Lontani da quegli anni…

Dalla Liberazione a Scurati

 

A Milano il 25 aprile 1945 il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, CLNAI, presieduto da Alfredo Pizzoni, diede inizio alla fase di governo che la portò alla costituzione della Repubblica.

 

In quel giorno, infatti, i membri del CLNAI Luigi Longo, Emilio Sereni, il futuro Presidente della Repubblica Sandro Pertini, Leo Valiani, Rodolfo Morandi, Giustino Arpesani e Achille Marrazzo emanarono i decreti che davano la prima forma di governo allo Stato italiano che si stava formando e proclamarono l’insurrezione generale in tutti i territori ancora occupati dai nazifascisti con il fine di obbligare questi alla resa incondizionata.

 

Fu Sandro Pertini a proclamare lo sciopero generale con le seguenti storiche parole “Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire”.

 

In queste ore, da giorni, giorni di tensioni che evocano la guerra mondiale e che vedono una Italia piegata da una assai pesante situazione economico finanziaria, si parla pressoché a reti unificate del testo sul 25 aprile del professor Antonio Scurati a cui non è stato concesso di andare in onda sulla televisione pubblica.

 

Ebbene andiamo a vedere cosa il professore avrebbe detto per celebrare il 25 aprile.

 

L’incipit sarebbe stato “lo attesero sotto casa in cinque, tutti squadristi venuti da Milano, professionisti della violenza assoldati dai più stretti collaboratori di Benito Mussolini”

 

Il professore di letterature comparate e scritture creative all’università IULM di Milano Antonio Scurati non avrebbe aperto il suo intervento per riportare alla memoria degli italiani il giorno in cui i rappresentanti delle formazioni partigiane riunitisi nel CLNAI avevano dato l’ultima spallato al fascismo ed alla tragica occupazione nazista bensì parlando dall’onorevole Matteotti leader del Partito Socialista Unitario.

 

Certamente, come ricorda il professore nel suo intervento censurato, “ultimo che in Parlamento ancora si opponeva a viso aperto alla dittatura fascista” ma, questo il mio pensiero, di certo non unico simbolo di quei 250mila combattenti partigiani che combatterono armati contro il nazifascismo.

 

Per chiarezza è lo storico comunista della guerra partigiana Gianni Oliva a dichiarare che in tutto furono 250mila i combattenti partigiani divisi in diverse componenti, non tutte socialiste e vicine a Matteotti.

 

Citiamole tutte per onorarne i loro caduti nella guerra di liberazione partigiana.

– Brigate Garibaldi, GAP e SAP, organizzati dal Partito Comunista Italiano.

– formazioni di Giustizia e Libertà, coordinate dal Partito d’Azione.

– formazioni Giacomo Matteotti, del Partito Socialista di Unità Proletaria

– Brigate Fiamme Verdi, che nascono come formazioni autonome per iniziativa di alcuni ufficiali degli alpini, e si legano poi alla Democrazia cristiana, come le Brigate del popolo

– Brigate Osoppo, autonome e legate alla DC e al PdA

– formazioni azzurre, autonome ma politicamente monarchiche e badogliane

– piccole formazioni legate ai liberali e ai monarchici, come la Franchi di Edgardo Sogno, o quelle trotskiste, come Bandiera Rossa, e anarchiche, come le Bruzzi-Malatesta.

 

Come si può notare non tutti di sinistra e, successivamente, contrari al Patto Atlantico o filo sovietici.

 

Come, soprattutto in queste ore di guerra in terra di Ucraina, non ricordare l’avversità di Pertini all’adesione alla NATO della nostra Italia?

 

Come non chiedersi se, in era di guerra fredda e di Patto di Varsavia, quella scelta sarebbe stata corretta per la giovane democrazia italiana?

 

Socialista Matteotti, socialista Pertini.

 

Il Professor Scurati, sempre nel suo intervento in memoria della liberazione, continua con “In questa nostra falsa primavera, però, non si commemora soltanto l’omicidio politico di Matteotti; si commemorano anche le stragi nazifasciste perpetrate dalle SS tedesche, con la complicità e la collaborazione dei fascisti italiani, nel 1944”.

 

In realtà il 25 aprile commemora la democrazia italiana raggiunta con il sacrificio delle politicamente variegate brigate partigiane da un lato e dal numericamente assai più rilevante sacrificio dei militi delle truppe alleate che hanno letteralmente portato la democrazia in Italia.

 

Come non condividere, almeno io sono fra quelli che lo condividono, quanto il professore dichiara allorquando dice “il fascismo è stato lungo tutta la sua esistenza storica, non soltanto alla fine o occasionalmente, un irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista”.

 

Fino a questo punto, pur se si notano delle omissioni nei confronti dei combattenti partigiani vicino alle culture non di sinistra e nei confronti del’ imprescindibile ruolo delle truppe alleate, furono 465mila i fanti statunitensi sbarcati solo in Sicilia, quanto il professor Scurati riporta al centro della memoria è importante ed utile per dare un senso alle origini della nostra repubblica.

 

Dimenticanze, buchi di memoria, quelle del professore. Docente che ha indubbiamente dedicato quattro romanzi a Mussolini ma che, in questa occasione, avrebbe potuto e dovuto, probabilmente in questo caso non sarebbe stato censurato, parlare dei partigiani e dei loro alleati piuttosto che occupare uno spazio pubblico per strumentalizzare ai fini di mera polemica politica, un momento alto della nostra storia, patria.

 

Strumentalizzazione della televisione pubblica, infatti, la conclusione dell’intervento del professor Scurati allorquando dice: “lo riconosceranno, una buona volta, gli eredi di quella storia? Tutto, purtroppo, lascia pensare che non sarà così. Il gruppo dirigente post-fascista, vinte le elezioni nell’ottobre del 2022, aveva davanti a sé due strade: ripudiare il suo passato neo-fascista oppure cercare di riscrivere la storia. Ha indubbiamente imboccato la seconda via. Dopo aver evitato l’argomento in campagna elettorale, la Presidente del Consiglio, quando costretta ad affrontarlo dagli anniversari storici, si è pervicacemente attenuta alla linea ideologica della sua cultura neofascista di provenienza: ha preso le distanze dalle efferatezze indifendibili perpetrate dal regime (la persecuzione degli ebrei) senza mai ripudiare nel suo insieme l’esperienza fascista, ha scaricato sui soli nazisti le stragi compiute con la complicità dei fascisti repubblichini, infine ha disconosciuto il ruolo fondamentale della Resistenza nella rinascita italiana (fino al punto di non nominare mai la parola “antifascismo” in occasione del 25 aprile 2023)”.

 

Egregio professore, da nipote e figlio di combattenti antifascisti, da cristiano liberale membro di una famiglia di origini ebraiche, la prego di provare ad essere realmente democratico e di non permettersi mai più di sporcare la festa della liberazione con la sua propaganda di parte.

 

Egregio professore impari a scindere gli alti momenti della repubblica con la demagogia di una parte.

 

Egregio professore mi permetta di dirle che l’ultima parte del suo intervento, nell’alzare il dito dalla televisione pubblica contro la Premier Meloni, ha infangato, buttandola in politica di parte, la memoria di chi ha combattuto, in alcuni casi perdendo la vita, per permettere anche a Lei di essere libero avversario della Premier italiana pro tempore Giorgia Meloni.

 

Egregio Professore mi permetta, infine, di farle notare che l’Italia, oggi ancor più che a quel tempo, ha enorme necessità di pensiero alto e realmente, pragmaticamente, democratico e non di “momenti da bar” come, a mio personale e sommesso avviso, avrebbe fornito lei con un attacco alla Premier in un momento che sarebbe dovuto essere “istituzionale” e non “partitico”.

 

In memoria di chi è morto per dare a noi la libertà.

 

Uomini veri.

 

Uomini che combattevano rischiando la vita, non demagoghi.

 

Ignoto Uno




Matteotti: non sono solo antifascista, mi dipingono così!!!

La figura di Giacomo Matteotti, sebbene frequentemente associata all’opposizione al fascismo a causa del suo tragico assassinio nel 1924, presenta delle sfumature ideologiche che lo distanziano da un’etichetta rigidamente “antifascista” secondo l’accezione più comune del termine.

Matteotti, in effetti, emerge come un sostenitore fervente della democrazia parlamentare, posizionandosi criticamente sia contro il fascismo di Mussolini sia contro il comunismo.

Matteotti era membro del Partito Socialista Unitario, una scissione del Partito Socialista Italiano che si opponeva alla direzione rivoluzionaria e comunista di Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci nel Partito Comunista d’Italia.

La sua critica al comunismo era radicata nella sua fedeltà alla democrazia parlamentare come metodo di governo e nel suo rifiuto delle tattiche rivoluzionarie e della dittatura del proletariato promosse dai comunisti.

Questa posizione si riflette chiaramente nel suo approccio alla politica, dove privilegiava la legislazione e il dibattito parlamentare come mezzi per realizzare cambiamenti sociali e politici.

In parallelo, Matteotti si opponeva vigorosamente al fascismo, ma la sua opposizione era centrata sulla difesa delle istituzioni democratiche e parlamentari piuttosto che su una contrapposizione ideologica all’intero corpus delle idee fasciste.

Matteotti vedeva il fascismo, soprattutto dopo l’ascesa al potere di Mussolini, come una minaccia diretta alla democrazia parlamentare attraverso la sua tendenza autoritaria e il suo disprezzo per il pluralismo politico.

Il suo famoso discorso del 1924, poco prima del suo rapimento e assassinio, denunciava i brogli elettorali e le violenze perpetrate dai fascisti, evidenziando la sua ferma posizione a favore di un sistema politico democratico e trasparente.

È interessante notare che sia Mussolini che Matteotti provenivano da una matrice socialista.

Mussolini, prima della sua adesione al nazionalismo e alla creazione del fascismo, era un importante esponente del Partito Socialista Italiano, dal quale fu espulso per le sue posizioni interventiste nella prima guerra mondiale.

Questo passato socialista di Mussolini era tuttavia caratterizzato da una propensione per l’azione diretta e una certa predisposizione alla violenza, aspetti che si accentuarono enormemente nel suo percorso verso il fascismo.

In conclusione, Giacomo Matteotti può essere meglio descritto non certo come un antifascista nel senso stretto e militante del termine, quanto piuttosto come un difensore della democrazia parlamentare, il cui impegno politico mirava alla preservazione delle istituzioni democratiche e al rifiuto sia del fascismo autoritario di Mussolini che del comunismo rivoluzionario.

Il suo assassinio divenne un simbolo della lotta contro la soppressione della democrazia in Italia, consolidando la sua immagine come martire della libertà e della giustizia politica.

L’interpretazione di Giacomo Matteotti come figura antifascista, predominante oggi in particolare nel discorso pubblico sia accademico che politico, riflette spesso una visione semplificata, molto limitante e simbolica che non coglie pienamente la complessità del suo pensiero politico e del suo senso di stato, facendo così un torto assoluto alla figura di Matteotti.

La rappresentazione di Matteotti come un eroe antifascista è stata, in parte, una costruzione postuma, enfatizzata in particolare dopo la Seconda Guerra Mondiale, con la rinascita democratica in Italia e la condanna universale del fascismo.

Dopo il suo assassinio nel 1924, Matteotti divenne un simbolo del sacrificio per la libertà e la democrazia.

Il suo martirio fu utilizzato sia dai partiti di sinistra che da quelli centristi per mobilitare l’opinione pubblica contro il regime fascista.

Questa trasformazione di Matteotti in un’icona antifascista può essere vista come un’opportunità per vari gruppi politici di presentarsi come eredi legittimi dei valori democratici che Matteotti difendeva.

Giacomo Matteotti possedeva un profondo senso di stato che si manifestava nel suo impegno per la democrazia parlamentare e nel suo rifiuto delle soluzioni autoritarie e totalitarie, sia di destra (fascismo) che di sinistra (comunismo).

Il suo approccio era fortemente ancorato ai principi di legalità e di rappresentanza politica, visti come pilastri indispensabili per la governance di uno stato moderno e civile.

Matteotti credeva nella necessità di un governo che agisse nell’interesse del popolo, attraverso le istituzioni democraticamente elette, e non tramite il dominio di un singolo partito o leader.

La narrazione che disegna Matteotti come puramente antifascista tende a sovrapporre la lotta contro il fascismo alla più ampia difesa delle istituzioni democratiche e del pluralismo politico.

Questa semplificazione serve a consolidare una certa narrativa storica, ma rischia di appiattire la complessità del suo pensiero e delle sue azioni.

Nonostante la sua chiara opposizione al fascismo, Matteotti era principalmente mosso da una visione positiva del governo, basata sulla legalità e sulla partecipazione democratica, piuttosto che da una contrapposizione ideologica totale verso il fascismo in sé.

Il modo in cui la classe politica ed universitaria italiana ha trattato la figura di Matteotti ha spesso riflettuto le esigenze del presente più che una fedele interpretazione storica.

L’enfasi sull’antifascismo deve essere vista come un tentativo di costruire una memoria collettiva condivisa di resistenza al totalitarismo, utile per consolidare l’identità democratica post-bellica dell’Italia, ma non certo una vera identificazione dello spirito del politico e nemmeno dei valori che lo stesso incarnava.

Tuttavia, questa enfasi oscura il suo autentico impegno per una democrazia parlamentare e la sua critica tanto al fascismo quanto al comunismo.

In realtà, mentre Matteotti viene celebrato come antifascista, è essenziale riconoscerne e comprendere il suo impegno più ampio per la democrazia e il suo senso di stato, che trascendono la semplice opposizione al fascismo, abbracciando una visione più completa e complessa del governo e della politica.

Pertanto, come sempre in questo paese, gli eroi vengono creati a secondo dell’interesse delle fazioni e mai per il vero senso della storia.




Fallire educa. Lo dice anche il capitano Kirk.

Come possono i docenti essere d’aiuto per preparare gli studenti e le studentesse ai test d’ammissione all’università?

La prima cosa da fare è aiutarli a vincere la parte ansiogena che inevitabilmente questo tipo di prova porta con sé.

C’è un’ansia di fondo in chi si prepara ad affrontare un test, soprattutto nel caso in cui le materie non siano perfettamente conosciute o magari nemmeno finite.

Cito uno studio di Betapress.it, l’80% delle défaillance nei test d’ammissione non è dovuta alla mancanza di preparazione, ma all’ansia che subentra in fase di esame.

Questo è quindi il primo aspetto sul quale intervenire.

Partendo dal fornire ai giovani alcuni metodi di studio.

La nostra memoria è regolata dal sistema limbico che ci permette di apprendere grazie a quello che viene definito l’imprinting.

Una delle prime regole è capire che l’apprendimento avviene per pressione e memorizzazione (imprinting) all’interno del sistema nervoso centrale di quello che i ragazzi e le ragazze studiano in quel momento.

Applicarsi solo in una materia e di seguito solo in un’altra è, per esempio, un errore grave in fase di apprendimento.

Tant’è che i programmi dei licei sono interattivi e dispersi sugli anni.

Questi sono tutti temi da affrontare e integrare in una didattica particolare.

Quando cerchiamo di aiutare i giovani ad affrontare le prove, dobbiamo tenere presente che il ragazzo o la ragazza sono sottoposti a un meccanismo ansioso collegato a tanti fattori, in primo luogo la preparazione, ma anche l’ansia di prestazione.

E questo stato non permette loro di essere sereni durante il compito.

La scarica di adrenalina attiva tutte le funzioni fisiche (per esempio il battito cardiaco), ma spesso abbassa il ragionamento del cervello e ne attiva la funzione difensiva e tutto questo non permette alla persona di essere performante durante i test.

Bisogna quindi aiutare i ragazzi a programmare lo studio perché una corretta pianificazione consente loro di essere più calmi e interagire con la fase di stress durante il test.

È molto importante anche spiegare bene ai ragazzi come funzionano i test, come sono composti, che tipo di esperienza si troveranno a vivere perché per loro è una prima volta.

Bisogna aiutarli a capire la semantica dei test, non tutti sanno per esempio che questi quesiti sono costruiti secondo algoritmi, secondo una semantica che, se conosciuta, permette ai ragazzi di affrontare il test e ragionare sulla domanda in tempi più brevi.

Un consiglio ai docenti, in questa direzione, è quello di preparare i compiti in classe a guisa di test d’ingresso.

Scomponendo la materia e “costringendo” gli studenti ad affrontarla in modo diverso, magari anche su risposte multiple, il compito in classe diventa un valido aiuto in vista dei test.

È un modo per farli studiare in maniera più logica e con una diversa semantica dello studio.

Per fare tutto questo, durante l’anno scolastico, diventa opportuno programmare attività di laboratorio.

Passando invece a una seconda fase, dobbiamo insegnare ai ragazzi e alle ragazze a gestire un eventuale fallimento.

Come?

Convertendolo in una strategia di successo per scegliere la propria strada.

Insegnando ai ragazzi che non c’è fallimento quando si sceglie, perché la scelta presuppone l’errore e l’errore, a sua volta, è un aiuto per affinare la scelta.

Facendo loro capire che il percorso individuale è importante.

La scelta è una componente del percorso che ogni ragazzo o ragazza fa. Insegnare ad accettare lo sbaglio può essere un metodo educativo.

Nel mio lavoro spesso mi capita di andare a supporto dei docenti e spesso metto in pratica la pedagogia dell’errore perché i giovani di oggi non sono abituati.

In questo approccio la famiglia ha un peso incalcolabile, nel momento in cui capiamo come si comportano i genitori possiamo ritarare il nostro approccio pedagogico-educativo nell’obiettivo del bene dell’alunno.

Ed è un percorso che si fa insieme, studenti, docenti, genitori, psicologi. Lo psicologo ha un ruolo importantissimo ma non deve essere lasciato da solo, ci deve essere una rete intorno che fa sentire i giovani sicuri nel loro percorso.

Gli studenti di oggi che a noi sembrano così sicuri di sé sono in realtà i più insicuri, la depressione giovanile è aumentata del 120% negli ultimi dieci anni, i suicidi in età giovanile del 180% negli ultimi vent’anni.

Sono dati tragici.

Per questo serve un cerchio, l’organicità dell’azione.

La preparazione ai test d’ammissione può diventare la prima occasione per portare questi ragazzi e queste ragazze a sperimentare il fallimento.

Porto un esempio: ho somministrato in varie classi un test molto complesso, l’ho chiamato il test di Star Trek perché ho preso il concetto dal noto telefilm.

Il test della Kobayashi Maru, introdotto nell’universo di “Star Trek”, rappresenta un esemplare punto di riflessione sia nel contesto narrativo che nell’ambito della formazione del carattere e della leadership.

Questo scenario simulato, impostato nell’Accademia della Flotta Stellare, è stato concepito come un test di comando irrisolvibile, destinato a valutare le reazioni dei cadetti di fronte a una situazione senza via d’uscita, dove il fallimento è inevitabile.

L’obiettivo principale di questo test non è tanto la soluzione del problema presentato, quanto piuttosto l’osservazione delle modalità di gestione dello stress, delle decisioni etiche e della leadership sotto pressione estrema.

La Kobayashi Maru è una nave civile senza armi, che, nel contesto del test, invia un segnale di soccorso da una zona controllata dal nemico.

Il cadetto in prova deve decidere se infrangere il trattato di pace per tentare un salvataggio quasi certamente fallimentare, mettendo a rischio la propria nave e l’equipaggio, oppure lasciare la Kobayashi Maru al suo destino.

Il test è truccato per assicurarsi che ogni possibile azione porti a un esito negativo, esplorando così la capacità del cadetto di affrontare una situazione senza speranza.

Il test della Kobayashi Maru insegna una lezione fondamentale sull’accettazione del fallimento come componente inevitabile della vita e, in particolare, della leadership. In un mondo che spesso premia solo il successo, il test offre una prospettiva realistica e umile sulla possibilità di incontrare sfide insormontabili.

Il modo in cui un cadetto reagisce al fallimento – con integrità, coraggio e preservando i valori etici – diventa così importante quanto ottenere la vittoria.

Questo approccio incoraggia la resilienza, la capacità di affrontare le avversità mantenendo un comportamento etico e morale.

Attraverso l’esplorazione dei limiti personali e dell’accettazione del fallimento, il test della Kobayashi Maru funge anche da catalizzatore per la crescita personale e la ricostruzione della personalità.

Confrontandosi con la propria impotenza, i cadetti hanno l’opportunità di valutare e rafforzare il proprio carattere, le proprie priorità e i valori fondamentali. Il test sfida i futuri leader a riflettere sulla natura delle decisioni difficili e sulle qualità necessarie per guidare con saggezza e compassione anche nelle situazioni più disperate.

Il caso di James T. Kirk, il solo cadetto noto per aver “superato” il test modificando il suo programma per renderlo vincibile, introduce un ulteriore strato di complessità all’interpretazione del test della Kobayashi Maru.

Kirk rifiuta di accettare il fallimento come unica conclusione possibile, dimostrando sia la sua ineguagliabile audacia che una potenziale mancanza di accettazione dei limiti imposti dalla realtà.

Questo comportamento solleva interrogativi sulla natura dell’innovazione e della leadership: fino a che punto è giustificabile alterare le regole per raggiungere il successo?

La decisione di Kirk riflette un approccio non convenzionale ai problemi, enfatizzando l’importanza dell’adattabilità e dell’ingegnosità.

Il test della Kobayashi Maru, quindi, va oltre una semplice valutazione delle capacità di comando, trasformandosi in uno strumento pedagogico profondo per l’indagine sulla natura umana, sull’etica della leadership e sulla gestione delle crisi.

Attraverso l’accettazione del fallimento e la ricostruzione della personalità, il test mira a preparare individui capaci non solo di guidare con competenza, ma anche di fare i conti con le proprie vulnerabilità e limiti, promuovendo così un modello di leadership più umano e riflessivo.

Nelle classi in cui abbiamo introdotto questo esperimento, ovvero un test irrisolvibile salvo truccare il test, è risultato che solo il 15% dei ragazzi è stato in grado di gestire correttamente il fallimento al test, dato abbastanza deprimente, nessuno ha pensato di truccarlo e la maggior parte dopo il fallimento ha minimizzato l’errore dicendo che tanto era il test che era sbagliato.

Gestire il fallimento è una componente fondamentale dello sviluppo personale, specialmente nei giovani.

Il fallimento non solo è inevitabile nella vita di tutti ma offre anche opportunità uniche per l’apprendimento e la crescita personale.

Aiutare i ragazzi a gestire il fallimento, ed a capirlo, richiede un approccio olistico che coinvolga educatori, genitori e la comunità nel suo complesso.

Alcune strategie basate su principi pedagogici, psicologici e di sviluppo personale possono essere così riassunte:
A. La creazione di un ambiente sicuro e di supporto è essenziale. I giovani dovrebbero sentirsi liberi di esplorare, sperimentare e fallire senza timore di giudizio o punizione. Un ambiente che celebra il tentativo tanto quanto il successo incoraggia i giovani a uscire dalla loro zona di comfort e a vedere il fallimento come parte del processo di apprendimento.
B. La resilienza, ovvero la capacità di rimbalzare indietro dopo il fallimento, è una skill cruciale. I ragazzi possono essere istruiti sulla resilienza attraverso esempi storici, letterari o contemporanei di individui che hanno affrontato e superato fallimenti significativi. Le discussioni in classe o le attività di gruppo possono concentrarsi su come questi individui hanno gestito le loro situazioni, sottolineando l’importanza della perseveranza e della flessibilità mentale.
C. Insegnare ai giovani a valutare i propri fallimenti in modo costruttivo è fondamentale. Questo implica incoraggiarli a riflettere sulle cause del fallimento, su cosa hanno imparato e su come possono migliorare in futuro. L’autocritica costruttiva dovrebbe essere equilibrata con il riconoscimento delle proprie capacità e successi, per mantenere l’autostima e la motivazione.
D. L’intelligenza emotiva, la capacità di riconoscere, comprendere e gestire le proprie emozioni e quelle degli altri, è cruciale nel processo di gestione del fallimento. Attraverso il dialogo aperto e le attività di gruppo, i ragazzi possono imparare a esprimere le loro frustrazioni in modo sano e a offrire supporto ai coetanei che affrontano difficoltà simili.
E. Le abilità di problem-solving possono aiutare i ragazzi a vedere il fallimento sotto una nuova luce. Invece di percepire il fallimento come un vicolo cieco, possono imparare a vederlo come un problema da risolvere. Questo approccio li incoraggia a cercare soluzioni creative e a vedere il fallimento come un’opportunità per apprendere nuove strategie.
F. Il supporto dei genitori e della comunità è fondamentale per rafforzare il messaggio che il fallimento è un aspetto normale e utile del processo di apprendimento. I genitori possono essere incoraggiati a condividere le proprie esperienze di fallimento e recupero con i figli, fornendo modelli di resilienza e ottimismo. La comunità, comprese le scuole e le organizzazioni giovanili, può offrire risorse e programmi dedicati a sviluppare competenze di vita che aiutano a gestire il fallimento.

In definitiva, aiutare i ragazzi a gestire il fallimento richiede un approccio multiplo che incoraggi l’accettazione del fallimento come parte integrante dell’apprendimento e della crescita.

Promuovendo la resilienza, l’autocritica costruttiva, l’intelligenza emotiva, e il problem-solving in un ambiente di supporto, possiamo preparare i giovani ad affrontare le sfide della vita con fiducia e ottimismo.

Questo processo non solo li aiuta a gestire il fallimento ma li equipaggia con le competenze necessarie per prosperare in un mondo in continua evoluzione.

 




Il Tentativo di Limitare la Libertà di Stampa da Parte del Governo passa per l’intimidazione?

Nel recente clima politico italiano, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha pubblicamente dichiarato il suo impegno a garantire la libertà di stampa, un pilastro fondamentale della democrazia.

Tuttavia, queste affermazioni sembrano contraddittorie rispetto alle azioni del suo governo, in particolare in relazione al trattamento riservato a Betapress e ad altre testate giornalistiche.

La contraddizione tra le dichiarazioni di Meloni e le azioni del suo governo è palpabile.

Mentre Meloni proclama il suo sostegno alla libertà di stampa, un suo ministro, ad esempio, sembra essere coinvolto in azioni che minerebbero direttamente questo principio.

Nel caso di Betapress, ad esempio, l’ingerenza governativa ha sollevato preoccupazioni significative riguardo alla capacità dei media di operare senza interferenze.

Questo comportamento include pressioni sui giornalisti, tentativi di influenzare la pubblicazione o l’omissione di specifici articoli, e la minaccia di ritorsioni finanziarie o legali contro organi di stampa o i direttori che critichino l’operato del governo.

La coerenza tra le dichiarazioni pubbliche e le azioni politiche è essenziale per mantenere la fiducia pubblica.

In democrazia, i leader sono tenuti a rispettare non solo la lettera ma anche lo spirito delle leggi, comprese quelle che proteggono la libertà di stampa.

Quando le azioni di un governo non corrispondono alle sue dichiarazioni, ciò può minare la credibilità non solo dei singoli politici ma dell’intero sistema politico.

Il caso Betapress non è soltanto un problema interno, ma ha anche implicazioni internazionali.

La percezione della libertà di stampa in Italia influisce sulla reputazione del paese a livello internazionale, specialmente nei confronti di organizzazioni come l’Unione Europea e il Consiglio d’Europa, che hanno stabilito chiari standard di libertà di stampa per i loro membri.

A livello domestico, l’effetto moltiplicatore di una stampa libera è fondamentale per un dibattito pubblico informato e vivace, che è essenziale per il funzionamento di una democrazia sana.

Affinché le dichiarazioni di Giorgia Meloni sulla libertà di stampa siano credibili, è necessario che le azioni del suo governo riflettano questi stessi valori.

Il caso Betapress rappresenta un momento cruciale per l’Italia nel mostrare al mondo che le sue istituzioni possono difendere i diritti fondamentali anche contro le pressioni interne.

Se il governo Meloni desidera veramente salvaguardare la libertà di stampa, deve assicurare che tutti i ministri e le agenzie governative agiscano in modo trasparente, equo e libero da qualsiasi tentativo di manipolazione mediatica.

Solo allora le sue affermazioni potranno essere prese sul serio sia in patria che all’estero.

La libertà di stampa è un pilastro fondamentale delle società democratiche.

Tale diritto, garantito in molte costituzioni in tutto il mondo, rappresenta non solo la libertà di informare tramite il giornalismo, ma anche il diritto dei cittadini di essere informati.

Pertanto, quando un governo tenta di limitare questa libertà, si pone in diretto conflitto con i principi stessi di democrazia e trasparenza.

Recenti manovre governative di alcuni stati hanno visto tentativi di soffocare la critica e di controllare l’informazione mediante l’intimidazione di figure chiave nell’ambito dei media, come i direttori di giornale.

Questi attacchi possono assumere varie forme: dalla minaccia di azioni legali alla sorveglianza, dallo smantellamento della credibilità professionale all’esclusione da eventi ufficiali.

Queste tattiche non solo mettono a rischio la carriera dei giornalisti, ma instaurano un clima di paura e autocensura tra coloro che dovrebbero agire come custodi della verità.

Limitare la libertà di stampa è un atto che va ben oltre la censura di un articolo o l’intimidazione di un editore; rappresenta un attacco diretto ai diritti fondamentali dell’uomo e ai principi di trasparenza e responsabilità.

Un governo che sceglie di percorrere questa strada minaccia non solo i media ma degrada l’intero tessuto democratico della società.

Questo impedisce ai cittadini di fare scelte informate, essenziali per il funzionamento di qualsiasi democrazia sana.

Nel corso degli anni, abbiamo visto numerosi esempi di governi che hanno cercato di limitare la libertà di stampa.

Un esempio emblematico è stato quello della Turchia, dove numerosi giornalisti sono stati arrestati e media chiusi sotto l’accusa di diffusione di “propaganda terroristica”.

Anche in Ungheria, le leggi sui media sono state criticate per aver concentrato il controllo dei media nelle mani di alleati del governo, in Italia un movimento simile avviene invece per apparentamenti!

La comunità internazionale, comprese le organizzazioni come l’ONU e l’OSCE, ha spesso condannato tali azioni, sottolineando come violino gli accordi e le convenzioni internazionali sui diritti umani.

È essenziale che la comunità internazionale, le organizzazioni non governative e i governi democratici si uniscano in difesa della libertà di stampa.

Devono essere implementate sanzioni e misure punitive contro quei paesi che violano consapevolmente questo diritto fondamentale.

Inoltre, è vitale supportare i giornalisti e i media che operano in condizioni ostili, fornendo loro le risorse necessarie per mantenere la loro operatività e sicurezza.

La lotta per la libertà di stampa è una lotta continua in molte parti del mondo.

È una lotta che va oltre la salvaguardia dei diritti dei giornalisti; è una battaglia per la conservazione del nostro stesso sistema democratico.

Intimidire i direttori di giornale è un tentativo chiaro di minare questi principi, e ogni tentativo in tal senso deve essere fermamente respinto da tutte le forze che sostengono la democrazia e i diritti umani universali.

Ogni cittadino, in ogni nazione, ha il diritto di essere informato liberamente e onestamente, e questo diritto deve essere difeso con ogni mezzo necessario.

 

La libertà di stampa

Betapress sotto ATTACCO!!! Acqua in redazione.

Lupi di stato contro l’articolo 21




Salvini: ma ci sei o ci fai?

Matteo Salvini ritorna sulla sua endemica crociata dei tre mesi estivi, che inizialmente era contro gli insegnanti, che in pratica avevano TRE mesi addirittura di vacanza (che poi non è nemmeno vero), oggi, invece, ha girato il suo attacco andando anche a raccogliere un desiderata dei genitori, che d’estate non sanno dove piazzare i figli, ed ecco qua la soluzione, scuole aperte d’estate.

Addirittura sono stati trovati 400 milioni (dove erano nascosti? non è che forse erano i soldi per garantire alle segreterie la continuazione del personale ATA chiamato personale covid? e perché allora non abbiamo trovato 27 milioni per salvare il personale ATA cha abbiamo dovuto mandare a casa ma che alle scuole serviva come il pane? Beh è vero che il ministro dice di aver trovato 14 milioni per quello, 14 non 27, troppo tardi comunque, ormai le persone sono state mandate a casa quindi quelle persone ormai formate difficilmente saranno recuperabili ora), ben 400 milioni trovati, dicevamo,  erano sotto in uno scantinato?

Beh, se è così facile trovare dei milioni di euro suggerisco a tutte le famiglie che stanno morendo per arrivare a fine mese di fare una caccia al tesoro nei vari ministeri partendo da quello dell’istruzione, magari negli scantinati da qualche parte anche loro riusciranno a “trovare” qualche milionata.

Qui mi pare che si parli senza la necessaria comprensione sia della storia che della vera necessità dietro a determinate situazioni.

La decisione di concentrare le vacanze estive in un periodo di tre mesi anziché diluirle durante l’anno scolastico è il risultato di un’organizzazione ponderata e riflessiva del calendario scolastico, supportata da diverse ragioni valide. 

Per cercare di farci capire useremo punti specifici e chiari, non si sa mai:

Continuità e coerenza del calendario: Concentrare le vacanze estive in un periodo di tre mesi consente di mantenere una certa coerenza nel calendario scolastico. Questo approccio facilita la pianificazione delle attività educative e permette agli studenti, agli insegnanti e alle famiglie di organizzare le proprie attività con maggiore chiarezza.

Minimizzazione delle interruzioni: Distribuire le vacanze estive durante l’anno scolastico potrebbe comportare frequenti interruzioni nel processo di apprendimento, compromettendo la continuità e l’efficacia dell’insegnamento. Concentrare la maggioranza delle vacanze in un unico periodo permette di limitare queste interruzioni e di mantenere un flusso costante di lavoro e apprendimento.

Difficoltà nel mantenere la concentrazione: Il caldo intenso può rendere difficile per gli studenti e il personale mantenere la concentrazione e l’attenzione durante le lezioni e le attività didattiche. Questo può compromettere la qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento, riducendo l’efficacia dell’ambiente educativo.

Efficienza nell’utilizzo delle risorse: Concentrare le vacanze estive in un periodo di tre mesi consente alle istituzioni scolastiche di ottimizzare l’utilizzo delle risorse. Durante il periodo estivo, molte scuole possono programmare lavori di manutenzione, ristrutturazione o pulizia, senza interferire con le attività didattiche.

Opportunità per attività estive specializzate: Il lungo periodo di vacanza estiva offre ai ragazzi l’opportunità di partecipare a programmi estivi specializzati, come campi sportivi, corsi di arte o di lingua, che potrebbero non essere disponibili durante l’anno scolastico. Queste esperienze arricchiscono il loro bagaglio di conoscenze e competenze in modo significativo.

Promozione del turismo e dell’economia locale: Le vacanze estive di tre mesi favoriscono il turismo e l’economia locale, consentendo alle famiglie di pianificare viaggi e vacanze più lunghe. Questo periodo prolungato di pausa estiva beneficia anche delle industrie turistiche, ricreative e commerciali, contribuendo così alla crescita economica delle comunità locali.

Tempo sufficiente per il recupero e il relax: Tre mesi di vacanze estive offrono ai ragazzi il tempo necessario per riposarsi, rigenerarsi e dedicarsi a interessi personali senza la pressione degli impegni scolastici. Questo periodo di pausa prolungato è essenziale per il benessere fisico, mentale ed emotivo degli studenti, consentendo loro di ricaricare le energie e affrontare il nuovo anno scolastico con rinnovato entusiasmo.

Ma poi, le scuole hanno l’aria condizionata???

Se le scuole non dispongono di aria condizionata e devono funzionare durante l’estate, possono incontrare diversi problemi che compromettono il benessere degli studenti, del personale e l’efficacia dell’ambiente educativo.

Sempre per punti così magari è più facile capire:

Calore e disagio fisico: Le temperature estive possono diventare estremamente elevate, soprattutto all’interno degli edifici scolastici, che possono essere progettati senza adeguata ventilazione o isolamento termico. Senza aria condizionata, gli studenti e il personale possono sperimentare disagio fisico, affaticamento e difficoltà di concentrazione, compromettendo il processo di apprendimento.

Sicurezza e salute degli studenti: Il caldo eccessivo può rappresentare un rischio per la salute degli studenti, specialmente per quelli più giovani o con condizioni mediche preesistenti. L’esposizione prolungata a temperature elevate può causare colpi di calore, disidratazione e altri problemi di salute, aumentando il rischio di incidenti o malori durante le attività scolastiche.

Anche qin questo caso subentra la difficoltà nel mantenere la concentrazione: Il caldo intenso può rendere difficile per gli studenti e il personale mantenere la concentrazione e l’attenzione durante le lezioni e le attività didattiche. Questo può compromettere la qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento, riducendo l’efficacia dell’ambiente educativo.

Assenteismo degli studenti e del personale: Le temperature elevate possono causare assenteismo degli studenti e del personale, con conseguente interruzione delle attività scolastiche e riduzione della produttività. Gli studenti potrebbero essere meno propensi a partecipare alle lezioni o alle attività extracurriculari, mentre il personale potrebbe essere più incline a prendere giorni di malattia a causa del caldo e del disagio.

Malfunzionamenti tecnici: Il calore eccessivo può causare malfunzionamenti tecnici negli edifici scolastici, come surriscaldamento degli apparecchi elettronici, interruzioni dell’elettricità o danni alle strutture. Questi problemi possono compromettere la sicurezza e l’efficienza delle attività scolastiche, richiedendo interventi di manutenzione e riparazione che possono essere costosi e dispendiosi.

Impossibilità di svolgere attività all’aperto in spazi non qualificati: Le alte temperature possono limitare la possibilità di svolgere attività all’aperto, come ricreazione, educazione fisica o lezioni all’aria aperta. Questo può ridurre le opportunità di movimento e di socializzazione degli studenti, influenzando negativamente il loro benessere fisico, mentale ed emotivo.

La mancanza di aria condizionata può rappresentare una sfida significativa per le scuole che devono funzionare durante l’estate, compromettendo il comfort, la sicurezza e l’efficacia dell’ambiente educativo.

È importante considerare soluzioni alternative o prendere misure preventive per mitigare gli effetti del caldo e garantire un ambiente sicuro e confortevole per tutti gli attori della comunità scolastica.

In conclusione, la decisione di concentrare le vacanze estive in un periodo di tre mesi anziché diluirle durante l’anno scolastico è supportata da una serie di motivazioni valide che favoriscono l’efficienza, la coerenza e il benessere degli studenti, degli insegnanti e delle comunità locali.

Quindi viene spontaneo chiedersi, ma questa fissa dei tre mesi di vacanza d’estate è paragonabile ad una malattia psichiatrica? 

O è perché da fastidio che gli insegnanti stiano a casa tre mesi? Ma anche ammesso che sia sbagliato, e così non è, siamo convinti che la soluzione migliore sia usare le scuole per fare da  babysitteraggio ai giovani in modo tale che i genitori possono lavorare senza avere il cruccio dei figli? 

MA SIETE SERI?

Non sarebbe allora meglio potenziare i servizi alla famiglia dei vari comuni in modo tale che si possano organizzare, anche in collaborazione con il percorso educativo scolastico, attività più consone al riposo delle giovani generazioni durante la stagione estiva?

E non sarebbe forse meglio fare in modo che le famiglie possano stare insieme di più durante l’estate per consolidare i rapporti famigliari, invece che lasciare i figli sparsi per il paese? e non sarebbe forse meglio ritornare ad un concetto di nucleo famigliare importante magari agevolando le mamme/papà lavoratrici/ori in modo che nel periodo estivo abbiano più tempo per i loro cari?

Non sarebbe meglio investire i soldi dello stato in ben altro modo che buttare 400 milioni di euro per far stare i ragazzi a scuola d’estate?

Non è che questa è solo una captatio benevolenzia elettorale?

E comunque, giusto per  osservazione, quando si dice che gli altri paesi fanno in modo differente, ricordo che le posizioni geografiche degli altri paesi sono differenti dalla nostra, i servizi messi a disposizione dagli altri paesi per la famiglia sono differenti dai nostri, la scuola degli altri paesi è differente dalla nostra, e anche, a rischio di essere tacciato di razzismo, gli abitanti degli altri paesi sono differenti da noi, anche a livello di problematiche demografiche!

Quindi prima di dire che gli altri paesi fanno le cose in altro modo e quindi dovremmo farle anche noi così, vediamo però di farle tutte anche noi in altro modo, non solo quello che fa comodo alla nostra classe politica.

Demagogia invece che soluzioni, soldi buttati invece che investiti, come se fosse la prima volta che succede.

Ma la colpa è anche nostra che pur di avere il sollievo momentaneo ai nostri malesseri, non ci accorgiamo di chi lavora invece non per il nostro bene, ma solo per il suo.

Ahi serva Italia…




Europa ed aborto, diritti contro diritti.

L’Europa si suicida se metterà l’aborto nella sua Carta fondamentale!

 

Il diritto all’aborto va inserito nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: è quanto ha deciso nei giorni scorsi il Parlamento europeo con un voto nel quale ha prevalso la maggioranza “progressista” con 336 “sì”, 163 “no” e 39 astenuti.

Il fatto curioso e drammatico di questa decisione è che – se lo notate – non si trattava da parte dei parlamentari europei di ribadire il diritto all’aborto, il quale praticamente è presente in tutte le legislazioni nazionali con modalità molto libere, salvo in Polonia e a Malta dove permangono delle restrizioni.

No, la vera novità è che tale diritto a interrompere una gravidanza diviene – nei desideri delle sinistre e dei “liberal” europei (Macron e simili) – non più soltanto una possibilità ma addirittura un valore fondamentale e “fondante” della identità europea.

Capite in quale abisso di abiezione morale siamo caduti?

Nel giro di pochi decenni siamo passati dall’aborto come crimine da vietare e punire (perché si riconosceva che con esso, fatto clandestinamente, si sopprimeva una vita), all’aborto ammesso legalmente con l’argomentazione di tutelare la vita delle donne, non più costrette ad affidarsi alle “mammane” o a medici compiacenti che agivano di nascosto contro la legge e a pagamento; fino a questo ultimo “traguardo” assolutamente folle e delirante in cui una maggioranza parlamentare di sinistra pretende di affermare che l’aborto divenga un diritto fondamentale, un “baluardo” della civiltà moderna e al quale nessuno possa più opporsi in alcun modo.

Infatti, nella risoluzione votata a Bruxelles si prevede di limitare l’obiezione di coscienza di medici e sanitari, di prevedere procedure obbligatorie nei percorsi formativi di medici e ostetrici perché l’aborto divenga una competenza e una prassi diffusa a tutti i livelli sanitari, e infine di vietare il finanziamento da parte della UE alle associazioni e realtà che diffondano valori anti-abortisti e anti-gender.

Se ci pensate, siamo tornati – almeno per ora soltanto con una dichiarazione di principio che per diventare legge dovrà essere approvata dal Consiglio europeo e poi assunta dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione – a una specie di eugenetica nazista: a quell’epoca i seguaci di Hitler teorizzarono l’inferiorità delle razze ebraica, rom, degli omosessuali e di persone con handicap vari.

Oggi si teorizza la “superiorità” di donne e uomini europei adulti che si arrogano il diritto di decidere se il nascituro (che loro stessi hanno suscitato in vita unendosi sessualmente) sia degno oppure no di maturare nel grembo materno.

E’ un “mondo al contrario” – come direbbe il generale Vannacci – dove la soppressione di una vita non viene più timidamente definita “interruzione della gravidanza”.

Qui, secondo i macroniani e socialisti vari, si ritiene invece che finalmente ci sia la conquista di civiltà piena: le donne sarebbero a questo punto libere di disporre in maniera assoluta del proprio corpo e della propria libertà sessuale, senza più quel vincolo morale di dover un po’ di nascosto porre termine a una vita nascente la cui unica “colpa” è quella di essere nata dentro il corpo di una donna che non intende (insieme al proprio partner) assumersi la responsabilità connessa a ogni rapporto sessuale: quella che possa nascere un bambino!

Di fatto dietro a questa dichiarazione europea si nasconde il sottile e indicibile intento delle sinistre di rendere l’aborto obbligatorio spazzando via le residue resistenze di medici obiettori, dei difensori della vita vari (tipo l’associazione Pro Vita & Famiglia di Jacopo Coghe che ha fatto girare a Bruxelles un camion vela con le parole: “To kill a baby is not a fundamental right”).

Se la direttiva si tramutasse in legge costituzionale europea, Pro Vita non potrebbe più fare tale pubblicità ma anzi verrebbe messa fuori legge e il suo presidente Coghe forse verrebbe incarcerato!

Vediamo come hanno votato i parlamentari italiani eletti a Bruxelles: a favore dell’aborto come “diritto fondamentale” si sono espressi Pd, Verdi, Cinque Stelle, + Europa, Azione, Italia Viva, con i voti aggiuntivi di Alessandra Mussolini e Lucia Vuolo di Forza Italia e di Gianna Gancia della Lega.

Contro si sono espressi Forza Italia (escluse le due “dissidenti” qui sopra), la Lega (esclusa la Gancia) e Fratelli d’Italia. Insomma, a destra si vota per la vita e contro l’assassinio dei bambini; a sinistra invece allegramente si brinda alla fine della civiltà europea fondata e costruita attorno ai valori giudaico-cristiani e alla democrazia sostanziale secondo la quale ogni “cittadino” ha gli stessi diritti e quindi nessuno può pensare di sopprimerlo.

L’Europa di oggi esprime questo folle delirio autodistruttivo, le femministe sono contente, i maschi ancora di più perché potranno fare all’amore con donne che avranno sempre meno remore e sensi di colpa nel “far sparire” le prove di questo atto d’amore, con la benedizione delle costituzioni europee.

Siamo alla pazzia politica e culturale di un continente – il nostro – del quale andavamo fieri e che invece oggi si è messo alla testa della schiera dei lestofanti della politica che ritengono di poter decidere della vita e della morte dei propri figli, con la stessa superficiale barbarie di Hitler, Stalin e Pol Pot.

Complimenti Europa: se non correggerai la tua rotta sei destinata a scomparire o a essere invasa … come del resto sta già avvenendo!

Il Credente




VENEZIA 11 APRILE: IMPORTANTE CONVEGNO SU “VIOLENZA DI GENERE – LA FINE DELL’IMPUNITA’ “

 

VIOLENZA DI GENERE – LA FINE DELL’IMPUNITA’

Venezia 11 aprile 2024 ore 15.00
presso la “Cittadella della Giustizia” di Piazzale Roma
Tribunale Penale di Venezia

Un incontro di livello assoluto è quello in programma a Venezia,  giovedì 11 Aprile alle ore 15.00 presso il modernissimo Tribunale Penale di Piazzale Roma che, per l’occasione, aprirà le porte non solo a professionisti della materia ma anche al pubblico che già si prevede notevole su un tema scottante: “La violenza di Genere – La fine dell’Impunità” con la partecipazione straordinaria di Isabelle Rome, Magistrata di Francia, già Ministro per l’Uguaglianza di Genere e le Pari Opportunità del governo francese, e oggi Primo Presidente di Camera della Corte d’Appello di Versailles.

L’evento di Venezia, chiude la trasferta di tre giorni in Italia dell’importante Magistrata francese protagonista sia a Novara che Milano e ora a Venezia di una battaglia di giustizia e libertà contro la violenza di genere.

L’evento è stato fortemente voluto da Paola Bergamo, Presidente del Centro Studi MB2, Monte Bianco – Mario Bergamo per dare un tetto all’ Europa, in co-organizzazione con il Tribunale Penale di Venezia nella persona del Presidente dei GIP Luca Maria Marini.

Non è la prima volte che Isabelle Rome e Paola Bergamo conducono insieme una battaglia di giustizia e uguaglianza e, nel comune sentire europeista, intendono, anche in una comparazione tra ordinamenti giuridici, segnare la via per porre rimedio ad un problema grave, che non ha certo confini nazionali, e che funesta, sul piano socio culturale la società. Diventa perciò fondamentale e urgente individuare i percorsi che vedono proprio nello strumento giuridico, non solo uno strumento preventivo, coercitivo e dissuasivo ma uno strumento capace di trasformare la società ponendo rimedio ad un grave allarme sociale, frutto di una costruzione secolare , basata sul modello del potere maschile sul femminile.

E’ appena stato pubblicato in Francia l’ultimo libro di Isabelle Rome, “La fine dell’Impunità”, che poi dà anche il titolo all’Evento di Venezia ed è ormai prossima anche l’edizione in Italia. Isabelle Rome è la paladina di una battaglia condotta per la tutela dei diritti delle donne, a favore dell’uguaglianza di genere, della fratellanza nonché della lotta contro la violenza non solo coniugale. La violenza contro le donne deve essere punita. Nessuno può restare impunito. Questo è il punto focale.
Per l’importanza dei temi trattati e per l’assoluto livello dei relatori l’incontro è stato adottato dall’Ordine Forense ed è valido per i crediti di formazione. 

Il Veneto, di recente, anche con il triste caso di Giulia Cecchettin, è salita alla ribalta per un dramma che ha tenuto l’Italia tutta con il fiato sospeso, e che, poi si è concluso con un tragico epilogo.

Accanto a Isabelle Rome, ospite d’onore dell’evento, ci sarà Salvatore Laganà per i saluti istituzionali e relatori, l’Avvocato penalista Silvia Masiero del Foro di Venezia, che si occuperà di Stalking, il Presidente Luca Maria Marini che tratterà di Tutela Preventiva e Giurisdizionale, l’Avvocato Gianni Di Santo del Foro di Roma che tratterà del diritto penale italiano in tema di violenza sulle donne. Conducono e moderano l’incontro Paola Bergamo, Presidente del Centro Studi MB2 e Luca Marini, Presidente dei GIP del Tribunale Penale di Venezia.

Si ringrazia l’artista Veneziano Tobia Ravà, co-fondatore con Paola Bergamo del Centro Studi MB2 ,  per aver concesso l’utilizzazione della sua opera “Anima Celeste”, in raso acrilico, per la veste grafica dell’Evento.

[Ingresso libero fino a esaurimento dei posti]

Nota: Si ringrazia la Dott.ssa Paola Bergamo – Presidente del Centro Studi MB2 Monte Bianco e animatrice del Circolo Culturale ‘La Caduta’ – per averci reso partecipi – grazie al Comunicato di cui sopra –  dell’eccellente iniziativa, arricchita dalla partecipazione straordinaria di Isabelle Rome, Magistrata di Francia, già Ministro per l’Uguaglianza di Genere e le Pari Opportunità del Governo Francese, e oggi Primo Presidente di Camera della Corte d’Appello di Versailles. 

A quanti plaudono al significativo e importante evento, si unisce anche l’ ‘Accademia di Alta Cultura’ per il tramite del proprio Presidente, Giuseppe Bellantonio.




PERSONA E COMUNITA’

 

L’uomo persona

 

Certamente l’individuo è sostanza, cioè realtà completa esistente e chiusa in se stessa, incomunicabile nel suo essere concreto, distinto da ogni altro.

Fra tutte le altre sostanze, gli individui di natura razionale ricevono il nome di persona “per sé una”, “hypostasis”, soggetto sussistente, e insomma, sostanza individuale di natura razionale. L’individualità, nella definizione di persona, designa il modo particolare di essere che conviene alla persona, cioè l’esistere conseguentemente l’agire autonomo.

La persona è dunque una sostanza individua, cioè una realtà interiormente indivisa e distinta da ogni altra (altrimenti l’uomo non sarebbe un essere uno, ma un aggregato di elementi, facoltà e atti, che resterebbero slegati tra di loro), ma allo stesso tempo, per la comunanza di natura tra gli individui umani, per la solidarietà istintiva che si forma tra di loro, per l’ordinamento di tutti a una finalità comune, si rivela come eminentemente sociale. Anzi la persona, qualunque sia la ricchezza del proprio essere e delle proprie facoltà, ha una connaturale tendenza ed esigenza di associarsi con gli altri allo scopo di potenziare l’azione e l’efficienza propria ed altrui.

Vi è una tendenza naturale, quasi incontenibile degli esseri umani, che li porta ad associarsi per il raggiungimento di obiettivi che pur essendo da ciascuno desiderati superano la capacità di cui possono disporre i singoli individui.

L’uomo, nella storia, non si presenta mai come un solitario, nemmeno agli albori della sua esistenza quali ci risultano dalla preistoria.

Anzi la Bibbia, nell’offrire un racconto popolare della creazione, dice che Dio, vedendo l’uomo solo, come era uscito dalle sue mani, ritenne che ciò non era bene e cominciò a dargli una compagna simile a lui: primo germe della società.

Questa tendenza ad associarsi, che deriva dalla sua stessa natura e si sviluppa su ogni piano dell’esistenza, ha una duplice molla: a) il bisogno di reciproco aiuto, in quanto la persona, da sola, è normalmente incapace di soddisfare alle proprie necessità anche più elementari e inderogabili (società di necessità); b) il bisogno di espandersi e comunicare con i propri simili, nei quali l’uomo scopre la stessa natura e le stesse esigenze, per aiutarli a comunicare loro il proprio bene (società di amicizia). Anche quest’ultimo istinto, generalmente meno considerato, è una spinta alla società.

Purtroppo in questo naturale processo di espansione comunitaria interviene l’egoismo che contrasta con le istanze della socialità e della comunione, ma il senso più profondo e autentico della natura umana resta quello sociale.

Il messaggio, l’opera Redentrice di Cristo e l’azione del Cristianesimo intervengono nel dinamismo sociale dell’essere umano per ristabilire l’equilibrio, ricomporre l’unità e liberare gli uomini dalla tirannia dell’egoismo, dando nuovo vigore alle forze della società.

 

I raggruppamenti sociali

 

La vita associativa si articola pertanto in un certo numero di comunità e società (per ora non spieghiamo la distinzione di questi due termini): la società familiare; la società civile e politica, in seno alla quale si formano le associazioni professionali, economiche, culturali che perseguono fini particolari: scientifici, artistici, letterari, assistenziali, caritativi, industriali, sindacali ecc.; la società religiosa, che tende ad avere un suo rilievo distinto da quella politica, specialmente nel mondo cristiano, dove la Chiesa, comunità di origine e finalità soprannaturale, è fondata per riunire i credenti in Cristo e condurle al loro destino ultraterreno, trascendente ogni altra formazione di società umana, anche politica.

L’individuo umano integrandosi in queste varie forme di società, esce dalla propria solitudine, vince il proprio egoismo e stabilisce rapporti di collaborazione in una sinfonia di persone componenti la comunità. Questo processo di socializzazione nulla toglie alla persona umana, che nel suo associarsi e integrarsi conserva intatta la propria vocazione, il proprio essere, la propria autonomia di esistenza e di coscienza.

Essa non viene assorbita né soggiogata dalla società, ma conserva il suo primato sulle strutture e gli organi che la società, che non può mai prevalere sull’uomo, crea e impiega a suo servizio.

 

Persona e società

 

Il rapporto persona-società è sempre stato un punto critico dell’organizzazione e della vita della comunità politica. Per risolverlo nel mondo moderno si sono affrontate due correnti opposte: individualismo e socialismo (in senso generico), caratterizzate, come risulta dagli stessi nomi, dalla estrema affermazione o dall’individuo o della società, in senso esagerato ed esclusivista, come avviene in ogni forma di estremismo.

Le due posizioni hanno basi filosofiche che toccano la stessa natura dell’uomo.

Secondo la teoria individualista, l’essere sociale non è dovuto allo sviluppo di una virtualità insita nella natura umana, ma è il risultato di un contratto stipulato dai cittadini o per uscire da uno stato di egoismo e di guerra, conseguenza delle passioni di natura cattiva dell’uomo (Hobs), o per porre un freno alle funeste condizioni createsi tra gli uomini con l’allontanarsi dallo stato di bontà della natura, col progresso della cultura e delle scienze (Rousseau).

A questo gruppo individualista appartengono le teorie evoluzioniste, il liberalismo, sorto da una reazione all’assolutismo, e come posizione-limite, l’anarchismo, che intende realizzare l’ordine sociale su un terreno sgombro da ogni potere attualmente esistente.

Sulla sponda opposta, un accentuato e a volte esasperato sociologismo, che per varie vie deriva dal monismo evoluzionistico hegeliano, porta alla negazione dell’individuo in favore del primato della società, specialmente nel totalitarismo e nel collettivismo (a cui è legato il marxismo).

La società si organizza allora secondo le leggi di un meccanismo duro e oppressivo, dal quale l’uomo, ridotto quasi solo o principalmente ad agente economico, viene mortificato nelle sue esigenze e aspirazioni di ordine spirituale e specialmente nella sua libertà.

Da ricordare anche l’esistenzialismo, che partendo dall’affermazione dell’assoluta indipendenza della persona, del tutto libera al di sopra di ogni norma esterna, concepisce la vita sociale come una conseguenza del conflitto delle coscienze e delle concupiscenze degli individui, fino al punto di asserire: “gli altri ecco l’inferno” (Sartr).

 

Il personalismo cristiano

 

Contro l’individualismo ad oltranza e contro ogni concezione sociologica e totalitaria, si è sempre sviluppata la dottrina del personalismo cristiano, che getta le sue radici nell’antropologia di San Tommaso d’Aquino.

Ogni singolo uomo è per rapporto alla comunità come la parte verso il tutto, e dunque a questo titolo è subordinato al tutto; come persona, ha in se stesso una vita e dei beni, dei valori, che oltrepassano la sua ordinazione alla società: così la vita interiore, la vocazione, la libertà, i diritti fondamentali derivanti dalla stessa natura dell’uomo.

Il bene comune, che è oggetto e scopo del “tutto” sociale, non potrà mai risolversi in una sopraffazione o lesione del bene autenticamente umano della “parte”, anche se esige la cooperazione delle attività sociali di tutti i membri della comunità.

Così il personalismo contrappone all’idealismo e al materialismo astratti un nuovo realismo astratti un nuovo realismo, come appello alla pienezza spirituale dell’uomo singolo, punta e strumento della storia universale ma anche appello alla pienezza dell’umanità come un tutto da realizzare in ogni momento e atto, sicchè nessun problema può essere pensato e affrontato senza questo doppio riferimento.

Vita personale, vita privata e vita pubblica, senza confondersi in una volgarizzazione generale di ogni esistenza, devono offrire a tutti le loro diverse possibilità, senza intossicarsi nel proprio isolamento, ma fortificandosi mutuamente con l’intercomunicazione, rompendo quindi l’egocentrismo della vita individuale

Jacques Maritain a sua volta, contrappone un umanesimo integrale, alle varie forme di umanesimo carente dell’individualismo e del socialismo come messaggio e sistema che tende a rendere l’uomo integralmente umano e promuovere lo sviluppo delle capacità originali della sua natura, le sue forze creative, facendo partecipe di tutto ciò che può arricchirlo col patrimonio della cultura, della spiritualità e della civiltà umana con l’impiego delle forze del mondo fisico come strumenti della sua libertà.

E’ l’umanesimo plenario di cui parla Paolo VI nella Enciclica “Populorum Progressio”.

Oggetto ne è lo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini.

 

Oggettività di base

 

La dottrina sociale della Chiesa sul rapporto tra persona e società deriva dalla visione oggettiva dell’uomo, considerato come persona che mantiene tutto il suo proprio valore autonomo anche a far parte della società umana.

L’uomo per sua natura è ordinato alla vita sociale, ma non subordinato alla società in tutto se stesso.

La società pur avendo una sua finalità superiore agli interessi dei singoli individui deve servire all’uomo come mezzo per il raggiungimento del suo scopo ultimo.

La vita sociale non si svolge necessariamente sul filo di un antagonismo insolubile tra individuo e società, ma tende piuttosto all’armonizzazione di tutti i rapporti in un “tutto” che permetta il massimo incremento delle virtualità operative in ordine al progresso e all’elevazione della persona umana.

Don Walter Trovato




Gli albanesi-americani del Michigan dovrebbero votare per Trump.

“Dalla lettura di un articolo pubblicato SYRI.NET, giornale albanese, si possono trarre spunti di riflessione su aspetti che, direttamente o indirettamente possono anche riguardarci…

Notizie che difficilmente si trovano in Italia…

L’articolo, pubblicato il 4 aprile, a firma di Chim Peka, lo trovate in versione originale, sin lingua inglese, o anche albanese, cliccando sul link in basso.

Per comodità, lo abbiamo tradotto per Voi.

Ettore Lembo

 

Gli albanesi-americani del Michigan dovrebbero votare per Trump.

 

Mentre la campagna presidenziale americana prende forma con un nuovo confronto tra i presidenti Trump e Biden, sembra che lo stato del Michigan, con 15 voti elettorali, questa volta avrà molto peso per entrambi gli schieramenti, in quanto stato indeciso. Con una comunità di circa duecentomila persone, la comunità albanese dovrebbe posizionarsi chiaramente a favore del presidente Trump per almeno tre ragioni.

 

Qualche giorno fa, su Fox News, il giornalista conservatore Mark Levin, criticando la politica estera e soprattutto il segretario di Stato Blinken, ha detto: ‘Guardate, io come sapete, posso parlare tutto il giorno dei Balcani e di ciò che Anthony Blinken ha fatto al conservatore Il partito in Albania è vergognoso. Nessuno ci presta attenzione. Ma li ha sanzionati perché sfidavano i socialisti che lui ama. Sebbene l’osservazione di Levin sia del tutto corretta, è incompleta. L’atteggiamento di Blinken nei confronti dell’Albania è dettato da George Soros e non si adatta agli interessi dei nostri due paesi alleati. Sali Berisha è l’unico statista vivente che ha combattuto un regime comunista e lo ha sconfitto. È il leader politico che ha restituito l’Albania all’Occidente, rendendola membro del Consiglio d’Europa, della NATO, ponendo gli Stati Uniti al centro dell’orientamento della politica estera dell’Albania. È stato sanzionato perché è l’unico leader conservatore in questa parte del mondo che sfida ideologicamente George Soros.

 

Anthony Blinken sarà ricordato come il Segretario di Stato che rese possibile l’arresto del leader conservatore dell’opposizione di un paese alleato; schiacciò la sua opposizione e danneggiò le relazioni tra i due popoli. Gli albanesi sono la nazione più filoamericana del mondo, ma grazie al sostegno di Soros e Blinken al governo socialista, l’Albania si è trasformata in un narco-stato. Il fratello del primo ministro Rama è coinvolto nel traffico internazionale di droga, ma è intoccabile dal sistema giudiziario, riformato dalla Fondazione Soros con il sostegno del governo americano. Dei due pubblici ministeri che hanno archiviato il caso, uno è stato ricompensato con la nomina a procuratore generale, mentre l’altro a procuratore speciale. Il sindaco di Tirana ErionVeliaj, sebbene tutti i suoi colleghi siano attualmente in carcere per corruzione di massa, non affronta la giustizia solo perché è sostenuto da Alex Soros. Oggi l’Albania si trova ad affrontare la sfida più grande degli ultimi secoli. Negli ultimi 10 anni circa il 30% della popolazione ha lasciato il Paese a causa della povertà. La permanenza di Rama al potere distruggerà gli albanesi come nazione.

 

Il presidente Trump ha una solida eredità riguardo al Kosovo. Ha fermato la divisione del Kosovo; un progetto della Fondazione Soros a Belgrado, anche se alcuni elementi della sua amministrazione erano favorevoli a tale progetto. Trump è stato l’unico presidente americano che ha riunito nello Studio Ovale i leader del Kosovo e della Serbia e li ha costretti a raggiungere un accordo per la normalizzazione delle loro relazioni. Ha assicurato il riconoscimento del Kosovo da parte di Israele. Trump ha evitato il conflitto nei Balcani, ma quell’accordo è stato annullato dall’amministrazione del presidente Biden. Il presidente stesso ha avuto l’eredità di sostenere il Kosovo come senatore per decenni, ma quell’eredità è stata annullata dal Dipartimento di Stato.

 

Il Kosovo è indipendente grazie al sostegno bipartisan degli Stati Uniti. Negli ultimi tre anni l’approccio del Dipartimento di Stato è stato completamente filo-serbo, esercitando allo stesso tempo un’ingiusta pressione sulle autorità del Kosovo.

 

Il presidente Vucic vuole mantenere la Serbia come fattore regionale attraverso la minaccia di guerra. L’incitamento all’odio tribale e alle rivendicazioni storiche con il linguaggio del marxismo-leninismo da parte del regime di Milosevic portò alla distruzione della Jugoslavia multietnica e al genocidio contro albanesi e bosniaci. Il presidente Vucic è tornato alla stessa retorica. I paralleli di questa retorica con il Wokeism americano non possono essere ignorati. Anche il presidente Vucic è sostenuto da George Soros.

 

Infine, il marxismo ideologico non è la nostra lotta. L’Europa è in guerra; i Balcani sono sull’orlo del baratro e la terza guerra mondiale è più vicina che mai. L’ultima cosa che dovrebbe preoccupare sia gli albanesi che gli americani è se la luce del sole sia razzista o se il riscaldamento globale causi stress psicologico alla comunità LGBT nell’Africa sub-sahariana.

 

12:27 , 04/06/2024 Di Chim Peka

 

https://www.syri.net/english/678175/shqiptaro-amerikanet-e-michigan-duhet-te-votojne-trump/?gjuha=En




Intelligenza artificiale e pratiche educative

L’impatto dell’intelligenza artificiale (AI) sull’istruzione è oggi un tema di grande attualità e rilevanza, perché porterà ad una vera rivoluzione delle pratiche educative tradizionalmente consolidate.
Con l’intelligenza artificiale potrà essere introdotto il cosiddetto APA – Apprendimento Personalizzato Adattivo, ovvero un apprendimento a misura di ogni singolo studente.
Ogni studente potrà avere accesso a piattaforme educative online per fruire di materiali didattici adattati ai suoi bisogni formativi e tenendo conto dei suoi ritmi di apprendimento. In uno scenario futuro lo studente potrà interfacciarsi a tutor digitali, anche con sembianze di robot antropomorfi, capaci di dare un’assistenza personalizzata in tempo reale, adattandosi alle sue esigenze personali, associandole a “data based” individuali.
Il tutor digitale sarà in grado di personalizzare i contenuti e di fornire “batterie” di attività graduate al fine del raggiungimento del miglior risultato con un approccio esclusivamente di tipo algoritmo e cognitivo.
Per imparare le tabelline potranno essere proposte batterie di esercizi, sempre più interattivi e volti a stimolare esperienze di apprendimento virtuali che simulino scenari del mondo reale o attuino percorsi di attività autentiche, riproposte in varie modalità, anche per eventuali esercitazioni e ripassi, fino al raggiungimento del risultato certo. A questo punto anche i libri di testo potranno essere sostituiti da lezioni sincrone e asincrone condotte da docenti virtuali. Anche nelle discipline pratico-professionali gli ambienti virtuali di apprendimento potranno offrire esperienze dirette, durante le quali studenti potranno applicare le conoscenze apprese in contesti simulati senza necessità di strutture fisiche reali.
Si potrà far ricorso anche all’intelligenza artificiale conversazionale, che si basa su piattaforme sviluppate per consentire alle macchine di comprendere e rispondere agli input del linguaggio naturale. Tra queste c’è Chat GPT, acronimo di Generative Pretrained Transformer, strumento di elaborazione del linguaggio naturale (o Natural Language Processing), che utilizza algoritmi avanzati di apprendimento automatico per generare risposte simili a quelle umane all’interno di un discorso. Criticità? Chat GPT è costruita sulla base di una architettura algoritmica di tipo probabilistico, ovvero le risposte del dispositivo sono effettuate sulla base di un preaddestramento attuato attraverso specifici algoritmi di apprendimento (machine learning).
Il dispositivo registra ricorrenze statistiche fra i vari token (parole) attraverso cui “riconosce” i testi del linguaggio naturale a cui è stato esposto e rileva che i correlati numerici di alcuni token si combinano più frequentemente con quelli di altri.
Alla domanda su quale sia il fiume più lungo d’Italia, il dispositivo risponde “Pò” non perché lo sappia (non solo non lo sa, ma non sa neanche cosa sta dicendo), ma perché ha registrato una grandissima quantità di casi in cui il token “Pò” ricorreva insieme ai token attinenti allo stesso campo semantico “il fiume più lungo d’Italia”. Per questo motivo, il dispositivo può proporre risposte esatte o risposte che vanno verificate dal docente, il cui ruolo assume nuovi e importanti significati. Il docente non sarà più colui che trasmette solo conoscenze, ma dovrà essere il regista dell’apprendimento, ovvero colui che predispone i nuovi ambienti e i nuovi strumenti digitali, quindi soprattutto sarà il mediatore all’interno di un nuovo ecosistema educativo digitale, di supporto e di facilitazione, mentre la tecnologia gestirà i compiti più routinari. Anche la valutazione dovrà trovare nuove forme di adattamento all’AI. Abbandonate le tradizionali valutazioni legate a singole prove di verifica, scritta-orale-pratico, la valutazione degli apprendimenti avverrà in modo continuo, attraverso l’analisi dei risultati registrati, garantendo così un feedback immediato e personalizzato.
Questo lo scenario della nuova scuola digitale. Tuttavia l’intelligenza artificiale dovrà però essere governata, trovando il giusto equilibrio fra dimensione digitale e dimensione umana, relazionale, emotiva per far sì che le nuove generazioni non si formino in un mondo solo mediato e artificiale, ma in un mondo reale e autentico.
Una scuola lasciata ad una disumanizzazione dei processi corre il rischio di essere una scuola alienante, per questo è fondamentale trovare il giusto equilibrio fra l’utilizzo dei nuovi strumenti e le forme di esperienze relazionali, di solidarietà e collaborazione, più importanti aspetti del processo di crescita che nessun algoritmo potrà mai essere in grado di gestire.
Certo il vento del progresso non può non coinvolgere la scuola per cui è urgente lavorare per lo sviluppo delle competenze digitali, senza tuttavia dimenticare le emergenze educative, che oggi sono molto diverse rispetto a quelle del secolo scorso. Se infatti non si riuscirà a trovare il giusto equilibrio tra “urgenze digitali” e “emergenze educative” l’ingresso dell’intelligenza artificiale sarà solo occasione di una ulteriore delegittimazione del ruolo educativo della scuola. Invece l’intelligenza artificiale potrà essere un preziosissimo strumento didattico, se saremo capaci di ridefinire il design di ciò che la scuola insegna, di come lo insegna, sì di ritrovare il senso pieno di una scuola che fa crescere le persone.
Ciò che l’Intelligenza artificiale non potrà replicare è il lato più nascosto dell’insegnamento: la relazione umana tra studente e docente. Difficile da percepire, perché la relazione umana è qualcosa che si crea nel tempo, che incontra ostacoli e mette alla prova le parti coinvolte, che costringe a misurarci con noi stessi e, cosa ancora più faticosa, a metterci in gioco quotidianamente come esseri umani.
Spesso, nella mia carriera di docente ho sentito colleghi lamentarsi dei propri studenti poco motivati, poco attenti, poco seri, poco intelligenti. Come se il nostro lavoro fosse restare sempre dietro la cattedra, aspettando che sia lo studente a rispondere alle nostre magiche aspettative.
Chi non vorrebbe una classe di studenti intelligenti, dotati, seri, volenterosi, pronti a recepire tutto ciò che proponiamo loro, pronti a gratificarci, a renderci tutto più facile, togliendoci dalle spalle quel peso, quella responsabilità enorme che è prepararli e istruirli?
La realtà è che noi ci troviamo davanti a ragazzi, che sono innanzitutto persone. Non numeri, non cognomi, non facce anonime che ci guardano assenti, ma persone. Spesso sono oppositivi, pigri, provocatori, disinteressati, disobbedienti. Persone imperfette e impregnate di esperienze e sensibilità diverse che condizionano il loro essere e, quindi, anche il loro “essere a scuola”.
È possibile calibrare il nostro modo di insegnare esclusivamente sulla base di uno studente ideale?
Prima di pensare agli ambienti di apprendimento virtuali, proposti da tutor digitali, è necessario instaurare un ambiente di conoscenza reciproca provando ad affiancare i ragazzi, cercando di capire chi sono, tentando di costruire un rapporto di fiducia e di ascolto.
La scuola è innanzitutto un ambiente di vita, ma è anche l’ambiente in cui si apprende. E l’apprendimento ha bisogno di passare attraverso la relazione umana.

Pio Mirra – DS IISS Pavoncelli, Cerignola FG