Ignoto Militi: tra storia e simbolismo

Ignoti militi.

Due parole che creano un’aurea attorno a un figura – un mito – che si articola attraverso cent’anni di storia e di celebrazioni che attraversano tutte e tre le fasi dell’Italia unitaria: l’Italia liberale, l’Italia fascista e l’Italia repubblicana.

La storia del milite ignoto inizia nel giugno del 1921, quando si decise di scegliere una salma che rappresentasse tutti i soldati italiani morti, e non indentificati, durante la guerra appena conclusa.

La proposta si tramutò in legge in breve tempo – seppure ci furono delle contestazioni da parte dei socialisti – che portò alla programmazione della scelta della salma fino al traposto di essa all’altare della patria, in vista del 4 novembre, giornata della vittoria italiana sull’esercito austriaco.

Ad Aquileia, la salma venne scelta tra undici soldati italiani non indentificati da una madre – Maria Bergamas – la quale rappresentava tutte le madri italiane che non avevano una tomba dei propri figli su cui piangere.

Dopo un lungo viaggio, costellato da tutta una serie di tappe in diverse città italiane, con relative cerimonie in omaggio alla salma scelta, il milite ignoto arrivò il 2 novembre alla stazione termini di Roma, dove fu accolto in pompa magna da tutte le cariche dello stato, inclusa la famiglia reale, e una rappresentanza di tutti coloro che presero parte al primo conflitto bellico.

Milite ignoto - vignetta satirica

Due giorni dopo – il 4 novembre – la salma del milite fu portata al Vittoriale, monumento inaugurato dieci anni prima, dove dopo una solenne cerimonia il corpo fu tumulato sotto la statua della dea romana – la quale raffigura la personificazione dello stato romano – dove tutt’ora riposa oggi.

Da quel momento il milite ignoto divenne una figura centrale per la pedagogia e commemorazione nazionale; tematiche che vengono raccolte e fatte proprie nell’immediato da parte del regime fascista: nel 1924 il ministro dell’istruzione Giovanni Gentile impose l’obbligo della celebrazione del milite ignoto, sostenendo che: «contribuirebbe ad ispirare negli allievi vivo amore e profonda devozione alla Patria».

Il fascismo non si limitò a usare le due figure – il Vittoriale e il milite ignoto – come figure legate solo a una forma di pedagogia patriottica in ambito scolastico, ma venne usato in una prospettiva più ampia: come “palcoscenico” in un’ottica di manifestazione nazionali – politica introdotta dalla propaganda di regime.

Il fascismo cercò di valorizzare un sentimento patriottico e di “martirio per la patria” attraverso la figura del milite ignoto, attraverso l’uso – come già accennato – di eventi all’altare della patria, l’uso di immagini e video dove ritraevano parate o momenti di commemorazione che si svolgevano al Vittoriale – mostrando sempre in qualche scena il milite ignoto.

A causa dell’uso propagandistico da parte del fascismo dell’altare della patria, di conseguenza anche del milite ignoto, iniziò una lenta decadenza, seppur le celebrazioni da parte delle autorità politiche e militari continuarono per lungo tempo – si voleva tenere in vita il vero valore che quei due luoghi trasmettevano.

Nonostante questo sforzo, l’opinione pubblica si dimostrava contrariata all’uso commemorativo: il ricordo delle folle oceaniche delle manifestazioni fasciste erano ancora vivo nelle mente degli italiani e il sentimento nazionalistico nutrito nel ventennio era del tutto sparito arrivando provare sentimenti di disprezzo.

Questo comporto un oblio verso i veri valori e i caratteri celebrativi che si erano attribuiti al milite ignoto, per questa ragione le celebrazioni erano sempre meno partecipate; tant’è che dopo l’attentato che il Vittoriale ebbe a subire il 12 dicembre del 1969, il luogo venne definitamente chiuso al pubblico per trent’anni, raggiungendo l’oblio da parte degli italiani.

Altra della patria

Con la nomina alla presidenza della repubblica da parte di Carlo Azeglio Ciampi ci fu un recupero dei simbolismi nazionali, che ormai erano completamenti spariti dai cuori degli italiani, cercando di “ricreare” delle commemorazioni che potessero far rivivere quei sentimenti di appartenenza che erano presenti in altri paesi – come ad esempio in Francia.

Da questo desiderio si ripresero tutte quelle festività nazionali – come il 4 novembre – o celebrazioni che potessero ricreare questi sentimenti; tra questi vi era anche la resa omaggio del milite ignoto.

Seppur questa visione di recupero dei sentimenti nazionali è stata a lungo messa in discussione, quasi ostacolata, da molte forze politiche – soprattutto di matrice secessionistica che hanno cercato di rimarcare la non necessità di ripercorrere questa forma di pedagogia nazionale.

Nonostante ciò, un effimero recupero di questi sentimenti fu fatto e nel corso degli anni 10 del nuovo millennio ci furono diverse commemorazioni in cui si vide protagonisti diversi simboli, tra cui il milite ignoto – in sinergia con altare dalla patria.

Un esempio lo possiamo trovare nella commemorazione che si tenne nel 2011 – alla presenza di una folla festosa – all’altare della patria, dove si vide l’effettivo recupero dei valori originari del 1921: il sentiero di identificazione nazionale verso un luogo e una figura.

Il recupero della celebrazione al milite ignoto ha comportato di conseguenza il ripristino di tutta una serie di elementi, che per le ragioni che abbiamo già trattato poco fa, furono del tutto dimenticati. La resa omaggio al milite ignoto si individua tre date chiave: il 25 aprile, il 2 giugno e il 4 novembre – in forma eccezionale il 17 marzo 2011.

La cerimonia prevede di rendere omaggio al milite ignoto appoggiando sulla tomba una corona d’alloro da parte del capo di stato – in questo caso il presidente della repubblica – “affiancato” da tutte le alte cariche dello stato (il presidente del consiglio, il presidente del senato, il presidente della camera e il presidente della Corte costituzionale) e da una rappresentanza dei corpi militari assieme alle relative alte cariche militari.

il presidente Mattarella rende omaggio al milite ignoto

Rispetto alla prima fase della storia del milite ignoto, dove esso rappresentava il sacrifico dei soldati italiani morti durante la prima guerra mondiali, ora la salma del soldato non indentificato rappresentata tutti soldati italiani che sono morti per conto dell’Italia.

In conclusione, si può affermare con certezza che il milite ignoto ha lasciato alle sue spalle il proprio oblio che aveva attraversato nel secondo dopo guerra, riportando un interesse sempre maggiore da parte degli italiani; seppure non raggiungendo lo stesso livello di sentimento patriottico che possiamo trovare in altri paesi, ma un parziale recupero di ciò è stato portato a termine.

Nozza Giorgio.




Abilitazioni in Romania – Il Consiglio di Stato dà ragione ai ricorrenti

Abilitazioni in Romania – Il Consiglio di Stato dà ragione ai ricorrenti: il Ministero deve riconoscere il titolo

Abilitati in Romania – Le Novità dopo la pronuncia del Consiglio di Stato di condanna del Ministero dell’ Istruzione per elusione del Giudicato.

Si aggiunge un nuovo capitolo alla difficile vicenda dei riconoscimenti delle abilitazioni conseguite in Romania.Lunedì 25 ottobre alle ore 16.00 in diretta sul canale youtube BetapressTV, Chiara Sparacio, caporedattore di Betapress.it, chiederà all’Avv.Maurizio Danza Prof. Diritto Istruzione e Ricerca Internazionale ISFOA, di presentare le novità in tema di riconoscimento dei titoli conseguiti in Romania dopo la recentissima pronuncia del Consiglio di Stato che condanna il Ministero dell’ Istruzione per elusione del Giudicato.

Argomenti

Nella diretta si parlerà degli effetti della sentenza anche nei confronti di docenti non compresi nella pronuncia e dei principi del diritto dell’Unione Europea che il Ministero dell’istruzione è tenuto ad applicare con riferimento al riconoscimento dei titoli conseguiti in Romania.

Vi invitiamo ad intervenire con le vostre domande a cui il nostro ospite risponderà in diretta

 




CCEditore supporta Al Zawija per la formazione dipendenti

Sì è conclusa la bella esperienza di due dipendenti della società petrolifera libica Al Zawija venuti in Italia per seguire un corso di specializzazione in Gas Processing and Conditioning.

Si tratta del primo di una serie di corsi che i dipendenti della società petrolifera libica verranno a seguire in Italia.

Tra il 2021 e il 2022 si attendono già più di 200 studenti.

consegna attestati
gli studenti con il presidente di CCEditore prof. Corrado Faletti e la tutor dott.ssa Stefania Pagani

Il merito dell’avviamento di questo percorso va riconosciuto anche all’onorevole Ambasciatore dell’ambasciata di italiana a Tripoli ed a tutti i suoi collaboratori  che nei lunghi mesi di organizzazione hanno seguito le richieste di visto e hanno sempre vigilato e verificato con responsabilità.

Il progetto è il frutto dell’accordo tra il gruppo editoriale CCEditore e la Società Petrolifera libica Al Zawija.

La società petrolifera mette a disposizione dei propri dipendenti  cicli periodici di formazione e aggiornamento presso enti di formazione accreditati in Europa ed in tutto il mondo.

Il corso si è svolto a Milano presso i locali di UniTre.

CCEditore grazie alla sua ventennale esperienza ha potuto mettere a disposizione della compagnia un catalogo con oltre 100 corsi professionalizzanti ed un nutrito gruppo di istituti tecnici con i laboratori di riferimento. 

I prossimi corsi si svolgeranno in diverse regioni italiane e vedranno coinvolte aziende e centri di formazione.

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Finalmente il CSPI riconosce il ruolo dei DSGA facenti funzione!

Il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione ha sentenziato nel suo parere che tutta l’ipotesi di concorso per i DSGA è valida solo se:

In questo quadro, a parere del CSPI, si rende necessario:
• bandire prioritariamente il concorso riservato agli assistenti amministrativi attualmente facenti funzione
di DSGA con almeno tre anni di servizio, ai sensi del DL 29 ottobre 2019 n. 126, convertito nella legge
159 del 20 dicembre 2019. Prevedere l’accesso ad una procedura concorsuale anche di coloro che sono
sprovvisti di titolo di studio specifico modificando quanto previsto dall’art. 22, comma 15 della
L. 75/2017;
• bandire successivamente il concorso ordinario, superando le attuali conseguenze dell’ultimo concorso
che ha lasciato innumerevoli posti scoperti pur se messi a bando.

E finalmente diremmo Noi!!!!

Un’ingiustizia assurda, da Betapress già stigmatizzata più e più volte, viene oggi quantomeno evidenziata in maniera precisa e puntuale dal CSPI.

Era ora che qualcuno osservasse che lo stato non può far lavorare per anni in una funzione delle persone perché gli fa comodo e poi all’improvviso li caccia via e li sostituisce con persone con zero competenza solo perché questi ultimi hanno un titolo di studio!

Come abbiamo sempre osservato, lo Stato non è in grado di valutare le competenze e l’esperienza delle persone, attaccandosi solo ai titoli, senza rendersi conto che ci sono in giro un sacco di laureati ignoranti ed incompetenti, senza alcuna esperienza e, malamente, sono proprio questi che alla fine lo stato assume.

Bravo quindi il CSPI che ha ribaltato questo convincimento che aveva il ministero dell’Istruzione, ovvero che valessero più dei laureati rispetto a persone che da oltre cinque anni svolgono un ruolo importante con passione, ottimi risultati e tante competenze, insostituibili.

Speriamo vivamente che questa indicazione del CSPI venga utilizzata da Ministero, se così non avvenisse noi di Betapress siamo pronti ad utilizzare i nostri avvocati per andare contro ad una decisione che rasenterebbe la stupidità più manifesta.

Tanto si doveva.

Il Direttore Corrado Faletti.

 

Concorso DSGA: diritti negati!!

CONCORSO DSGA, COME SEMPRE UNA VERGOGNA ASSURDA!!!!




La “Macchina Crea Invenzioni” – Creatività e metodologia applicata.

 

Il volume di Alessandro Bolognini “La ‘Macchina Crea Invenzioni’ – Creatività e metodologia applicata” (Giuffrè Francis Lefebvre, 2021, pp. 313), caratterizzato da un’originale contaminazione fra linguaggio artistico e linguaggio rigoroso e sistematico, propone una riflessione – non scevra da possibili utilizzi di tipo operativo/applicativo – sulle modalità attraverso le quali la dimensione creativa trova concretamente riscontro non solo nell’ambito espressivo ma anche in quello più propriamente metodologico. 

 

Dopo aver analizzato il ruolo della creatività nelle tesi dei principali autori contemporanei ed aver sviluppato – anche alla luce dell’esperienza personale dell’autore – la conoscenza del rapporto tra creatività ed arte, il volume approfondisce alcuni significativi aspetti dell’utilizzo della dimensione metodologica sul piano operativo.

 

Questi ultimi sono affrontati in dettaglio sia attraverso il ricorso ad elementi al tempo stesso logici ed intuitivi sia attraverso il riferimento a prassi mutuate dal calcolo combinatorio sia prestando particolare attenzione alle modalità espressive della metodologia sul piano applicativo.

 

 

Alessandro BOLOGNINI – Università degli Studi eCampus; è autore di contributi nel campo del management e delle tecniche di applicazione del linguaggio espressivo nel settore del pensiero creativo e delle sue valenze sociali, socio-economiche e formative. Tra le sue pubblicazioni si segnalano: “Smart leadership e organizzazioni di volontariato” (Armando Editore, 2019); “Test di A. Bolognini – Arte e counselling: costruzione di uno strumento di lavoro e suo utilizzo nel campo sociale” (Giuffrè Francis Lefebvre Editore, 2019); “Tecnointrusività tra ricerca, etica e diritto” (Giuffrè Francis Lefebvre Editore, 2021).

 




Figli di Carta

5+1 domande all’Autrice e Interprete Maribella Piana.

Scrittrice di grande qualità e sensibilità, seguita da un pubblico sempre più ampio, rappresenta mirabilmente le energie, le passioni, i palpiti e la stessa ricca – e troppo spesso – poco conosciuta Storia della Terra di Sicilia.

Quando è iniziata la sua passione nello scrivere?      

La scrittura e il teatro sono le mie due vere, grandi, passioni. Solitaria l’una, rivolta al pubblico l’altra. Non credo di aver mai ‘iniziato’ a scrivere, così come ho sempre recitato. Dal momento in cui ho scoperto che quelle formichine sulla carta potevano diventare nomi, sentimenti, sogni, me ne sono innamorata. Le vedevo prendere vita, emanare suoni, colori e mi piaceva comporle, disporle, far loro assumere significati e sfumature diverse. Comunicare per me significa questo. A teatro ho la possibilità di vivere tante vite, trasformandomi nei vari personaggi che interpreto. Nella scrittura sono i personaggi che entrano in me e vivono accanto a me, raccontandomi le loro storie.

Per lei scrivere è solo un piacevole hobby?

Inesatto definire la scrittura un hobby, se per hobby si intende un piacevole passatempo che ti rasserena e ti rilassa. La scrittura è piuttosto una necessità che a volte diventa dura e difficile da affrontare, come tutto quello che è necessario fare. La paragono all’atto meraviglioso del partorire un essere vivo, dopo una lunga gestazione fatta di riflessione e di ricerca, quando la felicità e la soddisfazione di aver creato qualcosa spazza via ogni traccia di sofferenza. Non per niente chiamo i miei libri ‘i miei figli di carta’.

Ci sono argomenti che preferisce trattare, più di altri?

Non ho mai scelto aprioristicamente l’argomento di un mio romanzo o il periodo in cui ambientarlo. Per quanto possa sembrare strano la scrittura per me ha un aspetto un po’ magico, paranormale quasi. Un’immagine, un fotogramma, un’espressione di un viso mi vengono in mente e cominciano a crescere. I protagonisti vivono la loro vita senza che io possa in qualche modo influenzarla tanto che non so mai quale sarà la fine della storia che racconto. Sono persone non personaggi perché non riesco ad inventare nulla che non abbia radici nella realtà. Quando mi chiedono se un mio scritto è autobiografico rispondo naturalmente di sì perché tutto quello che scrivo è fatto di pezzi di vita che conosco, che ascolto, e che si mescolano in una specie di caleidoscopio. Che una storia sia ambientata nel passato o nell’età contemporanea non fa molta differenza. A me interessa indagare il comportamento delle persone, originato da sentimenti e pensieri che sono comuni a tutte le epoche ma che si declinano diversamente a seconda dell’ambiente e delle situazioni storiche.

Quali i suoi romanzi precedenti e quali gli impegni attuali?

Ognuno dei miei libri mi ha lasciato, una volta finito, un senso di vuoto. Per questo ho sentito la necessità di affrontare un nuovo impegno, un nuovo studio, perché lo scrivere è una forma di studio, dell’uomo, della società, della psicologia umana. Nel primo – ‘I ragazzi della piazza’ – ho cercato di far rivivere l’atmosfera degli anni ’60, su cui tanto si è scritto, attraverso la mia esperienza e quella di coloro che li hanno vissuti. In un altro – ‘Cielomare’ -, in cui i due elementi del titolo si incontrano e si scontrano, emerge lo scontro, violento e doloroso, di giovani contro un destino beffardo che colpisce alla cieca. Progetti? Tanti, in questo momento anche di teatro e di televisione, e riempiono le mie giornate. Dopo ‘Il commissario Montalbano’ ho girato alcuni episodi di ‘Makari’ la nuova serie di RAI 1, un film sulla situazione dei migranti e un documentario sulla mia terra. La strada non è ancora finita.  Per quanto riguarda la scrittura vorrei allargare gli orizzonti dei miei scritti precedenti, arrivando fino ai nostri giorni, con storie e personaggi che vivono nella nostra terra, magica e demoniaca, dolce e terribile, una terra stretta fra i due mostri del vulcano e del mare, che ci assalgono ma anche ci nutrono. Una ispirazione continua.

Leggere i suoi scritti o assistere a una sua performance, quali sensazioni suscita nei lettori e nel pubblico?

Vorrei essere una mosca per spiare le reazioni di chi legge un mio scritto. La lettura è un innamoramento e come tale, inspiegabile. Posso solo promettere ad un eventuale lettore che nelle mie pagine troverà una voce vera, che parlerà anche di lui, che gli svelerà un angolo nascosto di sé che non pensava di conoscere, e che leggendo proverà emozioni e sentimenti vivi come nella realtà, come avviene nei sogni.

Ci parli del suo ultimo, recente, romanzo: LA MALAEREDITA’.

Nel mio ultimo romanzo ‘La Malaeredità’, mi sono immersa in un passato abbastanza vicino che da giovane consideravo noioso inutile e polveroso. Poi, attraverso lettere e documenti da cui emergevano vicende intense e disperate, intrecciate agli avvenimenti politici e sociali della Sicilia di quel periodo, ho ricostruito storie che sarebbero andate perdute, come lo sono cento altre storie di cui non possiamo conservare memoria. I fatti narrati sono realmente accaduti, i palazzi e le campagne che fanno da sfondo sono ancora oggetto di meravigliate visite turistiche. Pur essendo stato pubblicato in piena pandemia, questo romanzo mi ha dato molte soddisfazioni per i riscontri ottenuti dai lettori e dai critici e per alcuni premi letterari, come il concorso internazionale Città di Cattolica. Andare indietro nel tempo è come sottoporsi ad una seduta di ipnosi, che ti insegna a conoscerti, ad accettarti, anche affrontando qualche luogo oscuro della mente. Mi sono dovuta scontrare con le ingiustizie e i pregiudizi di una società che stava celebrando senza saperlo la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova. Per comprendere meglio la grande storia è necessario indagare le vite private di coloro che l’hanno interpretata, senza mai avere la pretesa di giudicare buoni e cattivi.

Grazie alla Scrittrice Maribella Piana per questa intervista!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giuseppe Bellantonio

 




Cercasi eroi civili disperatamente, Ed Snowden, l’ultimo film di Oliver Stones.

 

Cercasi eroi civili disperatamente, Ed Snowden, l’ultimo film di Oliver Stones  
L’ultimo film di Oliver Stones, nelle sale nel mese di dicembre, racconta il coraggio umano e civile di un geniale ingegnere informatico americano, che dopo aver lavorato per la CIA e per la National Security Agency (NSA) con incarichi di rilevanza strategica, decide di denunciare alla stampa gli abusi e le violazioni del sistema di sicurezza americana, che con la scusa della tutela della sicurezza del paese dalla minaccia terroristica, porta avanti programmi di sorveglianza di massa fortemente invasivi con i quali monitora la vita di milioni di cittadini americani a loro totale insaputa, violando ogni diritto sulla privacy ed utilizzando le informazioni acquisite per finalità contrarie allo stato di diritto.

Il giovane Snowden, inizialmente dotato di una buona dose di fanatismo ideologico nella fiducia della superiorità delle scelte del proprio paese e della sua naturale appartenenza alla schiera dei paladini del bene e dei difensori della democrazia nel mondo, a poco a poco si ricrede quando scopre la irresponsabilità e la leggerezza con la quale le informazioni illecitamente raccolte ed elaborate dai sistemi di sicurezza e di sorveglianza vengono usate per uccidere bambini inermi che stanno usando un cellulare considerato sospetto, per ricattare persone, per spiare illecitamente milioni di americani, per influire sulle scelte politiche di altri stati.

Il film ha la struttura narrativa di una biografia che ricostruisce nove anni di vita di Ed Snowden ed il percorso che lo porta alla decisione di denunciare gli abusi del suo paese, dando risalto alla sua relazione d’ amore con Lindsay Mills, che ha avuto una parte fondamentale nella sua decisione di ribellione civile.

Come in molti altri films di Oliver Stones la biografia è un contenitore al cui interno si sviluppano altri generi, la storia d’amore, il thriller mozzafiato, ma soprattutto essa permette al regista di costruire un film di denuncia potente su un tema che molto spesso è stato sempre nascosto, anche dai media, nel nome del presunto superiore interesse alla sicurezza nazionale.

Il film svela la capacità manipolatoria e mistificatoria del potere, che anche ove democraticamente eletto, agisce a volte al di sopra della legge e del mandato degli elettori, incurante degli effetti collaterali dei comportamenti adottati per perseguire gli interessi delle lobby e dei gruppi di pressione, ma sempre pronto ad ammantare le azioni più nefande e spietate con la retorica della difesa della libertà e della democrazia o in alcuni casi ad ammettere logiche di puro delirio o di crimine contro l’umanità, come quando un autorevole esponente dell’amministrazione americana ammise in un’ intervista che era valsa la pena provocare la morte di cinquecentomila bambini con le sanzioni all’Iran.

Di fronte a queste derive di alcune democrazie occidentali ed alla violazione dei diritti dell’umanità Ed Snowden ci mostra cosa occorre fare, (“Sta succedendo qualcosa di troppo sbagliato nel sistema ed io non posso più accettarlo, il mondo deve saperlo“), anche se il prezzo da pagare in termini personali sarà per lui altissimo.

Il film, con una tensione narrativa altissima dall’inizio alla fine, ci mostra come il coraggio civile e la ribellione democratica siano gli strumenti più efficaci nelle mani dei cittadini per rendere migliore il mondo in cui viviamo.

 

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Stefano Delibra Critico Cinematografico di Betapress
Stefano Delibra Critico Cinematografico di Betapress




Vita Activa, ovvero c’è ancora vita pensante sul suolo italiano

Vita Activa, ovvero c’è ancora vita pensante sul suolo italiano

La prima cosa che mi ha sorpreso di questo impegnativo ma remunerativo film è stata la fila, quasi una ressa, che ho trovato alla biglietteria.

l,Ho mancato il sold out per poco!

Questo mi aiuta a pensare che il ventennio berlusconiano e quello che ne è seguito non siano ancora riusciti a schiantare la testa degli italiani.

Almeno una sparuta minoranza resiste e si era data appuntamento nella sala del cinema Oberdan di Milano qualche sera fa, per seguire un documentario di più di due ore sul pensiero della grande filosofa tedesca Hannah Arendt, per la regia di Ada Ushpiz. 

Vita Activa, the spirit of Hannah Arendt è un film molto diverso dal bellissimo film di Margarethe Von Trotta del 2012 ed interpetato da Barbara Sukowa nella parte di Hannah Arendt.

E’ molto diverso per la tecnica narrativa, per il genere, per il ritmo della narrazione ma al tempo stesso è fortemente complementare per la conoscenza del pensiero della filosofa ebrea tedesca e  soprattutto per la comprensione delle fortissime controversie che originarono dal suo reportage del processo ad Adolf Eichman, primo processo a svolgersi contro i crimini contro l’umanità e dalla sua originalissima ed innovativa analisi sulla natura psicologica del male, esposta nel suo libro “La banalità del male”.

Quando fu pubblicato nel 1966 il suo libro scatenò una reazione violenta sia per le tesi originali sulla qualificazione del male sottostante al fenomeno nazista sia per la chiamata di corresponsabilità che la Arendt fece nei confronti dell’operato dei dirigenti delle comunità ebraiche e dei Sonderkommando, sostenendo senza mezzi termini che la macchina dello sterminio non sarebbe stata così efficiente ed efficace se alcuni di loro avessero collaborato con minore zelo.

Anche il concetto di banalità del male, intriso di profondo significato filosofico, fu inteso dai più come una svalutazione delle atrocità e dei crimini commessi dai nazisti e provocò, nonostante i ripetuti tentativi della filosofa di precisarne l’esatto significato, contestazioni molto forti da parte della comunità ebraica.

Non posso fare a meno di ricordare, a tale proposito, una scena bellissima per intensità e passione, del film sopra citato della Von Trotta, dove la filosofa spiega ai suoi studenti il significato che attribuiva alla formula utilizzata e perché considerava quel male banale, chiarendo che la banalità era dovuta al fatto che esso era frutto dell’operato di persone normali, che a casa conducevano esistenze ordinarie, ma inserite in una burocrazia spietata all’interno della quale erano incapaci di rifiutarsi di compiere azioni atroci e di far prevalere la voce della propria coscienza sul principio di obbedienza e di esecuzione acritica del proprio dovere.

Il documentario racconta la vita privata ed intellettuale della Arendt, non meno controversa delle sue idee sulla banalità del male, mostrando anche i luoghi dove la filosofa ha vissuto e lavorato e dando spazio alla sua relazione con il filosofo Martin Heidegger, noto sostenitore del nazismo e offre a chiunque sia appassionato della storia del XX secolo spunti di approfondimento e riflessione profondi anche sulle questioni politiche del presente, relative al rafforzamento dei nazionalismi e dei populismi, alle tendenze isolazioniste, al rinascere di tendenze contrarie alla società aperta, alla condizione dei rifugiati  gli atteggiamenti ostili che molti paesi stanno adottando nei confronti dei rifugiati.   

Non era facile realizzare un documentario su questioni filosofiche così impegnative senza perdere il ritmo narrativo e senza rischiare di annoiare lo spettatore.

Fermo restando la difficoltà della materia e l’impegno richiesto la regista è riuscita nello scopo alternando in modo creativo interviste, spezzoni di film di epoca, lettura di lettere. 

 

Stefano Delibra Critico Cinematografico di Betapress




LORO 2: la corazzata kotiomkin.

Loro, l’epilogo tra le macerie del terremoto del racconto sorrentiniano

Bastano la prima e l’ultima scena della seconda parte del film Loro per dare il senso dell’intera opera e rimettere in fila i pezzi significanti della narrazione cinematografica di Sorrentino.

La seconda parte di Loro si apre con il dialogo tra Silvio e Ennio che lodano le rispettive capacità di saper persuadere la gente e vendere sogni alle persone. Dal dialogo nasce l’idea per riportare Silvio al centro della scena politica italiana, quella di comprare 6 senatori della sinistra e far cadere il governo per andare a nuove elezioni

Il film termina con una scena quasi religiosa e che rende omaggio alla Dolce vita di Fellini: una folla disperata e addolorata, immersa in una oscurità quasi medioevale ed in un silenzio metafisico assiste all’opera di recupero, attraverso una gru, di una statua del Cristo morente dall’interno di una chiesa sventrata dal terremoto dell’Aquila.

La sequenza fonde insieme due eventi tragici e comunica un senso di disperazione e  di sgomento che sintetizza il messaggio finale del film.

La statua che viene spostata mentre è appesa ad una gru ricorda la scena del trasporto volante nella Dolce Vita e genera un immediato accostamento tra la dolce vita felliniana e la finta vita berlusconiana.

Mentre nella dolce vita spiccava nei diversi personaggi l’ansia dovuta alla mancanza di autenticità della propria esistenza ed al bisogno di recuperare modelli di riferimento ideale a cui tendere che nel film erano indicati in modo netto, nella finta vita del Berlusconismo, fatta di sogni consumistici e di esteriorità, di distopie e di disvalori, di sostituzione del consumo dei beni al valore dei sentimenti umani, di egoismo ed edonismo i comportamenti di Silvio e della sua corte non compaiono come frutto di devianza dal bene e dal giusto, ma come nuovi codici morali autofondati, sia perché non generano reazioni di ansia o insostenibilità ma totale e indiscusso compiacimento, sia perché manca qualsiasi contrapposizione, anche solo sfumata, ad un modello totalmente altro.

La vita autentica, secondo il Silvio pensiero rappresentato nel film, è proprio questa e la sua missione, da uomo di affari prima e da leader di governo poi, è di permettere a più italiani possibili di sognarla prima (ruolo perfettamente svolto dalle sue televisioni commerciali) e di riuscire a viverla subito dopo.

Anche se il regista non rappresenta alcuna forma di riprovazione nè contrapposizione di modelli alternativi esprime, tuttavia, con immagini e con una metafora potentissima dove questa filosofia ha condotto la società italiana e le persone; il berlusconismo è associato nelle ultime scene del film ad un terremoto devastante che distrugge una intera comunità ed i valori su cui era fondata, primi fra tutti quelli del cristianesimo (irriso anche con una barzelletta nel corso della cena con le Olgettine nella Villa in Sardegna) e dei valori civili di onestà e di rettitudine morale per i quali tanti italiani hanno lottato con sacrifico anche estremo durante e subito dopo la guerra.

Ugualmente frana la finta vita privata di Silvio, incentrata sulla forza della persuasione e della manipolazione, che lo porta al definitivo fallimento del suo rapporto con Veronica, qui usato come metro di misura della sua autenticità di uomo.

La scena della resa dei conti tra i due mette a nudo la infondatezza dei racconti ideologici che Silvio ha sempre propinato alla società italiana (il mito del self made man, del creatore di ricchezze e di benessere per tutti e così via) così come il vuoto morale ed etico del Berlusconismo è espresso da una frase pronunciata da Paolo Spagnuolo che definisce Silvio un ruscello che scorre e porta freschezza.

Come già detto nel primo articolo, manca nel film qualsiasi riferimento al terzo soggetto, il Noi, che pure ha avuto un ruolo non secondario nel permettere tutto ciò e che forse è nascosto soltanto nel lungo piano sequenza conclusivo sui volti dei pompieri affaticati che estraggono il Cristo dolorante dalle macerie. Solo a Noi può spettare un’azione di riscatto e di ribellione contro quel mondo rappresentato che a molti di noi fa sempre più schifo

 

 

 

 




I Figli della Notte

 

L’esordio alla regia di Andrea De Sica, figlio del compianto Manuel e nipote del grande Vittorio, con il film “I figli della notte”, unico film italiano in concorso al 34° Torino Film Festival, è autoriale e audace e riesce a fondere insieme con abilità e tensione narrativa costante generi diversi, che spaziano dal romanzo di formazione al thriller.

Il film, uscito in distribuzione solo in una trentina di sale, racconta l’esperienza di due rampolli benestanti della borghesia imprenditoriale italiana che, contro la loro volontà, vengono iscritti in un collegio prestigioso ed austero, che ha il fine di preparare la nuova classe dirigente con metodi duri e militareschi per sfornare  manager disumanizzati e pronti ad esercitare senza esitazioni il cinismo che il loro ruolo nel mondo esigerà.

Giulio, molto più compatibile e predisposto alla vita che il sistema degli adulti sta preparando per lui, viene subito attratto da Edo, molto più fragile e ribelle, confuso e tormentato dalle scelte da compiere nella propria vita.

Insieme si oppongono al bullismo ed ai metodi formativi della scuola e cominciano a frequentare di notte un bordello avvolto da atmosfere gotiche ed horror, comunque sotto il controllo vigile del “grande fratello” del collegio a cui nulla sfugge, impersonificato dall’educatore Mattias, che “non li spia, ma impara a conoscerli”.

Il film si apre con due inquadrature molto originali ed anticipatorie dello sviluppo narrativo e drammaturgico della trama, perché svelano sin dall’inizio il continuo e sotterraneo contrasto tra gli opposti valoriali sul quale il film è costruito, reso cromaticamente con il continuo alternarsi di luce e oscurità.

La prima inquadratura è inondata di luce bianca ed in un angolo fuori centro compare sfuocato il volto di Giulio, uno dei due protagonisti.

La seconda, immersa nell’oscurità, lo riprende di nuca mentre parla con la madre che lo saluta, madre che non compare mai nel resto del film e di cui ogni tanto si sentirà la voce.

Il dissidio centrale sul quale il film si sviluppa è rappresentato dal dramma della scelta che ogni adolescente si trova a vivere quando si affaccia sul liminare della vita adulta: accettare il ruolo che la società degli adulti sta preparando per lui ed i necessari compromessi tra aspirazioni ideali e sogni ed il cinismo che sarà richiesto della vita reale o scegliere una via di fuga, anche quando il prezzo della fuga può essere molto alto? Non è forse un dilemma che, in forme diverse, si presenta nella vita di ciascuno, non solo nell’adolescenza?

Man mano che il film va avanti le scelte ed i comportamenti dei due protagonisti divergono progressivamente fino a rappresentare quasi i due poli opposti di scelte esistenziali tra coraggio e viltà, tra fedeltà romantica ai propri ideali e pragmatismo opportunistico, tra altruismo ed egoismo, tra individualismo e massificazione acritica, tra accettazione rassegnata del proprio destino e fuga a qualsiasi costo.

Un punto di forza del film sta nella rottura delle attese che provoca nello spettatore, perché esso non prende posizione, non esprime alcun giudizio etico o morale sui fatti che racconta e sui diversi comportamenti dei due protagonisti.

Un punto di debolezza si trova, invece, nel fatto che lo sviluppo narrativo è reso meno lineare dall’inserimento improvviso di elementi di parapsicologia, che ricordano le atmosfere stranianti di Lynch, che confondono la comprensione del comportamento di Edo e del significato del suo gesto finale, che sembra dettato più da disturbi psichici che dal suo senso di ribellione.

Giulio, invece, alla fine rappresenterà il “prodotto migliore” del collegio e sorprenderà lo spettatore nella parte finale del film con un comportamento scaltro e spiazzante, ma complementare ed opposto rispetto a quello del suo coetaneo, rivelando la sua vera natura, già irrimediabilmente corrotta dal fascino del denaro e del successo sociale, al quale vende la propria anima senza particolari lacerazioni interiori.

La regia del film riesce ad esprimere con le immagini sia la sospensione di giudizio etico e morale che il film lascia irrisolto sia la diversità di sensibilità, di valori e di destino dei due protagonisti attraverso l’alternanza tra luce ed oscurità, tra i campi lunghi della natura alpina ed i primi piani dei protagonisti senza profondità di campo,  tra la musica straniante (composta dal regista) ed i pezzi solari (Vivere, Ti sento), tra la location del collegio (un albergo dismesso immerso in una valle alpina) e gli interni geometrici e nevrotici dei corridoi (il riferimento a “Shining” è evidente)

Nel complesso un film bello e da vedere, soprattutto per riflettere sui cambiamenti della società degli ultimi 50 anni e magari per domandarsi in che rapporto siano I figli della notte di Andrea De Sica con La mejo gioventù di Marco Tullio Giordana.

 

Stefano Delibra Critico Cinematografico di Betapress