Lettera allo sconosciuto che è dentro di noi

Ci sono cose nella nostra vita che ci fanno paura.

Cambiamenti dalle conseguenze che ci sembrano compromettenti,

decisioni apparentemente devastanti,

scelte radicali.

Tutte cose che hanno a che fare col cambiamento e che, spesso,

proprio in quanto tali, ci fanno paura e vergogna.

Sono cose che, se avvengono, parlano nella nostra mente con parole come “fallimento”, “tradimento” o “sconfitta”.

Sono lutti, perdite, viaggi.

Eppure una parte di noi sa che in quella direzione, per quanto la strada sia schifosa, c’è la libertà.

Che se accettassimo quella rinuncia, quel distacco, la nostra vita migliorerebbe.

Centro, avremmo agli occhi di molti, incluso i nostri, fallito, ma la nostra vita, con uno sforzo in più, migliorerebbe.

E la cosa buffa è che sarebbe pure la strada più semplice e a volte proprio per questo non la prendiamo:

“Cosa direbbero gli altri?

Cosa direi io di me?

Che non ci ho provato fino all’ultimo?!”

E così non prendiamo mai la decisione, aspettiamo che il tempo passi, che le cose passino ma il problema è sempre lì.

E allora aspettiamo che sia la vita a risolverlo, o qualcun altro.

Per una separazione aspettiamo che l’altro faccia un passo falso, prenda una decisione o, addirittura, muoia.

Per una cura aspettiamo che la malattia passi da sé o che si manifesti a pieno.

Per una decisione aspettiamo che la vita se ne dimentichi o che agisca lei.

Ma la vita non dimentica e, alla fine, ciò che è ineluttabile accade.

Prima o dopo,

accade.

Anche se è brutto, anche se abbiamo lottato con tutte le nostre forze per non farlo accadere

(sì perché il nostro primo istinto è sempre la conservazione, per quanto terribile possa essere)

alle fine accade.

Ed è doloroso.

E poi per uscire fuori, ci vuole forza, bisogna reagire proprio in quel momento perché non c’è più possibilità di procrastinazione.

E si affronta la realtà.

E quella è la parte più difficile, quella in cui dobbiamo essere coraggiosi per forza anche se non volevamo esserlo.

Fino a quel momento ci eravamo mossi nell’illusione che le cose sarebbero cambiate.

Ma poi è arrivata la realtà e ci siamo dovuti risvegliare.

Solo che alla fine si scopre che la realtà non è poi così male.

Svegliarsi è stata dura ma poi alla fine ci si trova una propria posizione.

Perché in fondo, per quanto non ci possa piacere e ci possa portare dolore, alla fine, la vita è bella e, soprattutto, assecondandola, riserva un sacco di sorprese.


Con questa riflessione non mi aspetto che chi è indeciso se prendere una decisione o meno, si dia una smossa.

Chi vuole prendere una decisione lo fa e basta e non ha bisogno di parole di incoraggiamento.

Con questa riflessione voglio solo dire alle persone a cui la vita è piombata addosso che tutto andrà bene,

di dare spazio al dolore ma non troppo, di non preoccuparsi, di sorridere perché alla fine la vita è bella e riserva un sacco di sorprese inimmaginabili.




L’umanità della lettura

Sarà che sono arrivata per ultima e pure in ritardo.

Un ritardo di quasi 10 anni rispetto ai miei fratelli.

Sarà che il grosso era già stato fatto da mia madre e da mio padre negli anni della loro infanzia e giovinezza.

Sarà pure che molto era stato aggiunto dalle esigenze scolastiche dei miei fratelli

Però, quando sono arrivata io,

la biblioteca di casa Sparacio era già ben nutrita.

A me piacevano i titoli.

Leggevo i titoli sul catalogo del club del libro che trovavo sulle riviste.

Il primo libro che ho letto era un romanzo per ragazze, era di mia madre.

Lo finivo e lo rileggevo.

A quei tempi non leggevo mai la premessa o l’introduzione ma leggevo sempre il catalogo alla fine dei libri.

Ricordo la libreria dove mia madre mi comprava i libri e già allora le mie ricerche dei libri introvabili.

Trovare notizie originali sul ciclo bretone è stata una impresa.

Amavo le storie e divoravo le bibliografie.

Continuano a leggere i cataloghi delle diverse case editrici.

Ancora titoli e titoli che creavano in me un senso di familiarità.

Associavo senza problemi i titoli agli autori.

E Leggevo.

Leggevo tutti i libri che c’erano a casa.

I criteri erano due:

– quello del titolo (se nella mia mente era già conosciuto dalle letture di qualche catalogo allora era un buon libro)

– e quello della grandezza: più di duecento pagine mi sembravano troppe.

Poi arrivò la newton e i suoi 100 pagine mille lire.

Per me è per tutti quelli con la mia inclinazione,

Fu la fine.

Venivano comprati, letti e attesi tutti.

Uno per uno,

In successione.

Come fossero numeri di fumetti.

Volumi senza nessuna cura editoriale

Solo caratteri microscopici e muri di testo.

Saggi, poesie, racconti.

Leggevo e i libri erano talmente tanti e profilati che quando trovano nei testi un riferimento a un altro libro, frugavo nelle librerie e l’avevo.

E lo leggevo.

Libri su libri,

Scaffali delle librerie piene a due e tre file.

Gli ultimi anni del liceo non ho comprato il libro di antologia italiana.

Leggevo i brani direttamente dai libri e li leggevo tutti.

Questa cosa che qualcuno doveva scegliere per me quali parti dei libri leggere, non mi piaceva proprio.

Ero io che dovevo decidere e dovevo sapere tutto.

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A proposito, per non creare dubbi:

A scuola andavo male

Mi applicavo ma non rendevo.

Praticamente un’idiota.

Brava lo sono diventata dopo,

Quando ho cominciato ad unire e mettere in relazione tutto quello che avevo letto.

Questo perché le fasi della vita culturale di una persona, sono due:

La prima di reperimento testi e informazioni.

Una accozzaglia senza senso o criterio.

La seconda di relazione: piano piano tutte le cose lette e imparate, tramano il tuo cervello e ti portano in alto oltre le apparenze superficiali e in profondità verso la ragione nucleare.

Leggere traccia la pieghe del tuo cervello liscio.

Non possiamo credere di sapere tutto solo perché abbiamo letto qualcosa.

Un insieme di titoli e autori non sono cultura.

Possiamo dire di aver capito solo quando troviamo nella nostra vita le pagine di quei libri

Anche se non ricordiamo più chi le ha scritte

Perché non è importante

L’importante è aver riconosciuto il verso.




La notte in cui Pietro rinnegò sé stesso

La notte in cui Pietro rinnegò sé stesso, eravamo tutti là

Che notte memorabile,
che notte sconvolgente.

Si erano portati via il suo amico, la sua guida,
Per tutta la strada dal Getsemani al Sinedrio lui non aveva fatto che ripetersi “Amico mio io non ti lascio, Amico mio io non ti lascio”

E continuava a ripeterserlo attorno al focolare, tra chi andava e veniva e si aggrappava alla speranza di recuperare il suo amico e di far tornare tutto com’era prima, dileguando quell’assurdo incubo.

Le notizie però non erano buone,
pareva che fossero tutti molto arrabbiati col suo amico e volessero ucciderlo.
Lui non capiva bene il motivo della colpa e neppure gli altri, ma era così.

A quel punto cominciò ad ascoltare meglio il mantra che faceva girare dentro di lui e sentì che non era “Amico mio io non ti lascio” ma “Amico mio senza di te son perso”

All’improvviso, nella desolazione della notte, Pietro iniziò a pensare alla sua vita senza il suo amico e piano, piano, guardò in faccia la sua paura.

La sua vita senza il suo supporto?
 Come fare?!
Quello sconosciuto era arrivato un giorno e aveva cambiato tutto.
Finalmente aveva una strada, uno scopo, una certezza divina.

Gli aveva fatto cambiare pure il nome.
Aveva un’altra identità, era diventato un’altra persona.

Nei giorni precedenti a quella notte, Pietro viveva la chiara percezione di far parte di una rivoluzione, unirsi a quelle persone era stata la cosa migliore che avesse fatto.

E adesso tutto era in pericolo.
Se si fossero portati via il suo amico, tutto sarebbe finito.
E Pietro si sentì solo.
All’improvviso gli veniva a mancare il porto sicuro, la persona che gli diceva cosa fare e come,
chi rispondeva alle domande, il faro, l’albero che gli faceva ombra.
Tutto quello che aveva rivoluzionato la sua vita e gli aveva dato una nuova, bellissima e corretta, dimensione di stabilità e serenità.

Ma perché doveva rinunciare?

Non poteva farcela.
Era un salto troppo grande.
Cosa ne sarebbe stato adesso di lui?


Mentre pensava così, passò una donna che lo fissò e disse:
“Io so come parli e cos’hai da dire, tu sei uno di quelli che possono arrivare nelle profondità di loro stessi e trovare la strada”.

“Non so, non capisco quello che vuoi dire”.

Sentì che non era il caso di fermarsi lì in mezzo e si allontanò un poco.
Si guardò intorno, di lì a poco sarebbe sorta l’alba,
in lontananza sentì il gallo cantare.

Ma la donna sapeva dentro di sé, aveva capito che Pietro era molto di più di quello che credeva e continuò:
“Tu puoi distruggere la paura ed esplorare la vita lì dove tutti gli altri hanno paura di arrivare per via dell’attaccamento nei confronti della comodità”.

“Non so e non capisco cosa vuoi dire.
Cosa vuoi da me?
Mi stai confondendo con le tue parole, vai via!”

La fuga durò poco, la voce continuava:
“Io ti conosco, lo vedo chiaramente: tu puoi fare cose grandi e noi tutti abbiamo bisogno di te”.

“Per il cielo e per la terra! Per le cose visibili e per le cose invisibili! 
Andate via da me! Voi non sapete quello che dite!
 Io non sono quello di cui parlate”.

Ed ecco che il gallo cantò per la seconda volta e Pietro si ricordò delle parole di Gesù
“Prima che il gallo canti due volte, nella notte delle tue paure, tu rinnegherai te stesso tre volte.
Da questo capirai che c’è molto più di ciò che vedi e che le tue paure sono infondate”.

E allora capì che la verità era che lui era pronto e che doveva salpare.
Da quella notte, nulla fu più come prima.


La notte in cui Pietro rinnegò sé stesso, c’ero anche io e ci sono ancora ed è una notte affollata.

Ci siamo tutti noi che attraversiamo la lunga notte della paura e non facciamo che rinnegare noi stessi, prede dell’incertezza e della precarietà del futuro che vediamo.

Tutti noi che sappiamo che quello che vediamo è solo a un metro da noi mentre l’orizzonte è ampio chilometri e chilometri eppure …

Tutti noi che, anche se non lo abbiamo mai fatto e non crediamo di poterlo fare, siamo pronti a camminare da soli e andare lontano incontro alla nostra sconosciuta e ricchissima strada.




Lasciar seccare i fichi

Quasi alla fine del suo viaggio, poco prima di rientrare a Gerusalemme,

Mentre usciva dalla Betania assieme ai suoi discepoli e al suo stuolo di seguaci,

Gesù ebbe fame.

Vide in lontananza un fico molto bello e rigoglioso e gli si avvicinò

ma il fico aveva solo foglie e nessun frutto perché non era stagione.

Così Gesù lo fece seccare fino alle radici.

Non c’è bisogno di ripassare ogni mese il catechismo dei fanciulli per aspettarsi da Gesù una fine differente 

qualcosa tipo “Gesù allora guardò il fico e lo fece fruttare”

insomma di quelle cose tipo la moltiplicazione dei pani e dei pesci e la trasformazione dell’acqua in vino che lasciano contenti tutti.

Ecco roba così.

Invece no.

Invece Gesù fa seccare il fico.

Il fatto è che questa storia racconta qualcosa in più.

Questa storia ci parla delle nostre relazioni.

Alle volte ci troviamo ad aver costruito delle relazioni 

Sentimentali,

Lavorative,

Amicali

sulle quali abbiamo speso tempo ed energia 

e abbiamo fatto bene perché questa relazioni sono diventate una bella pianta 

alta, vigorosa e piena di foglie.

In molti casi, questa relazione ha anche portato frutti e sfamato passanti nel periodo di produzione.

Poi però la stagione è cambiata.

La relazione è rimasta apparentemente florida ma è sterile.

E, per questo, deve seccare.

Il fatto che chi fa seccare il fico sia un personaggio, un maestro che si è sempre distinto per la sua bontà,

ci fa capire che tutto quello che c’era da tentare era stato tentato:

non era più stagione di fichi e non lo sarebbe mai più stato.

Quel fico sulla strada avrebbe solo ingannato i viaggiatori e non avrebbe dato loro nulla di buono se non l’illusione.

Il fatto che sia stato Gesù a farlo seccare, ci dà la certezza che non c’era più nulla da fare.

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La stessa cosa succede a noi.

Ci sono delle relazioni che hanno portato frutti e gioie ma, passata la loro stagione, devono morire.

Si fa di tutto per salvarle, si aspetta tutto il tempo dovuto

ma poi bisogna mollare perché il fico deve seccare.

Non succede a tutte le relazioni, alcune continuano a fare frutti.

Forse hanno avuto un terreno migliore,

forse sono state curate meglio 

forse l’esposizione al sole e la protezione dal vento

forse solo la natura.

Alcune relazioni vanno chiuse per il bene di tutti.

L’accanimento nell’illusione non porta alla santità.

Solo ciò che porta frutto deve rimanere vivo.

L’unico modo che abbiamo per migliorare e portare nuovi frutti è chiudere in pace vecchie relazioni e iniziarne di nuove.




Il Coraggio di essere vivi

Lasciare il passato non è cosa facile.

Ma il passato fa parte della sfera delle cose morte che come tali vanno trattate.

Riportiamo qui la storia di Orfeo e della sua scelta.

 

E quando erano quasi vicino all’uscita,

quando tutti gli sforzi stavano per essere premiati,

quando Ade era stato convinto e fuori si vedeva il cielo,

Euridice chiamò ancora

Orfeo allora si fermò,

e si voltò.

non lo ha fatto per debolezza, non lo ha fatto perché non resisteva senza guardare l’amata

Orfeo si è voltato perché aveva capito che Euridice era morta

e loro due non facevano più parte dello stesso mondo.

Il loro destino era quello di battere terre diverse: 

lui era vivo e lei era morta.

Lui doveva andare a vivere, 

Lei doveva restare negli inferi.

Noi siamo Orfeo tutte le volte che non abbiamo il coraggio di lasciarci alle spalle pezzi della nostra vita che sono morti e ci portiamo appresso cadaveri sperando che torneranno a vivere.

Ma non lo faranno.

Euridice è il nostro lavoro, il nostro amico, il nostro amore, la nostra roba.

Euridice è il pericolo più grande che ci impedirà di guardare avanti e continuare a vivere.

Nel voltarsi di Orfeo c’è la libertà di liberarsi di un periodo felice per andare incontro alla vita imprevedibile.

C’è la forza di lasciare ciò che è morto per ciò che palpita.

Auguro un po’ del coraggio di Orfeo a chi ha lottato tanto per Euridice.




Il momento benedetto

Benedetto è quel momento della nostra vita durante il quale abbracciamo il silenzio e lasciamo fiorire un sorriso indulgente passando oltre la superficie.

Quel momento in cui riconosciamo il nostro errore passato nell’errore presente di un altro.

Quel momento in cui riconosciamo in una disobbedienza un eccesso di zelo e comprendiamo quanto una persona ci tenga a fare bella figura non accorgendosi di sbagliare.

Quel momento in cui capiamo che una persona è molesta solo perché vuol dare il meglio di sé;
quello in cui riconosciamo l’errore che fanno tutti, fatto solo perché non si sapeva in quale altro modo fare quella cosa.
Benedetto il momento in cui riconosciamo nell’aggressività la paura di una aggressione e sappiamo placarla.

Benedetti siamo noi quando abbiamo accumulato sufficiente esperienza da non giudicare e sufficiente successo da non deridere.

Quando vediamo ben oltre le apparenze e siamo in grado di cogliere la vera essenza delle persone nel bene e nel male (che sono fratello e sorella) e possiamo così godere di tanti aspetti della altrimenti invisibili.

Benedetta la vita che ci cambia e ci migliora fino a farci diventare indulgenti
e continua a metterci alla prova finché restiamo aspri.




Il rischio del suicidio e la risposta di Leopardi

Il suicidio è un rischio invisibile e inquietante.

Le anime sensibili possono sentirsi smarrite di fronte la crudezza del mondo.

Ecco come Giacomo Leopardi ha affrontato questo tema.

 

Plotino era un po’ in pensiero per l’amico Porfirio.

Porfirio, anche se non lo diceva chiaramente, aveva fatto intendere che stava passando uno di quei momenti brutti che passiamo tutti,

qualcosa tipo le paranoie adolescenziali che dovrebbero essere finite passati i 17 anni ma che tornano periodicamente a tradimento anche in età adulta:

tutto sembra contro di noi,

tutto è difficile da gestire,

tutto è complicato.

Magari, a guardarlo con logica, non è neanche tutto proprio malissimo, 

ma siamo stanchi.

Stanchi di lottare e di continuare ad essere più forti e superiore ad ogni cosa

Stanchi di essere sempre all’altezza della situazione.

Quando Plotino è andato a cercare l’amico,

Porfirio stava meditando di mollare tutto:

gli amici,

gli interessi,

la quotidianità,

tutto ciò per cui aveva lottato,

la vita.

Insomma, come ho già detto, un periodaccio di quelli che capitano.

Che poi, se ci facciamo caso, capita spesso che questi “periodacci” siano “collettivi”.

Deve essere per via di strane congiunzioni astrali, del tempo o di quello che mangiamo…

In questi giorni, per esempio,

persone a me care si sono sentite così,

per fortuna me lo hanno detto e così sono stata un po’ Plotino.

Nelle stesse ore, però, è capitato anche a me di sentirmi Porfirio,

mi sono sentita svuotata e annientata

ma, per fortuna, il mio amico Plotino se ne è accorto, mi ha chiamata e mi ha tenuta al telefono imponendomi di farmi forza.

Se sei anche tu un po’ Porfirio e vuoi essere lasciato in pace, chiudi bene la porta perché quasi sicuramente arriverà Plotino a spaccarti le balle e a dirti:

“Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme 

[…] 

andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; 

per compiere nel miglior modo questa fatica della vita”

Questa parte un po’ mi fa pensare.

Tutto però per dire che i periodi difficili capitano anche dopo l’adolescenza e e noi dobbiamo saper chiedere aiuto e saperlo accogliere.

I momentacci capitano e, comunque, l’amicizia è l’unica cosa che ci salverà.

[da Le Operetta Morali di Giacomo Leopardi – dialogo di Plotino e Porfirio]




Distruggere i templi per andare avanti

Un giorno Gesù entrò nel tempio di Gerusalemme e lo mise a soqquadro.

Ovviamente questo suscitò un certo sgomento in tutti i presenti (e anche negli assenti che vennero poi a conoscenza della cosa).

Spettacolo senza dubbio suggestivo e d’impatto: banchi che cadevano, piccioni che volavano, gente cacciata via con un frustino, buoi e pecore che correvano di qua e di là, denaro per terra, urla… e chi più ne ha più ne metta.

… Ah, se fossi stata presente, mi sarei divertita un sacco…

Chi era davvero presente e voleva voler bene a Gesù, passato il divertimento, chiedeva un segno che quella cosa fuori dalla razionalità avesse senso e verità e così gli chiesero l’unica cosa logica: un segno, una prova, possibilmente concreta e razionale, che quello che stava facendo fosse giusto.

“Ma certo – rispose Gesù – smontate (in greco “luo” e in latino “solvo”) questo tempio e in tre giorni lo risveglierò (“ex-cito” in latino ed “egheiro” in greco)”

 


 

Ma il tempio non è il tempio….

Chissà se il Tempio di Gerusalemme non siano le nostre vite prefabbricate da altri.

Chissà se ogni giorno non ci adattiamo ad architetture e frequentazioni scelte da altri per avere una vita serena e facile da giustificare?

Luoghi belli, per carità, se no non ci staremmo con tanto piacere:

luoghi di grande socievolezza, con una architettura precisa e determinata, luoghi saldi che da sempre sono stati a quel modo, dove ci sono mercanti, animali, dove passa un sacco di gente, dove sono gli amici e i colleghi… bei luoghi dove passare le giornate, luoghi dove non può accadere nulla di brutto o di peggio di quello che sono…

Salvo se non si decide un giorno di buttare giù i banchi e far scappare gli animali in gabbia… ma quello poi è un altro discorso…

Sì perché se si ascolta la parte di noi che non ha paura, sarebbe anche bello abitare degli spazi scelti da noi.

Luoghi nei quali entrare da dove piace a noi: dall’alto, dal basso, da metà…

Arricchite dai nostri desideri: chissà se quel quadro che ci piace tanto parla davvero di noi o di un architetto molto informato e alla moda?

Chissà se le persone con cui usciamo ci piacciono davvero o sono solo socialmente convenienti?

Chissà se l’oggetto che desideriamo ha davvero a che fare con noi o vuole solo creare una immagine di noi?

Chissà se i viaggi che facciamo ci portano davvero nei luoghi che desideriamo conoscere?

Chissà se la ricerca del nostro fine ultimo può salvare noi o arricchire qualcun altro…

Chissà se la mia vita è davvero la mia o quella di qualcun altro,

chissà se i miei desideri sono i miei o quelli di qualcun altro,

chissà se i miei comportamenti sono i miei o quelli di qualcun altro,

se il mio modo di pensare, di scrivere, di farmi domande siano i miei o no.

Chissà se il tempio di Gerusalemme non debba davvero essere distrutto e fatto risorgere dalle nostre coscienze?
Un po’ come Adamo che deve mangiare la mela,

come Lucio che deve spiare attraverso la porta (cfr. l’Asino d’oro di Apuleio)

come la giovane sposa di Barbablù che deve usare la chiave

come Osiride che doveva essere smembrato per guadagnare la nuova signoria

Chi vuol progredire, distrugge i templi.

I templi sono i nostri luoghi, le nostre vite, quelle che non ci somigliano più e alle quali, spesso ci siamo adattati.




Libertà di parola

“Non userò il vostro vocabolario per descrivere la mia vita.
Non farò decidere alle vostre parole il mio futuro.
I miei sogni non saranno i vostri desideri e i miei viaggi non mi lasceranno chiusa a credere che le vostre paure siano coraggio.

Le sociopatie non sottendono il genio ma contengono la miseria.

I miei amici saranno molto più numerosi di me e quasi tutti con opinioni diverse dalle mie.

Userò romanzi, drammi teatrali e poesie per creare il mio glossario, imparerò quante più lingue possibile per descrivere così almeno un pezzo del mio cuore e abbraccerò l’immenso, lontano dai vostri rifiuti a voi stessi.

Se vi dovesse capitare di ricordarvi di voi, abbiatene cura”

Disse.

E così, senza rancore, con una grande gioia nel cuore e libera, spense il computer e volò via.




Sport individuali e spirito di squadra

Come funziona la kick boxing e perché mi ha insegnato un anomalo concetto di gioco di squadra

La kick boxing è uno sport da combattimento individuale.

Nella kick sono fondamentali tre cose

  • tempismo

  • spazio

  • reattività

Nella kick boxing si combatte uno contro uno, nello spazio del tatami, senza uscire, prendendo meno punti possibile e facendone più che si può, parando e contrattaccando, giocando di anticipo e non cedendo mai al dolore.

Nella kick boxing lo scontro è 1 contro 1 ma ogni atleta sfida 5 avversari:

  • sé stesso,

  • l’altro combattente e

  • 3 arbitri che dovranno dichiarare il suo punto.

Nella kick boxing si prendono tante botte, prima, durante e dopo la gara.

Al di là se poi se ne esce campioni o meno, la kick boxing è una allegoria della vita.

Se vuoi vincere devi agire velocemente, nel momento giusto e nello spazio esatto.

Questo e molto altro è quello che insegnano tutti gli sport da combattimento e tutte le discipline marziali

ed è per questo che è importante praticare questo genere di attività.


La kick boxing poi ha anche un altro aspetto che mi piace molto ed è quello delle GARE A SQUADRE.

Nella gara a squadre ognuno combatte contro un avversario dell’altra squadra.

L’ordine viene deciso dalla squadra secondo varie strategie ed è segreto fino al momento in cui si sale sul tatami

questo vuol dire che non saprai chi è il tuo avversario finché non te lo trovi di fronte.

Ogni atleta combatte e accumula punti per la squadra.

Alla fine vince la squadra che ha fatto più punti in tutto.

Questo è quello che ho imparato dalla kick boxing:

La kick boxing è uno sport di squadra anomalo: ognuno gareggia per portare più punti alla squadra e per sostenere col proprio impegno il compagno più debole.

Ogni atleta sa che dovrà lavorare in un combattimento uno ad uno per vincere quell’incontro e per accumulare punti

ma anche per aiutare il compagno che non ne ha fatti abbastanza.

Nessuno può far finta di combattere,

nessuno si può imboscare

ognuno deve essere presente a sé stesso lì e in quel momento e deve rendere conto del proprio contributo alla squadra.

O si vince o si perde e ognuno ne è responsabile.

Si combatte da soli in un’ottica di vittoria comune

questo ho imparato dalla kick boxing.

Questo penso quando penso a un lavoro di squadra:

ognuno combatte il proprio incontro in un ottica di bene comune

ognuno cercherà di recuperare i punti persi dal compagno

ma non potrà combattere al posto suo.