UKraina, mon amour…

FACCIAMOCI DUE DOMANDE...

Per capirci bene, e per evitare di tifare per questo o per quello, facendoci intortare ancora una volta da chi pensa che si debba accettare di tutto ‘a scatola chiusa’, è utile che si sappia il valore dell’Ukraina.

Ossia, quanto valga in termini economici questo Paese.

Ecco la sua attuale posizione in termini produttivi:

Prima in Europa per comprovate riserve di minerali di uranio.

Seconda in Europa e 10°nel mondo per riserve di titanio.

Seconda al mondo per riserve di manganese (2,3 miliardi di tonnellate, ossia il 12% delle riserve mondiali).

Seconda al mondo per riserve di minerale di ferro (stima: 30 miliardi di tonnellate).

Seconda in Europa per riserve di minerale di mercurio.

Terza in Europa e 13° nel mondo per riserve di shale gas (22 trilioni di metri cubi).

Quarta al mondo per valore complessivo delle risorse naturali.

Settima al mondo per riserve di carbone (33,9 miliardi di tonnellate).

Grazie a questi asset strategici, l’Ucraina ha sviluppato una produzione metallurgica molto intensa: attrezzature per fabbriche e miniere, trasporti ferroviari, navi, attrezzature agricole,  ecc.

Non dimentichiamo però la vocazione agricola dell’Ukraina, un tempo ancor meglio nota come ‘il granaio d’Europa’, non senza sottolineare che l’Ukraina può soddisfare il fabbisogno alimentare di 600 milioni di persone:    
Prima in Europa per superficie dedicata al seminativo.
Terza al mondo per superficie di ‘suolo nero’ (pari al 25% del volume mondiale).
Prima al mondo per esportazioni di girasole e olio di girasole.
Seconda al mondo nella produzione di orzo e 4° al mondo per esportazioni di orzo.
Terza al mondo per produzione e 4° per esportazioni di mais.
Quarto produttore mondiale di patate.
Quinto produttore mondiale di segale.
Quinta al mondo per produzione di api (75mila tonnellate).
Ottava nel mondo per esportazioni di grano.
Nona al mondo nella produzione di uova di gallina.
Sedicesima nel mondo per l’esportazione di formaggi.

Ma l’Ukraina è anche un Paese industrializzato, basta vedere questi dati:
Prima in Europa nella produzione di ammoniaca.
Secondo e Quarto sistema d’Europa di gasdotti naturale più grande d’Europa e al mondo (142,5 miliardi di metri cubi di capacità di flusso di gas nell’UE).
Terza in Europa e 8°al mondo per centrali nucleari installate.
Terza in Europa e 11° nel mondo per lunghezza della rete ferroviaria (21.700 km).
Terza al mondo (dopo Stati Uniti e Francia) nella produzione di localizzatori e apparecchiature di localizzazione.

Terza al mondo per esportazione di ferro.

Quarta al mondo per l’esportazione di turbine per centrali nucleari;
Quarto produttore mondiale di lanciarazzi.

Quarta al mondo nelle esportazioni di argilla.
Quarta al mondo nelle esportazioni di titanio.
Ottava nel mondo per le esportazioni di minerali e concentrati ferrosi.
Nona al mondo per le esportazioni di prodotti e componenti per l’industria della difesa.
Decimo produttore di acciaio al mondo (32,4 milioni di tonnellate).

 

Siamo ancora sicuri che tutti i ‘nuovi e premurosi amici’ che le stanno intorno siano disinteressati e vogliano solo agevolarne libertà e democrazia?

O hanno ben altre mire, forse ambendo a mettere le mani anche su queste non indifferenti risorse?

Riflettere e porsi due domande, non fa male.

 

Giuseppe Bellantonio




L’emozione del passaggio generazionale

Le nuove generazioni oggi chi sono?

Cosa intendiamo veramente quando parliamo di nuove generazioni?

Cerchiamo di capire i riferimenti per cui definiamo una generazione nuova: il primo riferimento è sicuramente quello anagrafico, una volta si andava per classi di leva, i coscritti di una classe di leva definivano la nuova generazione, sopra o sotto l’età del militare, perché questo periodo coincideva con l’uscita dalle famiglie; un’uscita non tanto fisica ma certo mentale, l’età adulta coincideva con l’autonomia decisionale, lavoro, militare o università che fosse.

Un riferimento importante e preciso, puntuale come la mezzanotte, di fronte al quale il soggetto giovane aveva poche possibilità di fuga: un appuntamento irrinunciabile per ogni generazione che si preparava a prendere il comando del paese e del mondo del lavoro.

Era come il ballo dei debuttanti, o ci arrivavi con vestito sistemato e sapendo ballare almeno un pochino o facevi la peggior figura della tua vita, rischiando di essere additato per sempre come lo sfigato di turno.

Oggi questo riferimento temporale è sparito!

Non esiste più fagocitato dalla incapacità di definire dei limiti e dei traguardi o quantomeno degli obiettivi generazionali.

È sparita anche la prova di mezza via, ovvero l’esame di maturità, al quale si arrivava con un lavoro duro e complesso che formava il carattere e dava i primi elementi di impostazione dell’età adulta.

Il secondo riferimento era, in forma aulica, l’uscita dalla famiglia, la presa di coscienza di responsabilità sociali che obbligavano ad una partecipazione alla vita attiva in qualità di individuo partecipante e non di famiglio.

Il cosiddetto passaggio da figlio a padre, o da figlio a lavoratore, insomma un passaggio che caricava di responsabilità sociali e professionali.

Questo passaggio oggi non identifica più una generazione perché avviene in periodi asincroni ed è trasversale su più generazioni, distruggendo quell’unità di classe che era invece il nerbo della società degli anni scorsi.

Il terzo riferimento è un riferimento prettamente storico, non temporale, ma legato ad un particolare momento storico del paese (gli anni di piombo, mani pulite, le varie crisi petrolifere e legate a guerre più o meno mondiali).

Oggi possiamo dire che rimane unicamente il terzo riferimento, ma che slegato dai due precedenti diviene pericolosa accozzaglia generazionale.

Non possiamo però dimenticare che oggi esiste un terribile spartiacque generazionale che si identifica nel progresso tecnologico, il cosiddetto momento della generazione digitale.

È un pericoloso momento di incomunicabilità che apre spazi a terribili scenari involutivi nel rapporto tra generazioni.

Ormai ci sono, nell’immaginario collettivo, i vecchi che non sanno usare i social ed i giovani che ne sono avidi consumatori.

Tragico! Soprattutto perché falso come i social di cui si parla.

Falso perché ormai diamo per scontato che se un individuo è sotto i trent’anni è un esperto digitale, cosa assolutamente non vera: noi ci dimentichiamo che la nostra crescita nei confronti di realtà virtuali si basa su una formazione particolare e soprattutto classica, legata alla lettura e non allo scorrere un PDF, legata alla discussione verbale tra pari e non alla chat senza riferimenti identitari corretti.

Oggi la generazione adulta può affrontare i mondi social con il giusto distacco perché viene da un momento di socializzazione reale e fisico, in cui si sono creati gli anticorpi di un vivere sociale effettivo, legato anche ad un confronto “operativo”, in cui metterci la faccia non era un’espressione idiomatica, ma una realtà in cui la faccia riceveva anche le sue sonore sberle.

Allora quale può essere la “nuova generazione”, quella dei social?

Ammesso e non concesso dove abbiamo messo l’asticella della adultità in questa generazione, sai usare i social sei adulto?

No, certo che no, non è possibile che uno strumento definisca una maturità, non è possibile pensare che la capacità di utilizzo o la sua conoscenza identifichi una generazione.

In cosa la generazione dei nativi digitali dimostra la sua maturità?

Perché abdicare così velocemente la definizione di una nuova generazione lasciandola al semplice profilo tecnologico della stessa?

La maturità, che dovrebbe essere caratteristica dell’attuale generazione adulta, dovrebbe muoverci verso la definizione di obiettivi per la generazione che segue.

Attenzione obiettivi che devono essere di alto livello, per non incappare nel vincolo generazionale in cui si giunge poi alla rivoluzione generazionale e si ha una crisi sociale.

Come possiamo riprendere il controllo su una generazione multiage in cui non troviamo una definizione specifica ma un caleidoscopio di emozioni ancora non incanalate in obiettivi?

Ora viene spontaneo chiedersi quali obiettivi proporre; lavoro, multicultura, futuro familiare, stabilità economica…

Ormai non abbiamo credibilità per proporre obiettivi che la nostra società ha distrutto vivendo al di sopra delle proprie possibilità, dobbiamo proporre obiettivi etici alti, per poter fare un downsizing del nostro vivere comune; dobbiamo passare da una cultura del bene materiale ad una cultura del bene immateriale, identificando nel personale sviluppo di una identità etica il vero obiettivo per queste generazioni.

La prima fase è certamente ricostruire una scala di valori che esca dalla semplice emozione dell’accumulo per trasformarsi nell’emozione dell’accogliere.

L’emozione dell’accumulo guida al bene materiale fingendo un appagamento nel suo possesso, che può essere solo momentaneo e non completo anche perché il bene materiale è per sua definizione soggetto a decadimento ed obsolescenza.

L’emozione dell’accogliere è al contrario infinita perché autorigenerante, essa infatti si basa sulla soddisfazione reciproca di più soggetti e non può essere definita finita in quanto il soggetto dell’accoglienza può solo essere elemento mobile sia dal punto di vista emozionale (una persona) sia dal punto di vista possessivistico (un’azione a vantaggio di altri).

Il punto a favore di questo passaggio è legato alla generazione dei nativi digitali che mostrano sete di valori proprio perché vivono in un mezzo tecnologico da questo punto di vista particolarmente vuoto.

Per abilitare questo passaggio dobbiamo assolutamente passare dalla cultura del “fai quello che vuoi” alla cultura del “no, non è così”; passaggio difficile per le famiglie in cui la cultura dell’accumulo è ancora predominante.

La motivazione forte, che aiuta in questo passaggio, è particolarmente facile trovarla proprio nel complesso meccanismo tecnologico che oggi avvinghia le generazioni e le “scolla” dalla realtà; un’alienazione sociale che proietta l’identità nel mezzo, nello strumento, facendolo diventare contenitore egualitario e massificante.

Come avviene questa trasmigrazione mente – strumento che toglie molta identità culturale ai fruitori di questo mondo virtuale?

Avviene sotto il predominio della velocità della comunicazione e pertanto della mistificazione dei contenuti.

La rete oggi è un grande contenitore di qualunquismo ideologico, perché contiene in forma disaggregata miliardi di informazioni vere e miliardi di informazioni false, un pericoloso contenitore di materia e antimateria, il cui mix porta alla completa afonia mentale.

Ecco il vero motivo per cui l’emozione dell’accumulo è oggi predominante, perché tende a riempire quello che sembra giusto chiamare un vuoto pieno, ovvero un profondo pozzo vuoto colmo solo del nero del suo buio.

Di fronte questa aleatoria ed iconica sensazione di smarrimento culturale il possesso fisico diventa pieno concreto e quindi fortemente perseguibile e ricercabile, perché più facile da trovare nel frastuono ideologico della rete.

Siamo certamente in un passaggio generazionale che avviene con tempi lunghi e dilatati a causa, paradossalmente, di un momento tecnologico fatto di velocità e molteplicità dell’informazione.

In questo passaggio l’emozione dell’accumulo diventa anche transdialettica grazie alla possibilità di appropriarsi delle parole dell’altro facendole divenire proprie tramite un processo di assimilazione oggi definito copia e incolla.

Anche questo processo moltiplica il paradosso del vuoto pieno ideologico perché aggrega concetti ma non significati, espressioni ma non valori.

Eppure la percezione della pochezza dell’accumulo è evidente nella noia generazionale, nella svogliatezza emotiva che sembra essere compagna di giochi di questa generazione digitale, sensazioni che, rendendo sempre più acuta la fame di pienezza dell’io, spingono sempre più verso un accumulo contenutistico ai limiti del paradosso, rendendo quasi un obbligo pubblicare la foto del piatto che stiamo mangiando…

Ora la domanda vera è: ma la nostra generazione è in grado di preparare il piatto giusto per questo mondo tecnologico, un piatto fatto dall’emozione dell’accoglienza cucinata nel modo giusto?

 

 

 

 

 

 

 

 

Dal Libro “L’emozione del passaggio generazionale”, Currenti Calamo Editore, C.Faletti, C.Giannino, 2017




ISCRIZIONI A.S.2022/23: È TEMPO DI RIVEDERE LA SCUOLA MEDIA!!!!

 

I Licei sono le scuole preferite con oltre il 56% di iscritti, pur se con un leggero calo che riguarda il classico che passa dal 6,5 al 6,2% e lo scientifico sceso di quasi un punto percentuale, relativo allo scientifico tradizionale, per intenderci quello con il latino, sostituito da altri indirizzi che sembrano più tecnici che licei.

Quindi ogni 100 ragazzi 56 scelgono i licei, nella consapevolezza che dovranno proseguire gli studi scegliendo un percorso universitario.

Perché si sceglie il liceo? Perché la cultura generalista “ti da le basi” e poi all’università decidi cosa “fare da grande”.

Ma non è così, infatti secondo Almalaura dei 56 ragazzi che hanno scelto il liceo, solo 40 proseguono gli studi universitari e gli altri? Un bel problema.

Allora se a 13-14 anni non si riesce ad operare una scelta, che poi condizionerà il futuro dei nostri ragazzi, probabilmente sarebbe utile avere un biennio di scuola superiore comune e poi optare per la scelta migliore.

Si tratta di “rispolverare” con opportune modifiche e integrazioni la “scuola di base” della Legge 30/2000, nota come riforma Berlinguer.

Da più parti si sente infatti l’urgenza di rafforzare la struttura della scuola media che rappresenta ormai l’anello debole tra la scuola primaria e la secondaria di secondo grado.

Gli anni della scuola media sono fondamentali, in quanto sono gli anni in cui l’alunno deve consolidare le conoscenze della scuola primaria relativamente allo studio della grammatica italiana, delle quattro abilità di base (saper ascoltare, saper parlare, saper leggere e saper scrivere), della matematica, in particolar modo delle quattro operazioni: il classico leggere, scrivere e far di conto.

Purtroppo l’organizzazione della scuola media non sempre riesce a consolidare il lavoro della primaria per plurime ragioni, ma segnatamente per alcune in particolare.

Prima di tutto dal maestro unico o prevalente della primaria di passa ad un’organizzazione essenzialmente per discipline come nella secondaria e ciò non agevola il passaggio soprattutto per gli alunni più fragili e più difficili che perdono il loro rifermento, dato dal maestro.

Inoltre si parla di programmazione didattica per competenze quando non è ancora consolidato il leggere, scrivere e far di conto.

Come conseguire competenze in assenza di conoscenze? E così si arriva al primo anno di superiore, dando ormai per scontato la presenza di diffuse carenze.

Non a caso il DPR 89/2010 di revisione dei licei, ex riforma Gelmini, all’art. 2 prevede che nel primo biennio ci sia la verifica e l’eventuale integrazione delle conoscenze, raggiunte al termine del primo ciclo di istruzione.

Allora un biennio unico, magari una scuola media di 5 anni, sarebbe sicuramente più orientativa e soprattutto avrebbe un ruolo molto più incisivo contro la sempre più allarmante dispersione scolastica che si verifica soprattutto nel biennio della secondaria superiore.

Così a conclusione del quinquennio di scuola media sarà assolto l’obbligo d’istruzione decennale e solo i ragazzi motivati continueranno il triennio successivo scegliendo il liceo, il tecnico o il professionale secondo le proprie attitudini e interessi e la volontà stessa di continuare a studiare.

Probabilmente crescerebbe il numero dei laureati, oggi pari al 20,1% della popolazione contro il 32,8% nell’Ue, e si darebbe la giusta importanza al tecnico diplomato in possesso di competenze professionali certe, figura intermedia oggi molto richiesta, ma sempre più difficile da trovare.

 

Pio Mirra – DS IISS Pavoncelli, Cerignola (FG)




SERVE L’ALTERNANZA SCUOLA-LAVORO?!?!

Lorenzo è morto l’ultimo giorno di alternanza scuola-lavoro, schiacciato da un tubo di 150 chili, Giuseppe è morto in un incidente stradale, a bordo di un furgone di una ditta presso cui stava facendo uno stage.

Invece di far silenzio addetti e non addetti si dividono tra abolizionisti e favorevoli all’alternanza.

Si è trattato di infortuni sul “lavoro” e purtroppo solo nel 2021 sono morte 1.404 persone per infortuni sul lavoro, di cui 695 direttamente sui luoghi di attività.

Allora il problema non è l’alternanza, ma le precarie condizioni di sicurezza sul lavoro.

Occorre rispetto per chi non c’è più, ma occorre riflettere e analizzare, perché l’alternanza scuola-lavoro necessita probabilmente di una revisione di merito e di metodo.

Il punto da analizzare è principalmente: La scuola deve insegnare un mestiere?

Certamente si, ma con i dovuti “errata corrige”.

La Legge 107/2015, la “Buona scuola” (o come dice qualcuno “La Scuola alla buona”) aveva previsto, al fine di incrementare le opportunità di lavoro degli studenti, i percorsi di alternanza scuola-lavoro della durata complessiva di 400 ore negli istituti tecnici e professionali, e di almeno 200 ore nei licei.

E così un esercito di studenti delle classi dell’ultimo triennio era pronto per partire “a lavoro”.

Scarse le risorse e soprattutto insufficienti le aziende che davano disponibilità ad accogliere gli studenti.

Allora ecco la magia per “risparmiare”: a partire dall’anno scolastico 2018/2019 i percorsi di alternanza scuola lavoro, per effetto della Legge di Bilancio 2019, vengono rinominati “Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento”.

Il nuovo acronimo PCTO è sufficiente per ridurre le ore e quindi le risorse: 210 ore nei professionali, 150 ore nei tecnici e 90 ore nei licei.

E le risorse assegnate alle scuole, quota alunno, appena 13,93 euro per i professionali, 9,95 euro per i tecnici, 5,97 euro per i licei.

Poca cosa.

Intanto predomina ancora un’idea classista della scuola, perché i licei sono considerati i depositari del pensiero, gli altri sono considerati manovalanza da avviare subito a lavoro.

Allora diciamolo subito.

Nei licei anche le sole 90 ore sono tante e probabilmente sono ore perse, perché distolte allo studio delle discipline, fondamentale in un periodo in cui si registra una grave perdita di apprendimenti, causa di una forte dispersione implicita, per dirla come l’INVALSI.

Negli istituti tecnici e professionali, invece, le attività di stage aziendali sono fondamentali perché completano il curriculo, perché contestualizzare i concetti teorici e arricchire il training con la pratica in azienda aumenta la retention delle informazioni e migliora i risultati della formazione stessa.

Quindi dar voce alla “pancia” dopo i gravi lutti, abolire l’alternanza con più ore di scuola forse non elimina il problema, anzi, con meno ore tecniche, pratiche e lavorative con ogni probabilità la dispersione scolastica aumenterebbe e non si darebbe una risposta alle domande che da anni il mondo del lavoro rivolge al mondo dell’istruzione.

Fuori da ogni inutile moralismo fornire una scuola di teoria a chi vuole imparare un mestiere non aiuterà di certo costoro a trovare un posto dignitoso nel mondo.

Vale la pena ribaltare dunque il pensiero e dare ai meccanici, sarti, cuochi e camerieri la stessa dignità di un medico o avvocato.

Gli operai non sono ultimi e perché la scuola non lasci indietro nessuno, né faccia sentire nessuno ultimo, occorre continuare nella direzione dell’alternanza, ma rivista e corretta.

Intanto, anziché renderla obbligatoria per tutti gli studenti, potrebbe essere pensata come percorso di arricchimento, così come previsto in fase di introduzione dal Decreto Legislativo 77/2005: “… gli studenti che hanno compiuto il quindicesimo anno di età … possono presentare la richiesta di svolgere … l’intera formazione dai 15 ai 18 anni o parte di essa, attraverso l’alternanza …”.

Si tratta di rifarsi al modello tedesco “Duale Ausbildung”, “formazione duale” che indica in pratica l’alternanza scuola-lavoro, utile strumento per formare professionalmente i più giovani.

Nel Duale Ausbildung, i ragazzi trascorrono un terzo del tempo a scuola e i rimanenti due terzi in un’impresa con un contratto di apprendistato.

Gli studenti-apprendisti vengono seguiti e formati dai tutori – Meister, in tedesco – e terminato con successo il percorso il ragazzo da studente diventa lavoratore.

Se da noi spesso si mendica uno stage non retribuito, in Germania lo studente, che entra nel doppio sistema di formazione, è immediatamente contrattualizzato e ottiene un stipendio pagato dall’azienda.

Nel suo percorso formativo se non vengono rispettati i mansionari lavorativi, si applica come conseguenza un’immediata sanzione che può persino essere l’esclusione dal percorso stesso.

La formazione in azienda e la formazione a scuola sfociano in due esami analoghi che devono essere superati al termine dell’apprendistato.

Occorre dunque ridisegnare l’alternanza scuola-lavoro nella consapevolezza che in un mondo in rapida evoluzione, l’istruzione e la formazione devono essere al centro delle politiche scolastiche, perché non possedere le competenze necessarie per partecipare fruttuosamente alla vita sociale e al mercato del lavoro aumenta il rischio di disoccupazione, povertà ed esclusione sociale.

Pio Mirra – DS IISS Pavoncelli, Cerignola (FG)




“Come avere fede ed essere felici” con Nanda Ubaldini

Cari Lettori,

c’è una bellissima novità: d’ora in poi gli appuntamenti settimanali de “Il Giardino Incantato degli Eroi” e del “Soul Talk” verranno trasmessi in live streaming sia sul Canale You Tube “Jasmine Laurenti”, sia su quello di “BetapressTV”.

L’ospite di domani sera, giovedì 10 febbraio, è Nanda Ubaldini.

Ho avuto il piacere di intervistarla a dicembre dello scorso anno in occasione del flash mob che la vede ideatrice e protagonista: “Lettere a Dio”.

In sintesi: Nanda non ha avuto una vita facile. Tutt’altro. All’ennesima “tempesta” decide di scrivere una lettera al Creatore dell’Universo e di spedirla con tanto di francobollo.

Obiettivo: chiederGli se tutta quella sofferenza avesse avuto un senso.

Nell’arco di ventiquattr’ore, il suo atto di fede viene premiato con un incontro speciale. Da quel momento la sua vita non sarà più la stessa.

Forte di questa e di altre vicissitudini brillantemente superate, oggi Nanda è un punto di riferimento importante nell’ambito della crescita personale e di una spiritualità “libera” da dogmi, formalismi ed etichette.

La sua Missione è dimostrare al mondo che, se c’è la Fede, tutto è possibile.

Basta riconnettersi al divino, scoprire la potenza creativa del pensiero e scoprire il vero Senso della Vita.

Solo così l’Essere Umano può essere felice, e continuare a esserlo indipendentemente dalle circostanze!

SAVE THE DATE AND THE EVENT:

Giovedì 10 febbraio 2022 alle ore 20:30 in Live Streaming sui Canali “Jasmine Laurenti” e “BetapressTV”:

“Come avere fede ed essere felici” – Soul Talk con Nanda Ubaldini.

Buon ascolto!

Jasmine Laurenti

 

 

 

 

 




FOIBE: peso sull’anima dei giusti.

IL GIORNO DEL RICORDO

Il 10 Febbraio si celebra il Giorno del Ricordo: solennità civile italiana, che vuol mantenere vivo il ricordo dei massacri delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata.

Venne istituita nel Marzo 2004, con l’intento di “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale“.

Momenti di intensa commozione vengono vissuti dai parenti delle persone soppresse e infoibate in Istria, a Fiume, in Dalmazia o nelle provincie dell’attuale confine orientale.

Ma è anche un momento di profonda italianità, poiché tutta questa gente ha profondi vincoli con la propria Patria, al pari di quanti – pur ‘tagliati fuori’ da tuttora discutibili intese internazionali, e posti oltre il confine italiano – in cuor loro hanno mantenuto forti legami con la madre Patria.

Il giorno prescelto coincide con  il giorno in cui, nel lontano 1947, furono firmati i Trattati di Pace di Parigi, che assegnavano alla Jugoslavia l’Istria, il Quarnaro, la città di Zara con la sua provincia e la maggior parte della Venezia Giulia; territori in precedenza facenti parte dell’Italia: e questo è bene evidenziarlo.       

Nell’imminenza della ricorrenza, ho intervistato in esclusiva per BETAPRESS il Dott. Antonio Ballarin – esule di seconda generazione nato al Villaggio Giuliano Dalmata di Roma, come lui ama precisare – già Presidente FederEsuli – Federazione delle Associazioni degli esuli Istriani, Fiumani e Dalmati

 

Dott. Ballarin, come ci si appresta a celebrare questo particolare Giorno?

Nell’approssimarsi del Giorno del Ricordo osserviamo, in questi ultimi anni, un crescendo di intemperanza da parte dei veterocomunisti, quelli che ancora oggi, tenacemente, continuano a giustificare i massacri perpetrati dalle milizie di Tito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale in Istria, Quarnaro e Dalmazia.

Quattro anni fa era uscito un articolo del Collettivo Nicoletta Bourbaki ripreso dall’ “Internazionale”, poi è stata la volta di Moni Ovadia su “il Manifesto”, poi Eric Gobetti con il libro “E allora le Foibe?”, poi il Prof. Montanari con le sue particolari dichiarazioni, e così via.

Obiettivo: giustificare l’odio anti-italiano perpetratosi ben oltre il 1945 e che ha portato all’uccisione (foibe, fucilazioni, annegamenti e deportazioni in lager) di circa 12.000 persone italofone.

 

Quindi, permane l’amarezza per il perdurare di un anti-storico ‘giustificazionismo’? 

Certo! Vuol sapere il teorema del giustificazionismo? Molto semplice… ‘Fascismo’: dunque, ‘Foibe come reazione’, dunque ‘Esodo come conseguenza’.

A fronte di ciò, sorgono due domande:

La prima: ma l’odio anti-italiano nell’Adriatico Orientale non era nato prima, con gli Asburgo?

La seconda: giustificare il crimine commesso da A nei confronti di B (A GUERRA FINITA), in quanto B conosceva/era parente/era assimilabile a C, nemico di A, non è come legittimare il concetto di faida?

In altre parole: Pippo era nemico giurato di Pluto, Paperino è amico di Pippo, Pluto ammazza Paperino.

 

Avete provato a stimolare un incontro chiarificatore, al fine di pervenire ad una Verità unica e condivisa?

Da questo orecchio i veterocomunisti non ci sentono, né intendono confrontarsi su di un piano squisitamente storico, fatti alla mano: così prediligendo una ‘storia’ ad usum.

Ed hanno talmente paura della verità – e, con essa, di noi: in grado di smentire TUTTE le loro assurde tesi con la nostra stessa vita – che evitano accuratamente – e, mi permetta, con testarda ostinazione – qualsiasi confronto con il Popolo dell’Esodo Giuliano-Dalmata.

È la classica tattica a loro tanto cara: seminare DIS-INFORMAZIONE senza possibilità di smentita (p.e.: ricordate Chernobyl? Diceva allora ‘la Pravda’ di Mosca: “Tutto ok! Tutto sotto controllo!”), ignorando, aggirando o mistificando le tragiche VERITA’.

 

Ma queste posizioni sono ovunque, in Italia?

Fortunatamente, no.

Ad esempio, la Regione Piemonte, con coraggio e con grande obiettività, ma anche affettuosità per il nostro mondo – così rispettandone le sofferenze, e per dare dignità alla Memoria storica di questa Nazione ‘scordarella’ – organizza eventi e pubblica un manifesto, di grande effetto, per la ricorrenza del Giorno del Ricordo.

I veterocomunisti si arrabbiano, strepitano e gridano allo scandalo. Forse, avrebbero preferito, nel manifesto della Regione Piemonte, vedere il Fascio Littorio al posto della Stella Rossa sui baschi dei soldati?

Le facce terrorizzate dei civili, invece, sono proprio quelle dei nostri cari a guerra finita.

Evidentemente, la Regione Piemonte ed il suo illuminato Assessorato all’Emigrazione hanno colpito nel segno.

Un grande plauso va al loro lavoro, alla loro onestà intellettuale, al loro sforzo nel proporre la narrazione corretta della Storia.

 

Nel ringraziarla per questa intervista, un’ultima domanda: ci sono ancora verità nascoste?

Al riguardo, una evidenza tra altre: Vergarolla… una pagina di intensa tragicità cui ancora non è stata data degna, chiara ed esaustiva lettura e quindi risposta. Ma noi esuli siamo tenaci: la ricerca della VERITA’ e un profondo desiderio di GIUSTIZIA sono uno sprone che è nel nostro DNA, di generazione in generazione.

 

 

Giuseppe Bellantonio

 

 




RisiKo Covid-19

Carnevale è arrivato in anticipo, quest’anno, almeno nella scuola…

Mettiamola sul ridere, perché, altrimenti, c’è da piangere…

Sono state approvate con il D.L. 5/2022 le Misure urgenti in materia di certificazioni verdi COVID-19 e per lo svolgimento in sicurezza delle attività nell’ambito del sistema educativo, scolastico e formativo”.

Entrano in vigore oggi, 7 febbraio, nel silenzio e nell’indifferenza di tutti, ma, soprattutto, dei sindacati.

Dall’oggi al domani, è stato deciso di mettere fine ad un modello di monitoraggio e di controllo del contagio nelle scuole, modello che ha dato prova di efficienza grazie all’azione di un sistema inclusivo, affidato alla responsabilità dei dirigenti scolastici e alla professionalità dei referenti scolastici per il covid19.

Come sempre, in Italia, quando qualcosa funziona, è ora di cambiarla…

Ecco, che da adesso (spacciata per ragioni di semplificazione) è prevalsa una scelta che scarica di responsabilità le autorità sanitarie preposte e assegna gran parte della gestione dell’emergenza alla scuola.

Come? Con un nuovo sistema di regole che di fatto, sulla base del principio dell’auto-sorveglianza individuale, sbilancia le responsabilità sugli operatori scolastici e sulle famiglie, dimenticandosi, per esempio, delle peculiarità degli istituti comprensivi che si ritrovano a dover affrontare la pandemia in contesti anagrafici disomogenei e con preoccupanti criticità.

  Ma perché, ancora una volta, nonostante l’emergenza tutt’ora     dichiarata, si limita il controllo sanitario lasciando però invariati gli obblighi per l’istituzione scolastica?!?

Come redazione di betapress, torniamo a dare voce alla protesta dei referenti scolastici covid19 di Ancodis che sono molto preoccupati per quanto potrebbe accadere a partire dal 7 febbraio e sono disorientati sulle ragioni di queste nuove regole.

Ne parliamo direttamente con Rosolino Cicero, Presidente Nazionale Ancodis.

Betapress- Professore, erano necessarie queste nuove norme scolastiche?

Cicero- No, non ha senso, riproporre, per l’ennesima volta, al personale e alle famiglie, un nuovo modello in TOTALE discontinuità con il precedente e che pone la scuola in una condizione di ancora più grave fragilità e insicurezza.

Avremo comunità scolastiche ancora più in tensione nelle relazioni scuola-famiglia e tra famiglie laddove si rilevassero uno o più casi di positività.

Betapress- Che posizione assumete come Ancodis?

Cicero- Ancodis ritiene questa scelta uno spericolato risiKo a danno di donne, uomini e alunni che invece dovrebbero essere protetti, rassicurati e sostenuti in questa emergenza che ci ha tolto la forza di un sorriso e la vicinanza di un abbraccio con i nostri piccoli e grandi alunni.

Siamo stanchi e sfiduciati.

Non possiamo accettare di continuare a lavorare in una condizione di insicurezza divenuta per certi aspetti cronica.

Betapress- Cosa chiedete ai sindacati?

Cicero- Chiediamo alle associazioni dei dirigenti e alle OO.SS. di far sentire la loro voce di disapprovazione di una scelta politica che lascia disorientate e nell’incertezza circa 8000 “cellule vitali” che hanno cercato in questi due anni di alzare un argine alla diffusione del coronavirus nonostante i gravi ritardi e le intollerabili negligenze degli altri anelli preposti alla sua tutela.

Betapress- Vi sentite almeno ascoltati?

Cicero- No, assolutamente no, di fronte a questo scenario sentiamo un silenzio assordante…

Ma in che paese viviamo? –

Bene, no, anzi male, aggiungiamo noi di betapress.

Noi, almeno noi, come redazione, continuiamo a stare dalla parte di chi nella scuola ci vive e ci lavora da decenni, non per diletto, propaganda politica o vezzo elettorale!

Vorremmo solo, un po’ di responsabilità, competenza e professionalità, anche da parte di chi comanda e si diletta a fare e disfare solo per il gusto di simulare un proprio (assurdo e contraddittorio) intervento politico.

E lasciamo ai posteri l’ardua sentenza “Ma è davvero così che si operano delle scelte responsabili apostrofate “Misure urgenti in materia di certificazioni verdi COVID-19 e per lo svolgimento in sicurezza delle attività nell’ambito del sistema educativo, scolastico e formativo”?!?

 




I Falsi Miti delle Iscrizioni.

Iscrizioni Scuole secondarie di II grado – a.s. 2022/23

Fonte Ministero dell’Istruzione, le iscrizioni ai licei calano e lentamente salgono la china gli istituti tecnici e professionali.

L’inversione di tendenza dovrebbe far bene sperare per il rilancio dell’istruzione tecnica e professionale prevista nel PNRR e per il rilancio del sistema economico dopo gli anni di pandemia.

I licei restano comunque la scelta preferita con il 56,6%, i tecnici salgono al 30,7% e l’interesse per i professionali cresce di quasi un punto con il 12,7%.

Sta di fatto che su 100 quattordicenni circa 57 frequenteranno nel 2022/23 un liceo, indirizzo di studio che si completerà in un percorso universitario.

Tuttavia, secondo Almalaurea, già al primo anno di università solo il 71,7% degli studenti decide di continuare gli studi.
E il restante 28,3%?

È un grande e bel problema! Il 28,3% abbandona a non riesce a conseguire nemmeno la “triennale”.

La maggior parte proviene da un percorso liceale di tipo generalista con nessuna competenza tecnico-professionale in uscita e spendibile nel mondo del lavoro.

Allora questa massa di ex liceali si tradurrà in una massa di giovani inoccupati con scarse prospettive di inserimento lavorativo, se non in settori lavorativi a basse skill.

Ben venga allora l’inversione di tendenza, seppur timida, registrata nella scelta della scuola superiore.

Occorre continuare per questa strada, orientando “lealmente” studenti e genitori, per lo più distratti dal mito del liceo.

 

Pio Mirra DS IISS Pavoncelli – Cerignola (FG)




Sharenting

Come docente referente cyberbullismo, giustamente, mi formo ed informo per la prevenzione e la gestione dei rischi in rete.

Come libero cittadino, dipendente pubblico, devo aggiornarmi sul regolamento europeo GDPR 679/2016 inerente la privacy.

Senza tanti fronzoli, per chi, come me, vive e lavora nella scuola da oltre trent’ anni, è sempre più evidente che non si può più fare niente, neanche la foto ricordo di fine anno scolastico, senza autorizzazione dei genitori.

Non parliamo poi, del supporto psicologico gratuito, per aiutare i minori in caso di disagio.

Ancora un po’, ci vuole “la bolla papale” per far sì che un alunno vada a fare una chiacchierata con la psicologa…

Poi, frequentando piattaforme social quali Instagram, Facebook e TikTok vedi che è facile imbattersi in post di mamme e papà (gli stessi che ti remano contro a scuola!) che scelgono di pubblicare foto e video dei propri figli in maniera compulsiva e senza alcun tipo di filtro, divulgando momenti appartenenti alla sfera più intima.

Immagini tenere e spesso divertenti che attirano i followers, (Fedez e Ferragni docet) ma che, pur scatenando una pioggia di like e apprezzamenti, suscitano perplessità e fanno emergere una serie di domande.

Prima di tutto i dati.

Secondo una ricerca condotta dalla Northumbria University, oltre l’80% dei bambini britannici sarebbe presente in rete già prima di compiere 2 anni, e prima di raggiungere i 5 anni ognuno di essi arriverebbe a possedere addirittura 1500 foto sul web.

Un ulteriore studio, promosso da ParentZone, sottolinea come il 32% dei genitori pubblichi dalle 11 alle 20 foto al mese dei propri figli.

Di questi, il 28% non si sarebbe mai posto il problema di richiedere il consenso ai ragazzi.

Gli effetti futuri.

Quando però, quelli che ora sono bambini cresceranno, potrebbero non apprezzare la presenza online, né la narrazione portata avanti dai genitori, destinata, nonostante le migliori intenzioni, a rimanere incollata ai “futuri adulti” come una spiacevole etichetta (vedi spiacevoli inconvenienti digitali emersi in sede di selezione del personale per un futuro impiego)

Insomma, creare un’identità digitale propria e utilizzare i social (in maniera libera e serena) potrebbe, successivamente, rivelarsi difficile per coloro che, da piccoli sono stati esposti alla rete forzatamente, ed in modo esibizionistico dai genitori.

Tutto questo identifica il fenomeno dello “sharenting”, sempre più diffuso e a tratti allarmante, complici i rischi legati alla privacy dei minori, tangibili e sicuramente da non sottovalutare.

Definizione di sharenting.

Con il termine “sharenting” si fa riferimento alla condivisione in rete da parte dei genitori di immagini e video riguardanti i propri figli.

Coniato negli Stati Uniti, il neologismo è la crasi delle parole “share” (condividere) e “parenting” (genitorialità), anche se per precisione la pratica è meglio identificata come “over-sharenting”, ovvero l’eccessiva e protratta esposizione dei minori nel contesto web.

Nella maggior parte dei casi, tale esposizione avviene senza il consenso dei minori diretti interessati, proprio perché troppo piccoli (o non abbastanza grandi) da comprendere quali possano essere le implicazioni ed i rischi, così come l’importanza della tutela della privacy.

I rischi dello sharenting

Innumerevoli sono i rischi che comporta la pratica dello “sharenting”, tutti in grado di ledere seriamente la privacy del minore, esponendolo ai più comuni pericoli del web.

Il primo è rappresentato dalla violazione della privacy e della riservatezza dei dati personali e sensibili.

La privacy è un diritto, non solo degli adulti, ma anche dei bambini, come sancito dalla Convenzione dei diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza.

C’è poi la questione legata alla mancata tutela dell’immagine del minore, basti pensare alla concreta perdita di controllo relativa ai contenuti una volta pubblicati in rete.

L’identità digitale esercita un’influenza concreta e tangibile sul futuro dei minori, in questo modo esposti ai più comuni rischi legati al contesto telematico.

La relativa immagine appare dunque in balia di chiunque desideri sfruttare il materiale fotografico e video per scopi illeciti e denigratori, complice la relativa permanenza su web e l’impossibilità di eliminarne ogni traccia in un secondo momento.

Problema ancor più grave sono le ripercussioni psicologiche sul benessere del minore.

Quando i soggetti coinvolti inizieranno a navigare in rete in autonomia, dovranno inevitabilmente “pagare lo scotto” dell’essere (o dell’essere stati) esposti pubblicamente in maniera continua, col rischio di ritrovarsi a far fronte a un’identità digitale costituita anche da immagini intime per le quali non hanno prestato alcun consenso.

C’è poi il rischio di diffusione di materiali che potrebbero essere sfruttati in contesti pedopornografici.

Immagini o video, per quanto innocenti, possono essere condivisi liberamente da chiunque, sia attraverso semplici screenshot che mediante il download diretto, per poi venire pubblicati in altri contesti senza alcuna limitazione.

Non esiste dunque alcuna certezza circa l’utilizzo che ne verrà fatto da terzi, e occorre tenere ben presente che ad oggi, attraverso l’uso di semplici programmi di fotoritocco, è possibile manipolare il materiale personale con una certa facilità, rendendolo di carattere pedopornografico, con tutte le ripercussioni del caso.

Ultimo ma non meno importante il rischio di adescamento.

I dati dei minori, come le passioni, lo sport praticato, l’istituto frequentato e le abitudini degli stessi, se costantemente esposti online possono rappresentare terreno fertile per i malintenzionati che, dopo aver intrapreso una sorta di “percorso di avvicinamento”, possono praticare atti di adescamento online.

Sharenting e privacy

Tra le principali criticità che coinvolgono lo “sharenting” compaiono le ripercussioni che la condivisione – specie se compulsiva e ripetuta – ha sul minore.

Ad essere principalmente lesa è la privacy, poiché la pratica comporta la creazione di un vero e proprio archivio digitale, il più delle volte pubblico e fruibile da chiunque.

Spesso il minore non è in grado di capire cosa succede quando viene condivisa un’immagine che lo immortala, e ciò determina a tutti gli effetti una violazione della privacy, oltre che una lesione dell’individualità del soggetto.

Una volta cresciuti, i bambini sono costretti a “fare i conti” con una grande quantità di contenuti che li riguardano, con tutte le conseguenze e implicazioni psicologiche e sociali del caso.

In Italia non sono mancati proprio per questo casi in cui gli adolescenti coinvolti, una volta preso atto della quantità di contenuti online che li riguardavano, hanno scelto di rivolgersi ai tribunali, obbligando i genitori alla rimozione del materiale “incriminato” pubblicato sui social.

Ha acceso innumerevoli dibattiti l’ordinanza del 30 agosto 2021 emessa dal Tribunale di Trani, che ha condannato una madre a rimuovere i video della figlia, e a versare una somma di 50 euro sul conto corrente intestato alla bambina per ogni eventuale giorno di ritardo nell’esecuzione dell’ordine di rimozione, il tutto a fronte del disaccordo da parte del padre rispetto alla pratica dello “sharenting”.

Il considerando 38 del GDPR recita che “i minori meritano una specifica protezione relativamente ai loro dati personali, in quanto possono essere meno consapevoli dei rischi, delle conseguenze e delle misure di salvaguardia interessate, nonché dei loro diritti in relazione al trattamento dei dati personali”.

Come ha ricordato lo stesso Tribunale di Trani nell’ordinanza, è fondamentale che il consenso alla pubblicazione online di immagini dei figli minori sia prestato dai genitori, che devono al contempo essere in grado di porre limiti che non ledano in alcun modo la privacy dei bambini e dei ragazzi.

Occorre tuttavia considerare che la pratica dello “sharenting” non si limita a creare dinamiche che possono semplicemente compromettere la riservatezza del minore.

Ancor più rischioso è infatti metterne a repentaglio la sicurezza mediante la condivisione di materiale video e fotografico che può potenzialmente diventare virale.

Dunque, per concludere, un genitore, in quanto tale, non deve mai sottovalutare l’entità del possibile problema che lo “sharenting”, per quanto divertente, può comportare.

E certi altri genitori, analfabeti digitali, prima di puntare il dito contro la scuola, dovrebbero staccare il loro dito dal tasto condividi del loro smartphone…

 




Mattarella: ma non dovevamo vederci più?

Premesso che la figura di Mattarella ci piace molto, premesso che da vecchio democristiano è la figura giusta per svolgere il ruolo, premesso che questi passati sette anni è stato impeccabile, quindi ben venga la sua rielezione, ma le domande da porsi non sono Mattarella si o no, le domande da porsi sono: ma è davvero così desolato il panorama politico italiano da non avere un nome super partes? Ma davvero? Tutti fighi e strateghi per poi chiedere aiuto al povero Mattarella che era già con le valigie in mano?

Questa elezione, così sbandierata adesso come successo assoluto delle forze politiche, ci lascia davvero l’amaro in bocca; non c’era nessuno in Italia che potesse fare il Presidente della Repubblica, nemmeno Bisio, che l’aveva fatto così bene nel film Buongiorno Presidente?

E poi che ridicolaggine, la Casellati, si si una donna finalmente, addirittura ne stiamo pensando a tre con nomi e cognomi e pure foto, evviva finalmente … e poi Mattarella.

Con questa elezione del Presidente finalmente capiremo e ci conteremo anche politicamente … e poi Mattarella.

Mi raccomando, nulla contro Mattarella, ma con gli altri ci sarebbe da discutere.

Bene comunque, Draghi rimane, Mattarella anche, e questi almeno sono due bravi, ma rimangono anche tutti gli altri, un insieme di monelli che corrono dal Papà e dal Nonno per farsi correggere i compiti.

Ma questa non era la generazione dei politici che rinnovavano mettendo gente nuova perché il “vecchio” doveva andar a casa????

Quindi dobbiamo leggere questi fatti con un dietrofront! Il Vecchio è meglio …

Cari amici, ogni volta io che dirigo questa testata mi illudo e poi puntualmente cado dalle “nubi” facendomi pure male perché capisco che la classe politica italiana non ha classe e non sa far politica.

Ma quale caro prezzo paghiamo noi brava gente che ormai non ci interessiamo più della politica, perché la politica ha fatto sì di venirci a fastidio, se non quello di essere governati da gente peggio di noi.

Così la gravità della nostra situazione la sentiamo quando ci accorgiamo di non percepire più lo scadimento etico della politica come dannoso.

Credo fermamente che il danno più grave che un cittadino possa fare al suo paese è il silenzio, la rassegnazione, occorre comprendere che il silenzio aiuta solo il colpevole.

Oggi siamo contenti di avere ancora fra noi il presidente Mattarella, ma tacciamo sull’inconcludenza di questa classe politica che non è in grado di convergere su uomini validi nel paese.

Volete forse dirci che non ce ne sono?

Volete forse farci credere che l’unico cittadino che incarni i valori di stato degno di fare il presidente della repubblica era Mattarella, uno solo, in tutto il paese, ahimè, ahimè, ahimè…

O forse pensate che noi italiani siamo ormai talmente rimbecilliti da non accorgerci delle vostre incapacità?

Or dunque tremate signori miei, perché verrà un giorno!!!!!.