“SPIRIT OF THE GAME” AI TEMPI DEI SOCIAL

Non ho la tessera della Lega, quindi penso di essere al di sopra di ogni sospetto, ma nei giorni scorsi ho avuto la fortuna di guardare il video di un intervento del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, (con delega allo Sport) l’On. Giancarlo Giorgetti al Meeting di Rimini.

In questo intervento, Giorgetti, ha parlato di una cosa che a me sta particolarmente cara: la disintermediazione (o sua la mancanza) tra “piazza” e “palazzo”. Una piazza forse fin troppo “social” ed un palazzo che non lo è quasi per nulla, come uno dei problemi della nostra società.

Sono innamorato del golf e dello Sport, ci ho scritto anche un libro, e sono fermamente convinto della capacità dello Sport stesso di superare ogni difficoltà – e la storia mi da ragione – , come quando alla fine del 400 il parlamento scozzese ha cercato di fermare il golf ed il calcio, o nel medioevo quando l’influenza della Chiesa cattolica era cosi forte da arrivare a tacciare di infamia gli Atleti. Oggi in Scozia si giocano ad ottimo livello sia il calcio che il golf e lo Sport negli oratori è qualcosa di naturale come in tutte le missioni che fa la Chiesa nel mondo. Dai confronti, o gli scontri, lo Sport ne è sempre uscito alla grande.

Proprio questo essere “troppo social” mi ha fatto riflettere quando ho letto alcuni articoli su metropolitanmagazine.it , di Andrea Demolli, una penna senza dubbio talentuosa (di sicuro più di me!), ma che sui contenuti fatica a trovarmi d’accordo, non certo per la voglia di competizioni sempre più corrette, quanto nel merito, diagnosi e soprattutto terapia sono, a mio modo di vedere, molto discutibili.

Ne prendo due ad esempio: “Rubare a Golf, perché?” e “Golf e Ladri: come riconoscere chi ruba?”. Articoli sicuramente animati dalla nobile voglia di giocare sempre nel totale rispetto delle regole, ripeto, condivisibile.  – Chi ha letto Amo lo Sport (se è sopravvissuto) è al corrente del mio sentirmi talmente tanto tradito dal tennis che mi sono concentrato sul golf, proprio per un’ingiustizia subita. –

Tuttavia ci sono passaggi che ritengo molto “da piazza” e, che forse, sono ancora più preoccupanti dei colpi tolti e delle palline messe in gioco. Innanzitutto mi ha colpito l’idea di una “gogna mediatica”, anche se definita come “ipotesi estrema” dall’autore stesso e, da quello che sembra, limitata al Circolo di appartenenza. Dissento nel modo più assoluto!

Far importare il peggio dei comportamenti della nostra società nello sport è proprio il contrario di quanto dovremmo fare!

Ed è totalmente contrario ai principi che animano Sport da sempre. Per dirla con il Barone Pierre de Coubertin “riunire tutti gli uomini di buona volontà” …per diminuire le differenze tra classi sociali, fermare le guerre e altro per, in sostanza, migliorare la società, non certo indirizzare lo Sport verso il peggio della società.

Anche per quanto riguarda le pene in questo caso, forse, converrebbe fare un giretto nel “palazzo” ovvero nel Regolamento di Giustizia della Federgolf, uno dei più severi nel panorama sportivo italiano, dove, all’art. 17 sono elencate le pene che spettano a chi compie irregolarità. La pena minima, per irregolarità di gioco sul campo, è di sei mesi che paragonato alla giornata di squalifica del Calcio, il nostro Sport nazionale, evidenzia la severità del nostro Regolamento.

Allo stesso modo, da appassionato di Diritto Sportivo, mi permetto di ricordare due cose fondamentali: nello Sport l’omessa denuncia è un illecito a sua volta e, sempre nello Sport, mi perdoneranno la semplificazione i fini giuristi che conosco, c’è l’inversione dell’onere della prova.

Quindi per fare una segnalazione, che è obbligatoria, bisogna esserne certi, davvero certi!

Sono ormai nove anni che non gioco gare nei Club (spesso mi inserisco, fuori gara, nelle gare che organizzo) ma dire che un terzo dei giocatori è scorretto, penso sia un’iperbole, magari che segue una giornata storta sul green. Mi fa un po’ sorridere, perché se la prendessimo sul serio, vorrebbe dire che i Tesserati sarebbero generalmente scorretti, che la Giustizia Federale non funzionerebbe e che i Circoli chiuderebbero, almeno colposamente, gli occhi. Ecco un’espressione molto social dove si è fin troppo liberi, anche per chi ama la libertà come me, di scriver qualunque cosa, spesso e volentieri suggestiva, ma oggettivamente lontano dall’essere reale.

Ripeto, non vuole essere una scusante per chi compie qualsiasi tipo di illecito, – lungi da me! – ma le regole e la Giustizia Federale ci sono, sono particolarmente severe e funzionano bene. Potrebbe essere una buona idea invece essere contenti di avere un sistema che funziona ed invitare semplicemente a metterlo in pratica sempre di più!

Vorrei fare un’ultima considerazione sul decalogo per scoprire chi “ruba”: effettivamente, secondo me, fa riflettere che qualcosa di sbagliato ci sia… e mi viene ancora in mente l’On. Giorgetti che, facendo “mea culpa”, dice che bisogna essere più collegati alla realtà ed io, la faccio come professionista e dirigente sportivo, e mi chiedo: siamo davvero stati cosi poco capaci di appassionare al gioco, che un amateur passi (o debba passare) la sua giornata sul campo a controllare quello che fanno gli altri e non a divertirsi per aver trascorso qualche ora in un contesto spesso bellissimo e divertente come i nostri Club e aver cercato di migliorarsi in quello che, per molti, è il gioco più bello del mondo?




Chi ha ferito il Garibaldi?

Storia di come, forse, quando si parla  dell’Istituto agrario di Roma, il primo pensiero non è che venga fatto il bene della scuola.

Questo è il primo di una serie di interventi / interviste che Betapress farà nel prossimo periodo per sostenere la scuola agraria Garibaldi, che merita di esistere e di essere riconosciuta sia nella sua storia che nell’impegno che centinaia di persone negli anni hanno messo per mantenerla al massimo dell’eccellenza. (NdR)

In principio sembrava una storia facile.

Pareva che si dovesse raccontare la bella storia di uno storico e prestigiosissimo istituto agrario delle capitale italiana.

Si era pianificata una storia di crescita, lustro e buone speranze per il paese; una di quelle storie da leggere con leggerezza e speranza sotto l’ombrellone.

Le professioni del futuro che faranno grande il nostro paese: il ruolo dell’agronomo.

E invece è bastato andare a guardare un po’ più da vicino fatti e numeri per vedere che dietro la storia dell’Istituto Agrario Garibaldi di Roma c’è del marcio.

Tanto marcio.

Talmente tanto che abbiamo dovuto rinunciare alla storia da ombrellone e sperare di fare in fretta a districarci tra la marea di notizie che hanno iniziato a venir fuori ogni giorno.

È bastato sollevare appena il coperchio di questa storia per essere letteralmente investiti da informazioni, telefonate (alcune anche che ci invitavano a desistere dallo scrivere l’articolo), documenti e materiali di ogni tipo.

L’istituto nasce alla fine del 1800, con i primi del 1900 trova una sulla collocazione geografica definita e diventa fiore all’occhiello della formazione tecnica.

È bello il Garibaldi.

Circa 100 ettari di terreno produttivo sul parco dell’Appia Antica, attraversamenti con sentieri, integrato nella vita dei quartieri limitrofi, convitto, scuola, maneggi, stalle e spazi costruiti per la  miglior crescita e formazione dei periti agrari.

Era bello il Garibaldi.

All’inizio del 2000 qualcosa cambia.

Nell’estate del 2005, all’interno del piano di cartolarizzazione dell’allora ministro Tremonti, i terreni del Garibaldi, vengono messi all’asta.

Per puro caso un gruppo di docenti si accorge del bando e si mobilità immediatamente: telefonate, riunioni e azioni concrete; chi amava quell’istituto non ha permesso che venisse chiuso.

Questa è una cosa che troveremo tante volte nel corso di questa storia (che non racconteremo tutta oggi): chi ha frequentato l’istituto ha con esso un debito di fedeltà e amore che non intende tradire.

Tanti di quelli che hanno studiato al Garibaldi sono tornati ad insegnare lì spendendosi attivamente e hanno con esso un legame quasi filiale.

Il Garibaldi salvato cresce.

Una delle persone che si era occupata di salvare i terreni dall’asta, viene nominata dirigente scolastico.

È il prof. Franco Sapia, ex studente del Garibaldi perito agrario e dottore in Agraria.

Intanto, non senza qualche ragionevole problema, l’Istituto cresce: cresce l’azienda agricola, crescono le attività, si collabora con una cooperativa sociale, viene creata una fattoria didattica, arrivano premi per il latte e per i prodotti, i capi di bestiame crescono e prosperano, alcune associazioni animaliste, addirittura, affidano dei capi all’Istituto affinché li protegga dalla vendita o dal macello, ci sono inoltre borse di studio e progetti internazionali: 

l’Istituto Garibaldi è una eccellenza. 

Gli studenti iscritti superano nel 2016 il numero di mille.

Terminato il mandato del prof. Sapia, riceve l’incarico la prof.ssa Patrizia Marini, diplomata presso l’Istituto Superiore di Educazione Fisica e laureata in scienze motorie.

Come è prevedibile che accada quando cambia il dirigente scolastico, cambiano anche le priorità e le modalità gestionali del Garibaldi.

La professoressa Marini dal 2017 traccia e segue un nuovo piano.

Noi di betapress.it abbiamo intervistato la professoressa Marini e molti degli attori coinvolti, ed in questo primo articolo pubblichiamo proprio l’intervista all’attuale Dirigente del Garibaldi, prima fra tutte quelle che abbiamo realizzato, per avere un bilancio delle sue azioni, dei suoi motivi e delle sue operazioni, nel corso dei primi due anni pieni di mandato come dirigente scolastico. Proseguiremo poi per capire come mai questa scuola è in declino, o almeno così sembra, terra di vendette e giochi di potere, abusi e soprusi.

 


Nota bene:

La professoressa è stata con noi gentilissima e disponibilissima ma, stranamente, non terminerà i tre anni di mandato quindi non sarà lei la preside del Garibaldi per l’anno scolastico  2019-2020.


Ovviamente, per prepararci all’intervista, per evitare di fare domande banali e annoiare così chi ci ha dedicato il suo tempo, abbiamo studiato, indagato (sì, ci siamo rivolti anche ad una agenzia di investigazioni private) e letto più informazioni possibili, cosa della quale, ovviamente, era stata informata anche il dirigente scolastico.

Ed ecco che arriva il nostro imbarazzo e sfuma il progetto di scrivere un articolo leggero e positivo.

Il fatto è che su molti punti le informazioni in nostro possesso e le risposte del dirigente scolastico non erano perfettamente in linea.

Noi di Betapress.it riteniamo che la riflessione sul Garibaldi non debba avere una matrice da curva da stadio con schieramento per l’una o per l’altra parte, o tifo per il personaggio più simpatico; ci sforzeremo quindi in questo e nei successivi articoli, di tenere una linea quanto più possibile neutrale anche perché, su molti punti, dovrà essere poi la legge a dire l’ultima parola.

Riportiamo qui l’intervista come è stata fatta.

Domanda: Come mai il numero dei iscritti al Garibaldi nel corso di questi  ultimi due anni è calato da 1200 a 900?

Risposta: il Garibaldi non ha mai avuto 1200 iscritti, questa è una informazione errata. Quando sono arrivata io c’erano circa 950 iscritti, lo scorso anno erano circa 900. La differenza di 50 studenti fa parte dei normali  andamenti dovuti al calo demografico.

Nota di ricerca: nel 2017 dai registri di Istituto risultano più di 1000 iscritti

Nel suo piano di riorganizzazione ha deciso di chiudere l’azienda agricola: le vacche sono deperite, il frantoio chiuso, il bestiame sparito, quali sono i motivi di queste scelte?

Le scelte sono dovute ai problemi di gestione non adeguata degli anni precedenti che sono state in passivo ininterrottamente per 15 anni. (questo fatto è strano perché per i regolamenti di contabilità delle scuole dopo tre anni si sarebbe dovuta chiudere l’azienda agraria. NdR)

Da quest’anno, invece, con la mia gestione, per il primo anno, abbiamo chiuso in attivo.

Non c’è bestiame perché la stalla non era a norma ed era tenuta aperta senza tener conto delle indicazioni dell’ASL.

In più ho scelto di dedicare tutti i terreni per i seminativi così da poterli utilizzare a pieno.

Le vacche erano un investimento deficitario perché avevano bisogno di mangimi mentre i seminativi sono una azione in attivo.

Per quanto riguarda il frantoio, è chiuso ma ne verrà aperto uno nuovo tecnologicamente più avanzato.

Il mio lavoro in questi anni è stato quello di rimettere in sesto il  business plan del Garibaldi.

Nota di ricerca: dalle nostre ricerche risulta che le stalle non erano a norma perché, tra le altre cose, la dirigente chiedeva ai dipendenti la pulizia di queste a mano con le pale anziché l’utilizzo di appositi bobcat.

Alcuni dei capi affidati all’istituto con l’impegno di prendersi cura di loro a vita, sono stati invece ceduti.

Dal primo anno dei suo incarico ad oggi circa 60 persone tra docenti e personale di segreteria hanno fatto domanda di trasferimento, come mai?

Non mi risulta siano andate via tutte queste risorse; alcuni sono andati in pensione, altri si sono avvicinati a casa loro, nulla che non abbia a che fare con la normale vita delle scuole

Nota di ricerca: ecco i numeri risultanti delle richieste di trasferimento dai documenti consultati

26 docenti in uscita nel corso dell’anno scolastico 2017/2018

11 docenti in uscita nel corso dell’anno scolastico 2018/2019

13 ATA in uscita nel corso dell’anno scolastico 2018/2019.

Prima di fissare l’intervista mi ha chiesto di anticiparle a grandi linee i punti di interesse e quando ho nominato la cooperativa, lei mi ha detto che non esiste nessuna cooperativa.

A me, dalle informazioni raccolte, risulta l’esistenza della cooperativa, può chiarirmi questo punto?

La cooperativa c’è ma non ha nulla a che fare con il Garibaldi. Già l’ex dirigente scolastico Franco Sapia aveva interrotto i rapporti con essa.

Ho però attivato rapporti per la creazione di una nuova cooperativa da inserire all’interno delle attività del Garibaldi.

Nota di ricerca: in questa sede riportiamo solo quando indicato sul sito della cooperativa “fantasma”:

“La storia della Cooperativa sociale integrata agricola Giuseppe Garibaldi è parte ormai della centenaria storia dell’Istituto Tecnico Agrario “Giuseppe Garibaldi” […] è nata come laboratorio della scuola per rispondere alle esigenze degli allievi con disabilità e delle loro famiglie, […] è nata […] per la realizzazione di un progetto di inclusione scolastica degli allievi con Autismo iscritti all’Istituto “Garibaldi”. (https://garibaldi.coop/cosa-facciamo/)

È chiaro a chi ha avuto la pazienza di leggere fino a questo punto che la comunicazione non è così collimante con i fatti e non è facile definire la verità.

La verità per noi sta solo nelle carte ufficiali e contiamo di trovarla nelle sentenze dei giudizi in corso.

L’impressione però che si ha leggendo le carte relative alla storia del Garibaldi (e non delle persone) è che forse sull’Istituto ci sono interessi ben più grossi; è ricorrente infatti l’idea di far chiudere il Garibaldi per poter prendere, vendere e riutilizzare quei 100 ettari di terreno nel centro di Roma (a chi non interesserebbero??? NdR) che già due volte si è cercato di mettere all’asta.

Sarebbe brutto se fosse così (ma sembra proprio così NdR), perché con quelle proprietà verrebbero venduti anche l’impegno, la fatica e le grandi speranze degli studenti, dei professori e di chi, fino ad oggi ha amato questo Istituto.

“C’è del marcio in Danimarca”, Betapress andrà avanti e scoverà tutto quello che c’è da scoprire, non ci fermeremo, abbiamo già ricevuto telefonate con velate minacce per desistere … lasciate stare, vi mettete contro i potenti, non sapete cosa vi possono fare … ebbene lo sappiamo benissimo lo hanno già fatto non è la prima volta, ma ci siamo stufati marci di vedere questo malaffare imperversare, coperto da mantelli di ermellino che nascondono cadaveri puzzolenti, noi tireremo fuori tutto, per la scuola, per chi ci lavora e ci ha buttato l’anima, per il nostro paese che può davvero farcela solo se la scuola sarà sempre più efficace, raggiungendo quell’eccellenza che era tipica del Garibaldi. (NdR)

Richiesta ai lettori:

betapress.it pubblicherà altri articoli sul Garibaldi, sulla sua storia e sulle sue sorti.

Chiediamo a chiunque abbia notizie e voglia collaborare anche in forma anonima di contattare l’indirizzo info@betapress.it 




ma porca vacca …

Rimango abbastanza basito, o stupito ed attonito come dico di solito, dalla sfacciataggine delle persone e soprattutto dei politici.
Era il lontanissimo febbraio 2019 e nell’aria volavano queste parole estreme

https://betapress.it/wp-content/uploads/2019/08/WhatsApp-Video-2019-08-29-at-18.27.58.mp4

Ho usato un video di Zingaretti ma potrei benissimo metterne altri mille di tutti gli altri che dicono cose simili facendoci pensare, alla fine, che come sempre il più pulito ha la rogna.

Anche il titolo l’ho preso dal film porca vacca con Pozzetto, Maccione e la bellissima Antonelli, film lirico ma illuminante sull’italico comportamento.

Non voglio entrare nella querelle politica di questi giorni, me ne guardo bene, anche perché l’unica vera frase sarebbe che ci stanno prendendo per il fondoschiena.

Ma la vera domanda, quella da un milione di dollari, è PERCHE’?????? Perché noi ci facciamo prendere per il fondoschiena (dicesi culo in politichese).

Già, perché gli Italiani non insorgono con forconi ed asce per difendere il loro vero diritto, ovvero non essere presi per il culo.

Siamo drogati dai social, ormai non vediamo nemmeno la realtà e ci sembra che scrivendo sui social “politici di merda” abbiamo esternato il nostro pensiero ed esercitato il nostro diritto.

AHAHAHAHAH che stolti, che insulsi che siamo, da bravi drogati non ci rendiamo conto che siamo nelle mani dei nostri spacciatori, che ci forniscono droga ogni giorno per metterci a tacere, ma ancor peggio per instupidirci.

e chi sono questi spacciatori?

ma cari ragazzi sono loro i mentitor cortesi, quelli che ci riempiono di post, di video come quello sopra che diventano virali per farci dire al momento: “BRAVO” e per dimenticarcene subito dopo.

Come dei bravi drogati a noi rimane quella sensazione di qualcosa di bello, ma perdiamo il cosa, il come ed il perché.

Ebbene ragazzi il losco piano per rincoglionire il popolo è riuscito, prima massacrando il sistema educativo, poi togliendo regole ed obiettivi, poi riempiendo le comunicazioni di fake news, di sensazionalismi, di sparate, di macismi, di politicate, di avanguardie social…

In fine per farci capire che non conta un piffero capire le cose e darsi da fare per comprendere ci hanno riempiti di isole dei famosi, di grandi fratelli, di Facebook, di nomi altisonanti come like, mille e mille amici (che poi dove azzo sono???)…

Ma ancora: ci hanno fatto capire che chi ha il potere è impunito, può dire qualsiasi cosa, tanto chi vuoi che se lo ricordi …

Vergogna, direte Voi, hanno ragione Vi dico io, non vi ricordate nulla, e anche se ve lo ricordate vi basta scrivere su Facebook che sono tutti stronzi e siamo a posto, e beh, voi gliele avete cantate …

Da morir dal ridere, ma vi rendete conto!

No non ve ne rendete conto perché questa droga, la socialina, vi ha assuefatti e non vedete più la gravità delle cose che vi circondano è caduto il governo, stanno facendo le solite porcate, ah però c’è un bel video di gattini…

Ma forse anche io perdo il mio tempo a scrivervi queste cose, volete disintossicarvi? Avete voglia di entrare in comunità?

allora fate così su tutti i vostri social scrivete questo post:

ADESSO BASTA AVETE PASSATO IL LIMITE DELLA DECENZA!!!

e quando lo avete fatto condividetelo sul profilo social di Betapress, incominciate a prendere qualche dose di metadone per uscire dal giro, forse tra qualche anno loro avranno paura di continuare a dire minchiate perché Voi, con il cervello libero dalla droga, incomincerete a ricordare…

 

 




SCOTT STAPP: The Space Between the Shadows

 

Non credo si possa coscientemente dire che oggi il Rock sia ancora del tutto vivo e vegeto, soprattutto quello degli anni ’90 legato a sonorità in netto contrasto con quelle del decennio precedente ma con una potenza di suono ed una lucidità di idee che ha portato band come BLACK STONE CHERRY (vedasi Betapress Music novembre 2018), NICKELBACK, ALTER BRIDGE e CREED a rivoluzionare la scena musicale alternative.

E non credo sia nemmeno possibile, facendo un breve tour tra le emittenti radiofoniche nazionali e locali, comprendere a fondo il motivo che spinge gli ascoltatori ad impantanarsi con (sedicenti) artisti che sono tra le cose più lontane dall’arte musicale.

L’Auto-Tune (Software per manipolazione audio che permette di correggere l’intonazione o mascherare errori ed imperfezioni della voce; n.d.a.) imperversa sovrano e la discografia non è in grado di proporre artisti giovani e creativi che possano “tenere viva la fiammella” del Blues, del Rock e del Pop, ma non voglio dilungarmi troppo in questioni oramai note.

Scott Stapp, ex leader dei CREED, è un esempio luminoso di come un artista possa continuare a ribadire come il Rock sia vivo, rifiutando di chinarsi ai dettami degli standard del mercato discografico.

The Space Between the Shadows è il terzo album solista di Stapp che si è rilanciato dopo due lavori opachi: The Great Divide e Proof of Life (quest’ultimo, a dire il vero, contiene un ottimo pezzo autobiografico: Slow Suicide; n.d.a.).

Ad aprire le danze World I Used To Know, che fa ben sperare i fans di Stapp (tra cui il sottoscrittto; n.d.a.), la successiva traccia Name e la traccia conclusiva Last Hallelujah sono due ballate potenti, due canzoni che si cantano a squarciagola con una buona dose di brividi. “I am a son without a father”è il refrain martellante di Name, quasi a richiamare l’attenzione sulla nuova vita artistica di Scott.

Immediatezza anche per il singolo Purpose For Pain con riff accattivanti, il groove incalzante rende assai difficile a questo punto dell’album non desiderare di poter vedere Stapp dal vivo.

La voce di Stapp rimane una sorpresa positiva, sembra non sia passato un giorno dai tempi di My Own Prison, Human Clay e Weathered (album dei CREED rispettivamente del 1997, 1999 e 2001; n.d.a.) ed il livello dei testi è assolutamente alto, degno di un grandissimo poeta.

Tornando a The Space Between the Shadows, le tracks Survivor, Red Clouds e Gone Too Soon sono pezzi assolutamente convincenti e qualora ci fossero ancora dei dubbi sulla qualità dell’album, Mary’s Crying li fuga tutti.

Le rimanenti song (Heaven In Me, Wake Up Call Inside, Face Of The Sun Side e Ready To Love) sono pienamente inserite nel lavoro di Stapp, con sonorità e melodie studiate a tavolino che ammiccano ai fans della “Post Grunge Generation”.

Concludendo vi posso dire che Stapp è finalmente tornato e con The Space Between the Shadows ha posto un solido paletto tra lui ed i suoi detrattori (quasi sempre adoratori di Myles Kennedy degli ALTER BRIDGE; n.d.a) e fa ben presagire per il futuro di questo artista, a cui tutto si può rimproverare ma non di aver trascurato l’amore per i fans ed il vero puro e glorioso Rock‘n’Roll!

 

Tracklist dell’album

  1. World I Used To Know
  2. Name
  3. Purpose For Pain
  4. Heaven In Me
  5. Survivor
  6. Wake Up Call Side
  7. Face Of The Sun Side
  8. Red Clouds
  9. Gone Too Soon
  10. Ready To Love
  11. Mary’s Crying
  12. Last Hallelujah

 

https://www.youtube.com/watch?v=wDRQXrRtE5M

 

Perth

 




UN THE CON SKARDY: la musica del cuore.

 

Marghera (Venezia), mercoledì 31 luglio 2019 ore 18.30, Skardy mi indica il Bar accanto al palazzo del Municipio.

Ci sediamo in un tavolino nel dehor… “un the caldo, grassie” ordina alla cameriera.

Inizia così la lunga intervista con una delle leggende della musica italiana, anzi, venessiana.

L’ultima volta che ebbi la fortuna di bere un drink con Skardy era il lontano 1994 quando io, giovane universitario, mi dilettavo nell’organizzazione di concerti e di eventi live.

All’epoca la musica era veramente “da piazza” e quell’estate ricordo che Prato della Valle a Padova era gremita di persone.

Il lettore perdoni frasi e battute in dialetto veneto che indicano la genuinità di Skardy e che permettono una comunicazione più diretta.

PERTH: Ti ho richiesto questa intervista perché innanzitutto è un onore poterti rivedere dopo più di vent’anni e soprattutto perché, come pochi altri artisti, ti ritengo, un vero e proprio punto di riferimento nella scena musicale italiana, mi riferisco alla vera arte e libera creatività, oggi invece è come se la gente fosse drogata dalla falsità di proposte musicali costruite a tavolino, una grande mercificazione di talenti usa e getta. Puoi dire ai lettori di Betapress.it cosa ne pensi?

SKARDY: Fondamentalmente credo che il mondo dell’arte e dello spettacolo sia gestito in modo ignobile, la musica è degradata da una certa politica non solo a livello locale ma “dirìa a livèo mondial”, e non conoscendola fino in fondo l’arte, il potere riduce tutto a “fumo, lustrisini, pajette ma poca sostansa”, ecco, questo è quello che penso.

PERTH: Il Veneto è una Regione magnifica, ma a volte l’opinione pubblica, fomentata da una certa politica, mostra il popolo veneto come persone legate al denaro e ai propri interessi da difendere con la spada. Come la musica che tu hai proposto in tutta la tua carriera ha mostrato invece il vero spirito veneto?

SKARDY: Il genere umano sta dimenticando la propria umanità per correre dietro al mito della ricchezza e del lusso, perché di questo si tratta, non si tratta del benessere! Il Veneto, come l’Italia, è un Paese che ha conosciuto il benessere e l’ha gettato via nella speranza di ottenere qualcosa in più. Cosa si è ottenuto distruggendo un intero sistema sociale che, pur con tutti i suoi peccati e limiti era alla base dell’armonia tra le persone? Si è ottenuto un cambio di potere, si è insediato un sistema cannibale sia dal punto di vista economico che sociale: le categorie dei più ricchi si mangiano quelle dei più poveri e di conseguenza abbiamo un mondo che, anche senza essere in guerra fisica, però è in una sorta di guerra tra individui e tra popolazioni. Prova a pensare all’ostilità che c’è adesso non solo tra le Regioni del nostro Paese ma nei confronti di popolazioni di altre etnie, trent’anni fa questo discorso non stava in piedi, anzi chi veniva da altre parti del mondo veniva considerato come un’opportunità e una ricchezza da cui trarre vantaggio. La mia musica, declinata in dialetto veneto, ha sempre tentato di comunicare con ironia questa denuncia contro la diseguaglianza sociale. Sicuramente lo spirito veneziano mi è rimasto e cerco ancora di trasmetterlo perché vedo che sta perdendosi nella storia, quando io giro per Venezia sento la gente che non è più la stessa gente che io ho conosciuto quando ero ragazzino o bambino addirittura. Il veneziano che conoscevo io era un veneziano che nell’esprimersi era una barzelletta, era una persona che trasmetteva talmente tanti modi di dire e talmente tanto umorismo che ti segnava. Al giorno d’oggi la gente parla in maniera quasi “da ufficio”, le barzellette da bar sono morte da 20 anni, vuol dire che lo spirito umano, originario, non solo quello veneziano, ma proprio lo spirito umano ha avuto dei danni, come ha avuto dei danni questo pianeta per opera dell’uomo e l’opera dell’uomo ha prodotto dei danni anche all’uomo stesso.

PERTH: Incontri molti giovani, sia al lavoro (Skardy lavora come “bideo” in una scuola di Venezia; n.d.a.) che ai tuoi concerti, cosa chiedono alla musica i giovani? Solo divertirsi oppure c’è dell’altro, secondo te?

SKARDY: Il mondo dei giovani è molto variegato, ci sono figli di generazioni che hanno avuto educazioni musicali diverse, i figli dei rockettari hanno ancora una certa predisposizione ad ascoltare la musica prodotta da musicisti e strumenti “manuali”, chi è cresciuto senza una cultura musicale, una cultura alla “bellezza artistica”, con genitori interessati a discoteche o ambienti in cui la musica elettronica, ha sostituito il vero sound, è più ricettivo ai suoni sintetici e quindi a quella musica che io chiamo “musica chimica”, prodotta dal computer. La maggior parte dei ragazzi di oggi ascolta ed è più attratta dalla musica chimica che dalla musica suonata, questo è grave perché, per quanto sia prodotta bene e per quanto ci voglia bravura a produrla, la musica cosiddetta “chimica” non avrà mai lo stesso effetto di uno strumento naturale. (Rimango sempre impressionato da questo refrain che peraltro i lettori di Music conoscono molto bene. Tutti gli artisti veri e Skardy è uno di questi, hanno a cuore la musica vera, non il prodotto di un potere che annulla le coscienze propinando una musica “usa e getta”, una musica “chimica”; n.d.a.)

PERTH: La “musica chimica”, come la definisci tu, può essere definita arte?

SKARDY: Per quanto sia perfetta la musica chimica trasmetterà sempre freddo, non come la musica suonata, la musica che ha bisogno di musicisti capaci! Io cerco sempre di fare quest esempio: sappiamo tutti quanto è buona la pizza cotta nel forno a legna, se tu mangi la pizza preconfezionata è ugualmente buona, ma non come la pizza cotta nel forno a legna. E quindi la musica elettronica la musica “chimica” sta alla pizza surgelata, come la musica suonata sta alla pizza originale. Faccio un esempio sconcio: “el vibrator xè sempre duro, ma il casso xè de carne” (Qualche amico veneto direbbe: “pura poesia”; n.d.a.). Nel senso che la musica elettronica “gà el so spessor ma no gà el caòr che gà ea musica sonada”. Al giorno d’oggi ben pochi ragazzini recepiscono questa differenza, forse se ne renderanno conto quando avranno 40 anni e capiranno cosa può essere definita arte. Io verso i 40/50 anni ho iniziato a recepire questa differenza, molto pesante, tra la musica costruita negli ultimi vent’anni e quella che c‘era prima, che magari suonava peggio ma dava più calore. Una sera ero in auto di ritorno da un concerto con Elio, ascoltavo la radio e sento un brano di un trapper di oggi e mi dicevo: non mi piace ma senti che potenza di suono, cambia il brano e parte “Smells Like Teen Spirit” de Nirvana, che nemmeno mi piacciono tanto, eppure ho sentito subito che il sangue ribolliva… ho ripensato ancora una volta all’importanza della musica suonata.

PERTH: La tua storia artistica è molto lunga e piena zeppa di collaborazioni importanti con cui hai condiviso la tua musica “made in veneto”, ci racconti qualche aneddoto? Non so Elio e le Storie Tese, piuttosto che Paolo Belli

SKARDY: Con Elio e le Storie Tese ho fatto le ultime (e definitive, due anni fa; n.d.a.) quattro date. Penso che con la fine del loro gruppo sia finito l’ultimo dei veri grandi gruppi italiani, dei veri e propri “maestri”. Se li guardi tutti, uno per uno, sono grandissimi musicisti, gli ultimi, mi vien da dire, perché se si pensa ai musicisti di adesso per prima cosa non militano in band poi sono tutti cantanti con il DJ che sintetizza e masterizza dietro alla voce ed infine ci sono i musicisti che fanno i turnisti e che suonano di tutto e con tutti. E’ un disastro. Dal Rock &Roll agli anni ’90 c’è stato fermento, oggi la musica è un disastro. Elio inoltre ci ha insegnato soprattutto come si realizzano i dischi e come ci si rapporta con il mondo discografico, anche se gli aneddoti più curiosi risalgono ai tempi in cui i Pitura Freska neanche esistevano, perché andavo a “imbragarme zente che jera parechio in alto” nel senso ad esempio che siamo andati a battere sulla macchina di Jimmy Cliff (famoso cantante reggae giamaicano; n.d.a): c’era Jimmy seduto in auto che si allenava con i bonghi e noi siamo andati lì a battergli sulla macchina, a suonare con lui…a rompere i coglioni alla gente famosa. Inoltre mi piace ricordare personaggi che avevano una certa autorevolezza artistica e che per primi ci dicevano “guarda che quello che state facendo è bello, ha un valore!” Mentre il resto della “plebaglia” disprezzava quello che facevamo, c’erano persone tra cui pittori, scrittori, anche docenti universitari, professionisti del mondo dello spettacolo che ci dicevano: “Beo! Bravi! Continué!” anche se il resto del mondo, soprattutto la critica musicale, ci considerava sotto il livello… animale. Questa è una questione importante: quando cerchi di portare un gruppo o un cantante alla ribalta la prima cosa che ti arriva sono le bastonate, nessuno viene a domandarti: “Cossa ti xè drio fàr, fame scoltàr”, no, invece ti dice “sta roba ea fa schifo!” La gente all’inizio non accetta la novità.

PERTH: Però avete avuto parecchio successo!

SKARDY: Certo! Ma ce lo siamo conquistato sulla strada, non facendoci aiutare dalle Major o da grandi produttori, siamo stati attaccati anche dalla parte più povera della popolazione, che ci dava dei “venduti” pensando che fossimo oramai in mano alla discografia che conta. Invece no, siamo sempre rimasti indipendenti e siamo andati avanti per la nostra strada.

PERTH: Quale è stato il momento esatto in cui ti è stato chiaro che da Marghera avresti potuto calcare i palchi di tutta l’Italia?

SKARDY: A San Siro quando ho visto Bob Marley (the King of Reggae; n.d.a.), quando mi è venuta in mente questa equazione, che è stata semplicissima, fulminea e geniale. Mi ricordavo un po’ l’inglese, avendolo studiato alle scuole medie, avevo 20 anni, ero a San Siro a vedere un concerto di Bob Marley, quando mi sono reso conto che parlavano l’inglese allo stesso modo in cui noi veneziani parliamo italiano, ho pensato: questo genere musicale è perfetto se ci canto sopra in veneziano e lì è iniziato tutto. Chiaro che mi ci è voluto del tempo per imparare a scrivere, per modulare i testi a seconda della musica, però se ti piace ti viene automatico e quando sono riuscito a scrivere due, tre canzoni e le ho fatto ascoltare ad alcuni amici con cui suonavamo assieme, mi hanno detto “però… potrebbe funzionare!” Avevamo una sala in cui provavamo, con il bassista abbiamo iniziato a istruire un gruppetto, siamo riusciti ad esordire qui davanti in questa piazza (Piazza del Municipio di Marghera; n.d.a.) nella rassegna “Marghera estate” del 1985. E da lì è iniziato tutto, perché quando hanno visto che nelle piazze attiravamo un buon numero di ascoltatori, iniziavano a chiamarci in tutti i locali e dove andavamo facevamo il “pienone”. Nel 1987 siamo tornati qui in piazza a Marghera i bar quella sera hanno esaurito tutte le riserve alcoliche (ride).

PERTH: A Padova nel ’94 avete fatto 20.000 persone, ricordo che c’era il Comune molto preoccupato per la sicurezza. Mi hai già risposto per la gran parte, comunque cos’è la via di San siro nella quale sei stato illuminato un po’ come Joliet Jake Blues, alias John Belushi, nel glorioso film Blues Brothers? Forse quando ti sei imbattuto con il Re del Reggae?

SKARDY: Sì infatti, io avevo già preso una bella “spettenada” l’anno prima quando mi hanno invitato a vedere Peter Tosh (altra leggenda del Reggae giamaicano; n.d.a.) che non conoscevo. All’epoca il reggae non mi piaceva, ascoltavo Led Zeppelin, Deep Purple, Santana, Pink Floyd. Alcuni amici mi convinsero ad andare al concerto di Marley a Bologna, era il 1979. La Band si è presentata sul palco con 15 elementi, una mini orchestra. Mi è piaciuto! Era un misto tra un concerto di Santana, un concerto di Funky, un concerto di Rock, non capivo bene cosa fosse, però mi piaceva. La Band “pestava”, aveva un groove pazzesco, tremendo. Sono uscito contento e mi sono ricreduto sul Reggae, suonato così mi piaceva molto. Stessa cosa per il concerto di Bob Marley! Prima del concerto si esibirono dei gruppi che non ebbero grande successo (si beccarono “ortaggi” in faccia), la terza band fu quella di un tale di nome…Pino Daniele! Anche lui prese solamente qualche applauso ma quando uscì Bob Marley esplose lo stadio. Cos’è che mi ha fatto andare fuori di testa? Che rispetto ad altri concerti a cui ero stato qui la gente non era seduta al suo posto in posizione yoga a guardare un palco, qui la gente ballava, saltava, si muoveva, è diverso, capisci? Se io sono seduto qui e vedo a 20/30 metri una “fìa che me piase” difficilmente mi alzo e vado a sedermi vicino a lei, ma se sono in piedi e sto ballando, posso avvicinarmi e con una scusa fare conoscenza. Finito questo concerto uno di noi disse: “Fioi doman ghe xè i Led Zeppelin a Zurigo, nemo?!” Sono andato e tornando dal concerto dei Led Zeppelin ho pensato che se dovevo scegliere avrei scelto Bob Marley… notare che i Led Zeppelin mi piacevano molto!

PERTH: Volevo farti una domanda relativa ai Pitura Freska, da quello che so tu non hai mai avuto piacere di dire perché è finita, tranne quello che scrivi nel sito e nei vari blog, la verità è che era finita un’epoca con loro?

SKARDY: La realtà è che il gruppo aveva iniziato in una direzione e poi è stato portato in un’altra, perché essendo tanti musicisti, ognuno voleva dare al progetto una propria direzione, qual è il segreto, secondo me? Quando hai preso una direzione e sei su una linea, devi continuare a seguirla, perché i Rolling Stones sono ancora vivi? Perché a loro piace quel genere e continuano a proporlo.

PERTH: Grande Bidello a mio avviso è un vero capolavoro. Un’opera che, con la consueta ironia che ti contraddistingue annienta i reality, vedi Grande Fratello, farai un pezzo anche contro i Talent?

SKARDY: Ma non ci penso proprio, ormai considero la televisione come la preistoria dell’intelligenza umana. Quando accendo la televisione e vedo che vengono trasmessi film degli anni ’40 e ’50, mi sembra di tornare a quando ero piccolo negli anni ’60 e probabilmente la gente era più intelligente di adesso, di conseguenza non posso parlare male di una cosa che ormai per me è il male già in partenza, c’è ben poco che salvo della televisione. Una volta guardavo “BLOB”, ora nemmeno quello, perché una volta facevano vedere il meglio e il peggio, ora vedi solo il peggio e mi fa paura. Il meglio è nascosto.  Inoltre credo che non serva, perché ormai la gente è orientata a questa insulsa mentalità e se io vado a toccare questi idoli vuoti, sono un alieno.

PERTH: Nella canzone Firulì Firulà dici di sentirti di un altro pianeta, intendi questo essere un alieno?

SKARDY: Ritorno a quello che ho detto all’inizio, non trovo più l’umanità che trovavo 30/40 anni fa, perché ormai non contano più né le parole, né quello che trasmetti come persona, ma contano i like sul telefono, contano i social, internet e tutto il resto e di conseguenza uno si sente già estromesso dal mondo se non vive dentro questo schema, se ti faccio vedere il mio telefono costa 20 euro, è mezzo rotto e non me ne frega niente di social ecc…, ovviamente essendo artista ho chi lavora per me e li segue, perché devo essere presente altrimenti iniziano a pensare che io sia morto, ma queste cose non sono la mia priorità. Ritengo che internet non venga usato nella maniera corretta secondo lo scopo per cui era stato pensato, un po’ come per tutte le scoperte o le correnti filosofiche o di pensiero, nascono per un intento e poi ne viene modificato lo scopo, Cristo ha dato vita al Cristianesimo e poi ne hanno fatto un’arma di guerra, Marx ha pensato il comunismo e poi hanno dato vita invece a uno stato militare. E’ sempre così.. si parte da uno scopo buono, poi la corruzione dell’uomo distrugge tutto.

PERTH: so che stai pensando ad un nuovo disco e spero di poterlo recensire quanto prima ma parlando di uno dei tuoi ultimi lavori è stata la rivisitazione in chiave Raggae del famoso brano “Centro di Gravità Permanente” di Franco Battiato. Qual è per Skardy il “Centro di Gravità Permanente” che gli permette di stare di fronte alle situazioni che vediamo tutti i giorni e di cui hai appena accennato?

SKARDY: Speremo de inissiar el novo disco”… dovrebbero iniziare le registrazioni dopo l’estate. Per quanto riguarda il “Centro di Gravità Permanente”, è un bel problema perché mi sembra di essere diviso continuamente in due pianeti: c’è il pianeta in cui stai bene, fai quel che ti piace e il pianeta in cui sei costretto a fare cose che non vorresti fare; io ho 60 anni e sono ancora costretto a lavorare! A 60 anni hai oramai dato tutto quel che potevi! Questo è il pianeta che non mi piace. Qual è il mio pianeta, il mio “Centro di Gravità Permanente”? Stare a casa mia, ascoltare la mia musica, andare in giro a suonare, cucinare, mi piace cucinare e avendo la moglie straniera ho dovuto imparare se volevo mangiare come dalla mamma (ride).

PERTH: Rifarai “Menarosto” la rubrica di cucina?

SKARDY: No, preferisco dedicarmi alla musica, stimolare la gente ad avere ancora interesse per la musica “suonata”, perché ritengo che la musica faccia bene, sia salutare, anche se si dice che non dia beneficio immediato, io credo che permetta un beneficio psichico e credo che il motivo per cui la gente peggiora nei rapporti, nella vita, sia che manca il beneficio psichico che dà la musica. Forse oggi con te ho parlato un po’ da matto, perché salto da Mercurio a Plutone… il mio difetto principale è di non essermi mai adeguato ai tempi odierni, parlo ancora come fossi negli anni ’70, perché il mondo doveva migliorare, se è peggiorato non è colpa mia e non vado certo a peggiorarmi per adeguarmi al mondo. Siamo in una società che ha l’obiettivo del beneficio immediato e questo vale anche per la musica, la vera ricchezza si crea nel tempo, nell’immediato puoi solo far contento qualcuno… “desso vago casa che gò da cusinàr, ciao”.

PERTH: Skardy, ti ringrazio, ciao.

 

PERTH

Perth

https://www.youtube.com/watch?v=KsCdxXtgN9o




Il caffè sospeso e il diritto di ogni donna di sentirsi bella

Vorrei cominciare questo articolo con “una dei fattori distintivi di Napoli è…” ma il problema è che Napoli è una città talmente variegata, ricca di simboli e luoghi comuni che un incipit di questo genere farebbe cadere immediatamente nella banalità il mio articolo.

Dire “Napoli”, richiama alla mente troppe parole: pizza, babà, caffè, Pino Daniele, inventiva, scaltrezza…

Il punto è che il riferimento che vorrei usare io è quello del “caffè sospeso”.

Il caffè sospeso è un gesto di estrema civiltà sociale presente in città: consiste nell’usanza, in chi vuole, di consumare il proprio caffè e pagarne uno per chi in quel momento lo desidera ma non può permetterselo.

Chi vorrà consumare il caffè sospeso entrerà al bar e chiederà se ci sono caffè sospesi approfittando del proprio.

Questa usanza parla della grande generosità di un popolo abituato all’accoglienza e di un senso civico che dovrebbe essere sempre attuale: fare in modo che tutti possano avere le stesse possibilità di benessere.

Quando ho incontrato Giuseppe Morra e Michele De Gregorio, fondatori della “Di Benedetto Parrucchieri”, questo è stato il concetto espresso per spiegarmi il loro progetto: 

Ci siamo voluti ispirare al caffè sospeso, perché desideriamo che ogni donna possa avere la gratificazione di sentirsi bella sempre.

Qui lo shampoo e la piega non sono “sospesi” ma hanno certamente un prezzo accessibile a fronte di un trattamento da “grande salone”.

Effettivamente, ad entrare in uno dei saloni Di Benedetto, si ha la sensazione di essere in un salone di alto listino: receptionist accogliente, arredamento moderno (progettato dall’architetto Andrea Improta), musica in sottofondo, personale munito di auricolare in modo da non dover alzare la voce per comunicare, staff affiatato, consulenti per il tipo di trattamento da fare.

Di Benedetto Parrucchieri non è un franchising (per lo meno, non ancora) ma  il suo approccio aziendale è lo stesso: ogni salone segue lo stesso listino, le stesse procedure e ha lo stesso arredamento; i dipendenti seguono costantemente la formazione interna.

È Michele a occuparsi della formazione e degli aggiornamenti dei parrucchieri dello staff, segue la formazione della Wella, della Sassoon Academy e della Maison Academy.

L’azienda è nata 3 anni fa, ad oggi conta 3 saloni e entro la fine dell’anno ne verrà aperto un quarto e raggiungeranno un totale di circa 52 dipendenti.

(A proposito, sono anche in cerca di ulteriore personale, quindi è possibile candidarsi tramite il link in calce all’articolo).

La forza del loro lavoro, spiegano Giuseppe e Michele, sta nella capacità di contrattazione e acquisizione di credibilità che sono riusciti ad avere nei confronti delle grandi case cosmetiche come Wella e GHD che in genere evitano di legare il proprio nome a saloni con standard di prezzo bassi.

Nei loro saloni vengono utilizzati solo prodotti italiani.

Mi è venuta voglia di raccontare la loro storia perché è la storia di una azienda composta da persone che hanno voluto fare le cose in modo diverso dagli altri; che, misurandosi direttamente sul campo, senza il bisogno dei grandi guru del marketing settoriale che nell’era di internet vanno tanto di moda, hanno avuto una serie di intuizioni coraggiose e premianti.

A guardarli da fuori si possono dire tante cose: i competitors rischiano, usando il loro listino, di andare clamorosamente sotto dal punto di vista economico non riuscendo a sostenere il tipo di servizio offerto.

Gli esperti di marketing potrebbero criticare il listino troppo basso che spacca il mercato in modo irrecuperabile.

Per infrangere il tabù del prezzo, dico subito che una piega è prezzata a 5,00 euro.

Ma non è solo la piega a un prezzo ridicolo, questa sparisce in fretta nella percezione.

È il trattamento che si riceve dentro il salone, la gentilezza a cui si viene esposti, la professionalità dei dipendenti, la qualità delle pieghe, dei tagli e di ogni trattamento, è l’attenzione che si riceve e, per nulla trascurabile, il fatto che nessuno cerca i vendere con insistenza “cose in più”.

Da Di Benedetto Parrucchieri si può davvero andare per un servizio ottimo, con il solo intento di sentirsi belle, importanti e in piena fiducia del fatto che nessuno ti tratterà come un limone da spremere con continue vendite aggiuntive.

Insomma, quello che sembra è che Di Benedetto Parrucchieri possa trasformarsi in un caso aziendale interessante e a noi piacerebbe pensare di essere tra i primi ad averlo raccontato.

Napoli ha la caratteristica di saper sfornare grandi storie di impresa: Carpisa e YamamaY, Piazza Italia, Kimbo, Pastificio Garofalo, Caffè Borbone sono aziende che dal Sud Italia hanno conquistato la nazione (e oltre), chissà che questa piccola realtà non trovi la forza di posizionarsi in modo innovativo in un panorama più grande di Napoli così come già chiedono alcune “fan” sui social network.

Riferimenti

? Instagram di_benedettoparrucchieri

ⓕ Facebook : Di Benedetto Parrucchieri per passione – https://www.facebook.com/Di-Benedetto-Parrucchieri-Per-Passione-742522389182822/

? sito web Www.dibenedettoparrucchieri.com 

canditatura spontanea http://www.dibenedettoparrucchieri.com/contattaci/ 




Una granita e una brioche

disquisizione socio-economico-culturale sulla televisione e la moderna monetocrazia.

Una mattina d’estate a Palermo può capitare che, se ti fermi in un bar a prendere una granita e una brioche, anche se hai con te un buon libro, il dialogo con uno sconosciuto potrebbe rivelarsi ancora più interessante di ciò che leggi.

Lui è un signore alto e distinto, con i capelli bianchi e un sigaro in mano; siede al tavolino vicino al mio, legge il giornale e beve un caffè.

Io leggo un libro che mi è stato consigliato e che si è rivelato di una squisita bellezza.

“I libri sono il migliore amico dell’uomo”.

Smetto di leggere e lo guardo.

Non parlo perché una persona che ti interrompe mentre leggi non ha voglia di ascoltarti ma di farsi ascoltare.

E io so che lui sta solo cominciando e sono molto curiosa di ascoltarlo perché ho l’occhio lungo per le persone interessanti e non mi stanco mai di incontrarne.

È un ingegnere ma si giustifica subito dicendo che legge Rousseau, continuo ad ascoltare.

Adesso, nella recita a soggetto di quella mattina, è il turno della mia battuta e la pronuncio sorridendo perché so che è l’assist che cerca: “la cultura salverà il mondo”.

Ed è successo qui che la conversazione è sbocciata.

Da questo punto in poi ha inizio il motivo per il quale ho deciso di scrivere questo articolo.

In una fresca mattina d’estate, da un tavolo all’altro di un bar decentrato, iniziamo a parlare della analfabetizzazione della società e del ruolo dei media in questo panorama.

Però questa deprecatio temporis acti, questa continua lamentela sui tempi che viviamo che viene ripetuta fino ad oggi da quando Aristofane già nel 400 a.C. faceva dire al suo Eracle: “Quei non più sono e i vivi son cattivi”, non è forse proprio del tutto vera o, meglio, io non ho voglia vederla così perché dà alla imminente rovina che ci sta piombando addosso un sapore di ineluttabilità che io non voglio buttar giù.

Seguitemi nel mio ragionamento e ditemi se vi convince o se è, a vostro parere, da correggere (non è un modo di dire: mi interessa davvero conoscere la vostra riflessione in merito, scrivetela pure nei commenti).

Il fatto è che, onestamente, se proviamo a tornare indietro con la memoria, ricorderemo che all’inizio del ‘900 le persone in grado di saper leggere e scrivere erano molte meno che oggi.

Anzi, su questo versante, la televisione ha apportato un contributo molto importante (un esempio per tutti le lezioni di “Non è mai troppo tardi” condotto dal prof. Manzi).

Sempre in quegli anni, con l’inserimento dei programmi di intrattenimento, il palinsesto televisivo proponeva le messe in scena dei grandi romanzi permettendo cosi alla letteratura e alla cultura di arrivare a un numero ampio di telespettatori.

Ricordiamo a questo proposito che i romanzi dell’Ottocento erano concepiti per essere letti ad alta voce in famiglia piuttosto che, come oggi, nella propria solitudine.

Il romanzo era un momento di intrattenimento conviviale, da vivere nel proprio salotto all’interno del proprio nucleo familiare e sociale; era un momento di confronto che offriva alle persone la possibilità di accendere un dibattito, confrontarsi e maturare un’etica.

Interessante vedere come questo ruolo è stato perso dal romanzo ed è stato preso tempestivamente e di buon grado la televisione.

I grossi televisori a tubo catodico sostituivano e dislocavano via via sempre più quelli che erano stati fino a quel momento i salotti e i nuclei familiari.

Si creava in quegli anni, grazie a quello strumento rivoluzionario, la comune cultura di base cosa che, fino al quel momento, non c’era: non esisteva una cultura di base nazionale ma percorsi formativi divisi per classi, aree geografiche e ceti sociali.

La cultura cominciava a circolare agevolmente e senza troppo impegno da parte di chi la accoglieva e poteva essere percepita come nazionale o, addirittura, mondiale.

E, fino a qui, niente di male verrebbe da dire: è il progresso e il futuro che avanza.

E intanto, la televisione, arrivata in ogni casa, educava la morale e abituava alle mode.

Piano piano, nel modo più amabile, la televisione diventava la coscienza che entrava da una scatola in salotto piuttosto che nascere dall’anima di ciascuno.

Fatto questo, una volta acquistata la fiducia incondizionata del telespettatore, si è passati alla Fase2.

Dopo essere stata lo strumento di educazione e omologazione culturale, la televisione è passata a quella che il prof.Umberto Galimberti, parafrasando Flaubert, chiama “l’educazione sentimentale”.

Ovvero, dice sempre il prof. Galimberti, siamo al punto in cui la televisione e i suoi programmi ci stanno insegnando attraverso beceri esempi come provare emozioni: come innamoraci, come reagire alla gelosia, come essere tristi, come essere felici…

Questa codificazione non fa altro che renderci solo più privi di personalità e manovrabili.

Ecco, verrebbe da dire che, nonostante un inizio che prometteva benissimo, siamo arrivati a un punto preoccupante; dalla missione di alfabetizzazione sociale, si è arrivati all’obiettivo della analfabetizzazione sistematica.

Ma non è un attacco allo strumento ma all’utilizzo che se ne fa.

“che lavoro fa?”

“Sono laureata in materie umanistiche”

“Ah, un tempo, quando mi sono laureato io, chi aveva la passione si iscriveva a lettere e filosofia e chi invece non aveva voglia di studiare e non voleva avere nulla a che fare con la cultura, si iscriveva ad economia.

La cosa incredibile è che oggi loro sono loro quelli che stanno stabilendo tutte le regole e decidono attraverso il denaro le vite di tutti noi.

La cosa incredibile è che siamo governati da quella che aveva tutti i presupposti di essere una categoria di uomini ignoranti e aridi”.

Al di là dell’approccio campanilistico questa frase mi ha fatto molto riflettere e questo è il pensiero che porto a casa da quella mattina.

Rifletto e penso che il mio gradevole interlocutore abbia ragione.

Non so quanto sia vero o soggettivo lo scherno riservato agli studenti di economia di allora ma, se così fosse, il paragone reggerebbe.

Non me ne vogliano i laureati in economia (sto prendendo la seconda laurea in economia anche io) ma l’ascesa sociale nella nostra scala dei valori svolta dal danaro

e il potere acquisito in breve tempo da chi del denaro detta le regole, è un segno e una causa del nichilismo dei nostri tempi.

Non sono pensieri miei, non sono così intelligente anche se mi piacerebbe esserlo, cercate pure cosa dice il prof. Umberto Galimberti a proposito del nichilismo moderno e sarà tutto chiaro.

Il nichilismo dei nostri giorni è la sindrome del direttore del lager che giustifica le centinaia di morti sulla propria coscienza con la frase “io facevo il mio lavoro”.

È l’esaltazione dei freddi doveri lavorativi a scapito dell’umano e palpitante discernimento.

È la concentrazione verso l’essere un uomo ricco piuttosto che un uomo di valore.

La tendenza all’Avere piuttosto che all’Essere come diceva Eric Fromm, all’apparire (ciò che gli altri vogliono che tu sia) rispetto all’essere ciò che non sappiamo di essere.

È l’eccentricità del nuovo equilibrio per il quale la nuova divinità si chiama “soldo” e, come ogni rituale richiede sacrifici e vittime.

È quella che Raimonundo Panikkar chiamava la “monetocrazia” ovvero il potere dittatoriale della moneta.

Per quanto fino a qualche anno fa questa delocalizzazione della morale poteva sembrarci aberrante, oggi è affascinante notare che, anche attraverso il mezzo di propaganda sociale che è la televisione e di propaganda delle coscienze che è la rete, è diventato perfettamente plausibile.

E così, in questi giorni, rifletto su questo tema e ne parlo con gli amici e uso le lenti di questa riflessione per guardarmi attorno e scoprire cosa si vede.

Il mio interlocutore, a suo dire, su quanto detto e qui riportato, aveva un approccio “pessimista”, non credeva cioè che ci fosse via di uscita da questa degradazione.

Io però farò appello alla differenza di anni che separano la mia età dalla sua e userò il tempo che mi resta per colmare il divario, per ribellarmi con i pensieri e le azioni a questa corrente e dare il mio contributo affinché la cultura e la bellezza possano salvare il mondo.

Ps: Il mio nuovo amico mi ha raccontato anche di sua nonna Andromaca e di come essa diceva che gli occhi siano concupiscenza oltre quello che in realtà possono contenere ma di lei, forse, scriverò in un altro articolo.


Puoi leggere altri post di Chiara Sparacio su https://chiarasparacio.wordpress.com




Carcere di vecchiaia, nuova tendenza…

 

In Giappone, la popolazione è la più anziana del mondo. Il 25% della sua popolazione supera i 65 anni.

Il fenomeno sociale ha già compromesso il sistema finanziario e la grande distribuzione giapponesi.

Ma, di recente, è emersa un’altra grave problematica: una grande quantità di anziani giapponesi commette intenzionalmente crimini minori, per di più furti, per poter essere arrestato in modo da poter trascorrere gli ultimi giorni di vita in carcere.

Incredibile, ma vero!

Secondo Bloomberg, multinazionale operativa nel settore dei mass media, il governo giapponese deve affrontare l’invecchiamento della popolazione carceraria.

Sempre secondo la sopracitata agenzia di stampa, in Giappone, le denunce e gli arresti di persone anziane stanno superando quelli relativi a qualsiasi altra fascia di popolazione.

Infatti, la percentuale di crimini commessi da persone anziane giapponesi è quadruplicata negli ultimi vent’anni.

Così siamo arrivati al punto che, in Giappone, il 20% dei carcerati è un anziano. E, nella maggior parte dei casi, addirittura nove su dieci per le donne, i crimini, deliberatamente commessi per finire in prigione, sono piccoli furti.

Il fenomeno è solo apparentemente insolito ed inspiegabile. In realtà rimanda alla fatica di vivere delle persone anziane sole ed indigenti, in Giappone, ma non solo.

Alla base di tutto, ci sono le enormi difficoltà assistenziali che i paesi più ricchi e longevi devono sostenere verso la fascia più anziana della popolazione.

Sempre secondo Bloomberg, tra il 1985 ed il 2015, il numero di anziani che vive solo è aumentato del 600%.

Da un’indagine del governo giapponese è emerso che la metà degli anziani sorpresi a rubare, è costretta a vivere sola. Ed il 40% di loro ha detto di non avere famigliari o di non parlare quasi mai con loro.

Dunque, con questi presupposti, la prigione è semplicemente una alternativa migliore alla povertà, ma soprattutto alla solitudine, della terza età.

“Magari hanno una casa, o anche una famiglia. Ma ciò non significa che hanno un posto dove sentirsi a proprio agio”, ha detto a Bloomberg Yumi Muranaka, direttrice del carcere femminile di Iwakuni.

Ogni carcerato mantenuto dallo stato giapponese costa più di 20.000 dollari all’anno.

Le speciali cure ed esigenza di assistenze specifiche di un carcerato anziano fanno ulteriormente lievitare i costi.

Senza considerare che i secondini devono svolgere il ruolo di una badante più che di personale carcerario.

Ormai, la vita in un carcere giapponese sembra sempre più quello di una casa di riposo.

Paradossalmente, le carcerate intervistate da Bloomberg hanno lasciato trapelare di aver ritrovato in prigione un senso di comunità mai provato all’ esterno.

“Apprezzo di più la mia vita in prigione.

C’è sempre un sacco di gente e non mi sento sola. Quando sono uscita la seconda volta, ho promesso che non sarei più rientrata. Ma fuori non riuscivo a non provare nostalgia”.

Ha raccontato a Bloomberg una delle donne.

L’arresto intenzionale non è un’esclusiva giapponese.

Negli Stati Uniti, ad esempio, si sono verificati casi di persone fattesi deliberatamente arrestare per ottenere cure mediche, ripararsi da aspre condizioni meteorologiche o costringersi a disintossicarsi.

Ma le dimensioni del problema giapponese stanno allarmando le autorità.

Il governo sta cercando di combattere la criminalità della terza età migliorando il proprio sistema previdenziale, ma l’ondata di criminali anziani non accenna a concludersi in tempi brevi.

“La vita in carcere non è facile”, ha dichiarato l’operatore sociale Takeshi Izumaru.

“Ma per alcuni, fuori è anche peggiore”.

In Italia, il progressivo invecchiamento della popolazione, apre prospettive inquietanti di povertà e di solitudine gestite per lo più con dilemmi famigliari tra case di riposo di lusso, ospizi di basso livello o caroselli di badanti di ogni tipo…

Quello che manca è comunque l’attenzione dello Stato verso quella fascia di popolazione sempre più numerosa e vulnerabile.

Cittadini italiani, magari andati in pensione con le pensioni baby, con 14 anni, 6 mesi ed un giorno, negli anni ’80, che adesso, ultra ottantenni, continuano a gravare sullo Stato.

Da quarantanni non sono più contribuenti attivi, e sempre più, invecchiando, diventano costi passivi di uno stato che, per ora, in carcere, non mette neanche gli evasori attivi.

Ma questo è un altro problema !

 

Antonella Ferrari

 




Eventi sportivi… siamo seri!!

Ho letto, nei giorni scorsi, un divertente articolo dal titolo “Abbiamo il golf: niente eventi in Italia fino al 2033. L’assurda clausola della Ryder Cup (ma la Raggi non c’entra)” comparso su Business Insidera firma di Andrea Sparaciari.

Siamo in estate, tempo di vacanze, di spensieratezza, di momenti piacevoli lontano dal lavoro e dai quotidiani problemi della vita e proprio in questo articolo c’è tutto questo, una forma bellissima, (magari sapessi scrivere così!), snella, veloce, accattivante che sa attirare il lettore parola dopo parola come quando ci si avvia verso la meta desiderata e tanto attesa.

Sono molti gli italiani decidono trascorrere questo periodo sulle nostre bellissime spiagge e quindi si parte percorrendo dalle autostrade alle stradine pedonali per arrivare davanti al mare ed anche nell’articolo c’è un mare … di confusione. 

Il titolo e la prima frase sono un po’ sensazionalistici, si sa è la moda del momento, ma ad un’analisi appena più approfondita potremmo dire che la Ryder Cup è il terzo/quarto evento sportivo – non solo golfistico – al mondo dietro alle Olimpiadi ed ai Mondiali di Calcio.

Se la gioca con il Super Bowl. 

Più avanti si entra nel dettaglio della natura giuridica delle Federazioni, definendole come di “soggetto di diritto privato”, definizione parzialmente esatta (ad oggi, ricordando che su questo si sta per pronunciare la Corte di Giustizia Europea C-156/19) che però è troppo semplicistica in questo caso perché per quanto riguarda il corretto svolgimento dei campionati le Federazioni svolgono una funzione demandata dal CONI (Comitato Olimpico Nazionale Italiano) che in Italia svolge (anche qui sarebbe opportuno valutare gli impatti dell’imminente riforma dello Sport in essere alle camere) la funzione di confederazione delle Federazione ed il CONI è un Ente Pubblico. 

Indipendentemente dalla funzione e dalla natura dell’atto in questione è evidente che una Federazione (che sia pubblica o privata e/o che svolga una funzione privatistica o pubblicistica) non ha alcun potere di prendere un impegno per l’intero Paese.

Un impegno per il Paese lo può prendere esclusivamente l’autorità di Governo competente che sia un Ministro, come era nel caso dell’On. Lottio un sottosegretario come è ora nel caso dell’On. Giorgetti

Non entrerò nel merito del contratto in quanto non essendo pubblico, credo debba rimanere nella riservatezza delle parti in questione, tuttavia è curioso quando si dice che “…dalla Federazione Italiana Golf la quale, probabilmente, sarà chiamata al più presto a risponderne al Coni, il quale avrà qualcosa da dire a proposito.” infatti si omette che il Presidente della Federgolf, il Prof. Franco Chimenti, è anche Vice Presidente Vicario del CONI.

Le sue capacità di negoziatore sono evidenti, essendo riuscito a far assegnare all’Italia la Ryder Cup, quindi sono sicuro che riuscirà anche a spiegarsi con se stesso e, visto che siamo in un periodo dove anche i tagli alle spese sono “di moda” … risparmierà sulla telefonata!

Si parla addirittura di Olimpiadi 2026 a rischio. Il CIO (Comitato Internazionale Olimpico)  raggruppa, tra l’altro, tutte le Federazioni Internazionali delle discipline sono presenti ai giochi Olimpici quindi, sarebbe illogico pensare che il Presidente della Federazione Internazionale del Golf, essendo il golf sport Olimpico, non sia informato e non abbia informato il Comitato Olimpico sul principale evento mondiale della sua disciplina.

Infine una nota di colore: leggo spesso nell’articolo che si parla di Ryders Cup, che si giocherà a Roma. Nel golf invece c’è solo la Ryder Cup, che nasce nel 1929 dall’idea di Samuel Ryder (da qui il nome Ryder), e si giocherà al Golf Club Marco Simone che, malgrado le mie scarse competenze in geografia è situato, vicino a Roma, ma nel Comune di Guidonia.

Magari la confusione ci ha permesso di scoprire una nuova competizione … e, da amante dello sport, considerando tutti i riders (con la i) di grande successo che abbiamo nel nostro Paese sia sulle moto che sulle bici chissà magari potremmo fare anche una gara per riders alla Ryder Cup.

ps. Da italiani, gioiamo per le Olimpiadi del 2026 e tifiamo per tutte le manifestazioni sportive dove il nostro paese si candiderà, perché sono delle ottime opportunità per crescere in infrastrutture e ridurre la spesa sanitaria del nostro paese! Più si fa sport, più scende la spesa sanitaria.

 




Separati per il bene.

Quando meno te l’aspetti, arriva un gancio dal cielo che ti rimette in piedi.

“A volte la separazione è la soluzione migliore per il bene dei figli “, queste le parole pronunciate dal Papa, due giorni fa, all’incontro con i Gesuiti in Romania.

E capisci che se l’ha detto il Papa, dall’alto della sua infallibilità, forse è proprio vero che il matrimonio non è un valore assoluto, a prescindere, costi quel che costi.

Che Papa Bergoglio avesse intrapreso un percorso d’avanguardia rispetto alla posizione anacronistica della Chiesa, lo si era capito sin da subito.

Nel febbraio del 2014 aveva raccomandato di non condannare chi ha vissuto il fallimento di un amore.

” Accompagnare, non condannare” era stato il suo monito.

Prendendo spunto dal Vangelo, aveva commentato l’atteggiamento dei dottori della legge che cercano di porre delle trappole a Gesù per “togliergli l’autorità morale”. I farisei, aveva osservato, si presentano da Gesù con il problema del divorzio. Il loro stile, è sempre lo stesso: “la casistica”, “È lecito questo o no? “Sempre il piccolo caso. E questa è la trappola: dietro la casistica, dietro il pensiero casistico, sempre c’è una trappola. Sempre! Contro la gente, contro di noi e contro Dio, sempre”

Nell’ aprile del 2016, altro passo avanti del Papa, verso i divorziati risposati. 

“Ci sono divieti che si possono superare”.

Quindi, valutando caso per caso, i divorziati, potranno ricevere la comunione e fare i padrini e i catechisti in Chiesa. Non una regola generale, però, ma un discernimento affidato ai confessori come chiesto dai vescovi che avevano partecipato al Sinodo del 2015 sulla famiglia

Questa era stata la decisione presa da Papa Francesco nella sua attesa esortazione apostolica post sinodale Amoris laetitia  a conclusione di un cammino di riflessione durato oltre due anni con consultazione di fedeli e di vescovi di tutto il mondo.

Ma nel testo non c’erano soltanto questioni che riguardavano i divorziati, perché Bergoglio aveva parlato anche di sesso coniugale, ribadendo la sua contrarietà alle nozze gay e sottolineando come la Chiesa dovesse fare autocritica.

In particolare sull’eccessivo peso dato al “dovere della procreazione” nel matrimonio e sull’insistenza quasi esclusiva, “per molto tempo”, su “questioni dottrinali, bioetiche e morali”, una concezione troppo “astratta”, negativa, e un “atteggiamento difensivo” nei confronti del mondo.

Per Bergoglio, poi, nei confronti di chi vive situazioni ‘irregolari’ i pastori della Chiesa non possono applicare leggi morali “come se fossero pietre che si lanciano contro la vita delle persone.

È il caso dei cuori chiusi, che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa”.

“Abbiamo presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto”.

Così, Il Papa riflettendo sulla sessualità coniugale e sul matrimonio, aveva già evidenziato come la sua “idealizzazione eccessiva” non avesse fatto sì che diventasse “desiderabile e attraente, ma tutto il contrario”.

“In nessun modo possiamo intendere la dimensione erotica dell’amore come un male permesso o come un peso da sopportare per il bene della famiglia, bensì come dono di Dio che abbellisce l’incontro tra gli sposi “

E anche San Giovanni Paolo II, aveva già ricordato il Papa, ha respinto l’idea che l’insegnamento della Chiesa porti a una negazione del valore del sesso umano o che semplicemente lo tolleri ‘per la necessità stessa della procreazione’.

Dunque, secondo il Papa, a partire dal Sinodo sulla famiglia del 2015, c’era tutto un cammino da percorrere per concretizzare un’apertura della Chiesa verso la vera realtà coniugale.

E, Lui, questo cammino, ha continuato a farlo.

Diverse volte, Bergoglio, ha insistito sulla necessità di “riconoscere la grande varietà di situazioni familiari che possono offrire una certa regola di vita”

Allo stesso tempo, Papa Francesco si è più volte domandato chi si occupi “oggi di sostenere i coniugi, di aiutarli a superare i rischi che li minacciano, di accompagnarli nel loro ruolo educativo, di stimolare la stabilità dell’unione coniugale?”.

Ha persino espresso una profonda autocritica verso la posizione della Chiesa sul dovere della procreazione.” Spesso abbiamo presentato il matrimonio in modo tale che il suo fine unitivo, l’invito a crescere nell’amore e l’ideale di aiuto reciproco sono rimasti in ombra per un accento quasi esclusivo posto sul dovere della procreazione”

A proposito della formazione e del sostegno al matrimonio, il Papa ha riconosciuto i limiti della Chiesa che non ha fatto un buon accompagnamento dei nuovi sposi nei loro primi anni, con proposte adatte ai loro orari, ai loro linguaggi, alle loro preoccupazioni più concrete. Altre volte, la Chiesa ha presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono. “Questa idealizzazione eccessiva, soprattutto quando non abbiamo risvegliato la fiducia nella grazia, non ha fatto sì che il matrimonio sia più desiderabile e attraente, ma tutto il contrario”.

Sembra proprio che il filo conduttore di ogni esortazione papale sia sempre lo stesso: formare le coscienze, non sostituirle.

Sulla possibilità per i divorziati risposati di accostarsi ai sacramenti, Francesco ha sempre risposto in modo chiaro: “Se si tiene conto dell’innumerevole varietà di situazioni concrete è comprensibile che non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi.

È possibile soltanto un nuovo incoraggiamento a un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari, che dovrebbe riconoscere che, poiché il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi, le conseguenze o gli effetti di una norma non necessariamente devono essere sempre gli stessi”.

“I divorziati risposati – ha sottolineato il Papa – dovrebbero chiedersi come si sono comportati verso i loro figli quando l’unione coniugale è entrata in crisi; se ci sono stati tentativi di riconciliazione; come è la situazione del partner abbandonato; quali conseguenze ha la nuova relazione sul resto della famiglia e la comunità dei fedeli; quale esempio essa offre ai giovani che si devono preparare al matrimonio. Una sincera riflessione può rafforzare la fiducia nella misericordia di Dio che non viene negata a nessuno”.

Il Papa non ha voluto stabilire una norma valida per tutti perché “i divorziati che vivono una nuova unione possono trovarsi in situazioni molto diverse, che non devono essere catalogate o rinchiuse in affermazioni troppo rigide senza lasciare spazio a un adeguato discernimento personale e pastorale”

Per esempio, secondo il Papa, “c’è il caso di quanti hanno fatto grandi sforzi per salvare il primo matrimonio e hanno subito un abbandono ingiusto, o quello di coloro che hanno contratto una seconda unione in vista dell’educazione dei figli, e talvolta sono soggettivamente certi, in coscienza, che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido.

Altra cosa invece – ha precisato – è una nuova unione che viene da un recente divorzio, con tutte le conseguenze di sofferenza e di confusione che colpiscono i figli e famiglie intere, o la situazione di qualcuno che ripetutamente ha mancato ai suoi impegni familiari. Dev’essere chiaro che questo non è l’ideale che il Vangelo propone per il matrimonio e la famiglia”.

Dunque, a partire dalla sua esortazione AMORIS LAETITIA del 2016, Papa Francesco,  ha continuato a recepire, integralmente, le conclusioni del Sinodo del 2015, approvate dalla maggioranza dei vescovi, sulla partecipazione dei divorziati risposati a “diversi servizi ecclesiali: occorre perciò discernere quali delle diverse forme di esclusione attualmente praticate in ambito liturgico, pastorale, educativo e istituzionale possano essere superate”.

Per il Papa “si tratta di integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale, perché si senta oggetto di una misericordia immeritata, incondizionata e gratuita. Nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo! Non mi riferisco solo ai divorziati che vivono una nuova unione, ma a tutti, in qualunque situazione si trovino”

Bergoglio ha sempre ribadito la condanna della Chiesa sull’aborto, l’eutanasia, la teoria del gender, la pedofilia, la violenza che purtroppo si verifica anche in famiglia molto spesso a danno delle donne, la pratica dell’utero in affitto.  Spesso, il Papa ha  ricordato la sua riforma del processo di nullità matrimoniale incoraggiando le coppie in crisi a verificare la validità della loro unione canonica.

Insomma, Papa Francesco, ha sempre avuto parole molto comprensive verso ogni persona. Persino a proposito delle unioni di fatto, ha sottolineato che esse sono molto numerose, non solo per il rigetto dei valori della famiglia e del matrimonio, ma soprattutto per il fatto che sposarsi è percepito come un lusso, per le condizioni sociali, così che la miseria materiale spinge a vivere unioni di fatto.

Situazioni che, per il Papa, “vanno affrontate in maniera costruttiva, cercando di trasformarle in opportunità di cammino verso la pienezza del matrimonio e della famiglia alla luce del Vangelo”.

Dunque, due giorni fa, incontrando i Gesuiti in Romania, il Papa ha continuato un unico discorso, quello di sempre.

“Ci sono matrimoni nulli per mancanza di fede. Poi magari il matrimonio non è nullo, ma non si sviluppa bene per l’immaturità psicologica.

In alcuni casi il matrimonio è valido, ma a volte è meglio che i due si separino per il bene dei figli”.

Questo il suo messaggio che non apre un cambiamento significativo della posizione della Chiesa sul tema del divorzio, quanto mantiene un ‘apertura che dura da anni.

Il Papa ha infatti nuovamente parlato del Sinodo sulla famiglia: “Quando è incominciato il Sinodo sulla famiglia, alcuni hanno detto: ecco, il Papa convoca un Sinodo per dare la comunione ai divorziati. E continuano ancora oggi! In realtà, il Sinodo ha fatto un cammino”.

Per il Papa “sul problema matrimoniale dobbiamo uscire dalla casistica che ci inganna” e “si devono accompagnare le coppie. Ci sono esperienze molto buone. Questo è molto importante. Ma servono i tribunali diocesani. E ho chiesto che si faccia il processo breve. So che in alcune realtà i tribunali diocesani non funzionano. E ce ne sono troppo pochi. Il Signore ci aiuti!”

Ed allora, che davvero il Signore ci aiuti a liberarci dal formalismo e dal bigottismo che troppe volte hanno allontanato la Chiesa dall’amore vero, quello che il Papa ci esorta a vivere…

 

Antonella Ferrari