Gli sci appesi al chiodo…

La crisi del turismo invernale. L’opinione di Matteo Pellissier.

Meno 70% di fatturato, ovvero una perdita secca di quasi 8,5 miliardi di euro: è quanto rischia di perdere il mondo che ruota intorno al turismo invernale.

A causa della pandemia da Covid le cancellazioni sono tante, sia da turisti italiani che stranieri e un intero settore è in crisi.

Da novembre, In Valle d’Aosta, l’unica stazione sciistica operativa, aperta solo a sciatori professionisti a seguito delle restrizioni, è quella di Cervinia e negli ultimi mesi si registrano solo numeri in negativo per quanto riguarda l’arrivo di turisti italiani e stranieri.

Basti dire che in Piemonte, la Via Lattea, che comprende Sestriere, Sauze d’Oulx, Oulx, Sansicario, Cesana, Pragelato e Claviere, il comprensorio più grande della regione è ferma, con la chiusura di tutti gli impianti ed il blocco di tutte le attività legate al turismo invernale.

Sulle montagne piemontesi preoccupa già la quasi certa perdita della clientela straniera che è il 45% del fatturato della stagione invernale.

Come se non bastasse, da metà gennaio a fine febbraio i turisti sono prevalentemente esteri, dal Brasile alla Cina, dagli Stati Uniti alla Scandinavia, e sono il 70-80% della clientela.

Con la pandemia tutto questo flusso non ci sarà.

Eppure sembra che il governo si dimentichi di affrontare anche quest’emergenza, cioè la paralisi di un intero settore turistico invernale, preoccupato com’è ad inventare il gioco dei semafori, zona rossa, zona arancione, zona gialla…

Così, ci proviamo noi, redazione di betapress, a riprendere la questione.

L’occasione è la giornata della neve, prevista per il 20 gennaio.

La crisi del settore turistico invernale s’ innesta sulla paralisi del mondo sciistico, tanto più che la grave situazione di chiusura degli impianti, degli alberghi, e di tutte le attività connesse continua a protrarsi ad oltranza.

Basti pensare quanto è avvenuto anche in questi ultimi giorni di vacanze di Natale, in cui, ironia della sorte, ha nevicato come non mai, ma nessuno ha potuto godersela, sia la neve che l’attività sciistica, neppure chi ha una seconda casa in montagna, perché, siamo onesti, cosa ci vai a fare in montagna se è tutto chiuso e tutto fermo?!?

E per dare voce a degli esperti del settore, nonché rappresentanti di categoria, abbiamo avuto il piacere di intervistare Matteo Pellissier,25 anni, atleta italiano, maestro di sci, allenatore della Val d’Aosta.

Betapress- Buongiorno Maestro Pellissier, grazie per la disponibilità, che cosa possiamo raccontare di lei ai nostri lettori?

Pellissier- Sono Matteo Pellissier, nato e cresciuto a La Thuile, in Valle D’Aosta e, inutile dirlo, lo sci è sempre stata una mia grande passione.

Prima come atleta a livello italiano, poi come maestro di sci ed allenatore da 6 anni spostandomi in diverse stazione: da Pila a Valtournenche, fino allo scorso inverno quando sono tornato a La Thuile. 

 

Betapress- Dunque sempre e solo dedicato allo sci…

 

Pellissier- Lo sport ha sicuramente impegnato gran parte della mia vita ma, nello stesso tempo, nel 2015 mi sono diplomato all’ITPR di Aosta nel settore del turismo.

Poiché la stagione invernale comprende i mesi che vanno da dicembre ad aprile, durante il tempo restante, oltre a concedermi qualche viaggio, negli ultimi anni ho svolto la professione di Barman in Francia.

Professione per la quale, durante il tempo libero dettato dal Covid, ho preso anche una certificazione EBS. 

 

Betapress- Entriamo subito nel merito, crisi del settore turistico bloccato da marzo del 2020 con un singhiozzo di dcpm fino ad oggi.

Partiamo dal primo lockdown…

 

Pellissier- Le comunità montane e il settore turistico sciistico, nello specifico qui in Valle D’Aosta, a partire dall’8 marzo 2020 si sono viste chiudere progressivamente, impianti di risalita e a seguire servizi e strutture ricettive.

Con tale chiusura anticipata noi maestri, e di conseguenza tutto ciò che gravita intorno al turismo invernale, abbiamo perso 41 giorni effettivi di lavoro.

Tra questi il periodo di Carnevale e di Pasqua che, insieme a Natale, portano i maggior introiti per la scuola di sci ed i suoi collaboratori.

 

Betapress- Come avete fatto a resistere? Che aiuti ed incentivi avete avuto dal governo dall’inizio della pandemia?

Come sta andando questo secondo lockdown?

 

Pellissier- Sebbene il primo lockdown fossimo riusciti in qualche modo a farlo passare, anche grazie agli aiuti pervenuti dalla Regione (solo per i maestri di sci residenti) il secondo invece, che ha previsto l’apertura posticipata, ci ha fatto perdere il Natale.

 

Betapress- Perché la chiusura a Natale ha dato il colpo di grazia al mondo dello sci?

 

Pellissier- Se per molti il Natale rappresenta un felice momento di ferie da trascorrere sulla neve, per noi, del settore turistico invernale, è il periodo più significativo dell’anno.

Questo, non solo per l’afflusso di gente ma anche per costruire relazioni importanti con i nostri allievi e far sì che ritornino a condividere con noi la montagna e i suoi sport. 

 

Betapress- Impianti, alberghi, maestri, operatori del settore…

Quanti e quali sono i danni provocati dalla pandemia, ma non solo?

 

Pellissier- I danni arrecati alle famiglie che popolano la montagna, ai suoi professionisti e ai suoi imprenditori sono sicuramente molteplici.

Tra il primo ed il secondo lockdown abbiamo perso 4 mesi di lavoro, mesi decisivi ed importanti per la nostra economia, mesi in cui le spese ci sono state, ma non ci sono state le entrate.

Nello specifico noi maestri siamo una categoria poco considerata

(forse il nostro mestiere viene visto più come un hobby che come una reale fonte di sostentamento).

 

Betapress- Che incentivi avete avuto dal governo?

 

Pellissier- Nei mesi di marzo e aprile abbiamo avuto la possibilità di ricevere i 600 euro dell’INPS che, francamente, corrispondevano semplicemente ad un rimborso (per tenere aperto il cassetto previdenziale) di ciò che avremmo pagato in quei mesi pur essendo senza lavoro.

 

Betapress- Pazzesco! Come avete fatto a resistere?

 

Pellissier- A fronte di ciò la Regione Valle D’Aosta ci è venuta in aiuto garantendoci per i mesi di marzo, aprile e maggio 400 euro al mese.

Meglio che niente, ma di sicuro non ci si può vivere. 

 

Betapress- Durante l’estate, com’è andata?

 

Pellissier- Durante il periodo estivo, siamo in qualche modo riusciti a risollevarci, con le giuste misure di sicurezza, ma parliamo sempre di un mese e mezzo di lavoro, non di più.

Abbiamo riaperto le strutture ricettive, i bar ed i ristoranti; sono anche riprese le attività sportive di mountain bike e di sci (a terra e qualche giorno sulla neve). 

 

Betapress- Fino alla nuova paralisi attuale di tutto il settore con un danno irreversibile.

Che cosa si poteva fare ed invece non è stato fatto?

 

Pellissier- Credo che, per non andare incontro a questo disastro economico che ci sta colpendo, si poteva giocare di anticipo, sapendo fin dall’inizio che questa seconda ondata sarebbe arrivata. Avremmo potuto regioni e governo, trovare le giuste misure di sicurezza e il giusto equilibrio per preservare la salute dei cittadini e la stabilità economica di migliaia di famiglie e di giovani.

 

Betapress- Di cosa avete bisogno, adesso e subito?

 

Pellissier- Quello che mi viene da dire a gran voce è che qualcuno rappresenti in modo più assertivo la montagna e le sue categorie, abbiamo bisogno di ristori concreti e subito.

Necessitiamo che gli aiuti economici arrivino anche a noi.

Che gli incentivi siano studiati per noi come per tutte le altre categorie che, ad oggi, non sono ancora riuscite a riceve alcun aiuto. 

 

Pienamente, d’accordo, ma allora, ci diciamo noi di betapress, perché non sfruttare la crisi per ripensare l’offerta turistica invernale e forse affrontare il problema alla radice?

Perché, finalmente, capire che la montagna è sci, prima di tutto, ma non solo…

 

Ed allora, appuntamento al nostro prossimo articolo, con l’opinione di Enrico Camanni, Direttore della rivista “Dislivelli” che ci propone un’interessante lettura del mondo della montagna.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SCI, SCI, SCI…

Andrà tutto bene … parte terza

 




Le parole di Tim Crook sulla triste rivoluzione americana

Le rivoluzioni non sono nemiche dell’informazione.

Riportiamo in questo articolo la dichiarazione de prof. Tim Crook, presidente del Chartered Institute of Journalists (CIoJ) il più antico ordine dei giornalisti del mondo. 

La missione del CIoJ

Il Chartered Institute of Journalists, è il più antico organismo professionale di giornalisti al mondo e ha sede a Londra.

Ha membri in più di 30 paesi in tutto il mondo e  sostiene i principi dell’Istituto di giornalismo onesto, indipendente e apolitico.

È stato fondato come Associazione Nazionale dei Giornalisti nel 1884 e sei anni dopo è stato riconosciuto dalla Regina Vittoria nella sua Carta Reale, come organismo volto a proteggere e servire coloro che lavorano nel campo del giornalismo.

In questo momento storico delicato, davanti al panorama internazionale così surreale, per noi di Betapress, unica testata in Italia la cui redazione è in toto iscritta al CIoJ, è doveroso dare voce alla dichiarazione del nostro presidente professor Tim Crook che ha inviato a tutti i membri la seguente email.

La dichiarazione del presidente del CIoJ

Tim Crook Presidente CIoJ
Tim Crook Presidente CIoJ

Il Chartered Institute of Journalists condanna la violenza nei confronti di giornalisti e operatori dei media che coprono l’assalto al Congresso degli Stati Uniti da parte dei sostenitori di Donald Trump.

Il presidente dell’Istituto, il professor Tim Crook, ha dichiarato:

“I rivoltosi hanno inseguito giornalisti e distrutto attrezzature professionali per i media in scene spaventose condannate ampiamente come attacco e macchia alla democrazia.

Vogliamo lodare e rispettare il coraggio e la professionalità dei giornalisti che hanno riportato gli eventi a Washington DC e hanno consentito un dibattito aperto sulle implicazioni di quanto è accaduto”.

Le troupe dei media sono state costrette ad abbandonare l’area e fuggire mentre i manifestanti hanno fracassato le loro attrezzature.

 

Il professor Crook ha dichiarato:

“Trovo agghiacciante e terribile il filmato degli aggressori che fanno un cappio con il cavo di una telecamera e lo appendono a un albero”.

Questo fa parte di un modello spaventoso di attacchi e intimidazioni nei confronti di giornalisti che si occupano della politica statunitense e degli eventi pubblici negli ultimi tempi.

 

“Tutti i nostri membri sperano che questo finisca e gli Stati Uniti in futuro saranno un paese che rispetta la democrazia e il diritto dei giornalisti di riferire liberamente e in sicurezza”.

 

Betapress sposa l’etica del CIoJ

La linea editoriale di Betapress è sempre stata quella della ricerca della verità a prescindere dalla corrente politica che vuole governarla.

Abbiamo sempre agito nella perfetta etica giornalistica e questo è il motivo per il quale ci siamo trovati subito in linea con l’etica del Chartered Institute of Journalists.

Condividiamo pertanto le parole e allo stato d’animo del prof. Crook e diamo loro massima divulgazione parafrasando il suo messaggio

Tutti noi  speriamo che tutto questo finisca e tutti i paesi in futuro saranno in grado di rispettare la democrazia e il diritto dei giornalisti di riferire liberamente e in sicurezza

Grazie Presidente.

 

Sito dell’CIoJ 

 




Il senso dell’abbandono

Nella vita può capitare di essere abbandonati o di abbandonare, qualcuno, qualcosa, un luogo, sempre questo fatto, sia che sia voluto sia che sia subito, genera un senso di spiacevolezza, di tristezza, di inadeguatezza, di paura.

Questo perché il nostro organismo percepisce un cambiamento e reagisce, generando in noi una reazione che può assumere varie forme, dalla disperazione al disinteresse.

La tipologia di reazione dipende molto dal nostro vissuto e da eventuali richiami al nostro passato che questi eventi portano alla nostra memoria, spesso un abbandono infantile dimenticato può scatenarsi durante un abbandono nell’età adulta miscelando così nelle nostre reazioni un amarcord di difficile interpretazione.

Viene facile quando pensiamo all’abbandono ragionare in termini di perdita di una persona cara o di interruzione di un rapporto affettivo, in realtà uno degli abbandoni più pericolosi è quello dal lavoro.

Un licenziamento può generare un trauma  sociale molto forte perché la rottura di un rapporto amoroso ha una eco verso una persona, colei/colui che ha interrotto, nel caso di perdita del posto di lavoro l’eco si espande a livello sociale fino a far sentire l’abbandonato inadatto non tanto all’ex partner ma alla società tutta.

 Nell’abbandono, di qualsiasi natura esso sia, vi sono varie fasi che susseguono all’evento traumatico e che devono essere gestite con la massima attenzione per poter riequilibrare lo stato psicologico di chi ha perso qualcosa.

la prima fase è sicuramente quella dello stupore, molti la definiscono della negazione, ma credo che sia più giusto vederla come un momento di meraviglia, in cui la nostra mente non riesce a connettere il fatto ai suoi motivi, anche perché i motivi spesso non sono quelli dell’abbandonato ma dell’abbandonatore.

Da qui la sensazione di stupore che poi si trasforma in mancato riconoscimento dei motivi dell’abbandono e pertanto della loro negazione.

Questo è il momento più doloroso perché la nostra anima si rifiuta di credere e di razionalizzare un perché, quindi subentra un momento di panico emotivo che pochi riescono a gestire.

In questa fase conta molto poco gestire la persona cercando di spiegargli motivi o situazioni, la cosa migliore è portare l’individuo su un campo differente, in un certo senso allontanarlo dal suo sbigottimento e farlo vivere su argomenti più congeniali.

Nemmeno è utile sminuire l’abbandonatore perché ancora lo stesso riveste un ruolo fondamentale nell’abbandonato, ma è molto più importante in questa prima fase consolidare le caratteristiche dell’abbandonato riportando alla sua memoria le doti per le quali le persone lo stimano.

In coda a questa fase di stupore subentra la sottofase della negazione in cui tutto diventa senza senso perché quanto per l’abbandonato aveva valore nella relazione, qualsiasi essa sia (lavoro, sentimentale, affettiva), non è servito a mantenerla, di conseguenza la negazione del valore è un modo di difesa dalla perdita.

Proprio in conseguenza della perdita di valore subentra la seconda fase ovvero quella della rabbia o meglio del risentimento,

Questo risentimento si rivolge verso la perdita, ovvero l’ex partner, il datore di lavoro, il destino, dio, etc.

E’ proprio in questa fase che occorre una grande capacità di intervento per poter indirizzare la rabbia ed i sentimenti ostili verso un bersaglio neutrale, occorre scaricare a terra tutta l’adrenalina che la consapevolezza della perdita attiva nell’organismo.

E’ il momento delle grandi azioni, perché lo scatenarsi adrenalinico nel nostro organismo scuote mille altre emozioni contrastanti fra loro che innalzano il livello di astio nei confronti dei presunti oggetti della perdita.

In questa fase è fondamentale poter fare un intervento razionale ma soprattutto in grado di indirizzare la rabbia verso un qualcosa di tangibile, riconoscendo uno per uno i sentimenti scatenanti, identificandoli anche nella loro origine più profonda e permettendo all’individuo di convogliare la propria rabbia più verso il riconoscimento degli elementi scatenanti che verso il soggetto scatenante.

La gestione lucida di questa fase permetterà una serena consapevolezza.

La consapevolezza introduce le due fasi successive, il bisogno di trovare una quadra, una specie di tentativo di patteggiamento per riportare la situazione allo stato originario, è in questa fase che si fanno gli errori più comuni, telefonare continuamente, cercare un accomodamento, fare i fioretti o accendere le candele in chiesa, arrivando inevitabilmente alla fase della depressione.

La fase della depressione può essere quella definitiva, ovvero quella in cui il soggetto se non correttamente aiutato, trova un rifugio oscuro ma sicuro, rifugio nel quale il mix di consapevolezza e sensi di colpa ma anche la mancanza di soluzioni porta l’abbandonato a percorrere la strada della ricerca della privazione sensoriale, non si cercano più stimoli (che inevitabilmente generano ricordi), ci si estrania dal mondo e si cerca rifugio in quelli che definirei i beni stordenti, alcool, droga, evitando tutto ciò che faceva parte del mondo precedente, persone comprese.

In questa fase il ricordo di quanto perso diventa assoluto, perché rabbia e consapevolezza ci hanno fatto già bruciare tutto il brutto che abbiamo cercato per allontanare il dolore della perdita, quindi in questa fase diviene acuta la sensazione di mancanza.

Proprio in questa fase è necessario consumare tutto il dolore, fino a rimanerne esausti.

Solo così si potrà aprire l’ultima fase ovvero quella dell’accettazione.

Questa è una fase che richiede tempo ed è molto legata a come l’abbandonato è riuscito ad affrontare le prime fasi soprattutto quella della depressione.

L’Accettazione non elimina il dolore, lo mette solo al suo giusto posto incasellandolo ed archiviandolo, permettendo all’abbandonato di riprendere il suo percorso con un bagaglio esperienziale maggiore.

Quello che in tutte queste fasi sarà un elemento comune è il senso dell’abbandono, una sorta di emozione continua, un taglio dell’anima che rimarginandosi ci tiene vivi e che spesso è quello che ci aiuta a superare la fase della depressione.

Il senso dell’abbandono è qualcosa di concreto che entrerà a far parte del nostro bagaglio emotivo, un importante imprinting che la nostra intelligenza emotiva saprà gestire nei casi successivi spesso portandoci a mediare in situazioni simili o a trovare soluzioni differenti.

Il senso dell’abbandono è il vero valore che ci rimane dopo un lutto, la perdita di un amore, la perdita di un lavoro o simili.

Il senso dell’abbandono è il vero valore, perché permette di continuare liberamente e senza alcun velo a pensare ad un amore, ad una persona cara, ad un’esperienza vissuta tenendo tutto come patrimonio del cuore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Covid19 = aumento della depressione




Manuale degli aiuti umanitari

 

Alex Manini, novarese di origini, ma cittadino del mondo, nel vero senso della parola, è il Presidente dello IEMO (International Emergency Management Organization).

Alex Manini ha compiuto 38 viaggi in Africa, non per piacere, ma per dovere, se così si può dire.

Sì, perché Alex Manini ha un dovere categorico che lo pervade, quello di aiutare gli altri, ma nel modo giusto.

Pretesa? Sfida? Obiettivo?

Di sicuro impegno sociale, oserei dire missione esistenziale.

Basti dire che ora Alex Manini è autore del Manuale degli Aiuti Umanitari, edito da C.C.Editore.

Un manuale, il primo nel suo genere, a livello internazionale, redatto in tre lingue, inglese, francese, italiano.

Una guida pratica che unisce le best practices alla base della raccolta, dell’invio e dell’erogazione degli aiuti umanitari con la classificazione, analitica e dettagliata degli attori umanitari.

Un compendio dal preciso intento di stimolare le migliori istanze solidaristiche e di carattere etico-sociale.
Un manuale operativo per rendere efficaci ed efficienti gli aiuti umanitari.

Ma anche un libro che abbatte antichi pregiudizi tra paesi ricchi e paesi poveri.

Un testo pioneristico che scardina illusorie certezze di paesi “buoni” e paesi “cattivi”, un manuale per agire e reagire nella selva oscura della solidarietà internazionale.

Questo manuale propone una check list in 100 punti e diventa il primo tentativo, al livello internazionale, di razionalizzare l’invio di generi umanitari, rendendoli accessibili a chiunque.
Particolarmente studiato ed utile ad associazioni, ONG e singoli benefattori, è per noi di betapress, una certezza: siamo sicuri che stimolerà il settore degli aiuti umanitari, a favore dei molteplici scenari di emergenza, attualmente in rapida crescita.

 

Come redazione, abbiamo avuto l’onore di conoscere di persona Alex Manini, abbiamo avuto la soddisfazione di leggere nei suoi occhi quella luce di chi guarda oltre e di chi vede prima.

 

Betapress- Presidente Manini, ci parli un po’ di lei e del Manuale degli Aiuti Umanitari, recentemente pubblicato da Currenti Calamo Editore

 

Manini- Grazie, Dottoressa, sono molto lieto di aver scritto il Manuale degli Aiuti Umanitari, appositamente studiato per Associazioni di volontariato e solidarietà internazionale, ONG, (Organizzazioni Non Governative) e gruppi di cittadinanza attiva e solidale.

E’ il primo Manuale divulgativo presente oggi sulla scena mondiale, che consente di effettuare un’efficace ed efficiente operazione umanitaria, grazie ad una check list di 100 punti, che se supportate e seguite portano al compimento di un’operazione umanitaria capace di ridurre le necessità immediate di collettività estere svantaggiate

 

Betapress- Da dove nasce la sua esperienza nel settore?

 

Manini- Il manuale nasce dall’esperienza dello IEMO (International Emergency Management Organization) che presiedo dalla sua istituzione, nel 2006.

 

Betapress- Quanti viaggi ha compiuto nel continente africano?

Manini- Parecchi, almeno due volte all’ anno vado in Africa, la conosco praticamente tutta.

Questa esperienza dello IEMO mi ha portato a compiere 38 viaggi in Africa.

E’ da questi viaggi che non sono dei semplici soggiorni nelle capitali, ma diventano dei veri e propri itinerari nei villaggi, che prendiamo lo spunto per trattare un argomento ancora molto attuale: come effettuare degli aiuti umanitari in modo corretto e efficace

 

Betapress- Ma gli Aiuti Umanitari, servono ancora in un mondo così globalizzato?

 

Manini- Gli Aiuti Umanitari servono, eccome, e servono laddove ci sono fenomeni di marginalizzazione.

Gli aiuti umanitari non devono però scendere “a pioggia” su tutto un territorio, ma devono essere mirati alla riduzione della marginalizzazione esistente in determinati punti e fasce sociali di quel territorio.

 

Betapress- Cioè aiuto umanitario come lotta alla marginalizzazione?

 

Manini- L’obiettivo di un valido aiuto umanitario è infatti quello della riduzione della marginalizzazione di collettività connotate da esclusione, povertà, isolamento e discriminazione.

 

Betapress- Quali sono gli aiuti umanitari più ricorrenti?

 

Manini- E’ proprio nell’ ottica di ridurre la marginalizzazione che si giustificano ancor oggi gli aiuti umanitari tradizionali, quali vestiario, cibi e medicinali, pur in un’epoca globalmente interconnessa in campo internazionale.

 

Betapress- Allora gli aiuti umanitari servono, ma non possono rappresentare una forma di assistenzialismo?

 

Manini- Gli Aiuti umanitari servono, ma non possono e non devono rappresentare, nella nostra visione, alcuna forma di assistenzialismo o espressione di futile buonismo.

Gli aiuti umanitari sono elementi basilari per la vita e la sussistenza di coloro che non vengono raggiunti dalle grandi correnti del commercio internazionale.

Attenzione a questo dato: nella realtà, sono ancora molti, circa 800 milioni gli individui situati nelle periferie delle metropoli, nei luoghi di guerra. 800 milioni le persone in balìa di conflitti che vivono nelle aree neglette e abbandonate, soprattutto in zone rurali e nei cosiddetti Paesi in Via di Sviluppo.

 

Betapress- Il suo manuale è in tre lingue, vero?

 

Manini- Proprio per essere fruibile nel maggior numero di paesi possibili, il mio Manuale degli Aiuti Umanitari è trilingue, in Italiano, Inglese e Francese.

 

Betapress- Quali sono i targets (destinatari) degli aiuti umanitari?

 

Manini- Gli Aiuti Umanitari toccano targets che altrimenti non verrebbero beneficati dai loro stessi sistemi/paese.

Gli aiuti umanitari devono raggiungere quegli individui che sono nascosti nella loro marginalizzazione.

Nascosti o di fatto, o volutamente occultati dal loro governo politico.

Gli Aiuti Umanitari vanno a porsi come alternativa alla mancanza cronica e totale di beni e servizi vitali.

 

Betapress- Qual’ è un bene prezioso, oltre l’acqua e il cibo?

 

Manini- Alcuni medicinali essenziali, per noi banali.

Pensiamo ai disinfettanti: una semplice piaga, come quella che vedete nella foto, é degenerata in un’infezione che può portare alla morte per setticemia: la presenza e l’accessibilità in loco di questo particolare tipo di bene-salvavita (il disinfettante appunto) testimonia come si possano salvare vite umane con sistemi semplicissimi, a patto però di disporne”.

 

A questo punto, il Dr. Manini mi mostra una serie di foto che non lasciano ombra di dubbio a proposito della assoluta, urgente, improrogabile necessità di aiuti umanitari pilotati, gestiti e controllati in modo sistemico.

Adesso, forse, inizio a capire il valore del suo manuale ed il perché della sua check list.

Adesso, forse, mi convinco che aiutare significa mirare a colpire il bersaglio della marginalizzazione e che per fare questo bisogna davvero seguire il suo percorso a tappe, superando non pochi ostacoli doganali, raggiri politici, escamotages, e chi più ne ha, più ne metta…

 

Grazie, Dr. Manini per il suo impegno sociale, il suo coraggio di dire, ma soprattutto per la sua coerenza nel fare e nel vivere una vita di Aiuto Umanitario.

Ed un invito ai nostri lettori, andate di persona a leggere il Manuale degli aiuti Umanitari.

Si tratta di una buona lettura per chi vuole informarsi per sapere come realmente stanno le cose, ma è anche un prezioso manuale di formazione per chi vuole aiutare, e di supporto per chi già opera nel campo.

Per andare incontro ad un mondo migliore, o per lo meno, per lasciarci alle spalle un po’ di povertà economica e di miseria sociale.

 

NOTA DEL DIRETTORE:

Il tema degli aiuti umanitari non può essere affrontato senza alcune note che mi permetto di scrivere in calce al bel lavoro di Antonella che ci illustra l’altrettanto ottimo lavoro del dott. Manini.

Gli aiuti sono purtroppo oggi anche fonte di dolorose considerazioni da fare obbligatoriamente ed anche, se mi si permette, con coraggio.

Quante volte, moltissime, gli aiuti umanitari non raggiungono la loro destinazione ma vengono bloccati alle varie frontiere, fatti scadere e buttati o peggio sequestrati dalle varie milizie terroriste che poi li utilizzano per le loro attività.

Quante volte questi aiuti vengono in realtà usati come merce di scambio o peggio ancora come  vigliacchi rifornimenti alle frange violente nei territori della martoriata Africa.

Spesso inoltre alcuni governi utilizzano gli aiuti umanitari bloccandoli alla frontiera come merce di scambio con i vari signori della guerra locale.

Inoltre gli aiuti umanitari spesso non sono visti come un elemento strutturato di uno stato ma solo come elemosina momentanea, pertanto di scarsa efficacia.

 

 

 

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Natale in solitaria

E’ stato un Natale snaturato, amputato, un Natale senza fiocchi.

Eppure, mai come quest’anno, senza ninnoli e senza fronzoli, abbiamo fatto i conti di chi ci è vicino, anche se lontano, di chi ci abita dentro, anche se non lo vediamo, di chi è vivo, ma è come se fosse morto e di chi è morto, ma è come se fosse vivo.

Soprattutto abbiamo raggiunto la consapevolezza di chi ci può davvero mancare e di che senso ha festeggiare.

Ho superato il mezzo secolo di vita, quanto basta per aver visto sfumare la poesia dei miei sogni di bambina, ma non ancora abbastanza per raggiungere la saggezza e l’equilibrio di certi anziani che stimo.

Sono uno spirito libero ed adoro viaggiare.

Sin da ragazza, tra Natale e Capodanno, partivo per un’altra avventura, immergendomi in usi e costumi locali, spesso esteri.

Non è quindi così strano per me essere lontana dai miei cari il giorno di Natale, quelli seguenti e a Capodanno.

Eppure questa volta è tutto diverso.

Sono mesi che non ci si vede, se non tramite gli schermi dei cellulari, e non ci si abbraccia.

Questa volta, stare lontani non è una scelta e rende tutto differente.

Dall’ultima volta che ci si è visti sono successe tante cose.

In mezzo ci sono persone care che sono venute a mancare, la paura di essere contagiati, i giorni in attesa di sapere se gli amici che avevano contratto il virus stessero bene.

Ci sono i timori per come andranno i prossimi mesi, gli interrogativi su quanto ancora dovremo aspettare prima che la situazione cambi.

La libertà di scelta, la libertà di muovermi mi manca, terribilmente.

Così come mi manca viaggiare, perché è parte del mio modo di vivere, del mio modo di rapportarmi al mondo e agli altri.

So bene che è un sacrificio necessario e lo faccio con la consapevolezza che è fondamentale.

Non mi lamento, ma ci penso.

Penso ai miei genitori che vivono solo al di là del “confine regionale”, che prima neanche mi accorgevo ci fosse un confine, mentre ora è come se ci fosse un muro.

Sono a meno di un’ora da me e sembrano lontani come quando ero all’estero. 

Penso agli amici sparsi in altre parti d’Italia e del mondo, che non vedo da tanti mesi e non so quando rivedrò.

Sono abituata alla distanza, alle persone care lontane da me – gran parte dei miei amici più stretti vivono in altri città o paesi -sono abituata a vivere il “Natale” in posti strani dove magari non si festeggia come qui.

Ma questa volta, è un Natale diverso da tutti gli altri e mi pesa, sono sincera. 

Mi mancano gli abbracci, le piccole tradizioni che, seppur spostate di qualche giorno, si ripetevano ogni anno.

Mi mancano e mi mancheranno i viaggi, come pure quella spensieratezza che accompagnava quei giorni.

Sono lontana dai miei cari e continuerò a starci nella convinzione che sia la cosa più sensata.

Ma non posso e non voglio far finta di niente, perché questa pandemia ha sconvolto tutto e dobbiamo dare forma e parole ai sentimenti per poterci convivere e non farci logorare.

Perché l’emergenza iniziale è stata una tempesta arrivata all’improvviso con una forza disumana, ma questa seconda fase per molti aspetti sta diventando ancora più faticosa, perché c’è il trauma e il ricordo di quanto vissuto da marzo, perché l’incertezza e l’imprevedibilità ci accompagnano giorno dopo giorno.

Difficile, se non impossibile, fare progetti.

Vivere con la paura di una terza fase può diventare paralizzante.

 

Eppure, in questi giorni, ho capito il potere e l’eccezionalità della libertà.

 

Questo Natale amputato ha fatto germogliare in me tutti quei pensieri che costantemente mi accompagnano da mesi e mi ripetono quanto siamo privilegiati.

Perché ora non ci sentiamo liberi (anche se poi possiamo fare un sacco di cose), ma lo siamo stati fino a marzo e per un po’ anche d’estate.

Salvo imprevisti, torneremo ad esserlo fra qualche mese.

 

Ma c’è chi non lo è, non lo è mai stato e forse in questa vita non lo sarà mai.

Non mi sono accorta solo ora della loro esistenza, non ho sviluppato solo in questi giorni questa consapevolezza e chi mi conosce lo sa.

 

Eppure, solo ora, capisco il potere, il privilegio, l’onere e l’onore della libertà in cui sono nata e cresciuta.

 

Per qualcuno possono essere frasi retoriche, ma non credo lo siano.

 

Perché in fondo penso che non ci rendiamo mai veramente conto di quanto siamo fortunati a vivere in questa parte di mondo, in un paese che seppur con tanti, tantissimi limiti, è una democrazia.

Perché forse non ci soffermiamo mai abbastanza su cosa voglia dire essere bianchi, vivere in salute, avere un passaporto come il nostro.

 

Sono cose che forse già sapevo, ma che il covid mi ha sbattuto in faccia con forza.

Sono cose a cui da marzo penso e ripenso continuamente.

Vorrei che ci riflettessero di più anche altre persone (e non mi dilungo su chi, perché è scontato e sono già oltre la lunghezza sopportabile per un articolo).

Ma non sono sicura che ciò accadrà: questa pandemia ci ha sconvolti, ci ha cambiati, eppure su molti aspetti e posizioni non ha avuto impatto, nonostante gli slogan iniziali secondo cui ne saremmo usciti migliori.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lettera di una Professoressa a Babbo Natale

La libertà di stampa




Morgione: poesia anticovid.

Siamo onesti. Sono giorni, sono anni difficili.

Niente e nessuno è più come prima.

Solo e sempre problemi.

Una domanda sorge spontanea di questi tempi:

dov’è finita la poesia? O, ormai, c’è rimasta solo la prosa?

Noi di betapress pensiamo che, mai come in questo periodo, ha ancora senso scrivere e parlare di poesia.

Anzi, solo un’anima poetica, intimamente innamorata della vita, può cercare un senso, dare un volto, incapsulare in curve d’ inchiostro quest’ aborto di vita che stiamo vivendo da quasi un anno.

Siamo andati ad intervistare Ulisse Morgione, un poeta che ha appena pubblicato la sua prima raccolta di poesie “La cura del liutaio” edito dalla Currenti Calamo Editore.

Ed abbiamo scoperto che un poeta può partorire poesie stupende anche ai tempi del covid, precisamente nei giorni del primo lockdown:

“In questa lontananza

non mi mancano – uomo –

i tuoi bagliori fatui

i gesti grevi

l’andirivieni scaltro

le condizioni che mi poni

per essere altro da ciò che sono.

Mi manca il grano verde

la fioritura dei papaveri

le costellazioni dei ciliegi

le mani giunte e tiepide dei tulipani

la scorza dei limoni

il biancospino cresciuto sui cancelli

che darà a nessuno, temo, la sua essenza.”

 

Questa poesia è stata scritta nell’aprile di quest’anno, durante il primo lockdown.

Giorni in cui la lontananza dal mondo e l’isolamento sociale, ci hanno fatto rimpiangere non la frenesia umana, la diplomazia sociale, la falsità collettiva, ma la meraviglia del creato, i colori, i profumi, le emozioni visive, olfattive, tattili della natura…

Solo un poeta può sbucciare la realtà e portarci al nocciolo della questione.

Per esempio, dare voce e volto a questa fame di amore profuso solo dalla natura.

Ed allora abbiamo voluto ricaricarci dentro e conoscere di persona chi può aiutarci a volare sopra gli affanni quotidiani di questi giorni snaturati.

 

Betapress- Buongiorno Ulisse, complimenti di cuore per le tue poesie. Partiamo un attimo dalla tua vita.

Quali eventi significativi hanno avuto maggior impatto emotivo nella tua anima poetica?

 Morgione-Tra gli eventi biografici significativi, c’è sicuramente la morte prematura di mio padre avvenuta quando avevo 20 anni, un lutto tardivamente elaborato, uno strappo esistenziale su cui, a distanza di quarant’anni, ancora scrivo.

Tra i tanti accadimenti della mia vita, posso citare i miei spostamenti: dalla Calabria dove sono nato e vissuto fino a 19 anni, alla Toscana, terra certamente d’elezione per me, il cui paesaggio è l’unico nel quale posso ritrovare me stesso e tendere all’armonia.

Infine Napoli dove vivo da 20 anni, con le sue potenti contraddizioni, le sue lusinghe e i suoi strazi.

 

Betapress- Ulisse, che valore ha la poesia nella tua vita?

 

Morgione-La poesia è una costante della mia vita, sia come fruitore che come autore.

Mi sono sempre accostato ad essa con molta soggezione e infinita curiosità.

 

Betapress- La poesia è inizio o termine di una ricerca interiore?

 

Morgione- Ho imparato, da lettore innanzitutto, che la Poesia è un’Intenzione, è il principio di una strada, il desiderio di scoperta.

La Poesia non ha risposte, ma aiuta a farsi le domande, interrogarsi sul mondo e su sé stessi.

 

Betapress- Le domande esistenziali avvicinano la poesia alla filosofia?

 

Morgione-La poesia non è filosofia, è metafora e come tale deve avere la capacità di evocare, di decollare dalla pagina scritta ed approdare in quello spazio tra conscio e inconscio, dove teniamo in segreto le nostre vite.

La poesia è un dialogo, un alter ego che non mente e se lo fa è perché glielo concediamo.

 

Betapress- La tua raccolta è intitolata “La Cura del Liutaio”, perché?

 

Morgione- “La cura del Liutaio” è un verso di una mia poesia e dà il titolo alla raccolta perché esprime il mio proposito umano e professionale.

Questo titolo vuole essere evocativo, vuole richiamare un mestiere di alto profilo artigianale come quello del liutaio.

Il liutaio con lentezza, sapienza e passione, si prende cura di uno strumento danneggiato che non risuona come dovrebbe o ne costruisce uno nuovo partendo dal legno, con infinita maestria e pazienza. 

Ognuno di noi dovrebbe cercare di essere artigiano della propria vita.

Ed il poeta è l’artigiano del verso che va cesellato, levigato, lucidato infine fino a risplendere.

Perché la vita, nella poesia, possa risplendere, anche nei momenti più bui

 

Betapress- Quando sono state scritte queste poesie?

 

Morgione- Nella raccolta ci sono poesie scritte negli ultimi 5 anni, ma che spaziano nella mia biografia per più di quarant’anni.

 

Betapress- Durante la giornata, esiste un momento privilegiato per scrivere una poesia’?

 

Morgione- Sì, sovente una poesia germoglia tra il sonno e la veglia, i primi versi scaturiscono sulla linea di confine tra il conscio e l’inconscio.

 

Betapress- Nelle tue poesie ci sono dei temi ricorrenti?

 

Morgione-Tra i temi a me più cari, sicuramente, posso citare

la Natura nel suo compiersi ostinato e salvifico.

Ma anche la Durata come aspirazione e fonte al contempo di delusione inevitabile, vista la precarietà dell’essere.

Ne deriva un tornare nel tempo, un ripercorrere il bordo delle fratture che la Discontinuità dei luoghi e delle persone 

mi ha creato.

Infine potrei citare una tensione all’Immanenza, al mistero del creato e a quella lucida consapevolezza che esistere è solo una “tentazione”, per citare E. Cioran.

In fondo la poesia e l’uomo sono sul limite, sul varco, sulla rottura dell’”anello che non tiene “.

Un passo al di qua della linea d’ombra”.

 

Ed allora, un invito ed un augurio ai nostri lettori.

Un invito a guardare oltre i fatti, dentro le cose e dietro le apparenze, perché questo ci rende uomini liberi.

Ma anche un augurio.

Perseguire questo nostro intento conoscitivo della realtà, non con lucido cinismo e sterile pragmatismo.

Percorrere la vita come fanno i poeti, danzando sotto la pioggia, riannodando i fili, dipingendo il buio, cogliendo in attimi di folgorazione fulminea quel “preludio onirico di paradiso”.

Grazie Ulisse, perché le tue poesie ci aiutano a riprendere quota in questi giorni di male di vivere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 




Autolesionismo e tagli nell’arte

Un fenomeno del quale si parla molto in questo periodo è l’autolesionismo. 

Sembra che l’autolesionista non intenda distruggere completamente il suo corpo, ma usi il dolore fisico per gestire meglio quella che è una sofferenza psichica.

Con la pelle si comunica ed è la pelle a svolgere una funzione di contenimento nell’ammortizzare quelle tensioni che provengono sia dall’ambiente esterno sia dal mondo interiore.  

Secondo Freud la pelle può essere configurata come una superficie di inscrizione del senso e così si esprime nel suo testo del 1923 “L’Io e l’Es”:

“L’Io è in definitiva derivato da sensazioni corporee, soprattutto dalle sensazioni provenienti dalla superficie del corpo. Esso può dunque venir considerato come una proiezione psichica della superficie del corpo…”

Secondo Charmet molti giovani si sentono inadeguati e reagiscono a ciò con modalità differenti.

Vi sono gli autolesionisti che attaccano e manipolano il proprio corpo nel tentativo di ferirlo, inciderlo e scottarlo. 

Un’altra categoria è quella dei cosiddetti ritirati sociali che sono spesso dipendenti anche da Internet.

Assistiamo in quest’ultimo caso al ritiro dalla scuola e dal gruppo dei pari.

Il loro rifugio diviene la stanza.

Nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali denominato DSM-5, rileviamo che per autolesionismo intenzionale (Deliberate Self-harm – DSH) o autoferimento intenzionale (Self-injury Behaviour – SIB) si intende un comportamento che causa un danno o una lesione al proprio corpo o ad alcune parti di esso ed è contrassegnato da intenzionalità, ripetitività, assenza di intento suicidario, aumento della tensione e sensazione di sollievo successiva alla messa in atto dell’agito autolesivo.

È stato osservato come tale disturbo sia prevalente nella fascia d’età compresa tra i 12 ed i 14 anni.

Inoltre, le modalità autolesive più frequentemente utilizzate sono il tagliarsi, il bruciarsi, lo scarnificarsi, il mordersi, l’interferire con il processo di cicatrizzazione delle ferite, l’inserirsi oggetti sotto la pelle e sotto le unghie.

Anche nel mondo dell’arte sono stati spesso presenti comportamenti  autolesionistici.

Possiamo citare come esempio Gina Pane, artista francese della Body Art nata nel 1939 a Biarritz e morta nel 1990 a Parigi, famosa per aver realizzato performances procurandosi tagli sul corpo con pezzi di vetro e lamette fino a ricoprirsi di sangue e a sperimentare un intenso dolore mescolato ad un piacere assimilabile a quello provato dall’autolesionista.

Tra le sue performances ricordiamo “Psyché” del 1974 in cui infierisce sulla pelle producendo quattro tagli disposti a forma di croce intorno all’ombelico.

È evidente che l’artista intende l’arte come un’esperienza esistenziale basata sul dolore fuso con il piacere. Ella comunica questa sua sensazione in maniera immediata ed efficace ad un pubblico esterrefatto e stupito per il gesto compiuto.

Invece, un artista che comunica sul piano del simbolico la tematica dell’autolesionismo è Lucio Fontana che divenne celebre per i suoi tagli su tela.  

I suddetti tagli, realizzati minuziosamente e con estrema precisione, sono posti uno di fianco all’altro e segnano l’opera con ricercati effetti di luce.

Essi possono essere interpretati come ferite o squarci assimilabili a quelli dell’autolesionista ed in quest’ottica possiamo sostenere che Fontana utilizza la tela come se fosse pelle.

Il quadro diviene così per l’artista estensione del proprio corpo.

Sia per l’artista sia per l’autolesionista il taglio assume la valenza di superamento di un limite.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’arte come compensazione della disabilità fisica

 




Aiutiamo le scuole col fundraising

Concluso il ciclo di 4 incontri sul fundraising per le scuole prodotto da Betapress.it

A partire dalla fine di Novembre Betapress.it è cresciuto e  dal solo spazio scritto è passata all’integrazione con la parte video.

Le dirette di Betapress.it

Sono nate così le Dirette di Betapress.it, una serie di trasmissioni tematiche incentrate sulla Scuola, la Politica, lo Sport e Costume che integrano già da ora e integreranno i nostri articoli.

Nelle dirette di Betapress.it incontreremo autori e protagonisti dei nostri articoli, daremo spazio ai nostri lettori di interfacciarsi con noi e avremo modo di affrontare in modo molto più diretto tematiche delicate.

Per inaugurare in bellezza il ciclo di programmazione dedicato alle scuole, abbiamo deciso di proporre un argomento molto utile alle scuole: il fundraising.

Le dirette di betparess.it – la Scuola

Questo primo ciclo di puntate è stato condotto da Chiara Sparacio, capo redattore di Betapress.it,  e Francesca Donati, consulente di fundraising per il gruppo editoriale Currenti Calamo.

Nel corso delle quattro puntate, pianificate secondo un criterio graduale di inserimento nel tema, presentazione dello spirito, teoria ed esempi concreti, abbiamo intervistato

Riccardo Friede, consulente per le piccole associazioni, Luciano Zanin, notissimo consulente di fundraising e fondatore di fundraising per passione, Massimo Coen Cagli, direttore della scuola di fundraising di Roma e simbolo vivente del fundraising per le scuole, Mariangela Leonetti consulente di fundraising per una cooperativa di scuole paritarie.

Contenuti

I contenuti prodotti sono stati di enorme valore, gli ospiti hanno dato consigli pratici e concreti alle scuole che desiderano fare fundraising.

Riccardo Friede ci ha raccontato di come alla base di ogni richiesta di contributo economico o umano serva la condizione della buona causa

Come ha raccontato Massimo Coen Cagli, in Italia, a differenza che nel mondo anglosassone, c’è una fortissima e immotivata resistenza all’idea di fare fundraising, di coinvolgere le famiglie nei progetti delle scuole.

Come segnalato da Luciano Zanin, spesso si pensa che le scuole ottengano già “abbastanza” dallo stato o dalle rette, in realtà, a pensarlo, spesso sono solo le scuole perché, di contro, le faglie e la comunità sarebbero ben felici di partecipare a un progetto che va a vantaggio delle nuove generazioni e dell’intera comunità.

Ma la comunità ha la piena percezione del fatto che la scuola è un nucleo fondamentale della nostra società e, di fronte a una richiesta di coinvolgimento attivo, è sempre ben felice di dare il suo contributo e questo ce lo ha raccontato benissimo e con enorme coinvolgimento Mariangela Leonetti.

Quello che abbiamo imparato è che oggi, anche se non lo si fa abbastanza, le scuole possono fare fundraising.

I primi passi

Ognuno realtà scolastica ha il proprio percorso e un proprio ambiente sociale; questo vuol dire che le modalità di azione non possono essere universali.

Detto questo, però, nel corso delle trasmissioni sono stati evidenziati dei punti comuni e delle azioni che è possibile fare fin da subito.

Andiamo a vederle

  • individuare una persona che si occupi del fundraising
  • fare una lista delle persone che orbitano attorno alla scuola (docenti, studenti, genitori, comunità…)
  • fare una lista delle relazioni legate a queste persone (mestieri, competenze, amicizie…)
  • individuare dei grandi progetti importanti per la scuola e dividerli in tanti piccoli progetti (rifare la Palestra, acquistare le attrezzature…)
  • coinvolgere la comunità (presentare i progetti alla comunità spiegandone l’importanza ma anche i vantaggi umani ed economici che ci sono nel fare fundraising)
  • aprire la scuola alla comunità (fare giornate a porte aperte laddove il periodo lo permetterà…=
  • coinvolgere l’associazione dei genitori
  • organizzare le attività e condividerle

Nelle puntate troverete altri importanti stimoli.

Il Fundraiser prefetto

Abbiamo chiesto ai nostri ospiti di descrivere il fundraiser perfetto affinché il dirigente scolastico potesse individuare la persona più adatta il più facilmente possibile.

Proprio perché le esperienze di ciascuno sono differenti, anche le risposte sono state assortite.

Alcuni hanno detto che il fundraiser deve essere una persona della scuola, altri hanno detto che deve essere una persona esterna assunta apposta.

Tutti sono stati d’accordo col fatto che il fundraiser deve conoscere bene la comunità e la scuola e debba essere radicata in essa e si debba dedicare solo al fundraising.

per quanto riguarda la figura da cercare, tutti sono stati d’accordo sull’importanza della capacità relazionale, della capacità di saper chiedere e del costante desiderio di formarsi.

Come ha detto Mariangela Leonetti, che il fundraiser sia interno o esterno alla scuola. la cosa fondamentale è che sia formato, perché non è possibile improvvisarsi fundraiser e sperare di ottenere risultati.

Seguito

La trasmissione ha avuto un buon riscontro e in redazione abbiamo avuto delle richieste che ci hanno fatto decidere di continuare a portare avanti il filone di incontri sul fundraising e affrontare anche altri temi ad esso collegati come il crowdfunding o l’europrogettazione.

Le puntate

Riportiamo qui il link del canale YouTube di Betapress al quale vi invitiamo ad iscrivervi

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=videoseries?list=PLT_pnnqU-nBfnNr1c_WdA0vkAzNabaAn3&w=640&h=360]

 

Buon Natale

Intanto il gruppo delle puntate sul fundraisingper le scuole vi augura un sereno e santo Natale

Buon Natale

 

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Poscia, più che ‘l dolor poté ‘l digiuno

Non vedo l’ora che passi Natale.

E di girare l’ultimo foglio del calendario di quest’anno senza speranza.

Siamo onesti, è da dieci mesi che siamo alle prese con il COVID ed ora non ne possiamo più.

Per fortuna, che l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ci dà ragione affermando che la popolazione sta sperimentando una sensazione di stanchezza.

È la cosiddetta pandemic fatigue, che rischia di rendere le persone meno attente al rispetto delle regole.

Prima, ciascuno di noi, viveva sulla giostra della propria vita, tra alti e bassi, come tutti, senza troppo pensare alla morte.

Da quasi un anno, invece, il Covid, sostenuto da una narrativa costantemente infarcita di morti, contagi, pericoli ed allarmi, ci fa viaggiare accanto alla morte, in compagnia di demoralizzazione, stanchezza e perdita di prospettive.

Adesso, con la seconda ondata, stiamo pure peggio di prima e gli specialisti parlano di “trauma della recidiva”.

Come ha dichiarato Recalcati in un’intervista: “pensavamo di essere guariti, abbiamo trascorso un’estate spensierata, ritenevamo che il virus avesse esaurito la sua carica di violenza e ci ritroviamo in mezzo al male. Siamo così obbligati a fare il lutto della nostra guarigione e a ricominciare a lottare con meno forze e meno speranze”.

Grazie, Massimo, adesso che ce lo dici tu, stiamo già tutti un po’ meglio…

Scherzi a parte, è evidente, siamo proprio tutti giù, in una condizione di demoralizzazione simile a quella provata da chi soffre costantemente di ansia per lunghi periodi.

Siamo stanchi dentro=stanchezza psichica.

Non ci aspettiamo più niente=mancanza di speranza.

L’OMS definisce tale condizione “Fatica Pandemica”, intendendola come “una condizione di demotivazione a seguire i comportamenti protettivi consigliati, che emerge gradualmente nel, tempo ed è influenzata da una serie di emozioni, esperienze e percezioni”.

Così, l’“Affaticamento” non è inteso in senso clinico (per intenderci: non è la fatica post-infezione da Sars-Cov-2), ma in relazione alla sensazione di spossatezza, al sentirsi sopraffatti dal dover mantenere uno stato di vigilanza costante, ad una stanchezza a rispettare le restrizioni e “pandemico” per sottolineare la specifica correlazione con la pandemia COVID-19 e con le restrizioni imposte per contenerla.

Come emerge questa condizione?

All’inizio di una crisi la maggior parte delle persone è in grado di attingere alle proprie risorse, grazie ad un sistema di adattamento a breve termine che gli esseri umani mettono in atto per garantirsi la sopravvivenza in situazioni di stress acuto.

Ma quando le condizioni traumatiche si prolungano nel tempo e non si profila all’orizzonte la fine dell’evento stressante, demotivazione e scoraggiamento diventano conseguenze naturali e prevedibili.

Per quali ragioni la durata della pandemia impatta fortemente la motivazione delle persone?

Man mano che le persone si abituano all’esistenza del virus riducono la percezione della sua minaccia e, allo stesso tempo, sperimentando i costi personali, sociali ed economici a lungo termine conseguenti alle restrizioni, aumentano gradualmente la percezione della perdita derivante dalle risposte alla pandemia (chiusure, lockdown).

Questo fa sì che i costi percepiti dalla risposta alla pandemia possano superare i rischi percepiti relativi al virus.

Inoltre, col prolungarsi delle restrizioni, aumentano il bisogno di autodeterminazione e libertà.

Paradossalmente, anche le circostanze più tragiche subiscono un processo di normalizzazione se sperimentate per periodi di tempo più lunghi.

Per combattere la “fatica pandemica”, l’OMS propone ai governi un piano d’azione su più livelli, sottesi da principi di trasparenza, equità, coerenza, coordinamento, prevedibilità.

Prima di tutto, bisogna

COMPRENDERE LE PERSONE.

La fatica pandemica deriva da varie barriere che le persone sperimentano all’interno di contesti culturali e nazionali e che richiedono diversi tipi di supporto e comunicazione.

E’ importante identificare i gruppi di popolazione che maggiormente mostrano segni di demotivazione, capire cosa li demotiva.

E’ necessario utilizzare ciò che si apprende per identificare percezioni e bisogni emergenti, per informare sulle politiche della pandemia e su altri interventi.

Proporre nuove iniziative, messaggi e modalità comunicative con le persone di cui si desidera modificare i comportamenti, usando diversi approcci di ricerca.

Poi, bisogna

COINVOLGERE LE PERSONE COME PARTE DELLA SOLUZIONE

Gli esseri umani hanno un bisogno essenziale di sentire il pieno controllo della propria vita, e quando la loro autonomia è minacciata, la motivazione è facilmente persa.

E’ fondamentale che le persone vengano attivamente coinvolte come parte della soluzione, facendo loro comprendere che i comportamenti raccomandati non sono una questione di “sudditanza” all’autorità, ma parte di qualcosa di positivo, che dona speranza.

Piuttosto che concentrarsi su coloro che non seguono i comportamenti, può essere più efficace evidenziare i molti che seguono le norme e i benefici per la salute ottenuti attraverso uno sforzo collettivo.

Ascoltare le persone, comprenderne i bisogni e pianificare politiche che rispondano a tali esigenze e riflettano il senso di identità delle persone promuove l’impegno.

Anche le storie sono potenti motivatori.

Strategicamente si potrebbe: considerare gruppi sociali o persone che assumano ruoli di leadership nel promuovere comportamenti protettivi, trovare modi creativi per motivare i membri della società, chiedere agli utenti di discutere su come desiderano attuare i comportamenti raccomandati, ispirare e informare, avvalendosi del lavoro di scrittori professionisti, giornalisti, artisti.

Rafforzare l’autoefficacia, passando dal “controllo della pandemia sui nostri comportamenti” al “controllare la pandemia con i nostri comportamenti”.

Inoltre, bisogna

CONSENTIRE ALLE PERSONE DI VIVERE LE LORO VITE MA RIDURRE IL RISCHIO

La demotivazione manifestata da alcune persone è in parte una reazione alla lunghezza della pandemia, per cui l’OMS raccomanda di implementare strategie che dovranno andare oltre lo stato di emergenza e consentire alle persone di tornare a qualcosa che assomigli alla vita normale.

Pensare in termini di riduzione del danno può essere un modo utile: tale approccio riconosce che bloccare del tutto i comportamenti potenzialmente rischiosi può essere difficile, ma è possibile ridurre i danni associati a questi comportamenti.

Quando vengono presentati scenari del “tutto o niente” e standard di successo scoraggianti, le persone sono più propense a rinunciare facilmente e a tornare a comportamenti molto rischiosi.

Nel contesto del COVID-19, questo approccio può essere applicato anche ad un livello nazionale.

E’ importante sviluppare linee guida su come continuare con la vita riducendo il rischio di trasmissione, trovare modi creativi di comunicarli, confermare le raccomandazioni piuttosto che cambiarle costantemente.

Spostare la comunicazione da “non” a “fare in modo diverso”, evitare il giudizio e la colpa legati ai comportamenti rischiosi, in quanto ciò può contribuire alla vergogna e all’alienazione più che all’impegno e alla motivazione.

Per ultimo

RICONOSCERE E INDIRIZZARE LA COMPLESSA ESPERIENZA DELLE PERSONE

Le restrizioni pandemiche hanno causato difficoltà e inconvenienti nella vita di tutti i giorni, e tutti hanno subìto una perdita in ambito educativo, lavorativo, relazionale, sportivo, di partecipazione a rituali di comunità.

La pandemia e le misure per arginarla hanno portato a stress, solitudine e noia, e hanno avuto un impatto negativo sulla salute mentale.

Dal momento che la percezione della perdita correlata alle restrizioni (ad es. perdita economica) in corso di pandemia può essere superiore alla percezione della perdita correlata al virus stesso, non è una richiesta banale chiedere continuamente supporto alla popolazione.

Se questa difficoltà non è ben compresa e riconosciuta da chi chiede sostegno alla popolazione, le persone nel tempo possono benissimo perdere la motivazione.

E’ fondamentale costruire resilienza, identificare e affrontare le difficoltà che le persone incontrano e consentire loro di adottare misure per proteggersi a lungo, più economiche e semplici possibili.

Verificare se la difficoltà a seguire le restrizioni può essere bilanciata con altre misure per alleviare l’impatto negativo, ad es. schemi di sostegno finanziario o sociale, supporto per la salute psicologica o mentale mediante servizi online gratuiti.

Soprattutto, bisogna

EVITARE UNA DICOTOMIA ECONOMIA CONTRO SALUTE.

Sostenere le persone e comunicare loro con empatia, speranza e comprensione, piuttosto che minacciare punizione, suscitare vergogna o colpa, riconoscendo che ognuno sta contribuendo alla lotta contro il virus.

Altrimenti, di virus o di fame, moriamo tutti, con buona pace dell’OMS e dei suoi consigli…




Profe mannaro!

Novara. Importante Liceo di Novara. Docente di storia e filosofia denunciato per molestie sessuali.

Un docente di storia e filosofia del prestigioso liceo di Novara è stato denunciato per violenza sessuale continuata, aggravata dalla qualifica di pubblico ufficiale.

Il Gip presso il Tribunale di Novara, su richiesta della Procura della Repubblica – «ritenendo sussistenti gravi indizi di colpevolezza per ripetute e dall’aver approfittato dello stato di inferiorità delle vittime, nonché il pericolo di reiterazione del reato e quello di inquinamento probatorio» – ha emesso nei confronti dell’insegnante, la misura cautelare dell’interdizione dalla professione di docente per la durata di un anno.

Il caso è nato dopo le testimonianze di alcune delle vittime che si sono rivolte alla Squadra Mobile della Questura di Novara, testimonianze che hanno fatto scattare le indagini sui comportamenti del docente.

La Polizia, su delega della Procura di Novara, ha effettuato una perquisizione domiciliare a casa dell’indagato, a cui sono stati sequestrati telefono cellulare, personal computer, tablet.

Ancora una volta, una storia da Dottor Jekyll e Mr. Hyde.

A Novara, tranquilla e sonnolenta città di provincia, ci si conosce tutti, ed iscrivere i propri figli all’Importante Liceo di Novara è motivo d’orgoglio e di soddisfazione per i genitori.

Chi vi scrive è di Novara ed ha fatto così.

E conosce la fama ed il prestigio dell’indagato e per rispetto nei  confronti del professore, ha deciso di non sparare il suo nome in prima pagina, come hanno fatto altre testate giornalistiche nazionali.

Il professore in questione è stato considerato un punto di riferimento per intere generazioni di alunni.

Le sue lezioni di storia e filosofia al liceo di Novara sono sempre state apprezzate almeno quanto la capacità di coinvolgere gli studenti in attività extrascolastiche.

Nessuno si sarebbe mai immaginato che sarebbe stato denunciato per molestie di natura sessuale nei confronti di alcune allieve.

Sono state le stesse vittime che, rompendo forse un muro di silenzio, hanno aperto squarci investigativi alla Squadra mobile della città piemontese.

Ma allora come è stato possibile che i colleghi non sapessero e che gli alunni non parlassero?!?

Dopo mesi d’indagine, il quadro tratteggiato dagli inquirenti è terrificante.

L’insegnante «facendo leva sul proprio ruolo, induceva giovani alunne a sottostare ad approcci di natura sessuale».

Ipotesi che hanno convinto la procura di Novara a chiedere al Gip che, cautelativamente, al docente fosse inibito di salire in cattedra per un anno per evitare sia il pericolo della reiterazione dei reati sia l’inquinamento delle prove.

Ma partiamo dalle accuse

Le accuse formulate dai pm vanno dalle violenze sessuali continuate, aggravate dalla qualifica di pubblico ufficiale all’aver approfittato dello stato di inferiorità delle vittime.

Per i magistrati, il professore utilizzava la tecnica di invitare le studentesse in un’aula appartata o a casa per approfondimenti extra scolastici in vista dell’esame di Maturità o per il completamento di ricerche e la scrittura di libri.

Una volta convinte le ragazze, spiega la polizia, provava a baciarle sulla bocca o sul collo e le palpeggiava.

Un comportamento che ripeteva anche se le giovani provavano a divincolarsi o se, sopraffatte e scioccate, restavano impietrite e subivano le molestie.

Per cercare prove la sua casa è stata perquisita e gli sono stati sequestrati lo smartphone, un computer e il tablet.

Gli inquirenti ritengono che sia stato autore di abusi sessuali su almeno cinque studentesse, di cui una minorenne.

Quello che sconvolge è che, nel corso dell’attività d’indagine è emerso che questi comportamenti il professore li poneva in essere da anni e che, nell’ambiente studentesco, alcuni suoi discutibili atteggiamenti pubblici erano tollerati e scambiati per dei «gesti affettuosi» mentre, in realtà, nascondevano un preciso modus operandi finalizzato a carpire la fiducia delle giovani vittime.

Adesso tutta la città, stupita ed attonita, si scrolla di dosso la falsità e la cortesia che la contraddistingue, ma perché è così difficile squarciare per tempo il velo dell’indifferenza verso le “stranezze” di un collega ed il muro dell’omertà verso gli abusi di un professore?!?

Perché è così radicato l’atteggiamento del “farsi i c…i propri” per quieto vivere tra il personale scolastico?

Perché spesso i colleghi, parlano alle spalle, ma non agiscono di fronte?!?

Perché i pochissimi che agiscono e reagiscono ricevono pressioni, minacce, diffide di aver offeso il decoro e l’onore del collega in questione e di aver divulgato fatti inerenti l’istituto?!?

E che dire dei dirigenti, magari ripetutamente informati dei fatti che cercano una conciliazione per non aver casini, dicendo che non c’è niente di scritto?!?

E che poi quando ci sono ripetute segnalazioni disciplinari, temporeggiano, sperando che l’anno scolastico finisca e che tutto torni a posto, magicamente, da solo …

Mi vergogno io per loro, e come docente, mi dispiace tantissimo che siano state le alunne, a volte persino minorenni, ad avere agito e reagito, da sole, mentre gli adulti, per di più formatori, stavano a guardare, ed a commentare…