ha assistito, ciò che gli fu mostrato dal Signore.

Contestuale esposizione di due opere straordinarie

Si è trattato di un’occasione irripetibile per ammirare da vicino le due opere straordinarie.

La prima  molto grande, la seconda minuscola.

Un connubio che ci conduce nella più profonda contemplazione spirituale. 

La chiesa di San Marcello al Corso

La Chiesa di San Marcello al Corso ha fatto da cornice ad un evento eccezionale che si colloca nell’ambito delle celebrazioni del Giubileo del 2025.

Chiesa di San Marcello al Corso, Roma
Chiesa di San Marcello al
Corso, Roma

Si tratta di una sede inusuale, ma molto pertinente.

È stata certamente una occasione unica per poter vedere per la prima volta il  capolavoro di Dalì a Roma.

Ma ancora di più per poterlo ammirare accanto al disegno che lo ha ispirato, il disegno-reliquia di san Giovanni della Croce, il Santo carmelitano.

Da Glasgow a Roma, il successo della mostra 

La famosa opera di Salvator Dalì è conservata alla Kelvingrove Art Gallery and Museum di Glasgow. Eccezionalmente è stata esposta a Roma nella Chiesa di San Marcello in via del Corso.

La mostra ha riscosso un successo straordinario tra i numerosi turisti provenienti da ogni parte del mondo. Naturalmente non sono mancati innumerevoli romani curiosi e ammirati.

Un capolavoro e la sua opera ispiratrice

Il capolavoro di Dali è stato per la prima volta nella storia dell’arte presentato contestualmente all’opera che lo ha ispirato.

Si tratta del disegno che tanto ha colpito il celebre pittore, ossia il disegno-reliquia di san Giovanni della Croce.

Nel disegno il Santo Carmelitano rappresenta la sua estasi mistica.

Si tratta di un inedito nella storia dell’arte.

Il Cristo di San Giovanni della Croce è dunque indissolubilmente legato, come lo stesso titolo suggerisce, al mistico san Giovanni della Croce e alla reliquia, conservata nel Monasterio de La Encarnación ad Ávila.

Due opere così diverse eppure così intimamente legate dalla ricerca del Dio Onnipotente.

Chi era San Giovanni della Croce

Giovanni della Croce, al secolo Juan de Yepes Álvarez, nacque il 24 giugno 1542, figlio di una coppia poverissima della vecchia Castiglia, vicino ad Avila.

Usciva diciottenne nel 1563 dal Collegio dei Gesuiti di Medina del Campo, dove aveva studiato scienze umane, retorica e lingue classiche.

L’incontro con Santa Teresa d’Avila

Subito dopo avvenne l’incontro con Teresa di Gesù che cambiò la vita ad entrambi.

Giovanni la conobbe da sacerdote e subito fu coinvolto e affascinato dal suo piano di riforma del Carmelo, anche nel ramo maschile dell’Ordine.

Lavorarono insieme condividendo ideali e proposte e insieme inaugurarono la prima casa di Carmelitani Scalzi, nel 1568 a Duruelo, nella provincia di Avila.

Come San Giovanni divenne “della Croce”

Fu in quella occasione che, formando insieme ad altri la prima comunità maschile riformata, san Giovanni adottò il nuovo nome, “della Croce”, con il quale sarà in seguito universalmente conosciuto.

Alla fine del 1572, su richiesta di santa Teresa, Giovanni della Croce divenne confessore e vicario del monastero dell’Incarnazione di Avila, dove la Santa era priora.

Ma non tutto fu facile: l’adesione alla riforma comportò al santo la carcerazione per diversi mesi a seguito di accuse ingiuste.

Riuscito a scappare in modo avventuroso, grazie all’aiuto di santa Teresa, dopo aver recuperato le forze iniziò un lungo cammino di incarichi, fino alla morte in seguito ad una lunga malattia e a sofferenze enormi.

Le ultime parole del Santo

San Giovanni si congedò dai confratelli mentre recitavano l’Ufficio mattutino in un convento vicino a Jaén, tra il 13 e il 14 dicembre 1591.

Le sue ultime parole furono: “Oggi vado a cantare l’Ufficio in cielo”.

Il cammino verso Dio , il santo spagnolo lo immaginava come la salita ad una montagna lungo la quale l’uomo deve affrontare con coraggio e pazienza una “purificazione” profonda dei sensi e dello spirito.

“Per giungere a possedere tutto, non voler possedere niente”.

Dalì e il Natale del 1948

La vita e l’estasi del santo carmelitano impressionò il pittore surrealista.

Erano i giorni dopo il Natale 1948, di ritorno dall’Italia, quando Dalì volle fare un viaggio nella Castilla proprio per visitare quel monastero.

In quel famoso monastero  oltre a san Giovanni della Croce, anche santa Teresa di Gesù aveva vissuto esperienze mistiche.

Come nasce un’opera d’arte

Dali fu così impressionato, che a Parigi cercó l’amicizia del frate carmelitano Padre Bruno de Jésus-Marie.

Si mise a studiare i testi del Santo.

Lo colpì la descrizione della via della Notte Oscura d’amore.

San Giovanni della Croce la descrive come la via più diretta che un anima può seguire per giungere alla perfetta unione con Dio.

Un capolavoro spirituale

Il Cristo di Salvador Dalí, del 1951, è uno dei capolavori più importanti di tutti i tempi.

Questo dipinto ad olio colloca il pittore in un momento molto speciale della sua carriera artistica, alla fine degli anni Quaranta, nel bel mezzo di una riformulazione del suo pensiero.

Segna l’inizio di un nuovo periodo, quello della mistica nucleare, in cui Dalí combina il suo interesse per la fisica e il Rinascimento italiano con la religione e la spiritualità cattolica, e il cui testo fondativo è il Manifesto Mistico dello stesso 1951.

Tutto ciò accade dopo che l’artista si era allontanato dalla fede ricevuta attraverso la madre.

Gli avvenimenti della Guerra Civile in Spagna, insieme alle scoperte della fisica quantistica e ad una valutazione critica della deriva espressionistica e tragica di molta arte contemporanea, portarono Dalí a riaprire il cuore a Gesù Cristo e al Cattolicesimo.

Stavolta con la certezza che la nuova scienza manifesta l’intelligenza del Creatore e la tensione della materia fisica verso la vita dello Spirito, ma che solo in Cristo è dato all’uomo naufrago un porto di salvezza.

La Cesta del Pane di Dalì e il realismo della fede

Nella Chiesa, accanto al Cristo e al disegno reliquia, un pannello espositivo riproduce il dipinto di Dalì “La Cesta del Pane”, del 1945.

La Cesta di pane, di Salvator Dalì, 1945, (periodo classico)
La Cesta di pane, di Salvator Dalì, 1945, (periodo classico)

“La Cesta di pane” è un ottimo esempio del periodo classico di Dalì, che ebbe inizio nel 1941.

Questo dipinto può essere idealmente accostato al Cristo, in un dialogo che va ben oltre le questioni di tecnica pittorica.

Come spiegò l’artista nel 1952: «Dal punto di vista dello stile e della tecnica artistica, ho dipinto il mio Cristo di San Giovanni della Croce nella maniera in cui dipinsi la mia Cesta di pane, che già allora, più o meno inconsciamente, rappresentava per me l’Eucaristia».

Il simbolismo dell’opera

Nel dipinto di Dalì ritroviamo, inconfondibile, il paesaggio di Port Lligat, in basso, con le rocce suggestive di Cap de Creus e con la tonalità delle acque e del cielo di un blu così intenso da contrastare con il buio sovrastante, accentuando l’atmosfera drammatica dell’opera.

Sono evocate, simbolicamente, le tenebre che avvolsero Gerusalemme alla morte di Cristo e il buio originario dell’inizio della Creazione del mondo, quando, secondo il libro biblico della Genesi, lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque.

Port Lligat in Spagna e il mare di Galilea

Il mondo intero diventa Port Lligat, nell’ovest della Spagna, dove Salvator Dalì soggiornava per lunghi periodi.

E al tempo stesso, quello è il Mare di Galilea, dove l’avventura di Gesù di Nazareth iniziò con la chiamata dei suoi primi apostoli, rintracciati presso le loro due barche ormeggiate.

Un’isola in lontananza disegna nelle sue frastagliate creste il profilo di Dalí, che contempla il Cristo.

Un senso di mistero ci è comunicato dalla prospettiva scelta per il Crocifisso, inscritto in un triangolo equilatero e rappresentato dallo zenith.

Così, il volto di Cristo è oltre ogni immaginazione, tanto da non poter nemmeno sapere se sul legno di quella croce egli sia ancora vivo o già spirato.

Nella chiesa di San Marcello al Corso, sull’altare maggiore, campeggia un grande drappo con le parole che Dio disse a san Giovanni della Croce proprio in quell’occasione: “Se vuoi una parola di speranza, fissa lo sguardo in Lui solo. Vi troverai più di quanto desideri”.

E attraverso l’invito a contemplare il Crocifisso, anche l’esperienza giubilare diventa compiuta, accoglie la dimensione più profonda.

Verso il Giubileo

L’iniziativa si colloca nel solco della preparazione al prossimo Giubileo.

Don Alessio Geretti è il curatore della mostra.

L’intento è quello di andare oltre l’opera d’arte per coglierne i significati spirituali, di “vedere oltre” l’opera d’arte e decifrarne i significati spirituali.

Le due opere pur profondamente diverse, in apparenza, sono infatti unite dalla stessa sete di Dio.

 




Attori e mimi nell’antica Roma

E’ iniziata a Roma il 21 maggio 2024 presso il museo dell’Ara Pacis l’attesa mostra TEATRO. Autori e pubblico nell’antica Roma.

La mostra offre un percorso espositivo sugli spettacoli teatrali nell’antica Roma.

Ci sono pezzi unici e rari, come la maschera più antica, oppure il grande cratere di Promono, raffigurante attori mentre studiano le posture, il primo reperto teatrale esistente arrivato ai nostri giorni.

Ci sarà tempo fino al 3 novembre per ammirare le oltre 240 opere provenienti da 25 diversi prestatori da tutto il mondo.

Il museo dell’Ara Pacis racconta gli spettacoli teatrali dell’antica Roma

Dal 21 maggio al 3 novembre 2024 il Museo dellAra Pacis di Roma ospita la mostra “TEATRO. Autori e pubblico nell’antica Roma”.

L’esposizione illustra in maniera esaustiva e minuziosa la nascita e l’evoluzione del teatro con particolare attenzione agli spettacoli nellantica Roma.

Il racconto della mostra inizia dalle radici greche, siciliane, magno-greche, etrusche e italiche del teatro romano.

Si esplorano l’origine religiosa ed il passaggio dai primi palcoscenici in legno a quelli in muratura, attraverso ben 240 opere provenienti da tutto il mondo.

Si prosegue fino a giungere allo splendore dei grandi teatri romani che potevano ospitare decine di migliaia di spettatori.

Essi diventano, insieme a fori e templi, elementi distintivi della forma urbis dell’impero romano.

È curioso come la parola greca théatronin origine designi l’insieme del pubblico di spettatori piuttosto che lo spazio scenico.

I reperti rari esposti in mostra

Il percorso espositivo è ricco di pezzi unici e rari.

Primo fra tutti una preziosissima maschera, proveniente dal Museo Paolo Orsi di Siracusa.

Si tratta di una delle più antiche maschere teatrali a noi pervenute.

L’uso teatrale è avvalorato dalla presenza di un foro dietro il padiglione auricolare, che doveva servire ad agganciare la parrucca.

Maschera teatrale
Terracotta. Ricomposta da frammenti.
Inizi del V sec. a.C.
Da Megara Hyblaea, nel riempimento di un pozzo
Siracusa, Museo Archeologico Regionale “Paolo Orsi”, inv. 84822

Esposto anche il famoso “vaso di Pronomo” dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli, del V-IV secolo A.c., probabilmente il più importante reperto teatrale esistente arrivato ai nostri giorni.

Il grande cratere a volute raffigura un’evocazione del mondo teatrale caratterizzata da un forte realismo.

Prende il nome dal flautista Pronomo, seduto al centro della composizione.

Nella scena sono raffigurati attori mentre studiano atteggiamenti teatrali e posture, in una chiara evocazione del mondo dionisiaco.

Cratere a volute attico (c.d. Vaso di Pronomos) Ceramica a figure rosse 400 a.C. circa (Pittore di Pronomos) Da Ruvo di Puglia Attic volute krater (so-called Pronomos Vase) Ceramic with red figures 400 BCE circa (Pronomos painter) From Ruvo di Puglia Museo Archeologico Nazionale di Napoli, inv. 81673
Cratere a volute attico (c.d. Vaso di Pronomo)
Ceramica a figure rosse
400 a.C. circa (Pittore di Pronomo)
Da Ruvo di Puglia
Museo Archeologico Nazionale di Napoli, inv. 81673

L’ambiente teatrale dell’antica Roma

La ricostruzione della mostra permette di esplorare l’ambiente teatrale dell’antica Roma, anche attraverso interventi multimediali.

Il visitatore pscoprire l’origine antichissima di molti personaggi del teatro moderno, come il vecchio misantropo, il giovane seduttore, il servo scaltro e i giovani amanti ostacolati dalle differenze sociali.

Ed altresì è possibile ammirare le statuine di attori, danzatori, mimi, acrobati e giocolieri del mondo magnogreco.

Danzatrici in terracotta
Acrobata femminile
Terracotta realizzata a matrice
Cast terracotta
Fine IV sec, a.C.
Da Taranto, contrada Tesoro, proprietà Lo lucco,
tomba 5
Museo Archeologico Nazionale di Taranto, inv. 4090
2.
Acrobata femminile
Terracotta realizzata a matrice; tracce di colore
Fine IV sec. a.C.
Da Taranto
Museo Archeologico Nazionale di Taranto, inv. 4059

Le maschere teatrali di Tarquinia

La mostra include anche una serie di miniature teatrali, molte delle quali mai esposte prima, provenienti da contesti tarquiniesi.

4. Maschera comica di schiavo Comic mask of slave Collezione Bruschi, inv. CB 1359. Museo nazionale archeologico di Tarquinia
4. Maschera comica di schiavo
Collezione Bruschi, inv. CB 1359. Museo nazionale archeologico di Tarquinia.

Per tutta l’epoca ellenistica, tra il IV e il Il secolo a.C., in area tarquiniese sono state infatti rinvenute maschere in terracotta di piccolo formato provenienti da diversi contesti funerari e votivi.

Questi volti testimoniano, con le loro caratterizzazioni, quanto il culto dionisiaco e la tradizione del grande teatro greco fossero penetrati a fondo in Etruria e quanto l’ambito tarquiniese sia stato importante come tramite per la successiva produzione romana.

laschere raffiguranti personaggi a carattere dionisiaco e teatrale erracotta dipinta o con tracce di policromia /- III secolo a. C. a Tarquinia Vasks depicting dyonisian and theatrical characters Painted terracotta or with polychrome traces 4th - 3d century BCE From Tarquinia Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia 1. Maschera di Pan Mask of Pan Collezione Bruschi, inv. CB 1356b 2. Maschera di Pan Mask of Pan Collezione Bruschi, inv. CB 1356a 3. Maschera di Dioniso Mask of Dionysus Collezione Bruschi, inv. CB 1356c 4. Maschera comica di schiavo Comic mask of slave Collezione Bruschi, inv. CB 1359 5. Maschera comica di anziana Comic mask of elderly woman Collezione Bruschi, inv. CB 1361a 6. Maschera comica maschile Comic mask of male character Collezione Bruschi, inv. CB 1361b 7. Maschera comica di anziana Comic mask of elderly woman Collezione Bruschi, inv. CB 1361c 8. Maschera di sileno Mask of silenus Collezione Bruschi, inv. CB 1364 9. Maschera di sileno Mask of silenus Collezione Bruschi, inv. CB 1364b 10. Maschera di satiro Mask of satyr Collezione Bruschi, inv. CB 1365a
9. Maschera di sileno
Collezione Bruschi, inv. CB 1364
Maschere raffiguranti personaggi a carattere dionisiaco e teatrale
Terracotta dipinta o con tracce di policromia
II- III secolo a. C. a Tarquinia
Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia
Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia

Le origini del teatro nell’antica Grecia: Tragedia e Commedia

Il teatro occidentale affonda le sue radici nella drammaturgia e nella commedia sorte in Grecia a partire dal VI secolo a.C.

Dalla tragedia e dalla commedia greche nonchè da apporti italici deriva il teatro romano, che si presenta, fin dai suoi esordi, come unoperazione di adattamento di quello greco al nuovo contesto sociale.

La mostra racconta come la tradizione greco-romana del teatro si è evoluta e trasformata nel corso di quasi un millennio.

Purtroppo sono pochi i testi che sono stati tramandati fino a noi: per la commedia Plauto e Terenzio, per la tragedia soltanto Seneca.

Le origini religiose del teatro. Le celebrazioni in onore di Dioniso

La tradizione greco-romana del teatro ha origini religiose.

È molto probabile che dalle feste celebrate in onore di Dioniso, una delle grandi divinità dell’Olimpo greco, figlio di Zeus e di Semele, nacquero sia la Tragedia sia la Commedia.

Dioniso, Bacco per i romani, è il dio greco della vite, del vino, del delirio mistico.

Esposto in mostra una coppa di produzione attica dal Museo Archeologico Nazionale di Firenze.

La coppa mostra una delle rarissime rappresentazioni di una processione in onore di Dioniso, dio del teatro (falloforia).

Il teatro dell’antica Roma

Il teatro, derivato dalla tradizione greca, ma permeato anche di costanti influssi di componenti etrusche e italiche, giocò un ruolo centrale nella vita quotidiana e nell’identità culturale dell’antica Roma.

Le rappresentazioni teatrali erano spesso parte di festival religiosi e celebrazioni pubbliche.

Offrivano anche una grande opportunità per i cittadini romani di riunirsi e condividere un’esperienza culturale comune.

Il teatro si rivelò ben presto anche un potente strumento di propaganda politica.

Ricoperse un ruolo centrale nella vita quotidiana e nell’identità culturale dell’antica Roma.

Non fu solo un mezzo di intrattenimento, ma anche di riflessione critica e soprattutto di coesione sociale.

Le maschere

Un esemplare unico esposto in mostra è l’antica maschera in terracotta del Museo Archeologico Regionale ‘Paolo Orsi’ di Siracusa (vedi Foto sopra).

Le maschere fungono da filo conduttore del percorso espositivo.

Si parte dalle più antiche, risalenti al V secolo a.C., passando per quelle ellenistiche del III-II secolo a.C., fino ad arrivare alle spettacolari maschere di epoca romana.

Le maschere rappresentano anche caratteri scenici di lunga durata, tragici, comici e grotteschi.

La mostra offre anche un “campionario” di modelli di maschere mai esposti a Roma, provenienti dalla bottega di un artigiano di Pompei.

Tra i reperti selezionati, sono notevoli le maschere miniaturistiche della tragedia e commedia greca provenienti dall’isola di Lipari.

Ed inoltre e i grandi affreschi parietali di un “camerino” per la compagnia teatrale, provenienti dal teatro romano di Nemi.

Vi è anche una serie di dodici gemme di epoca romana a soggetto teatrale.

4. Maschera colossale comica: "la falsa vergine" Marmo lunense Fine I sec. a.C. Dal teatro di Marcello, scavi del Governatorato (1926-1932) Collocata originariamente sulle chiavi degli archi del primo o secondo ordine del teatro Teatro Argentina, Roma; Area del Teatro di Marcello, inv. TM 16904
4.
Maschera colossale comica:
“la falsa vergine”
Marmo lunense
Fine I sec. a.C.
Dal teatro di Marcello, scavi del
Governatorato (1926-1932)
Collocata originariamente sulle chiavi degli archi del primo o secondo ordine del teatro
Teatro Argentina, Roma;
Area del Teatro di Marcello, inv. TM 16904

E inoltre il ritratto di Marcello con la maschera in bronzo di Papposileno, appartenente alla collezione Fondazione Sorgente Group.

Il percorso espositivo strutturato in sette sezioni

Il percorso espositivo si sviluppa in sette sezioni, seguendo un senso cronologico.

Ogni sezione è arricchita da installazioni multimediali, quali riprese aeree, videomapping, postazioni interattive, interventi recitati da attori che danno voce agli autori e ai i protagonisti del teatro antico.

Fin dagli albori, in età antichissima, si svilupparono la tragedia e la commedia.

Prima sezione: le origini religiose nell’antica Grecia

La prima sezione, dal titolo Genesi, racconta l’importanza del culto dionisiaco alle radici della tradizione teatrale greca e il valore del teatro per la vita democratica ad Atene.

Secondo Aristotele la commedia nasce dai cortei di festa (Komodia: da komoi, cortei di festa e odé, canto) inseriti nelle Falloforie, ossia le feste dedicate a Demetra e Dioniso, con chiara funzione scaramantica (apotropaica).

Le radici italiche e magnogreche

Il teatro prende origini dalla tradizione greca con influssi di componenti etrusche e italiche.

La seconda sezione, dal titolo Radici italiche e magnogreche, mette in risalto proprio il contributo che l’Etruria, la Magna Grecia e i popoli italici fornirono al sorgere del teatro latino.

Nel 240 a.C. per la prima volta a Roma viene portato sulle scene un dramma composto in lingua latina ad opera di un poeta di origine greca, Livio Andronico.

Si trattò di un evento di grande rilevanza storica e culturale, poiché listituzione di quello spettacolo segnò il vero e proprio atto di nascita della letteratura latina.

Il primo teatro italico. Il teatro comico in Sicilia e in Magna Grecia

La commedia invece nasce nella Sicilia dorica.

Secondo Aristotele, la commedia attica fu preceduta da una ricca produzione comica che si sviluppò in Sicilia e in Magna Grecia in forme diverse.

Epicarmo e Sofrone, entrambi di Siracusa, e Rintone di Taranto, nel V secolo furono molto popolari.

Essi diedero origine a forme particolari di commedia, come la Parodia mitologica (farsa fliacica o ilarotragedia) e la mimografia, drammi buffi scritti in dialetto dorico.

Vengono presentate scene di vita quotidiana e bozzetti di personaggi popolari.

Le vicende mitiche cantate dai tragici venivano parodiate dagli attori, che recitavano questi drammi buffi con vistose imbottiture.

Statuetta di attore seduto Marmo italico con tracce di colore Metà del Il sec. d.C. Già Collezione Mattei Statuette of seated actor Italic marble with traces of colour Middle of the 2nd century CE Formerly in the Mattei Collection Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio Clementino, Galleria dei Candelabri, inv. 2661
Statuetta di attore seduto
Marmo italico con tracce di colore
Metà del Il sec. d.C.
Già Collezione Mattei
Città del Vaticano, Musei Vaticani,
Museo Pio Clementino, Galleria dei Candelabri, inv. 2661

La commedia a Roma

La terza sezione della mostra è intitolata La commedia a Roma.

Nella Roma repubblicana fioriscono autori geniali come Plauto e Terenzio.

In questa sala si esplora la tradizione comica romana, dalla costruzione dei personaggi di Plauto, vere e proprie maschere di tipi umani, fino allo spirito riflessivo e introspettivo dei personaggi di Terenzio.

Essi introducono con enorme successo le forme della commedia greca, riprendendo le opere di Aristofane e Menandro.

Attore con maschera tragica Intonaco dipinto Isec. d.C. (5 -79 CC) Da Ercolano Actor with tragic mask Painted plaster Ist century CE (45 - 79 CE) From Ercolano Museo Archeologico Nationale di Napoll in. 903
Attore con maschera tragica
Intonaco dipinto
Isec. d.C. (5 -79 CC)
Da Ercolano
Actor with tragic mask
Painted plaster
Ist century CE (45 – 79 CE)
From Ercolano
Museo Archeologico Nationale di Napoll in. 903

Aristofane e la commedia antica

Aristofane è reputato il massimo esponente della commedia politica e proponeva temi politici e culturali.

Opera durante le guerre del Peloponneso (sconfitta di Atene), nell’Atene del V secolo a.C., quando il regime è democratico.

Possediamo 11 commedie complete delle 40 attribuite ad Aristofane: esse lo consacrano come uno dei più grandi commediografi del passato, nonché uno dei più attuali.

Nato ad Atene intorno al 450 a.C. partecipò attivamente alla vita politica della sua città e, facendo ampio uso della libertà di parola ammessa ai suoi tempi nei tribunali e a teatro, attaccò sulla scena i mali della democrazia ateniese. Scrisse godibili satire anche sugli intellettuali del suo tempo, citati per nome: Socrate (Le nuvole) e Euripide (Le rane, Tesmoforiazuse) tra gli altri.

Nel XV secolo l’arrivo di codici greci in Italia garantì la fortuna di Aristofane presso gli umanisti.

L’edizione delle sue commedie qui presentata è in assoluto il primo testo teatrale mai dato alle stampe, custodito presso la Biblioteca Casanatense a Roma.

Prima edizione a stampa di un’opera teatrale “Nove commedie di Aristofane”, volume a stampa, Venezia 1498, Roma, Biblioteca Casanatense

L’attualità delle Commedie di Aristofane

Celebri sono le opere maggiori arrivate sino a noi.

Innanzi tutto l’ Acarnesi, la cosiddetta commedia dell’utopia, ambientata durante la guerra tra Atene e Sparta.

Poi i Cavalieri, che critica le istituzioni ed è la satira politica più feroce mai trasmessa dalla letteratura antica.

Il bersaglio è Cleone, demagogo fautore della guerra ad oltranza contro Sparta.

Inoltre, sempre nel solco della satira politica Le Nuvole, commedia che prende di mira le nuove correnti di pensiero, in particolari quella sofista, incarnata da Socrate.

Emerge anche il tema del degrado sociale e della decadenza, anche attraverso la condanna della figura del Sicofante, che denuncia un cittadino dietro pagamento.

Menandro e la Commedia nuova

Menandro nasce ad Atene nel IV secolo a.C.

E’ allievo di Teofrasto (coetaneo di Epicuro).

Vive sotto il protettorato macedone di Demetrio Falereo, in una epoca in cui Atene ha perso la sua libertà.

Delle 100 commedie che ha scritto, ne rimangono purtroppo pochi frammenti.

la caratteristica dell’uomo di Menandro è quella di risolvere i problemi familiari.

I caratteri della commedia di Menandro sono il lieto fine e la sorte (tuke).

La tuke è la regista della commedia.

La tuke infatti fa cadere i personaggi nell’errore e li induce ad allontanarsi, ma è sempre lei che consente il lieto fine, spesso tramite il meccanismo del riconoscimento.
I temi ricorrenti della filantropia e della solidarietà, rispecchiano una visione ottimistica dell’essere umano.

Rilievo con Menandro e Talia Marmo greco 20 - 40 d.C. Già collezione Rondinini; acquistato nelle Collezioni Vaticane nel 1838 Relief with Menander and Thalia Greek marble 20 - 40 CE Formerly in the Rondinini collection; purchased for the Collezioni Vaticane in 1838 Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Profano, inv. 9985
Rilievo con Menandro e Talia
Marmo greco
20 – 40 d.C.
Già collezione Rondinini; acquistato nelle Collezioni
Vaticane nel 1838
Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Profano,
inv. 9985

Menandro è convinto che l’uomo sia capace di imparare dai propri errori e che i contrasti generazionali possano essere risolti in nome di una comune umanità di cui tutti sono compartecipi.

Le opere maggiori di Menandro sono “Il bisbetico e “L’arbitrato.

La tragedia a Roma

La quarta sezione, La tragedia a Roma, presenta i principali protagonisti della produzione tragica del periodo repubblicano, di cui resta poco, e si concentra su due figure di grande rilievo come Seneca e Nerone.

Di tanti altri testi, di interi generi letterari, quali la tragedia di età repubblicana, conosciamo solo i titoli e, talvolta, un buon numero di frammenti, grazie alle citazioni di eruditi, grammatici, lessicografi.

Melpomene con maschera tragica Intonaco dipinto I sec. d.C. (15 - 45 d.C.) Da Pompei Melpomene with tragic mask Painted plaster 1st century CE (15 - 45 CE) From Pompei Museo Archeologico Nazionale di Napoli, inv. 8847
Melpomene, la Musa del teatro, con maschera tragica
Intonaco dipinto
I sec. d.C. (15 – 45 d.C.)
Da Pompei
Museo Archeologico Nazionale di Napoli, inv. 8847

Musicisti, mimi, giocolieri e acrobati nell’antica Roma

La quinta sezione, I protagonisti e la musica, si focalizza sulle vite, spesso rocambolesche, di attori, danzatori, acrobati, musicisti e mimi.

Uno spazio specifico è dedicato al fenomeno degli spettacoli di mimi e pantomimi in età imperiale.

L’esposizione racconta anche le difficili vite degli attori e degli altri grandi protagonisti del mondo teatrale.

Acrobata in terracotta
Acrobata su colonna
Terracotta realizzata a matrice
Fine VI – inizi V secolo a.C.
Da Taranto, contrada Vaccarella, piazza Messapia,
tomba 1
Museo Archeologico Nazionale di Taranto, inv. 52190

Dal teatro recitato al teatro del corpo

Dal teatro recitato al teatro “del corpo” il passo è breve.

Lo spettacolo si affida alla gestualità più che al testo per comunicare con un pubblico vasto e multietnico come quello imperiale.

È lepoca dei mimi e dei pantomimi, ma anche di forme singolari di divertimento come le danze acquatiche, realizzate allagando l’orchestra del teatro (tetimimi).

Statuetta di giocoliere o mimo Statuette of juggler or mime Terracotta realizzata a matrice Cast terracotta Ill sec. a.C. 3d century BCE Da Taranto, via Crispi, da una tomba From Taranto, via Crispi, from a tomb Museo Archeologico Nazionale di Taranto, inv. 4077
Statuetta di giocoliere o mimo
Terracotta realizzata a matrice
Ill sec. a.C.
Da Taranto, via Crispi, da una tomba From Taranto, via Crispi, Museo Archeologico Nazionale di Taranto, inv. 4077

Contemporaneamente i teatri si aprono a manifestazioni loro estranee, come assemblee, trionfi e giochi di ogni genere.
La musica nell’antica Roma 

Sempre in epoca imperiale si diffonde la tipologia dell’odeon (gr. odèion, lat. odeum), edificio in genere più piccolo di un teatro e con un tetto di copertura, destinato alla declamazione.

Nel settore della musica di scena, la mostra espone rari strumenti musicali originali come tibie, resti di cetre, crotali e sistri, molti dei quali sono stati fedelmente riprodotti per consentire ai visitatori di sperimentarne il suono.

L’eredità architettonica del teatro antico

La sesta sezioneL’architettura, riflette sull’eredità monumentale lasciata dal teatro antico, attraverso rovine architettoniche spesso maestose e ancora funzionanti.

La transizione dalla Roma repubblicana al regime imperiale nel I secolo a.C. vede la costruzione dei primi teatri stabili a Roma e elaborazione della loro forma.

In pochi decenni sorgono i tre grandi teatri romani in muratura: il teatro di Pompeo (61-55 a.C.), con circa 20.000 posti, circondato da portici e giardini, di cui rimane poco se non nella topografia di Roma; il teatro di Cornelio Balbo (dedicato nel 13 a.C.), anch’esso perduto, e il teatro di Marcello, quasi contemporaneo, intitolato da Augusto alla memoria del nipote amato.

La collaborazione con la Soprintendenza Speciale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Roma ha permesso la realizzazione di un intervento video sul teatro di Pompeo, che dopo la mostra resterà patrimonio delle Istituzioni curatrici.

Maschera di Pan
Maschera di Pan
Marmo bianco a grana fine e peduccio in rosso antico
Seconda metà del I sec. d.C.
Dono di papa Benedetto XIV (1748)
Mask of Pan
Roma, Musei Capitolini, Palazzo Nuovo, inv. MC S 716

Attualità del teatro antico

La settima sezione della mostra riguarda il teatro contemporaneo

L’attraversamento dell’antico si apre alla contemporaneità nell’ultima sezione della mostra, dal titolo “Attualità del classico”, realizzata in collaborazione e con il contributo del Dipartimento di Lettere e Culture Moderne dell’Università di Roma ‘Sapienza’ e dell’INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico).

Ricca la selezione di locandine storiche di spettacoli realizzati al teatro greco di Siracusa, nonché di montaggi video di messe in scena contemporanee.

Numerose le testimonianze materiali e fotografiche, riferite in particolare all’esperienza del ‘Vantone’ di Pasolini.

Il percorso espositivo si chiude offrendo una panoramica sulla vitalità del teatro classico, dal primo Novecento ai nostri giorni.

Ancora oggi riconosciamo in Edipo e negli altri protagonisti del dramma antico i nostri stessi istinti e contraddizioni.

Immergersi nel teatro classico è dunque un’operazione attuale, che questa mostra propone privilegiando il filo della continuità




Servillo e i modi per non morire

A Bologna all’Arena del sole dal 10 al 14 gennaio 2024 il pubblico bolognese ha assistito alla rappresentazione teatrale “Tre modi per non morire, Baudelaire, Dante e i classici greci”.
Protagonista Tony Servillo per la produzione del Teatro Piccolo di Milano.
Un viaggio teatrale attraverso i testi di Giuseppe Montesano, autore napoletano contemporaneo.
Toni Servillo ha guidato il pubblico in un viaggio teatrale in tre tappe  attraverso i testi di Giuseppe Montesano.
Il tema è la consapevolezza di essere vivi.
Ecco quali sono i modi per non morire.

Servillo a Bologna al teatro Arena del Sole

A Bologna all’Arena del sole dal 10 al 14 gennaio 2024 il pubblico bolognese ha assistito alla rappresentazione teatrale “Tre modi per non morire, Baudelaire, Dante e i classici greci”.
Protagonista Tony Servillo per la produzione del Teatro Piccolo di Milano.

I modi per sopravvivere alla frenesia dei nostri giorni

Toni Servillo ha guidato il pubblico in un viaggio teatrale in tre tappe  attraverso i testi di Giuseppe Montesano.

Il tema è la consapevolezza di essere vivi e come sopravvivere alla frenesia dei nostri giorni, al fine di evitare “la disidratazione dell’anima”.

Tony Servillo all’Arena del Sole di Bologna

L’autore, Giuseppe Montesano

Giuseppe Montesano è autore napoletano dei nostri tempi (nasce nel 1965 a Napoli).
Ha scritto numerosi libri tra cui “Come diventare vivi” e “Tre modi per non morire”.
Da quest’ultima opera è tratta la pièce teatrale recitata dal noto attore napoletano Tony Servillo.
I  testi di Montesano sono una vivida indagine che mescola riflessioni personali al pensiero e alle parole dei classici.  Lo scopo è quello di uscire dal limbo dei nostri giorni e raggiungere la consapevolezza di essere vivi, perché non morire è un’ arte.

Il parallelo con i classici e l’arte di non morire

Attraverso il testo composto dallo scrittore napoletano Giuseppe Montesano, Toni Servillo accompagna il pubblico in un coinvolgente viaggio in tre tappe.
Il percorso vuole essere un antidoto alla paralisi del pensiero, alla depressione, alla non-vita che tenta di imprigionarci.
Compagni di questo itinerario alcuni autori che, ancora oggi, sanno mostrarci quell’arte di non morire da loro stessi messa in pratica. Baudelaire, Dante e i classici greci sono gli autori individuati quali modelli di quell’arte di non morire che s’impara coltivando la nostra interiorità.

Come ridiventare vivi nonostante la tecnologia

Le riflessioni di Montesano partono da un assunto: viviamo in una epoca in cui la tecnologia viene celebrata ed osannata.
Assistiamo ad applicazioni sbalorditive, con grandi potenzialità e aspettative di un miglioramento delle nostre vite.
Tuttavia mai come in questi anni si è fatta evanescente l’idea di progresso.
La riflessione di Montesano sviluppo ed articola il pensiero  già espresso nel suo precedente libro “Come diventare vivi”.
Il pessimismo sulla evoluzione tecnologica si fa sempre più stringente.

Il lamento dell’autore e l’era digitale

L’ infelicità ci assedia.
Siamo nell’epoca dello strapotere digitale.
Ci dicono in continuazione che potremmo essere liberati dai lavori più faticosi e noiosi.
Purtroppo questo non accade.
Sembrerebbe che la nostra evoluzione sia bloccata, prosegue Montesano.
Ed ecco che l’antidoto al pessimismo e all’analfabetismo emotivo e mentale è “toccare” le persone con parole di senso e di bellezza.
L’autore ci esorta di alimentare la fiamma che un verso di Dante o di Baudelaire, un frammento di Eraclito o Platone fa divampare.

Ecco quali sono i modi per non morire.

Monsieur Baudelaire, quando finirà la notte?

Il monologo di Servillo inizia con Monsieur Baudelaire.
La domanda è: quando finirà la notte?
“Monsieur Baudelaire, le vite degli altri mi attirano, perché nello specchio delle vite altrui…spero sempre di trovare una risposta alla mia vita…”
Il monologo prosegue: “Charles, che confusione, di notte i tempi e i luoghi si inabissano, si confondono.Molti non torneranno più a cercare la minestra profumata, vicino al fuoco, la sera, accanto a un’anima amata… E i più non hanno mai conosciuto la dolcezza del focolare e non hanno mai vissuto!”

Servillo e i modi per non morire
Tony Servillo in un momento dello spettacolo

La metafora dell’alba dopo la notte

Il testo recitato da Servillo prosegue con un inno alla bellezza come arma per vincere ingiustizia e depressione. “Non hanno mai vissuto…Chi sono, Charles, questi fantasmi?
Hanno forse le nostre facce impallidite dalla paura di vivere?
O forse per loro e per noi la notte finirà, e verrà il mattino?

E quando sarà finita questa notte, quale alba ci aspetta, Monsieur Baudelaire?”

Servillo solo in mezzo al pubblico

E’ interessante notare che Servillo recita, non a caso, da solo, in mezzo al pubblico,
Il teatro di “Tre modi per non morire” è una via per ritrovare quelle parole che un attore dice con tutto il suo corpo e la sua mente per nutrire la sua e la nostra interiorità.
L’interprete non parla dall’alto del palcoscenico, ma è lì in mezzo al pubblico, senza scene, né decori, come in una antica agorà.
Lo spazio comune, dove tutti insieme, attore e noi spettatori, siamo radunati per svegliare le nostre coscienze, grazie alla forza, alla verità di una parola evocatrice.

Le voci di Dante. Otto secoli di lingua italiana per non morire

Si prosegue con Le voci di Dante, in cui prendono la parola alcuni celebri personaggi della Commedia.

“Otto secoli fa nella lingua italiana si aprì un gorgo, soffiò un vento mentale che sollevò mare e onde in spume e spruzzi…
Accadde qualcosa di così straordinario che non ha paragoni con nessun’altra epoca.……quella lingua si formò attraverso le opere di scrittori diversissimi: ….Erano imperatori, predicatori, trattatisti, storici, fabulatori, cronisti, poeti di corte e poeti vagabondi.

L’inno alla lingua italiana

il monologo di Servillo prosegue con un inno alla lingua italiana.

La lingua italiana viene definita come un’orchestra capace di suonare la musica della mente.

Il sogno della lingua italiana è un sogno che è “la trasmutazione alchemica della mente nel corpo e del corpo nella mente, una forma in cui l’emozione genera i concetti”.
Il pensiero razionale diventa intuitivo come una cosa viva, e la cosa viva si riempie di pensiero razionale: qualcosa che prima della Commedia non esisteva.

Quella lingua che chiamiamo italiana è ancora qui dopo otto secoli e molte metamorfosi, prosegue Servillo/ Montesano.
È la lingua scolpita e forgiata dall’uomo che chiamiamo Dante Alighieri.

Il cammin di nostra vita e il desiderio di salvezza di Dante

Il desiderio di salvezza non basta mai, non resta che ricominciare, nel mezzo del cammin di nostra vita, recita Servillo.
Una vita che è spesso miserabile e smarrita in un mondo miserabile e smarrito.
Ma è solo attraverso questo mondo, è solo amando questo mondo di sorrisi e di lacrime che possiamo ritrovare la via.   L’amore infinito che muove ogni cosa non può cessare di muoversi e chiamare.
La vita è la partenza, la morte è la vita, la foresta oscura della notte è qui.   
Ma sono qui anche le stelle che risplendono e ci indicano la strada, e ci aspettano.
Ora, e in ogni momento, il cammino può ricominciare.

I greci e il teatro come antidoto contro la morte

Il viaggio teatrale per non morire si conclude con “Il fuoco sapiente”, la poesia e la filosofia greche per immaginare un futuro diverso.
L’autore ci invita a seguire la saggezza dei greci e tornare a vivere il teatro e la letteratura nel senso più pieno.
Facciamo dell’arte l’occasione di incontro con gli amici, per condividere di nuovo ciò per cui vale davvero vivere: poesia, emozione e verità. Il bello è anche buono (kalòs kai agathòn), ecco l’ideale di perfezione umana per gli Elleni.
Il bello e il bene inseparabili, che spuntano luminosi dalle parole mentre si beve e si ride inseguendo la verità in un gioco serio tra amici veri. I nostri simposi sono cimiteri di pensiero dove ripetiamo “lo dico lo penso lo faccio Io sono lo so”, denuncia Montesano.
“Ci ingozziamo” di lavoro vacanze soldi nemici domani senza mai vivere l’attimo felice.

La metafora della caverna di Platone

Siamo ormai alla conclusione dello spettacolo. L’apoteosi finale viene affidata al famoso mito della caverna di Platone.
La recita nella caverna ci imprigiona tutti. Platone, uno dei più grandi pensatori dell’antica Grecia, viene esaltato.
Il mito della caverna di Platone è una delle pietre miliari in assoluto della filosofia greca antica.

La nostra vita è una caverna?

La caverna oscura simboleggia il nostro mondo.
Gli schiavi incatenati sono gli uomini.
Le catene sono l’ignoranza e le passioni che ci inchiodano a questa vita.
Le ombre delle statuette sono le cose del mondo sensibile corrispondenti al grado della credenza.
La caverna è l’ allegoria della conoscenza.  Noi stiamo dimenticando la scintilla che dalla bellezza ci conduce al bene attraverso il pensiero che vive in un corpo e in un’anima.
Dalla nostra caverna non siamo usciti.
Oggi la caverna è dovunque: “si nutre dei nostri cervelli digitali e delle nostre pulsioni animali e cresce come una velenosa rete invisibile”.

Le catene virtuali del nostro mondo 

Servillo prosegue: “Non abbiamo più catene ai piedi e alle mani, non servono per tenerci in schiavitù – non servono più, le catene siamo noi stessi”.
I greci hanno inventato il pensiero che dà forma al mondo e alla nostra anima nel mondo.
Noi invece sacrifichiamo l’anima e il pensiero al totem elettronico che strangola noi e il mondo.
Siamo espropriati, derubati della nostra vita. Vivere? Lo faranno per noi le nostre memorie esterne, i nostri avatar digitali.
Loro vivranno della nostra morte.

Servillo durante un momento della recitazione

 

E la caverna cresce, cresce lo spettacolo delle ombre e la rete si stringe.
Eppure, forse, là fuori, la luce splende ancora, là, fuori dalla caverna, là dove nascono nuovi mattini.

Servillo è ottimista:
“C’è qualcuno tra noi che ha ancora voglia di accendere una scintilla nel buio, e dire che le ombre sugli schermi della nostra caverna sono solo ombre? Chiudiamo gli occhi davanti alle ombre – e ascoltiamo la voce di Amore: il fuoco sapiente divamperà”.

Il grido di Servillo

Servillo prosegue, quasi come fosse un grido.
Noi siamo infatti inquieti, impoveriti, spaventati, e tutti sentiamo che ci manca qualcosa di cui avremmo un disperato bisogno: ci manca l’amore, ci manca la vita.

Come ri-diventare vivi

E allora? E allora non ci resta altro da fare che cercare di (ri)diventare vivi.
Un cambiamento a portata di mano perché già dentro di noi.
Questa è la speranza che emerge prepotentemente e, nonostante tutto, dalla recita teatrale.

Gli spettatori attenti ha applaudito lungamente e affettuosamente Tony Servillo.
L’attore napoletano ha così incassato un ennesimo successo di pubblico e di critica.




Modigliani in mostra a Parigi

Importante mostra a Parigi su Modigliani presso il Museo de l’Orangerie

La mostra percorre il rapporto tra Amedeo Modigliani e il mercante d’arte Paul Guillaume, il suo maggiore sponsor.

Il percorso espositivo riunisce diverse opere emblematiche volte ad evidenziare il ruolo importante del mercante d’arte Paul Guillaume nella diffusione dell’opera di Modigliani sul mercato dell’arte negli anni ’20, sia in Francia che negli Stati Uniti.

Modigliani e Guillaume

È attraverso lo speciale rapporto con il giovane gallerista, divenuto suo mercante durante la Grande Guerra, che la mostra affronta il genio di Modigliani.

Sono più di cento le tele famose che sono passate per le mani di Guillaume oltre ad una cinquantina di disegni e una dozzina di sculture.

Questo numero indica sia il coinvolgimento del commerciante nella promozione dell’artista sia il suo gusto personale nella scelta delle sue opere.

Modigliani a Parigi

Amedeo Modigliani, detto Modì, (Livorno, Italia, 1884 – Parigi, Francia, 1920), pittore italiano di origine ebraica, arrivò a Parigi nel 1906.

Dopo un periodo dedicato alla scultura tra il 1909 e il 1914, tornò alla pittura e si dedicò principalmente alla rappresentazione della figura umana.

Il gallerista e collezionista Paul Guillaume scoprì Amedeo Modigliani ne l1914 attraverso il poeta Max Jacob.

Egli divenne suo mercante l’anno seguente.

Fu uno dei primi sostenitori dell’artista.

Il mercante affittò per lui un atelier in rue Ravignan à Paris.

L’atelier è rimasto famoso per gli scatti fotografici in cui i due uomini posano accanto alle opere dell’artista appese al muro.

I ritratti di Guillaume alla mostra

In una delle prime stanze della esposizione sono riuniti tre ritratti ad olio di Paul Guillaume e due disegni.

Vi sono inoltre esposte fotografie che mostrano l’appartamento – galleria di Paul Guillaume in avenue de Villiers nonchè l’atelier de la rue Ravignan.

Modigliani ha immortalato il suo gallerista in una serie di ritratti dipinti e disegni.

Guillaume dal canto suo, condivide con Modì la passione artistica e letteraria.

Ritratto di Paul Guillaume 1916 A. Modigliani

Il Museo de l’Orangerie e Modigliani

Amedeo Modigliani è uno degli artisti più amati delle collezioni dell’Orangerie.

Il museo conserva cinque delle sue opere.

Oltre ai dipinti conservati al Museo dell’Orangerie, il corpus di opere che passarono per le mani di Paul Guillaume comprende un centinaio di tele, una cinquantina di disegni e una decina di sculture.

I lavori esposti in mostra evidenziano il coinvolgimento del gallerista nella promozione dell’artista.
Grande era l’apprezzamento di Paul Guillaume per le opere di Modigliani.

Molte arredavano i suoi numerosi appartamenti.

In mostra vengono esposti alcuni modelli in scala delle sale dei suoi appartamenti con la collezione dei quadri.

Spiccano nella esposizione i ritratti degli intellettuali che animavano la Ville Lumière dell’epoca, come il poeta Max Jacob, André Rouveyre, Jean Cocteau, Moise Kisling.

Le figure femminili di Modigliani

Colpisce anche una serie di ritratti di donne che hanno condiviso la vita con il pittore.
Tra queste la scrittrice Béatrice Hastings e la giovane pittrice Jeanne Hébuterne.
Quest’ultima fu la sua ultima compagna nonché madre della sua unica figlia. Lei lo seguirà, suicida, il giorno dopo la sua morte.

Lo scopo della mostra

La mostra curata da Cécile Girardeau e Simonetta Fraquelli segue le tracce della relazione tra Modigliani e il suo gallerista Guillaume attraverso una scelta di opere emblematiche.
Vengono esplorati i legami del pittore e del suo mercante nel contesto artistico e letterario parigino nei primi anni del Novecento.
Ed anche il ruolo di Paul Guillaume nella diffusione delle opere di Modigliani sul mercato dell’arte sia in Francia sia negli Stati Uniti.

Gli occhi senza pupille

Dipingere gli occhi senza pupille è una scelta stilistica estremamente simbolica.

Sull’onda del detto per cui gli occhi sono lo specchio dell’anima Modigliani decide di rappresentare i suoi soggetti come privi di pupille.

Come nel dipinto “Donna con nastro di velluto” o “La bella farmacista”, entrambi esposti in mostra.

Donna con nastro di velluto-1915, A.-Modigliani

Non potendo conoscere l’anima degli uomini e delle donne che ritraeva l’artista lascia gli occhi vuoti.

Gli occhi sono lo specchio dell’anima ed è difficile guardare nell’anima delle persone.

Solo di una donna dipinse le pupille, quella della sua amata Jeanne Hébuterne, perchè la sua anima l’aveva conosciuta.

La bella farmacista, A. Modigliani, 1918.

Volti stilizzati e colli affusolati

I ritratti femminili sono caratterizzati da volti stilizzati, colli affusolati e sguardi spesso assenti.

Esposto in mostra Lola di Valencia, il cui volto stilizzato di profilo ricorda le statue africane.

Lola di Valencia, A. Modigliani, 1915

 

Colpisce inoltre il collo affusolato di “Madame de Pompadour”

Madame Pompadour, A. Modigliani, 1915

E affascina anche  il collo affusolato della ragazza col corpetto a righe.

Ragazza con corpetto a righe 1917 A.. Modigliani

La mostra ben evidenzia lo stile di Modigliani, il disegno schematico che richiama linee geometriche e forme arcaiche, animato da colori decisi e intensi, talora brillanti e talora cupi.

Decisamente si tratta di una esposizione ben riuscita in grado di evidenziare i tratti salienti dello stile personalissimo di Modì e di offrire uno spaccato di quel vivace e prolifico periodo parigino della prima parte del 1900.

Dopo la sua fine prematura Guillaume continuò a promuovere e a diffondere le opere di Modigliani in Francia ed oltre l’Atlantico, fino alla sua morte avvenuta nel 1934.

 




Da Caravaggio a Ceruti: alla scoperta del Pitocchetto

Da Caravaggio a Ceruti: alla scoperta del Pitocchetto, il pittore della povera gente

È in corso al Getty Museum di Los Angeles la mostra sul pittore lombardo del 1700 Giacomo Ceruti detto il Pitocchetto.

L’esposizione si intitola “Giacomo Ceruti, un occhio compassionevole” (“A Compassionate eye”).

L’esposizione propone un interessante viaggio tematico nell’universo della povertà nell’Europa del 1700.

Alla scoperta del Pitocchetto, il pittore della realtà

È in corso a Los Angeles la mostra “Giacomo Ceruti, un occhio compassionevole” (Giacomo Ceruti, a Compassionate eye).

L’esposizione propone un interessante viaggio tematico nell’universo della povertà nell’Europa del 1700 attraverso i dipinti del pittore lombardo del 1700 Giacomo Antonio Melchiorre Ceruti, detto il Pitocchetto  (Milano, 1698-Milano, 1767).

Il “Pitocco” è infatti il nome che nel Cinquecento indicava il rozzo panno marrone e nero con cui si vestivano i mendicanti.

Da Brescia a Los Angeles

All’artista è stata dedicata la prima mostra in occasione di Bergamo e Brescia Capitale italiana della cultura 2023, inaugurata il 14 febbraio 2023 al Museo di Santa Giulia, prima che prendesse il volo per la tappa d’oltreoceano.

La mostra è prodotta dal Comune di Brescia, la Fondazione Brescia Musei ed è organizzata dalla J. Paul Getty Museum di Los Angeles.

Si tratta di una eccezionale co-produzione con il Getty Center.

La tappa californiana, intitolata “Giacomo Ceruti, a Compassionate eye” è infatti frutto della collaborazione tra Fondazione Brescia Musei e Getty Museum.

Il Getty Museum di Los Angeles

L’esposizione è esposta al J.Paul Getty Museum di Los Angeles dal 18 luglio 2023.

Presenta per la prima volta al pubblico statunitense un gruppo di assoluti capolavori del maestro lombardo.

La splendida cornice del Getty Museum di Los Angeles invoglia a ripercorrere i bei saloni arredati e ricchi di opere d’arte.

Ed anche a ripercorrere gli ampi giardini, che incorniciano un complesso moderno e funzionale, architettonicamente ambizioso ed esteticamente piacevole.

Getty Museum, Los Angeles
Getty Museum, Los Angeles

 

Da Caravaggio a Ceruti

L’argomento della interessante esposizione è dedicata a quel filone di pittura sei-settecentesca che si pone sulla scia del  maggiore rappresentante di questo filone post caravaggesco, rappresentato da Giacomo Ceruti, il pittore “della realtà” e della povera gente, famoso per aver sviluppato un genere di pittura antiretorica per quell’epoca.

Il suo percorso artistico fa parte di quel filone della “pittura della realtà” che ha in Lombardia una tradizione secolare.

Prima di lui, grandissimi artisti come Caravaggio, Vincenzo Foppa, ed esponenti della scuola bresciana rinascimentale come Giovanni Girolamo Savoldo e il Moretto, avevano toccato l’argomento.

La precedente mostra a Brescia nel 1987 sul pittore di strada

Sono passati trentasei anni, dalla grande mostra che nel 1987 Brescia ha dedicato a Giacomo Ceruti.

I tempi sono dunque maturi per tornare a indagare questo particolare pittore.

La pittura di strada di Ceruti incontrò molto favore presso l’aristocrazia locale bresciana.

La favolosa Brescia del 1700

Nel Settecento infatti Brescia, politicamente assoggettata alla Serenissima, fu centro attivo e culturalmente vivace, con respiro europeo grazie alla influenza milanese e francese.

Fra i committenti certi del pittore si annovera la famiglia Avogadro che possedeva le tele dei Pitocchi e del ciclo Padernello, ora disperso in varie collezioni private.

La mostra ha il grande pregio di riunire le quindi tele dei Pitocchi, appartenenti al Ciclo Padernello.

L’universo della povertà nella prima Europa moderna

Giacomo Ceruti si impone come una delle voci più originali della cultura figurativa del XVIII secolo.

I dipinti di Ceruti sono toccanti rappresentazioni dei ceti umili.

I suoi ritratti sono penetranti.

Aleggia sui volti dei suoi dipinti un senso di rassegnazione e di stanchezza.

Come nella “I due mendicanti nel bosco”, dove i volti seri ma sereni si stagliano nello sfondo dello scarno paesaggio boschivo.

I due mendicanti nel bosco, Giacomo Ceruti, 1730
I due mendicanti nel bosco, Giacomo Ceruti, 1730

L’ evoluzione della scena di genere in Italia nel Sei-Settecento.

Giacomo Ceruti (1698-1767) nacque e morì a Milano e fu attivo nel nord Italia tra la Lombardia e il Veneto.

I suoi dipinti si distinguevano per la rappresentazione di commercianti a basso reddito e di individui senza casa, che ritrasse con dignità e simpatia.

Per questo Ceruti arrivò a essere conosciuto come Il Pitocchetto (il piccolo mendicante).

Il percorso espositivo statunitense, il primo incentrato esclusivamente su Giacomo Ceruti, esplora le relazioni tra arte, mecenatismo e disuguaglianza economica nella prima età moderna dell’Europa.

Gli argomenti includono rappresentazioni di soggetti emarginati nella storia dell’arte europea della prima età moderna.

Le scene di genere e l’immagine dei pitocchi nella pittura di Giacomo Ceruti

Giacomo Ceruti ritrae con realismo sincero, e spesso impietoso, scene di vita quotidiana e domestica.

La vena è spiccatamente narrativa e popolare.

In particolare, la sua attenzione si sofferma sulla umile vita di strada ed i particolare sui mendicanti, i cosiddetti “pitocchi”. Da qui il suo soprannome “Il Pitocchetto”.

Il volto e le mani sformate dei suoi “pitocchi” sono segnate da profonde rughe, lo sguardo è sfuggente, il vestiario di estrema povertà.

I tre accattoni, Giacomo Ceruti, 1736
I tre accattoni, Giacomo Ceruti, 1736

La pittura di genere

L’ occhio compassionevole di Giacomo Ceruti si traduce nella rappresentazione delle scene di genere.

La pittura di genere è una rappresentazione pittorica che ha per soggetto scene ed eventi tratti dalla vita quotidiana.

Fu a lungo considerata un genere “minore”.

Si distingue per la rappresentazione degli aspetti della vita di tutti i giorni; mercati, faccende domestiche, interni o feste.

I primi grandi pittori di scene di genere si affermarono nei Paesi Bassi, paese con una forte componente mercantile.

Pieter Brueghel il Vecchio, Johannes Vermeer sono tra i più noti pittori olandesi specializzati nelle scene di genere.

In Italia tra i primi pittori ad aver dipinto scene di genere si segnalano il cremonese Vincenzo Campi e il bolognese Bartolomeo Passerotti.

Entrambi furono d’esempio per Annibale Carracci, il cui Mangiafagioli è uno dei dipinti di genere più celebri della pittura italiana.

I  soggetti pauperisti di Ceruti

La pittura europea del XVII e XVIII secolo è nota soprattutto per scene storiche, ritratti espressivi, nature morte e rappresentazioni idealizzate di soggetti religiosi e mitologici.

Ceruti si distingue invece per la particolarità pauperista dei suoi soggetti.

Il progetto espositivo vede esposte infatti tele di soggetto pauperista: mendicanti, vagabondi e persone umili.

In realtà Ceruti ha dipinto tele anche con soggetti religiosi, ritrattistica e nature morte, ma la sua fama è passata alla storia per la rappresentazione della vita reale e umile della strada.

I due mendicanti, Giacomo Ceruti, 1730
I due mendicanti, Giacomo Ceruti, 1730

Sono ritratti con oggettività e al contempo rispettosa partecipazione, dalla quale promana un senso di dignità e profondità interiore, il contributo più originale dell’artista alla pittura europea della prima età moderna.

L'accattone, Giacomo Ceruti, 1735
L’accattone, Giacomo Ceruti, 1735

Particolarità dei dipinti di Ceruti nel panorama europeo del 1700

Le straordinarie raffigurazioni a grandezza naturale di persone che vivono ai margini della società dipinte dall’artista dell’Italia settentrionale Giacomo Ceruti (1698-1767) sfidano una facile categorizzazione.

I soggetti delle sue immagini includono anziani e disabili che chiedono l’elemosina o seduti in preda alla stanchezza.

Mendicante seduto, Giacomo Ceruti, 1720
Mendicante seduto, Giacomo Ceruti, 1720

Oppure uomini, donne e bambini che lottano per la sussistenza come calzolai, merlettaie, filatori e facchini.

I tre ciabattini, Giacomo Ceruti, 1730
I tre ciabattini, Giacomo Ceruti, 1730

Scene di vita quotidiana

In un’epoca in cui i dipinti di genere (scene di vita quotidiana) rappresentavano spesso i poveri come ammonimenti moralistici o figure di parodia, Ceruti ritraeva i suoi soggetti con verosimiglianza ed empatia.

La filatrice, Giacomo Ceruti, 1730 - 1733
La filatrice, Giacomo Ceruti, 1730-1733

Le sue immagini ci presentano frammenti austeri della vita di persone spesso cancellate dalla storia, rappresentazioni inquietanti che sono allo stesso tempo profonde e difficili da spiegare.

Non è un caso che Ceruti si sia ritratto  con le sembianze di un pellegrino o di una persona umile.

Autoritratto come pellegrino, Giacomo Ceruti, 1737
Autoritratto come pellegrino, Giacomo Ceruti, 1737

 

La povertà e la diseguaglianza economica

Le rappresentazioni di Ceruti ci incoraggiano a considerare questioni più ampie come la disuguaglianza economica di allora e di oggi.

Il potere dell’arte di trascendere le categorie e sfidare le norme sociali.

In un gruppo di dipinti straordinariamente inquietanti dell’artista italiano del XVIII secolo Giacomo Ceruti ritrae mendicanti, vagabondi e lavoratori poveri.

Gli addetti alla spillatura del vino, Giacomo Ceruti, 1735
Lo spillatore di vino, Giacomo Ceruti, 1735

Essi sono ritratti con un realismo ipnotizzante, ma anche con un senso di dignità e profondità emotiva.

In un’epoca in cui gravi disuguaglianze continuano a segnare anche le società più ricche, il lavoro di Ceruti testimonia il potere duraturo dell’arte di riflettere la nostra comune umanità.

Le immagini di lavoratori e di senza tetto di Ceruti si dipanano  come protagonisti di storie distinte piuttosto che come tipologie generiche.

Scuola di cucito

Emblematico è il dipinto “Scuola di cucito”.

È una delle grandi tele che fa parte del cosiddetto ciclo dei Padernello dal nome del castello dove sono state trovate nel 1931.

Scuola di cucito, Giacomo Ceruti, 1720
Scuola di cucito, Giacomo Ceruti, 1720

Il quadro si intitola Scuola di cucito e rappresenta un gruppo di ragazze e donne di differenti età riunito in una stanza priva di arredamento, quasi uno spazio vuoto, a eseguire vari lavori, soprattutto di cucito, in un contesto di calma e decoro.

Le persone raffigurate sono vestite in modo modesto ma curato.

Le donne hanno dei lineamenti ben individuati.

I gesti sono precisi, di chi sa quello che fa e attende a farlo bene, come un dovere pacificamente accettato, lontano da qualsiasi costrizione apparente.

Emerge anche quella concentrazione assoluta che si trova in altre scene di cucito specie olandesi, e soprattutto nella sublime Merlettaia di Vermeer.

Il Ciclo di Padernello

Il Ciclo è composto da quindici grandi tele, acquisite da Bernardo Salvadego, all’asta della collezione Fenaroli che si tenne il 20 aprile 1882 a Brescia.

Ciclo di Padernello è da ritenersi, all’interno dell’articolata e a volte inaspettata, vicenda pittorica di Giacomo Ceruti (1698-1767) una raccolta di opere intesa come “summa artistica”.

Senza dimenticare e sottovalutare alcuni efficaci ritratti nobiliari, altre tele di soggetto pauperistico, le nature morte, e qualche esempio di pittura religiosa.

L’uomo di bassa statura

L’opera fa parte del cosiddetto “ciclo di Padernello”.

Si tratta di un caso esemplare della pittura pauperistica dell’artista che pone attenzione ai soggetti più umili, appartenenti alle classi sociali più basse, descritti con minuziosa veridicità, dalla giubba cenciosa al cappello bucato.

 

Il piccolo uomo, Giacomo Ceruti, 1720
Il piccolo uomo, Giacomo Ceruti, 1720.

Sullo sfondo un paesaggio agreste con un cascinale e alcune piccole figure e sulla sinistra il tronco di un albero in ombra funge da quinta alla scena. Il dipinto è dominato da una colorazione dai toni scuri e terrosi.

Mendicante seduto, Giacomo Ceruti, 1730
Mendicante seduto, Giacomo Ceruti, 1730

In questa tela “Mendicante seduto” l’uomo vestito con abiti poverissimi tiene in grembo una cesta e un bastone.

Il cromatismo sapiente permette di creare un gioco di volumi e di chiaroscuri che donano solidità a questa fragilità a questa fragile figura.

L’espressione dell’uomo  permette di cogliere anche tutta l’umanità dei poveri che Ceruti ben rappresenta anche in altre tele.

La mostra consente agli americani di conoscere per la prima volta un artista poco presente nei musei italiani di oggi, ma molto nelle collezioni private.

Un artista che ha saputo rappresentare la povertà attraverso i volti, i vestiti, le occupazioni, il modo di stare seduti.

Un artista che ha fatto della realtà “qualcosa di allora così nuovo e moderno da essere contemporaneo ancora oggi”, come dichiarato dalla curatrice delle collezioni della Pinacoteca bresciana, Roberta D’Adda.




Manet e Degas, amici e rivali ai tempi dell’impressionismo

È in corso a New York una delle mostre più attese degli ultimi anni.

Si intitola “Manet/Degas” ed è esposta al Metropolitan Museum of Art.

È iniziata a fine settembre e resterà aperta fino al 7 gennaio 2024.

L’esposizione propone un interessante viaggio tematico nella Parigi della seconda metà dell’800 e sul rapporto tra Manet e Degas, i padri dell’impressionismo.

 

Importante mostra a New York sui primi passi dell’impressionismo

A New York è in corso una importante mostra.

Si intitola “Manet/Degas” ed è esposta al Metropolitan Museum of Art di New York.

L’esposizione è iniziata a fine settembre e resterà aperta fino al 7 gennaio 2024.

Il percorso espositivo propone un interessante viaggio tematico nella Parigi della seconda metà dell’800.

In particolare, analizza il rapporto tra Manet e Degas, i padri fondatori dell’impressionismo.

È una delle mostre più attese degli ultimi anni.

Un viaggio tematico sul rapporto tra Manet e Degas

L’esposizione si snoda attraverso il dialogo tra Édouard Manet (1832-1883) ed il suo connazionale e contemporaneo, Edgar Degas (1834-1917).

La mostra offre una nuova e avvincente prospettiva sulla “storica coppia di artisti”, ripercorrendone i viaggi tematici e cronologici.

Particolare è l’attenzione e l’enfasi sulle loro relazioni private.

Il mondo di ieri visto da Manet e Degas

E anche sul contesto sociale e intellettuale che ha influenzato le loro vite e le loro esperienze pittoriche.

I due artisti furono accomunati dalle stesse frequentazioni.

Ad esempio, i circoli culturali privati, come quello della famiglia Morisot.

Od ancora, l’ambiente dei caffè parigini, soprattutto del caffè La nouvelle Athènes, famoso ritrovo di artisti e intellettuali dell’epoca.

Ebbero in comune anche le dure esperienze della guerra franco prussiana nonchè dei giorni della Comune di Parigi nella primavera del 1871.

Manet e Degas furono tuttavia molto differenti come personalità e temperamento.

Parigi, musa ispiratrice degli impressionisti

“Manet/Degas” ripropone uno spaccato della vita parigina della seconda metà dell’800 attraverso il tumultuoso rapporto tra i due artisti.

La Parigi favolosa di quell’epoca è segnata da una svolta radicale e rivoluzionaria che interessa la pittura francese

La mostra offre inequivocabilmente uno sguardo dettagliato sui primi passi del movimento impressionista.

I primordi dell’impressionismo

È proprio l’impressionismo a fare da sfondo all’incontro iniziale dei due artisti alla fine degli anni Sessanta dell’Ottocento.

Entrami sono figli dello stesso ambiente borghese della Parigi di fine secolo.

Sono considerati i maggiori interpreti della pittura pre-impressionista.

I loro dipinti sono infatti lo spartiacque che segna l’inizio della pittura moderna.

Sono stati i primi artisti del XIX secolo a dipingere la vita moderna.

In particolare, la vita di tutti i giorni ispirata dalla vita parigina di quell’epoca indimenticabile.

La mostra newyorkese: le parole del curatore

Manet e Degas, ha commentato Max Hollein, direttore del Metropolitan museum, hanno “prodotto alcune delle immagini più provocatorie e ammirate dell’arte occidentale”.

Le opere in mostra sono raggruppate per temi comuni: il ritratto, le corse dei cavalli, il nudo femminile, le scene di vita parigina.

I dipinti sono esposti uno accanto all’altro, permettendo al visitatore di confrontare la tecnica e il diverso approccio dei due artisti.

Da Parigi a New York

La rassegna giunge a New York dopo essere stata allestita la scorsa estate al Musée d’Orsay di Parigi.

Presenta 160 dipinti e opere su carta.

A questi si aggiungono altri due schizzi di Manet provenienti dalla collezione del Metropolitan Museum of New York.

Notevoli i prestiti di oltre 50 dipinti, anche di singoli collezionisti.

Il museo d’Orsay ha prestato il “Ritratto di famiglia” di Degas (La famiglia Bellelli) e due disegni di Manet, raffiguranti Degas.

Manet Degas, due parigini legati alla città natale

Parigini entrambi, provenienti dal medesimo ambiente borghese di fine XIX secolo, Manet e Degas sono molto legati alla loro città natale.

I loro dipinti rappresentano figure di uomini e donne parigine nel loro ambiente familiare, appartenenti a diverse categorie sociali, evocanti la vita moderna.

Inizia così un dialogo serrato tra i due artisti, i cui soggetti e il cui approccio riecheggiano i romanzi naturalisti dei fratelli Goncourt o di Émile Zola.

Interessati da soggetti simili, cercano di infondere nelle loro opere, posate ed eseguite in studio, la spontaneità di scene prese dalla vita.

Manet e Degas realizzano così una “Nuovo Pittura”.

Manet e Degas differenze e affinità

Degas, nato due anni dopo Manet, diventa celebre insieme agli altri impressionisti, come Monet, Renoir, Pissarro, Cézanne.

Manet si distingue per le pennellate libere, i colori audaci e le prospettive suggestive.

Degas, invece, preferisce una tavolozza di colori tenui e pastello e concentra la sua attenzione sul movimento e sull’intimità.

Seguono un percorso parallelo in quanto a formazione ed esordi.

Prendono poi direzioni differenti già a partire dal 1870, quando Manet si dissociò fermamente dal neonato movimento impressionista. 

Amici o rivali?

Manet e Degas erano amici e rivali nello stesso tempo.

Rimasero tuttavia sempre molto legati.

Queste opere sono affiancate anche dalla famosa tela “Monsieur e Madame Manet” di Degas, proveniente dal Museo municipale d’arte di Kitakyushu, in Giappone.

Si tratta di un’opera, per nulla apprezzata, che Manet mutilò con una lama.

Edgar-Manet-Monsieur et madame Manet, 1868-1869. olio su tela, Kitakyushu-Municipal-Museum-of-art

Il signore e la signora Manet

Catturando Manet in un atteggiamento abituale, Degas dipinge infatti originariamente un doppio ritratto che riunisce l’artista e sua moglie al pianoforte.

Insoddisfatto di questo lavoro che Degas gli offre, Manet ritaglia l’immagine di sua moglie, in quanto “troppo brutta”.

Quando scopre il suo quadro mutilato, Degas, molto offeso, lo porta con sé.

Sebbene questa ferita abbia segnato la fine della loro amicizia, non ha concluso la loro storia artistica.

Degas continua a dipingere ispirandosi a Manet a lungo, dopo la morte prematura di quest’ultimo.

Influenza reciproca tra i due artisti

La loro corrispondenza scritta è scarsa.

Ma le loro opere d’arte forniscono preziose indicazioni su come questi grandi artisti si influenzassero a vicenda.

L’ ampia esposizione offre infatti una opportunità unica per esplorare il loro affascinante rapporto attraverso un dialogo tra le loro opere.

La vita di tutti i giorni

Inedito per l’epoca è rappresentare nei dipinti la vita di tutti i giorni.

Come, ad esempio, entrare in un negozio per l’acquisto di un cappellino alla moda.

Edgar Degas, Chez la modiste, 1879-1886

La scena presso la modista diventa un classico per entrambi gli artisti, uno spaccato della vita quotidiana della ricca borghesia parigina.

Edouard Manet, Chez la modiste, 1881

La vita di famiglia

Non preoccupati di ottenere commissioni lucrative, i due pittori prendono ispirazione per i loro modelli dalla famiglia e dagli amici.

Cercano soprattutto di catturare “persone in atteggiamenti familiari e tipici”, e sono interessati dalla forza espressiva dei corpi tanto quanto a quella dei volti.

La modernità è quella di cogliere i momenti intimi, in atteggiamenti inusuali, come il riposo pomeridiano sul sofà.

Edouard Manet, Le Repos, 1871
Edouard Manet, Le repos, 1871 (particolare).

La vita dei caffè parigini

Manet e Degas rappresentano la stessa modella, l’attrice Ellen Andrée, e lo stesso luogo, l’elegante caffé della Nuova Atene, famoso ritrovo dei letterati ed artisti dell’epoca.

I risultati sono significativamente diversi.

Il caffè di Degas

Ispirato dall’arredamento del caffè di Nuova Atene dove si riunivano artisti e letterati, Degas ha ritratto nel famoso dipinto “In un caffè”, due dei suoi amici: l’attrice Ellen Andrée e l’incisore Marcellin Desboutin.

La giovane donna, vicino ad un uomo chiaramente ubriaco, sembra indifferente a ciò che la circonda.

Ella versa in uno stato di abulia, davanti ad un bicchiere di liquore verde, sopraffatta dallo stordimento provocato dall’assenzio.

L’opera è conosciuta infatti anche con il titolo “L’assenzio”.

Il consumo di assenzio, di tabacco, unitamente alle fumerie di oppio e di hashish furono le principali trasgressioni pubbliche della seconda metà dell’Ottocento e del primo Novecento.

Edgar Degas ritrae un momento di vita o. meglio, di assenza di vita all’interno dei caffè parigini.

È un fermo immagine sul senso di vuoto esistenziale, di incomunicabilità, di autodistruzione tipico della deriva di una certa cultura bohémienne.

Edgar Degas, Dans un café (dit aussi L’Absinthe, 1875-1876

Il caffè di Manet

Manet non rappresenta la sua modella sotto l’influenza degradante dell’alcol e delle droghe, come accade invece nel dipinto di Degas

La ritrae come una giovane donna attraente ed elegantemente vestita.

Il suo atteggiamento evoca certe tecniche di seduzione delle prostitute che aspettano in un bar l’incontro che verrà.

Edouard Manet, La prune, 1877, Washington, National Gallery of Art

Il mondo femminile

Tra i tratti della personalità che distinguono Manet e Degas ci sono i loro rapporti con le donne.

Descritto come un seduttore, Manet si è sempre trovato, secondo l’opinione dei suoi contemporanei, molto a suo agio nel mondo femminile.

Il riserbo di Degas con le donne

Altrettanto proverbiale è, invece, il riserbo di Degas, la cui vita “fu sempre misteriosa dal punto di vista sentimentale”.

Da un lato Manet, perfettamente a suo agio all’interno della società femminile, dall’altro Degas, sempre molto riservato sulla propria vita privata e più impacciato nelle relazioni con il sesso opposto.

Ne derivano anche modalità differenti di rappresentare la figura femminile.

Manet il seduttore

Donne dalla posa e dall’espressione rassicurante quelle dipinte da Manet.

Esse intrattengono un diretto scambio di sguardi con lo spettatore, esemplari i ritratti di Berthe Morisot.

Ben diverse dalle donne di Degas, sempre rappresentate da punti di vista non convenzionali, in situazioni che rivelano turbamento e disequilibrio (La tinozza, 1886).

Modalità differenti di rappresentare la donna

Nelle opere di Degas i rapporti con il mondo femminile appaiono quasi sempre tormentati o sbilanciati. dai suoi scritti emerge la sensibilità di un uomo preoccupato del suo cuore e che sogna la felicità coniugale.

Edgar Degas (1834-1917) Femme sur une terrasse (dit aussi Femme aux Ibis), 1857-1858, New York, The Metropolitan Museum of Art.

Manet rappresenta donne la cui posa e il cui sguardo riflettono una certa sicurezza e disinibizione.

“Nana” e le cortigiane di Manet

Una cortigiana semisvestita, con indosso un corsetto, calze ricamate e décolleté con i tacchi alti, si trucca in presenza del suo protettore.

La giovane donna ha un sorriso malizioso e lancia uno sguardo allo spettatore.

L’uomo, sulla panchina, è tagliato in due dall’inquadratura, senza più importanza che se si trattasse di un mobile.

Rifiutata al Salon del 1877, Nana fu esposta nella vetrina di Chez Giroux, un negozio di “ninnoli, quadri, ventagli” dove ottenne un grande successo come curiosità.

Edouard Manet, Nana, 1877, Hambourg, Hamburger Kunsthalle

La scandalosa Olimpia

Tra le opere esposte vi è anche il capolavoro di Manet, “Olympia” (1863).

Si tratta di uno dei dipinti più scandalosi del XIX secolo.

Manet si fece notare fin da subito con opere spettacolari come “Olympia” e  “Colazione sull’erba”.

Olympia può essere letta come l’apoteosi insolente di una prostituta, che posa in una nudità rinascimentale.

Durante il Salon del 1865, salvo poche eccezioni, un grido di orrore accolse il dipinto.

Edouard-Manet-Olimpia-1863-65-Paris-musee-dOrsay

Il Salon

Fino al pieno sviluppo delle gallerie d’arte, il Salon, con antiche origini (1600) costituì in Francia il principale luogo di esposizione degli artisti viventi.

Nessun principiante poteva sfuggire al Salon negli anni ’60 del 1800.

Ospitato nell’ex Palais de l’Industrie, imponente vestigia dell’Esposizione Universale del 1855, il Salon è un evento annuale dal 1863 e la sua giuria è sempre più liberale.

Questo evento ereditato dall’Ancien Régime riunisce migliaia di dipinti, sculture e opere su carta.

Attira quasi 500.000 visitatori e attira l’attenzione dei principali giornali e collezionisti.

È al Salon che il patrocinio statale manifesta la sua azione attraverso acquisti, premi e incoraggiamenti.

Manet vi espose nel 1861, Degas nel 1865. Manet non vi espose più, amareggiato dalle critiche.

La ritrattistica

Il ritratto occupa un posto importante nella prima produzione di Manet e Degas.

Manet, rispetto a Degas, ama ritrarre personaggi pubblici, sottolineando così i loro legami con determinati ambienti sociali o artistici.

Pittore colto, Manet conosceva, a volte da vicino, i più grandi scrittori del suo tempo.

Li associava al suo lavoro attraverso la ritrattistica e la comunità di ispirazione.

Il suo debito con Baudelaire, Zola, e Mallarmé, tra gli altri, ha lasciato molte tracce nella sua pittura e nella sua vita.

Manet ama trattare i suoi modelli con una certa maestosità.

Occupano il cuore della composizione, spesso in pose ereditate dagli antichi maestri.

La  loro maestosa plasticità è amplificata dai colori vivaci dei loro vestiti o degli accessori che li circondano.

Più tenui i colori di Degas, più composti i suoi personaggi.

Edgar Degas, Madame Yves Gobillard, néè Morisot, 1869

Il circolo Morisot

Il circolo che i genitori di Berthe Morisot aprirono ad artisti, musicisti e scrittori, sotto il Secondo Impero, è un centro di modernità.

Edouard Manet, Berthe Morisot au bouquet de violettes, 1872

Donne e uomini parlano di arte o di politica su un piano di parità.

La modernità delle donne di Manet: Berthe Morisot:

Ci troviamo all’indomani della guerra e della Comune.

Le immagini di Berthe Morisot esprimono uno slancio particolare e il desiderio di ricostruire il presente.

Oltre ad incarnare il simbolo della eleganza parigina.

Edouard Manet, Portrait de Berthe Morisot étendue, 1873

Il “paesaggio all’aperto” (en plein air)

Manet e Degas non rimangono indifferenti alla pittura en plein air.

Essi non ignorano la spinta verso il “paesaggio all’aperto”.

Se ne impadroniscono abbastanza rapidamente, con audacia, e lo usano secondo le esigenze della loro carriera.

Tuttavia, non lavorano mai all’aperto, non condividendo il metodo di dipingere rapidamente en plein air per catturare l’effetto della luce e del momento.

Preferiscono lavorare in studio, utilizzando schizzi e bozzetti eseguiti all’aperto come base per le loro opere.

Fondano, in fin dei conti, quello che si potrebbe considerare un impressionismo a parte.

La Normandia

La produzione normanna di Degas è molto simile a quella di Manet.

Il dipinto “Bagno in mare. Bambina pettinata dalla sua cameriera” di Degas,

è simile a quello di Manet “Sulla spiaggia di Boulogne del suo predecessore”.

Edgar Degas, Bains de mer. Petite fille peignéè par sa bonne, 1869-1870

Da una guerra all’altra

Da repubblicano convinto, Manet espone regolarmente opere legate a eventi che lo toccano o lo disgustano come cittadino.

Il suo obiettivo è colpire l’opinione pubblica.

Degas, al contrario, lascia sempre l’attualità fuori dal suo lavoro pubblico.

La guerra franco prussiana

Nel luglio 1870 la Francia dichiara guerra alla Prussia.

I due pittori vengono richiamati nella Guardia Nazionale e rimangono a Parigi per difendere la città durante l’assedio.

Condividono lunghe settimane segnate dall’attesa, dal freddo e dalle privazioni e si distinguono dai tanti artisti fuggiti dal Paese.

L’amicizia inizia proprio in quel periodo,  quando il continente americano è segnato dalla guerra civile americana (1861-1865) e dall’esecuzione dell’imperatore Massimiliano in Messico (1867), soggetti raffigurati da Manet, esposti in mostra.

Il soggiorno negli Stati Uniti

Nel 1872 Degas si reca negli Stati Uniti.

Visita per la prima volta la sua famiglia a New Orleans.

Durante il suo soggiorno menziona più volte Manet che “qui avrebbe visto cose belle” e scopre una società ancora segnata dal sistema schiavistico.

La guerra civile americana influenza direttamente la famiglia materna di Degas, che si guadagnava da vivere con il commercio del cotone a New Orleans.

Edgar-Degas-Ritratto-di-un-ufficio-a-Nuova-Orleans-1873.-Foto-di-Vittoria-Bacchi
Edgar-Degas-Ritratto-di-un-ufficio-a-Nuova-Orleans-1873

La morte prematura di Manet

Degas rimase legato a Manet anche dopo la sua morte prematura, avvenuta nel 1883 all’età di 51 anni, dopo una grave malattia.

La mondanità di Manet e la discrezione di Degas

La mostra coglie nel segno e riesce  con successo a condurci per mano in un avvincente viaggio attraverso le opere dei due artisti, ben delineando la loro differenza di temperamento.

I dipinti esposti testimoniano Manet come uomo mondano alla costante ricerca di riconoscimento.

Degas invece appare un avanguardista raffinato, più discreto ed enigmatico, che non abbraccia mai del tutto i canali di legittimazione ufficiale.

La mostra resterà aperta fino al 7 gennaio 2024 e sta registrando un successo strepitoso.

 

 

 




Oltre l’impressionismo

Importante mostra sul post-impressionismo alla National Gallery di Londra

Ancora pochi giorni per poter visitare la mostra sul post-impressionismo alla National Gallery di Londra.

L’importante mostra collettiva riguarda il periodo di rivoluzione artistica all’origine dell’arte moderna del Novecento.

 Dopo l’impressionismo: verso l’arte moderna

La mostra si intitola: “Dopo l’impressionismo: inventando l’arte moderna” (“After Impressionism: Inventing Modern Art”).

È il racconto di un periodo di poliedrico e dinamico che è il preludio dell’arte moderna.

Il periodo tra il 1880 e il 1914

La mostra riguarda il periodo storico dal 1880 all’inizio del XX secolo.

Tra il 1880 e il 1914 ci fu una attività di intensa ricerca creativa, esplorazione e sperimentazione che culminò nel 1914.

Questa fase è intensissima e ricchissima di spunti innovativi.

Si conclude bruscamente con lo scoppio della Prima guerra mondiale.

La mostra presenta una selezione completa delle opere d’arte più significative.

I padri fondatori del post -impressionismo

La mostra è una celebrazione delle realizzazioni di tre giganti artistici del periodo: Paul Cézanne, Vincent van Gogh e Paul Gauguin.

Ma non solo.

L’esposizione indaga sulla influenza che i tre artisti hanno avuto in Europa tra i loro seguaci.

Da Parigi (Manet -Degas) a Londra e New York (post-impressionismo)

La mostra si può considerare la prosecuzione di quella appena conclusasi il 23 luglio a Parigi presso il museo d’Orsay.

Si tratta della mostra Manet – Degas, i due grandi maestri amici e rivali dell’impressionismo.

Dopo l’estate la mostra Manet – Degas traslocherà negli Stati Uniti, al Metropolitan Museum di New York.

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Edouard Manet La famiglia Monet in giardino 1874

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Edouard Manet Sulla spiaggia di Boulogne 1868

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Edgar Degas Ritratto di un ufficio a Nuova Orleans 1873

Dall’impressionismo al post – impressionismo

L’esposizione ci racconta l’evoluzione che ci fu dopo l’impressionismo.

Sono i post impressionisti coloro che prendono le mosse dall’impressionismo.

Ma essi  vanno oltre, lo superano e lo modernizzano.

Le nuove idee permettono agli artisti di sperimentare nuovi materiali e tecniche.

Chi erano gli impressionisti

Tutto parte dal movimento impressionista.

L’impressionismo è una corrente artistica sviluppatasi in Francia soprattutto a Parigi, tra il 1860 e il 1880.

Il gruppo degli impressionisti si forma attorno a Edouard Manet capofila della avanguardia artistica parigina negli anni 60 dell’Ottocento.

Altri illustri esponenti sono

Claude Monet, Berthe Morisot, Camille Pissarro, Auguste Renoir e Alfred Sisley.

 

Differenza tra impressionismo e post-impressionismo

Gli impressionisti utilizzano la tecnica delle pennellate rapide e fitte.

Le luci, le forme, lo spazio e i volumi vengono tutti costruiti mediante il colore.

Il post- impressionismo porta nuove idee.

Permette agli artisti di sperimentare con nuovi materiali e tecniche.

Il distacco dalla realtà oggettiva dei post-impressionisti

Al contrario delle esperienze artistiche impressioniste, i pittori post – impressionisti hanno l’aspirazione di imprimere sulla tela le proprie emozioni e la propria soggettività, distaccandosi dalla realtà oggettiva. 

Van Gogh, oltre l’impressionismo

La drammaticità si contrappone all’allegria impressionista.

Van Gogh, ad esempio, rispetto agli impressionisti, tende a proiettare nella realtà se stesso.

Trasforma la realtà trasfigurandola secondi i suoi sentimenti.

La pittura può essere usata per esprimere le emozioni e i sentimenti.

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Vincent Van Gogh Case-a Saintes-Maries de la Mer 1888

I padri fondatori del post-impressionismo

L’intento della mostra è quello di trovare una non facile sintesi tra i tre grandi protagonisti del passaggio di secolo: Paul Cézanne, Vincent Van Gogh e Paul Gauguin.

Sarebbero loro, secondo i curatori della mostra, i tre padri fondatori del post-impressionismo.

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Paul Cezanne Zuccheriera pere e tovaglia

Paul-Gauguin-Festa-a-Gloanech-1888-Foto-di-Vittoria-Bacchi
Paul-Gauguin Festa a Gloanech 1888

La sintesi tra Cézanne, Van Gogh e Gauguin

Sono tre artisti dissimili per esiti e conseguenze.

Sono accomunati tuttavia dalla necessità di rintracciare nuove forme espressive.

L’esposizione, attraverso quasi cento opere, traccia le influenze che questi tre artisti hanno avuto sulle giovani generazioni di artisti.

L’influenza sui giovani di tutta Europa

La mostra evidenzia molto chiaramente l’influenza di Cézanne  e Gauguin su artisti non solo francesi, ma anche sui coetanei in tutta Europa,  da Barcellona a Berlino, da Bruxelles a Vienna.

Sino a giungere alle origini dell’Espressionismo, del Cubismo, dell’Astrazione, da Munch a Matisse, a Picasso e Rodin.

Henri-Matisse-Interno-con-giovane-ragazza-1906-foto-di-Vittoria-Bacchi
Henri-Matisse Interno con giovane ragazza 1906

Pablo-Picasso-Gustave-Coquiot-1902.-Foto-di-Vittoria-Bacchi-
Pablo Picasso Gustave Coquiot 1902

Il commento della curatrice

La mostra segue la creazione di una nuova arte moderna libera dalle convenzioni.

“Abbiamo voluto raccontare come il post- impressionismo ha gettato le basi dell’arte del XX e XXI secolo”, ha commentato MaryAnne Stevens, co-curatrice di “Dopo l’impressionismo: inventando l’arte moderna”.

 

Rottura dei legami con la tradizione

La rottura con la rappresentazione convenzionale del mondo esterno si esprime con la nascita di nuovo linguaggi visivi.

L’enfasi cade sulla materialità dell’oggetto artistico espressi attraverso linea, colore, superficie, tessitura disegno (La danza di Derain, Il letto di morte di Munch, La casa di Gloanech di Gauguin, Il villaggio bavarese di Kandinsky , esposti in mostra.

Derain e il kimono di Madame Matisse

Esposto in mostra è il dipinto di Derain“Madame Matisse con il kimono” .

Il quadro, realizzato nell’estate del 1905 a Collioure una località dell’Occitania che incanto Matisse, trasmette la luce estiva.

La luce attorno alla donna diventa di un colore rosso intenso e le ombre di un blu e di un verde vivido.

10-Andre-Derain-Madame-Matisse-col-Kimono-1905.-Foto-di-Vittoria-Bacchi
Andre Derain Madame Matisse-col-Kimono-1905

 

Il kimono giapponese diventa anche post-impressionista

Il kimono giapponese, simbolo del giapponismo così caro agli impressionisti rimane anche nel repertorio dei post – impressionisti.

Tuttavia, si trasfigura e prende forme diverse e surreali.

Siamo lontani dalla fedele riproduzione visiva della luce en plein air degli impressionisti.

Le opere provengono da importanti collezioni private

Sono oltre cento le opere di artisti famosi come Van Gogh, Klimt, Kokoschka, Matisse, Picasso, Mondrian e Kandinsky, Derain.

Oltre a una selezione di sculture di Rodin e Camille Claudel.

La completezza della esposizione è stata possibile grazie ad importanti prestiti forniti alla mostra da istituzioni e collezioni private di tutto il mondo.




Il viaggio di Ramses II a Parigi

Dagli Stati Uniti a Parigi

Dopo le tappe americane di Houston e San Francisco, il 7 aprile è arrivata a Parigi la mostra itinerante «Ramses e l’oro dei faraoni».

Ci sarà tempo fino al 6 settembre per ammirare la mostra realizzata dalla World Heritage Exhibitions con sede in Florida.

Dopo quella data la mostra si trasferirà a Londra per poi approdare in Australia.

Da Tutankhamon a Ramses II

L’esposizione dedicata a Ramses II (XIII secolo a.C.) comprende 181 reperti di notevole valore provenienti per la maggior parte dal Museo Egizio del Cairo.

Molti di questi oggetti non avevano mai oltrepassato i confini egiziani prima di questa tournée.

L’evento si tiene nella Grande Halle de la Villette e intende replicare il successo ottenuto da Tutankhamon che, nel 2019, richiamò più di un milione e mezzo di visitatori. 

Il leggendario Ramses II

L’esibizione ha lo scopo di condurci per mano attraverso l’età d’oro dell’Egitto e il lunghissimo regno del grande faraone.

Nasce nel 1303 a.C. – e muore a Pi-Ramses, luglio/agosto 1213 o 1212 a.C.) è stato, il terzo faraone della XIX dinastia. Regnò dal 31 maggio 1279 a.C. al luglio o agosto del 1213 (o 1212) a.C.

Ramses II fu amato dalla sua famiglia, acclamato dal suo esercito e venerato dal suo popolo.

Regnò più a lungo di qualsiasi altro faraone ed ebbe più figli di qualsiasi altro sovrano egizio.

La sua leggenda ha attraversato i millenni.

Statua di Ramses II raffigurato come una sfinge che offre un vaso con la forma di una testa di ariete. Foto di Vittoria Bacchi Ramses II raffigurato come una sfinge che offre un vaso con la forma di una testa di ariete

Ramses grande costruttore

Fece costruire numerosissimi monumenti in tutto il Paese e incidere i propri nomi su altrettante opere dei suoi predecessori.

Una quantità enorme di oggetti d’arte, colossi, iscrizioni ed elementi architettonici si ricollegano a lui.

Ramses II è attestato in ogni collezione di antichità egizie nel mondo.

Anche per questo, è il più conosciuto dei faraoni. 

Un regno durato oltre 66 anni

Ramses regnò per sessantasei anni, lasciando un’eredità ben documentata.

Il suo regno è considerato come la massima espressione della potenza e della gloria dell’Egitto.

È infatti spesso ricordato come il più grande, potente e celebrato faraone dell’impero egizio, anche per la durata eccezionale del suo regno.

Infatti, considerando la sua associazione al trono quando il padre era ancora in vita, giunse a 75 anni di governo effettivo del Paese. 

Epoca ramesside e il parallelo con la regina Vittoria

È noto anche come Ramesse II, Ramsete II e Ramses il Grande e in greco come Osimandia (in greco antico: Ὀσυμανδύας, Ozymandias, Osymandias).

Nell’egittologia è invalsa la tradizione di assegnare il suo nome all’intero periodo della sua dinastia (“epoca/periodo/stile ramesside”).

L’egittologo britannico Kenneth Kitchen ha paragonato il suo a quello della regina Vittoria del Regno Unito.

Le tappe del percorso espositivo

La mostra ci conduce attraverso la cosiddetta epoca ramesside.

Il percorso espositivo è suddiviso in tre tappe principali: il regno di Ramses II, la morte di Ramses II e la sua straordinaria posterità, e l’oro dei faraoni.

Emblematica ed esposta in mostra la parte superiore della statua di Ramses II in granodiorite che tiene lo scettro heqa che in geroglifico significa “principe” e che ha la forma di una pastorale.

[Parte superiore della statua di Ramses II che tiene lo scettro heqa in granodiorite nuovo impero 19 dinastia. Foto di Vittoria Bacchi

Parte superiore della statua di Ramses II che tiene lo scettro heqa in granodiorite nuovo impero 19 dinastia.

La fondazione di nuova capitale

Fondò una nuova capitale, Pi-Ramses (“Dimora di Ramses”), nel delta del Nilo. Combatté a nord contro gli Ittiti e quindi a sud contro i Nubiani, assicurando il predominio dell’Egitto sulla Nubia e i suoi giacimenti auriferi.

Fece inoltre costruire numerosi templi, tra cui i celeberrimi quelli di Abu Simbel, di Karnak, di Luxor, il Ramesseum (tempio funerario) a Tebe, nei pressi del fiume Nilo, a poca distanza dalla moderna Luxor.

Ramses e Mosè

Alcuni considerarono Ramses II come il faraone che si sarebbe opposto a Mosè nei fatti narrati dal Libro dell’Esodo; da altri invece è ritenuto il “Faraone dell’oppressione”, ossia il padre di quel faraone con cui Mosè si sarebbe scontrato, e che quindi sarebbe il successore Merenptah.

Non esiste tuttavia alcuna prova archeologica che Ramses II sia stato l’uno o l’altro faraone, né il suo nome viene menzionato nella Torah 

La madre Tuya

Non fu figlio di Ra (cioè del dio Sole, come dice il suo nome), ma della figlia di un comandante della guardia, Tuya  e del faraone Seti I, Ramses II.

Ramses II adorava sua madre.

Essa appare vicino a lui nel tempio di Abu Simbel, ha un suo tempio dedicato nel Ramesseum.

Ramses II costruì inoltre per lei una grande e sontuosa tomba nella valle delle regine.

Statua della regina Tuya granodiorite nuovo impero 19 dinastia;

Statua della regina Tuya, granodiorite nuovo impero 19 dinastia

L’ascesa di Ramses II

Circa nel 1280 B.C., alla morte di suo padre Seti I, Ramses II, a 25 anni divenne il terzo faraone della 19 dinastia.

Fu davvero il sovrano più potente, nonché più megalomane, dell’Egitto classico, che guidò il Paese all’apice della potenza e collezionò vari record. 

La moglie Nefertari

È Nefertari la più importante delle sue spose, per più di venti anni una delle figure preminenti della politica egizia.

Per lei Ramses II costruì un tempio vicino al suo ad Abu Simbel.

La ritroviamo nella facciata colossale del Tempio maggiore di Abu Simbel. 

Ramses guerriero 

Fu un formidabile guerriero e prese parte personalmente a numerose battaglie.

Esposto in mostra blocchi di pietra che ritraggono Ramses II nell’intento ad abbattere un nemico e calpestare i corpi di altri nemici.

Da un rilievo nel Tempio maggiore di Abu Simbel.Ramses II, ascia alla mano, si appresta a colpire i tre nemici dell’Egitto: un siriano, un nubiano e un libico.

Il contrasto tra l’alta statura di Ramses e quella dei prigionieri pone l’accento sul suo status di faraone piuttosto che sulla sua forza e sul dominio sui prigionieri stranieri.

Esposti in mostra, inoltre, vi sono rilievi di una scena della battaglia di Qadeš nel Ramesseum.

Rilievo nel Tempio maggiore di Abu Simbel; Da un rilievo nel Tempio maggiore di Abu Simbel (Foto n. 4) Ramses II, ascia alla mano, si appresta a colpire i tre nemici dell’Egitto: un siriano, un nubiano e un libico.

La minaccia dell’impero ittita

L’impero ittita, in Anatolia (nella Turchia attuale), rivaleggia con l’Egitto per controllare il litorale nord della Siria all’epoca di Toutänkhamon.

La espansione dell’impero ittita rappresenta una minaccia sempre più forte per la sicurezza dell’impero egiziano.

Ecco perché Ramses li combatte sconfiggendoli nella famosa battaglia di Qadesh.

La battaglia di Qadesh contro gli Ittiti

Una sezione della mostra è dedicata alla Battaglia di Qadesh (1274 a.C.), che vide scontrarsi Ramses II e il re ittita Muwatalli II (1310-1272 a.C.).

Le armate del faraone cercarono di riconquistare gli stati settentrionali di Oadesh e Amurru finiti sotto il controllo dell’Impero ittita.

La battaglia tra Ramses II e il re ittita Muwatalli II (1310-1272 a.C.), nella quale il re egiziano rischiò persino di essere ucciso, si concluse con uno stallo.

Entrambi i sovrani si attribuirono la vittoria.

Dopo la battaglia di Qades combattuta presso l’Oronte nel 5º anno del suo regno contro l’esercito del sovrano Ittita Muwatalli II,  la frontiera dell’Egitto venne ivi definitivamente stabilita.

Una grande fabbrica bellica

Esposti in mostra le modanature in pietra calcarea per fabbricare gli scudi

Gli artigiani egiziani utilizzavano modanatura in pietra calcarea per fabbricare gli scudi (Foto n. 5).

Spesso nei modelli concepiti dagli Ittiti, gli scudi erano rinforzati da delle bande in bronzo che erano assemblate e fissate sulle flange.

Modanatura in pietra calcarea per fabbricare gli scudi; Modanatura in pietra calcarea per fabbricare gli scudi

Il primo trattato di pace della storia

Il grande faraone ha firmato con gli Ittiti il primo trattato di pace conosciuto nella storia, registrato sulle pareti dei templi di Karnak.

Ha registrato su numerosi monumenti la sua battaglia di Qadesh, che ha combattuto contro gli Ittiti nel quinto anno del suo governo.

Ramses e il lungo periodo di pace

Dopo la battaglia tra egiziani ed ittiti iniziò una nuova era di pace.

La pace instaurata tra gli egiziani e gli ittiti dona la nascita ad une nuova era.

Ramses la suggella anche con il matrimonio con due principesse ittite.

Il suo lungo regno diventa un periodo di transizione tranquillo e prospero.

La propaganda della statuaria regale

Esposto in mostra un colosso in pietra calcarea che raffigura Ramses in piedi con in mano il mekes, un cilindro utilizzato come contenitore per papiri.

La statuaria regale è di mera propaganda, destinata a raffigurare il re, sempre giovane, come sovrano benevolo, guerriero possente o dio vivente.

Colosso in pietra calcarea che raffigura Ramses;
Colosso in pietra calcarea che raffigura Ramses

Il vero volto di Ramses II

Ramses II è anche uno dei faraoni dei quali conosciamo il vero volto, perché ne è stato ritrovato il corpo mummificato.

Unica testimone dell’aspetto fisico del re, al di là delle canoniche idealizzazioni dell’arte egizia, è la sua mummia.

La mummia è conservata oggi al Museo egizio del Cairo.

È stata sbendata da Gaston Maspero il 1º giugno 1886[43] e studiata approfonditamente da un’équipe interdisciplinare al Musée de l’Homme di Parigi nel 1976.

La mostra attraverso un filmato mostra il vero volto di Ramses.

Elaborazione grafica del viso di Ramses II sulla base della mummia
Elaborazione grafica del viso di Ramses II

Fisionomia di Ramses II

Il naso di Ramses II era aquilino, lungo e sottile, le labbra carnose, il volto dalla forma ovale, occhi quasi a mandorla leggermente sporgenti, alti zigomi, mascella possente e piccolo mento quadrato. Sembra avesse i capelli rossi.

Nelle rappresentazioni artistiche, Ramses II presenta spesso un lieve sorriso che il poeta romantico inglese Percy Bysshe Shelley (1792–1822), nella poesia “Ozymandias”, definì «sogghigno di fredda autorità» (P. B. Shelley, Ozymandias).

Gli oggetti esposti in mostra

Nell’evento espositivo parigino alla Villette la figura del celeberrimo sovrano offre l’occasione per presentare una serie di reperti di indubbio valore qualitativo.

Straordinari sono gli oggetti risalenti al periodo ramesside nonché varie opere d’arte alcune delle quali provenienti da Tanis la Tebe del nord.

Ad esempio, la bara del re Chechong II della dinastia XXII, meticolosamente restaurata  e una colossale testa di granito rosa scoperta nel 1888 a Memphis nel Tempio di Ptah.

Oppure la statua raffigurante Ramses II in posizione di offerta, un busto in granodiorite di Ramses II scoperto nel tempio di Amon a Tanis.

Ed ancora mummie di animali, sarcofagi, la maschera in legno dorato sulla bara di Amenofi 3 periodo intermedio, XXI dinastia.

Particolare della bara esterna di Sennedjem con coperchio su una slitta di legno
Particolare della bara esterna di Sennedjem con coperchio su una slitta di legno.

E per finire, addirittura uno specchio appartenuto alla pricipessa Sathoriounet.

Maschera in legno dorato sulla bara di Amenofi 3 periodo intermedio, XXI dinastia;
Maschera in legno dorato sulla bara di Amenofi 3 periodo intermedio, XXI dinastia.

Emblematico il blocco di pietra calcarea proveniente dalla tomba del generale dell’arma Iwrtv.

La scena mostra il generale che attraversa un canale infestato dai coccodrilli.

Maschera in legno dorato sulla bara di Amenofi 3 periodo intermedio, XXI dinastia;
Maschera in legno dorato sulla bara di Amenofi 3 periodo intermedio, XXI dinastia.

I gioielli esposti in mostra

Il re portava collane, pettorali e bracciali indossava sandali o camminava scalzo.

La mostra presenta abbondanza oltre che di statue, di maschere e gioielli dell’antico Egitto.

Esposta in mostra la collana della principessa Khnoumit in oro e turchese.

La collana è ornata da pendenti di conchiglia e due stelle di oro granulato.

I visitatori possono ammirare anche una incredibile collana di oro e gemme intarsiate del peso di 8 kg, una maschera del generale Oundebaounded al servizio di Psusennes I nella dinastia XXI, la parure pettorale della principessa Sithathor, i sandali d’oro di Chechong II, il cartiglio di Sésostris II.

Ed ancora gioielli collane in oro cornalina e lapislazzuli, ciondoli bracciali maschere reali, amuleti statue e altri oggetti che rendono omaggio alle notevoli capacità orafe degli egizi.

Collana della principessa Khnoumit;
Collana della principessa Khnoumit.

La sepoltura di Ramses II

Morì all’età, sorprendente per la sua epoca, di 90 o 91 anni e fu sepolto in una grande tomba della Valle dei Re.

Il suo corpo fu traslato nel nascondiglio di mummie regali di Deir el-Bahari, a ovest di Luxor, dove fu scoperto nel 1881.

Oggi si trova al Museo egizio del Cairo.

Esposto in mostra figura anche il pezzo forte della mostra: il sarcofago in legno di cedro dipinto utilizzato per il riseppellimento delle spoglie mortali di Ramesse II.

La bara viene prestata alla Francia per la prima volta dopo 45 anni.

Sarcofago di Ramses II. Particolare
Sarcofago di Rmases II.

La memorabile mostra parigina del 1976

Lo straordinario reperto del sarcofago ligneo era già stato esposto a Parigi nel 1976 in «Ramesse il grande».

La mostra all’epoca era organizzata in concomitanza con il restauro della mummia del sovrano, resosi necessario a causa del suo improvviso deterioramento ed eseguito proprio nella capitale francese.

Nel 1976 l’accento era però posto sulla figura di Ramesse II e sul modo in cui il suo regno aveva determinato la storia successiva dell’antico Egitto.

Gli organizzatori dell’esposizione odierna affermano in modo esplicito di richiamarsi all’edizione di quarantasette anni fa.

Gli effetti speciali dell’attuale mostra parigina

La mostra prevede anche un’esperienza immersiva con utilizzo di visori per la realtà virtuale.

Questo aspetto era ben presente già nell’edizione del 1976 dove il visitatore poteva aggirarsi all’interno di una replica fotografica della tomba della regina Nefertari. Attraverso l’esperienza VR è possibile scoprire i monumenti più famosi del faraone: i templi di Abu Simbel e la tomba della regina Nefertari.

 La mostra dello scorso inverno a Roma presso la Sapienza

Dal 9 febbraio al 14 giugno 2023, presso la Sala Piacentiniana del Palazzo del Rettorato dell’Università La Sapienza di Roma, si è tenuta l’inaugurazione della mostra “La mummia di Ramses”.

La mostra era incentrata sulla riproduzione tridimensionale in scala 1:1 della mummia del faraone Ramses II realizzata con una tecnica sperimentale avveniristica che ha comportato la ricostruzione della pelle del faraone con materiale organico

Ramses continua a far parlare di sé. Le scoperte recenti in Egitto, ad Heliopolis

Il faraone vissuto più di tremila anni fa continua a far parlare di sé.

Lo fa attraverso una statua riportato alla luce dagli interni di un tempio presso la città di Heliopolis famoso sito archeologico incastonato nella porzione nord-orientale dell’odierna Cairo.

La notizia è di marzo 2023.

Oltre alla statua del faraone sono stati trovati frammenti di ritratti reali fino a 4000 anni fa.

Le scoperte recenti in Egitto, ad Abydos

Inoltre, è notizia recente che una missione archeologica americana della New York University ha appena riportato alla luce in uno dei templi eretti da Ramses ad Abydos, una delle due città sante insieme ad Heliopolis dell’antico Egitto, circa 2000 reperti di arieti (ovis aries) che sono stati sacrificati in onore del dio egiziano Amon Ra.

I loro resti risalgono probabilmente all’era tolemaica che va dal 305 al 30 a.c.

Sono così numerosi perché l’ariete veniva considerato l’animale sacro del dio e rappresentavamo l’emblema della virilità.

I resti degli animali erano ancora avvolti, per la maggior parte, nei loro involucri di lino.

Il senso di una vita

L’egittologo francese Pierre Montet ha così commentato la vita di Ramses II: «Ha ben meritato d’essere chiamato grande. Avendo fatto prova nella battaglia di Qadeš d’un coraggio straordinario, è entrato ancora in vita nella leggenda. Tutta la sua vita ha esercitato coscienziosamente il mestiere di re. Il suo egoismo mostruoso era temperato dalla bontà di cui hanno beneficato i suoi soldati, i suoi artisti, i membri della sua famiglia e si può perfino dire l’insieme dei suoi sudditi».




Memorie bestiali a Londra

Documentare il mondo naturale

La British Library ha presentato la mostra dal titolo “Documentare il mondo della natura” (“Documenting the Natural World”) 

2)Locandina della mostra. Foto di Vittoria Bacch

La mostra è rimasta attiva dal 21 aprile al 28 agosto.

La mostra riunisce secoli di documentazione umana sugli animali.

Attraverso più di 100 manoscritti, opere d’arte e registrazioni sonore il percorso espositivo ha raccontato l’amore che l’umanità ha per la bellezza del mondo naturale.

Le opere rivelano anche la vasta diversità di specie di animali di tutte le parti del mondo.

Dal British Museum alla British Library al nuovo edificio a Euston road

La British Library è una delle più importanti biblioteche di ricerca al mondo e vanta un patrimonio di più di 150 milioni di documenti e 13 milioni di nuove raccolte ogni anno.

È stata resa accessibile nel 1973; in precedenza, faceva parte del British Museum che divenne poi il principale fornitore dei beni della nuova biblioteca.

A partire dal 1997 le raccolte vengono unite tutte in un unico edificio di nuova costruzione che si trova a Euston road nei pressi della stazione ferroviaria di St. Pancras, dove arrivano i treni provenienti da Parigi.

La nuova biblioteca fu progettata dall’architetto Colin St. John Wilson proprio al fine di riunire tali raccolte in un unico luogo.

Si tratta del più grande edificio pubblico costruito nel regno unito nel XX secolo.

2)La British Library. Foto di Vittoria Bacchi.
La British Library.

La biblioteca del re

Al centro dell’edificio si trova una torre di vetro di sei piani contenente la The King’s Library (“La biblioteca del re”).

In questa torre di vetro sono custoditi 65.000 volumi stampati e altri opuscoli, manoscritti e mappe raccolti dal re Giorgio III tra il 1763 ed il 1820.

Contiene inoltre una raccolta di beni storici internazionali alcuni dei quali risalgono al 300 ac.

 

L’amore dell’umanità per il mondo animale

Gli animali hanno affascinato l’umanità per secoli

Gli uomini hanno sempre cercato di capire meglio il nostro ambiente naturale.

La documentazione di animali e piante attraverso la catalogazione rappresenta il modo più semplice e funzionale per esplorare e conoscere questo mondo.

L’arte e la scienza unite per comprendere il mondo animale

Gli animali, nel corso dei secoli, sono stati documentati in molti modi, attraverso le registrazioni sonore, le illustrazioni e le descrizioni scritte.

Il percorso espositivo offre una visione unica sulle tecniche utilizzate per documentare il mondo animale.

L’intento della mostra è esplorare l’amore per il mondo animale attraverso la scienza, l’arte e la musica.

 

Differenti modi di rappresentare e studiare gli animali

È la prima grande mostra che documenta i differenti modi con i quali gli animali sono stati descritti, rappresentati e registrati.

In primis l’arte, con dipinti, raffigurazioni, disegni, illustrazioni.

Poi le fotografie e i filmati.

Esposti in mostra, ad esempio, le prime fotografie degli animali dell’Antartico

Poi la musica, i racconti, i romanzi, le poesie.

E quindi la scienza, con gli studi approfonditi sui vari aspetti del mondo animale, dall’anatomia, alla medicina, allo studio del comportamento.

Arte, scienza e suoni vengono mostrati simultaneamente dal percorso espositivo.

Numerosi gli animali documentati

La mostra offre un vasto panorama di documentazione animale.

Dalle specie più piccole ai mammiferi più grandi, dalle profondità degli oceani, alle cime delle montagne.

Sono esposti più di 100 opere tra manoscritti, raffigurazioni, registrazioni sonore.

Elefanti.-Antico-manoscritto.-Foto-di-Vittoria-Bacchi
Elefanti. Antico-manoscritto

Antico-manoscritto-con-serpenti.-Foto-di-Vittoria-Bacchi
Antico manoscritto con serpenti.

La scienza e l’arte a confronto

La mostra mette in evidenza come l’arte e la scienza si siano unite per capire il mondo animale.

Le illustrazioni degli animali, ad esempio, hanno aiutato gli scienziati a comprendere le varie specie, il loro aspetto e il loro comportamento.

Ad titolo esemplificativo una antica mappa migratoria di 67 uccelli esposta in mostra.

5Mappa-migratoria-di-67-uccelli.-Foto-di-vittoria-Bacchi-
Mappa migratoria di 67 uccelli.

L’arte ha anche offerto una finestra sulla relazione dell’uomo con il mondo animale, come nel caso dei dipinti che rappresentano gli animali come compagni dell’uomo.

Arte, scienza e suoni attraverso i secoli

Le tappe della esposizione ci portano in un viaggio attraverso i secoli.

Offrono una vasta gamma di documentazione, dai primi manoscritti alle opere d’arte più recenti.

 

I papiri dell’antica Grecia

Il viaggio parte dall’antica Grecia.

Un antico papiro, ad esempio, descrive nel dettaglio le abitudini canine dell’accoppiamento.

Le registrazioni sonore

Numerose le registrazioni sonore degli animali.

In particolare, uccelli, ma anche ippopotami, felini, animali notturni.

Regisrazioni-sonore-di-ippopotami.-Foto-di-Vittoria-Bacchi-
Registrazioni sonore di-ippopotami.

 

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Registrazioni sonore di uccelli.

Animali estinti e antichi manoscritti

La mostra offre anche una rara testimonianza sugli animali estinti o in via di estinzione.

 

Uccelli estinti: il picchio dal becco d’avorio

Esposto in mostra un antico manoscritto con una pagina raffigurante il picchio dal becco d’avorio, uccello della famiglia Picidi (Campephilus principalis).

8)Picchio dal becco d'avorio. foto di Vittoria Bacchi
Picchio dal becco d’avorio.

Tra le specie più appariscenti degli Stati Uniti è anche uno delle più rare e si teme che si sia già estinto.

Gli indiani usavano il suo becco e le sue piume per decorare o loro costumi da cerimonia. Misura 50 cm di lunghezza il piumaggio è nero lucido con due vistose strisce bianche sul collo dorso e ali.

Il becco è bianco e a forma di scalpello le zampe sono grigie.

L’alta cresta sagittale è rossa e appuntita nel maschio e nera e leggermente ricurva nella femmina.

Gli ultimi esemplari sono stati avvistati in Florida e a Cuba.

Uccelli estinti: il moho di Kauai

Ad esempio, si può ascoltare la registrazione dell’ultimo moho di Kauai, uccello passeriforme delle Haway, estinto della famiglia dei Mhoidi.

Con il suo 20 cm di lunghezza questo uccello era il più piccolo rappresentante del genere Moho.

Le creature dell’oscurità

In mostra una intera sezione è dedicata agli animali della notte.

L’oscurità ha sempre affascinato l’umanità.

Il buio è stato spesso accostato a pericolo e paura.

Ma nel mondo animale la percezione è diversa.

Ci sono creature che vivono di notte e che si sentono a loro agio nella oscurità.

 

Il mistero degli animali notturni

Molte specie rimangono tuttora un mistero per noi.

Ci sono animali che hanno accresciuto ed affinato i loro sensi e che si sono adattati a prosperare nella notte.

Artisti, scienziati ed esperti di suoni hanno trascorso notti intere per cercare di cogliere nella oscurità queste enigmatiche creature.

Esposto in mostra un antico manoscritto con una raffigurazione di barbagianni.

9Manoscritto-con-barbagianni.-Foto-di-Vittoria-Bacchi-
Manoscritto con barbagianni.

Animali e francobolli artistici

Esposto in mostra anche una interessante bozza di francobollo raffigurante un galagone, un piccolo animale notturno.

 

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Galagone piccolo primate notturno del Malawi. Progetto per francobollo Richard Granger Barrett.

I pipistrelli sono uccelli?

Un raro manoscritto arabo descrive i pipistrelli come uccelli, basandosi sulla tradizione araba ma anche greca.

Il testo fa notare che i pipistrelli sono gli unici volatili che partoriscono e allattano.

Questo manoscritto testimonia come le conoscenze sugli animali sia condivisa attraverso le varie culture.

Il collegamento tra animali e medicina

Le prime conoscenze illustrate dai lavori arabi scientifici illustrano le caratteristiche degli animali dal punto di vista degli usi medici.

Si tratta del manoscritto illustrato datato 1225 del fisico siriano Jibra’ll ibn Bakhtishü’ ibn Jurjis, con a fianco la classificazione del filosofo greco Aristotele.

Antichi manoscritti

La mostra propone un notevole repertorio di antichi manoscritti.

1) Manoscritto sulla natura del 1758. Foto di Vittoria Bacchi.j
Manoscritto sulla natura del 1758. Foto di Vittoria Bacchi

Esposto in mostra l’antichissimo libro delle caratteristiche degli animali.

Si tratta del “Libro delle caratteristiche degli animali” (Book of the characteristics of animals), scritto in Iraq nel 1200 (Bakhtishü and Aristotle, Kitab na’t al hayawan). Iraq, circa 1225 o 1284.

12) Antico manoscritto arabo su pipistrelli e uccelli. Foto di Vittoria Bacchi.jpg
Antico manoscritto arabo su pipistrelli e uccelli. Foto di Vittoria Bacchi.jpg

Esposto in mostra anche un manoscritto del 1569 nel quale viene per la prima volta utilizzato l’uso pubblico del vocabolo “squalo” in inglese.

Leonardo da Vinci e l’anatomia animale

Esposta in mostra anche una raccolta di appunti di Leonardo da Vinci sulla anatomia animale (1500—1508).

Contiene studi sull’impatto del vento sugli uccelli in volo.

Il prezioso documento viene esposto al pubblico per la prima volta.

Il Codice Arundel di Leonardo

La British Library custodisce anche il Codice Arundel (dal nome del collezionista).

Si tratta di un manoscritto di Leonardo da Vinci comprendente 283 fogli databili tra il 1478 e il 1518.

Tra gli argomenti trattati il volo degli uccelli e l’anatomia animale.

Gli errori 

Nonostante la documentazione dell’umanità sugli animali, ci sono stati anche molti errori fatti nel passato.

Questa mostra evidenzia alcuni dei più grandi errori commessi.

Ad esempio, la convinzione che un ornitorinco dal becco d’anatra fosse una invenzione.

La mostra ci incoraggia a riflettere sulla nostra comprensione degli animali e ad apprezzare la bellezza della documentazione accurata.

L’evoluzione della comprensione umana degli animali

La nostra comprensione degli animali è in continua evoluzione e c’è ancora tanto da imparare.

Il percorso espositivo offre una finestra unica su come quella conoscenza è stata raccolta nel tempo e consente persino di riconnetterti a specie ora tristemente estinte.

La mostra ci ricorda di continuare a esplorare e comprendere la vasta diversità del mondo animale e di come la documentazione di esso possa portare a sviluppi in campo scientifico e artistico.

I commenti dei curatori della mostra

Cam Sharp Jones, curatore della British Library, afferma: “gli animali hanno affascinato gli umani da lungo tempo e numerosi sono gli studi fatti per comprenderli.

La mostra è una grande opportunità per mostrare i testi più antichi di descrizione degli animali nonché i lavori artistici ad essi ispirati.

A ciò si aggiungono le registrazioni dei suoni della natura, i suoni più strani degli animali.

La British Library ha al riguardo una collezione notevole”.

Altre sezioni della esposizione riguardano il mondo del mare, la profondità degli oceani e tanto altro ancora.

Cheryl Tipp, curatore dei suoni presso la British Library, ha detto: “spero che i visitatori vengano ispirati da questa mostra e che vengano invogliati a consultare il materiale cospicuo che ospita la nostra biblioteca”.

La mostra offre la possibilità anche di visitare la Biblioteca e l’edificio che la ospita, in una zona centrale di Londra che ancora non è zona turistica molto battuta e conosciuta.

 




98 mucche per l’arte Masai

Il Pitt Rivers Museum di Oxford contro i pastori Masai

Il 4 luglio 2023 è stata resa ufficiale la notizia che il Pitt Rivers Museum di Oxford dovrà risarcire i Masai del Lenya per un furto coloniale di 138 fa.

La notizia ha destato scalpore per le modalità risarcitorie dei danni causati.

Il famoso museo Pitt Rivers della Università di Oxford

Il Pitt Rivers Museum è un famoso museo della università di Oxford ubicato nella località di Parks Road.

La sede attuale del famoso museo è allestita nel palazzo neogotico all’interno del quale sono esposte anche le esposizioni del Museo di scienza naturale.

Il museo ospita le collezioni archeologiche e antropologiche del tenente generale Augustus Henry Lane Fox Pitt Rivers, un ufficiale inglese dell’esercito britannico etnologo e archeologo vissuto nel 1800.

Il palazzo è stato edificato nel 1885 su progetti di Thomas Manly Deane e Benjamin Woodward.

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Neolaureati a Oxford davanti alla Radcliffe Camera

L’ufficiale inglese amante della archeologia

Il museo fu istituito nel 1884 dallo stesso Augustus Pitt Rivers, morto nel 1900.

L’ufficiale archeologo decise, infatti, di donare le proprie collezioni archeologiche e antropologiche alla Università di Oxford.

Pitt è stato notato dagli studiosi per le innovazioni nella metodologia archeologica e della esposizione museale di collezioni archeologiche ed etnologiche.

Una collezione di tutto rispetto

Inizialmente la collezione contava 22.000 oggetti.

Oggi le opere ivi custodite ammontano a 5000.000 molte delle quali donate da studenti viaggiatori e missionari.

Il nobile obiettivo perseguito da Augustus Pitt era di esporre la cospicua collezione ai fini di studio educativo e didattico al servizio della società.

Una vicenda che nasce anni fa

Ma vediamo come l’ufficiale inglese è stato coinvolto in questa anomala vicenda.

L’idea di riportare a casa il tesoro che custodisce la storia e i segreti dei Masai è di Samwel Nangiria, un attivista per i diritti degli indigeni.

 

La visita del museo

Tutto nacque cinque anni fa.

Il keniano si reca nel 2017 in visita al “Pitt Rivers Museum” di Oxford.

Durante la visita del museo, nella collezione da 500mila pezzi provenienti da tutto il mondo, nota alcuni cimeli appartenuti ai pastori della parte orientale della Great Rift Valley.

Immediatamente avvia le pratiche per richiedere all’ateneo la restituzione degli oggetti d’arte masai.

 

La Great Rift Valley culla dell’umanità

La Great Rift Valley non a caso è considerata la culla dell’umanità.

Nel 1974, in Etiopia, vi furono ritrovati i resti fossili dello scheletro dell’australopiteco più famoso del mondo, denominato “Lucy”.

Ora la nostra antenata più celebre è esposta al museo di Addis Abeba.

La richiesta della comunità Masai

La comunità indigena che vive nella Great Rift Valley, in Africa, tra il nord della Tanzania e il sud del Kenya, richiede ufficialmente al museo etnologico britannico la restituzione di 148 antichi manufatti che espone da 138 anni.

Oggetti che il Regno Unito, negli anni dello splendore imperiale, agli inizi del Novecento, avrebbe trafugato e portato Oltremanica.

PASTORI Masai
Pastori masai

I reperti archeologici e i numerosi precedenti del passato coloniale inglese

Questo dei Masai è solo uno dei tanti fronti su cui Londra è chiamata a fare i conti con il proprio passato coloniale.

La controversia assomiglia molto a quella di cui sono protagoniste Grecia e Nigeria.

Atene chiede la restituzione dei marmi del Partenone esposti al British Museum.

Abuja vuole riappropriarsi invece dei suoi famosi bronzi di Benin in mostra permanente, sempre a Oxford.

 

Il Partenone trafugato

Sono passati più di 200 anni da quando il conte di Elgin trafugò le opere senza un vero consenso del Sultano.

Solo la furia degli abitanti di Atene impedì il completo smantellamento dell’Eretteo del Partenone.

Era previsto che venisse rimontato in Inghilterra.

I bronzi del Benin

I bronzi del Benin sono un gruppo di diverse migliaia di placche e sculture in metallo che decoravano il palazzo reale del Regno del Benin, in quello che oggi è lo Stato di Edo, in Nigeria.

Correva l’anno 1897 e le ambizioni coloniali britanniche in Africa si stavano espandendo.

Il palazzo reale fu raso al suolo e le opere d’arte al suo interno furono rubate.

I famosi bronzi di Benin city si trasformarono ben presto in bottino di guerra.

 

La replica della direttrice del museo

Il direttore del museo oxfordiano, Laura van Broekhoeven, ammette che l’istituzione possiede 148 manufatti Masai di epoca coloniale.

Si tratta di spade, frecce, bracciali e cavigliere.

Sottolinea altresì che in passato quei manufatti sono stati acquisiti per mezzo di funzionari, missionari e antropologi di era coloniale.

L’acquisizione a quei tempi era legale.

 I masai contestano

Non la pensa così il governatore keniano della contea di Narok, Patrick Ntutu, convinto che i proprietari di quelli oggetti siano stati uccisi o mutilati prima che gli ornamenti gli fossero portati via.

PASTORI DEL MASAI MARA. FOTO DI VITTORIA BACCHI
Pastori del Masai Mara 

Il museo si difende: solo 5 i reperti trafugati

La direttrice allora ammette che la sottrazione illegittima ci sarebbe stata.

Ma interesserebbe solo ed esclusivamente cinque reperti, identificati come cimeli di sensibile importanza culturale.

Novantotto mucche come risarcimento, scrive la testata del Nairobi Nation

La testata di Nairobi Nation scrive i che due clan Masai di Narok, Sululu e Mpaima, hanno ricevuto dall’Università di Oxford, che gestisce l’esposizione, 49 bovini ciascuna.

La notizia riporta che, precisamente, due famiglie della tribù dei Masai del Kenya hanno ricevuto in dall’Università britannica di Oxford 98 mucche.

I bovini sono stati portati in processione da impiegati dell’Università di Oxford ai capifamiglia.

L’insolito tributo è stato considerato come risarcimento “amichevole” per una collezione di manufatti originali sottratti ai loro antenati in epoca coloniale.

 

Il Pitt Rivers Museum di Oxford contro i pastori Masai

La mossa, è stato precisato da Oxford, è puramente simbolica.

Segno di volontà alla riconciliazione.

Fa parte di un processo di dialogo tra le parti.

Si ispirerebbe ai principi della diplomazia che insegna a misurare gesti e parole al contesto sociale e culturale della controparte.

 

I bovini come moneta

La trovata con cui il museo ha pensato di fare pace con i Masai è però unica e difficilmente riproponibile.

È vero che i bovini hanno rappresentato a lungo per i Masai una sorta di moneta.

I bovini da sempre, infatti, sono venduti o barattati in cambio di beni e servizi.

Sono utilizzati persino per “pagare” ammende per comportamenti disonorevoli o criminali.

La società Masai è cambiata

Ma le cose, a Oxford lo sanno di certo, sono un po’ cambiate.

Nella società Masai ha fatto capolino il concetto di proprietà privata e titolarità della terra.

Vaste aree della savana, precedentemente gestite collettivamente, sono state suddivise e adibite a nuovi usi, tra cui il commercio.

Il dono delle 98 mucche è insufficiente. Le critiche della comunità masai

Il dono delle 98 mucche è stato apprezzato, hanno mandato a dire i pastori, «ma non è abbastanza per compensare» il furto e l’esposizione illegittima di oggetti appartenuti ai propri avi.

I rappresentanti delle famiglie del clan Loita di Narok hanno dichiarato al quotidiano Daily Nation di apprezzare il gesto, ma che non è sufficiente.

Si aspettano “un risarcimento adeguato”.

Nessuna guerra, ma solo risarcimento decoroso

La comunità non vuole fare causa ai “signori” di Oxford.

Un portavoce delle famiglie Maasai, Seka ole Sululu, ha dichiarato che è stata presa la decisione di perseguire una riconciliazione pacifica con la celebre Università inglese.

I masai non hanno intenzione di fare causa al museo.

Per tradizione preferiscono sempre la pace alla guerra.

Ma si aspettano, quantomeno, un risarcimento decoroso.