ANCODIS: alla ricerca del vicepreside perduto…

Dopo un’intesa raffica di articoli nostri e di comunicati stampa di Ancodis, una luce si accende in fondo al tunnel: si terrà a Palermo il primo convegno nazionale in cui si parlerà di middle management nella scuola italiana.

Un argomento importante e chiave per il funzionamento della scuola italiana, purtroppo troppo sottovalutato.

Noi di Betapress siamo convinti che non è più possibile far finta di niente, e che le istituzioni non possono nascondere la testa sotto la sabbia in attesa che “passi la bufera”.

I collaboratori dei DS sono a tutti gli effetti una categoria che è assolutamente equiparabile per lavoro e per responsabilità ad un quadro intermedio, non è più possibile far finta di niente.

Speriamo che questo convegno che per la prima volta vede raggruppate molte delle organizzazioni coinvolte nella vexata quaestio, porti una sensibilizzazione di tutti che ottenga almeno il risultato di dare significato all’argomento presso il governo.

 

 

A.N.Co.Di.S. (Associazione Nazionale Collaboratori Dirigenti Scolastici) organizza Venerdi 24 maggio 2019 un convegno nazionale con tema “Il middle management nella scuola italiana a 20 anni dall’istituzione dell’autonomia scolastica: innovazione culturale o utopia di sistema?”

Lo scorso 10 marzo i Collaboratori di Ancodis hanno voluto ricordare i 20 anni dell’istituzione dell’autonomia scolastica (8 marzo 1999) con la proposta di uno spazio unitario di riflessione sull’autonomia (che ritengono di fatto essere una perfetta incompiuta!) e sul ruolo dei Collaboratori del DS nell’attività gestionale, organizzativa e didattica in ciascuna scuola (oggi di fatto contrattualmente inesistenti).

Il Convegno, dunque, sarà l’occasione per chiedersi se il riconoscimento dei “quadri intermedi” – che ai sensi dell’art. 25 comma 5 del D. Lvo 165/2001 e dell’art. 1 comma 83 della Legge 107/2015 operano nella visione dell’autonoma Istituzione scolastica al fianco dei DS, dei docenti, dei DGSA e del personale non docente – possa considerarsi una necessaria innovazione contrattuale o rimanere un’utopia nel sistema scolastico italiano.

Sarà un momento di confronto unitario per capire se è arrivato il tempo per sostenere nelle sedi proprie quelle azioni giuridiche e contrattuali finalizzate all’istituzione delle figure quadro nella scuola italiana attraverso la determinazione di procedure di accesso, di selezione, di carriera, di formazione.

I Collaboratori dei DS ritengono che il tema non possa più essere condizionato da posizioni ideologiche arcaiche che hanno discriminato il lavoro di alto profilo che essi quotidianamente espletano in favore delle Istituzioni scolastiche in ruoli, mansioni e tempi diversi.

Abbiamo, dunque, chiesto alle Associazioni dei DS (ANP, ANDIS, DISAL, UDIR, DIRIGENTISCUOLA), dei DSGA (ANQUAP), degli EE.LL. (Anci Sicilia piccoli comuni), alle OO.SS dei DS (CISL, CGIL, UIL), al MIUR di presentare le loro posizioni e di avanzare proposte costruttive su un tema che i Collaboratori dei DS ritengono sostanziale per le moderne Istituzioni Scolastiche.

Il coinvolgimento dell’ANCI Sicilia piccoli comuni è stato richiesto poiché è nelle piccole realtà locali che le relazioni istituzionali in prima istanza vengono tenute dai Collaboratori Fiduciari di plesso che quotidianamente si adoperano in tutti i modi per consentire all’Istituzione scolastica di espletare al meglio il proprio servizio per alunni e famiglie.

Siamo grati a tutti i partecipanti per la sensibilità manifestata e confidiamo sinceramente che il confronto possa far scaturire proposte innovative e sostenibili a partire dal prossimo rinnovo del CCNL, far emergere posizioni unitarie con l’unico obiettivo di garantire la qualità del funzionamento delle moderne autonome Istituzioni scolastiche e la loro offerta formativa.

Il convegno si terrà a Palermo presso l’Aula Magna dell’IC A. UGO dalle ore 8,00 alle ore 14,00.

Le informazioni si possono ricevere scrivendo ad ancodis1@gmail.com entro e non oltre MARTEDI 21 maggio 2019.

 

Il Presidente A.N.Co.Di.S. Palermo

Prof. Rosolino Cicero    

 

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https://betapress.it/index.php/2017/07/21/a-n-co-di-s-lotta-estrema-contro-le-ingiustizie/

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L’isola che non c’è e la maledizione di Kronos

LA SICILIA SENZA FUTURO

“Si narra che il più giovane dei Titani, Kronos dio del tempo, invidioso che gli abitanti della Sicilia vivessero in una terra così bella scagliò contro gli isolani una maledizione privandoli del futuro e condannandoli a vivere in un’eterno presente”. Questo è quello che si racconta.

 Sembrerebbe una di quelle affascinanti storie legate alla mitologia greca se non fosse per il fatto che è completamente inventata, non ci è stata tramandato infatti nessun racconto riguardo l’invidia di Kronos per i siciliani, da nessuna parte si parla di questa maledizione è tutto inventato di sana pianta per puro diletto, ma mi piace pensare che sarebbe potuto essere.

 Fatto sta però che, dei e incantesimi a parte, il futuro ai siciliani manca davvero ed è quello della loro lingua, o dialetto che dir si voglia, se ci si riflette un attimo, ci si accorge infatti che se un siciliano deve declinare un verbo al futuro gli è impossibile perché nella lingua siciliana non esiste il tempo del futuro.

 Un esempio? Se bisogna dire “domani andrò a mare” in siciliano diventerà “devo andare” o “domani vado” e quindi “dumani vaiu a mari”, se devo dire “domani verrò” dirò domani vengo “dumani vegnu” in questo modo il verbo è sempre al presente preceduto da un avverbio che invece indica il tempo.

 In una ormai famosa intervista rilasciata da Leonardo Sciascia alla giornalista francese Marcelle Padovani e divenuta un libro dal titolo “La Sicilia come metafora” il grande intellettuale diceva con amarezza: “ E come volete non essere pessimista in una terra dove non esiste il tempo futuro?” ed il  futuro a cui si riferiva Sciascia era in questo caso proprio quello della “lingua” siciliana.

È questa una singolarità del siciliano parlato, un’anomalia che da sempre ha affascinato linguisti ed intellettuali sembra insomma che la parola futuro noi siciliani non riusciamo neanche a pronunciarla.

È come se fossimo  prigionieri  di un sortilegio che ci fa vivere in un’eterno presente, in una dimensione temporale che non contempla altro che l’oggi.

Come spiegare tutto ciò?

 Il filosofo Manlio Sgalambro asserisce che ogni isolano non avrebbe voluto nascere, l’essenza della Sicilia è spiegata per lui con la volontà di sparire. Ma congetture filosofiche a parte è veramente così?

 È innegabile che questo lembo di terra posto quasi al centro del Mediterraneo, tra Oriente ed Occidente, questa testa di ponte tra l’Africa e l’Europa partecipi in maniera rilevante alla bellezza paesaggistica e monumentale di questa parte di pianeta.

 È stato scritto che “il bello è lo splendore del vero” e basta guardarsi in giro dove tutto ciò viene espresso nella magnificenza dei monumenti barocchi, nella fantasia e nell’abbondanza dell’arte culinaria, in un paesaggio mai scontato che passa da una montagna che sputa fuoco da millenni a dorate distese di grano, da foreste rigogliose a spiagge dove il mare ha i colori di un sogno.

 Ma dietro questa immagine di una bellezza patinata e le parole suadenti da ufficio promozione del turismo traspare nei fatti e nella storia comunque  un malessere che fa dei siciliani personaggi tendenti quasi all’autodistruzione, un caso patologico di quelli da manuale.

L’intera Sicilia è una dimensione fantastica in cui è impossibile viverci senza immaginazione diceva ancora una volta Sciascia che di questa terra e dei suoi abitanti è stato un mentore arguto ed appassionato.

Già come si fa a viverci?

Lo sanno bene le civiltà che si sono succedute nei secoli che qui vivevano ed anche bene che però al futuro pensavano eccome, lasciando testimonianze che rappresentano il meglio di quanto fossero capaci, monumenti che sembrano sfidare l’eternità.

Civiltà e culture esterne hanno prodotto in quest’isola quello che neanche nei loro luoghi di provenienza hanno potuto osare immaginare, quasi fosse un’obbligo nei confronti di  una terra di conquista ma dalla quale sono stati inesorabilmente ammaliati e conquistati.

 Ma allora per pensare al futuro, per uscire fuori da questo loop temporale bisogna non nascere in Sicilia?

È questo l’unico modo per annullare la “maledizione” che non ci fa vedere oltre il presente?

La diffidenza verso quello che sarà o potrebbe essere è forse banalmente la paura dell’ignoto, di ciò che non si conosce e che potrebbe divenire peggio di quello a cui ci si è già abituati.

Avvezzi a spaccare i capelli in quattro” faceva dire Tomasi di Lampedusa a  Don Fabrizio nel  Gattopardo parlando del rapporto tra i siciliani e i governanti di  turno “Se non si faceva così non si sfuggiva agli esattori bizantini, agli emiri berberi, ai vicerè spagnoli. Adesso la piega è presa , siamo fatti così”.

Ma il futuro non ci è stato negato da un Titano invidioso ma da qualcuno potente anch’egli, una serie di qualcuno meglio dire, che ha deciso con lucidità e cinismo che se si risolvono i problemi e le esigenze di un popolo quello stesso popolo non sarà più ricattabile ed allora conviene tenerlo perennemente sotto scacco ad ogno costo, il do ut des qui è diventata legge.

Il problema è non fare diventare legge la rassegnazione.

Prendo in prestito ancora una volta le parole del principe di Salina al piemontese Chevalley che invitava il principe a diventare senatore per contribuire a sanare quelle che già allora erano le tante piaghe, i tanti desideri da esaudire: “ I siciliani credono di essere perfetti, la loro vanità è più forte della loro miseria” rispondeva Don Fabrizio. Un’analisi impietosa del carattere di un popolo ma troppo letteraria, non perfettamente corrispondente alla realtà che in questo caso è sempre molto più complessa di un romanzo se pure un capolavoro.

Lo sforzo dovrebbe a mio avviso essere quello di uscire fuori dalla cornice di un ritratto che in parte ci appartiene pure ma che non è detto sia quello definitivo. L’atteggiamento di diffidenza nei confronti della vita spesso ce lo si legge in faccia come se si fosse usciti fuori da un quadro di Antonello da Messina, da uno dei suoi celebri ritratti, ma quelli sono capolavori noi molto più semplicemente gente di passaggio.

Si parla sempre di riscatto dei siciliani come se fossimo nati col peccato originale di esserlo. Quelli che continuamente vengono chiamati i mali della Sicilia e che a tutti sono ben noti sono gli stessi che ci tengono prigionieri di un cliché ormai parte di un immaginario planetario duro a morire.

La parola d’ordine per chi finisce gli studi è andare via, qui non c’è nulla, nessuna prospettiva, nessuna speranza lavorativa e già da tempo l’Italia stessa è diventata stretta per chi vuole crearsi un’avvenire.

Crisi economiche, bolle finanziarie, banche che falliscono, corruzione….che se mettono in ginocchio una nazione, un’intero continenete figurarsi cosa possono provocare ad una  regione a rischio fallimento.

Cosa fare? Ah saperlo!

Per chi ha una fede ed è credente pregare, per gli altri lo stesso non si può mai sapere, vuoi vedere che…

Più seriamente penso si potrebbe  ricominciare e partire da una parola, una semplice parola dal significato bellissimo: “etica”. L’applicazione della morale nella vita di tutti i giorni, quella propensione a fare il bene senza essere dei santi, a preoccuparsi per gli altri senza essere madre Teresa di Calcutta, fare quello che si deve fare e magari farlo pure bene ed in ultimo ritornare ad indignarsi cosa alla quale sembriamo ormai anestetizzati.

Tutto ciò non è la soluzione a tutto ma potrebbe diventare l’inizio di un cambiamento, perché no?

Ed allora come nei versi di una famosa canzone degli anni 80: ”Seconda stella a destra…e poi dritto fino al mattino” alla ricerca di un’isola senza santi ne eroi,  senza ladri e guerre…insomma l’isola che non c’è!

Siamo la città più europea dell’Africa come dice qualcuno parlando di Palermo, già la Sicilia è la Svizzera africana che messa così non è poi tanto male, in questo caso basta sapersi accontentare.

 

Sandro Mammina




1937 1945: Buchenwald e la memoria.

Era l’11 aprile 1945 quando gli americani arrivarono nel campo di concentramento di Buchenwald.

Parecchi non sanno la storia di questa funesta distesa e dei drammi che si consumarono al suo interno, tra l’impassibilità di coloro che pur capendo si stringevano in un dedito silenzio.

Il Campo di concentramento di Buchenwald, istituito nel luglio del 1937, fu uno fra più grandi campi della Germania nazista.

Era il 16 luglio del 1937 quando un commando di circa 300 deportati, elevò, con attrezzi arcaici e limitati, le prime baracche del campo di Buchenwald, ricavando il legname dalla foresta di Ettersberg, foresta, che fu a suo tempo prediletta da Goethe».

(Le SS lasciarono in piedi L’albero di Goethe sotto il quale il grande poeta amava stare per scrivere le sue opere, all’interno di Buchenwald).

Questo campo, eretto da mezzi primitivi, giunse a contenere un numero pari a 238.980 anime, esso fu uno tra i lager dove si eseguì principalmente lo sterminio tramite il lavoro.

Alcune fonti rimandano ad un numero complessivo di 43.045 vittime, secondo altre fonti furono invece 56.554 secondo altre, tra essi 11.000 erano ebrei. Poco importa oggi trovare l’esatta cifra da inserire negli annuali più tristi della storia, il massacro andava fermato non conteggiato.

Il campo fu dapprima istituito come luogo di prigione cautelativa e di punizione per oppositori politici del regime nazista, criminali comuni, testimoni di Geova, tre categorie di prigionieri tedeschi.  

Se nel luglio del 1937 al suo interno si contavano 149 persone, alla fine di quello stesso anno il numero crebbe in modo sproporzionato fino a raggiungere 2.651 vite limitate tra i fili spinati di quel campo. Per le cifre che doveva contenere non poteva che essere eretto in un luogo isolato, al di fuori da sguardi indiscreti.  

Agli oppositori politici, ai criminali recidivi, ai cosiddetti “asociali”, e ai testimoni di Geova, si aggiunsero il 23 settembre 1938, prima 2.200 ebrei, deportati dall’Austria, e, immediatamente dopo la Notte dei cristalli, Kristallnacht, altri 10.000 che «furono sottoposti ad un terrore brutale», e costretti a lavorare fino a 15 ore al giorno. Al momento della liberazione il 95% degli internati non erano tedeschi.

Pur non essendo stato concepito come luogo di sterminio organizzato, vi ebbero luogo uccisioni in massa di prigionieri di guerra e molti internati morirono in seguito ad esperimenti medici ed abusi delle SS. Le impiccagioni e le fucilazioni susseguivano, e venivano comminate senza alcun processo anche per futili infrazioni alle rigide regole di vita nel campo. Buchenwald faceva parte integrante del progetto di sterminio di massa tramite il lavoro-denutrizione organizzato dal regime nazista.

A gennaio del 1945 con l’avanzata dell’Armata Rossa, il lager divenne l’ultima stazione dei trasporti per l’evacuazione dei campi di Auschwitz e Gross-Rosen. Le marce della morte che condussero a Buchenwald portarono migliaia di prigionieri, tanto che la popolazione degli internati contò in quel periodo ben 86.000 persone, una parte delle quali visse in «condizioni terribili» in una tendopoli.

Poco prima della liberazione, ad aprile 1945, le SS cercarono di sgomberare frettolosamente il campo.

Si calcola che, mandati a marciare verso mete incerte fino allo sfinimento, circa 15.000 – 25.000 morirono nella “evacuazione”.

Circa 21.000 prigionieri riuscirono però a non “mettersi in marcia” e a rimanere nel campo, grazie al rallentamento dell’evacuazione organizzato da alcuni resistenti.

Era l’11 aprile del 1945 quando il campo veniva liberato al suo interno si contarono 16.000 internati, 4.000 erano ebrei e circa 1000 bambini.

Molte cifre numeriche sono state inserite in questo articolo e non è un caso, il mio intento era quello di dare attraverso quelle cifre un’idea dell’orrore che quotidianamente ed inarrestabilmente in quegli anni avveniva. 

L’olocausto è una delle pagine dell’Umanità da cui ma si deve togliere il segnalibro della memoria.

 




La Musica come non l’avete mai letta prima…

Rockography & BetaPress insieme per un nuovo punto di vista sul mondo musicale

 

Rockography, blog di promozione musicale fiorentino, e BetaPress, periodico di cultura e attualità di origini marchigiane, hanno deciso di dare vita ad una collaborazione volta ad arricchire il racconto dell’universo musicale.

Il taglio giornalistico permetterà anche di capire retroscena e situazioni che normalmente non vengono rappresentati ai lettori, spesso per motivi di opportunismo commerciale.

Interviste, recensioni di concerti, approfondimenti, reportage: dagli artisti più blasonati fino alle band emergenti, la nuova rubrica darà spazio a tutti i fattori che contribuiscono a dare vita a questa splendida arte chiamata musica.

L’universo della musica si arricchisce quindi di una nuova collaborazione, volta a dare il proprio contributo alla narrazione che viene fatta sulla musica, fortemente convinti di ciò che a suo tempo ebbe a dire Friedrich Nietzsche: “Senza musica la vita sarebbe un errore.”

 

Rockography & BetaPress




Scuola e Salute

Nasce oggi la nuova rubrica di Betapress Scuola e Salute, nata grazie alla collaborazione con l’amico Vittorio Lodolo D’Oria, stimato professionista, illustre medico e sapiente conoscitore del mondo della scuola.

A Lui il compito di guidare i nostri lettori attraverso il complesso mondo della professione di docente e dei risvolti a livello di salute psicofisica.

 

 

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=89Gl2O3Lm5E&w=640&h=360]

https://www.facebook.com/watch/?v=367547307406119

https://www.edises.it/universitario/catalogo/discipline-umanistiche-psicologiche-sociali/psicologia/insegnanti-salute-negata-e-verita-nascoste.html

www.facebook.com/vittoriolodolo

 




SSS studio sport e sacrificio

Studio, Sport, sacrifico e successo iniziano tutte con la stessa lettera “S”.  Le prime due sono legate, grazie alle seconde, da un rapporto di amore ed odio. Lo studio e lo sport tendono ad avvicinarsi perché in fondo sono due facce della stessa medaglia, la persona umana che naturalmente vuole tendere a migliorarsi. Queste hanno un grande nemico che si chiama “tempo”, il tempo che abbiamo a disposizione che, purtroppo, è sempre limitato, è proprio lui che cerca sempre di escludere lo Studio dallo Sport e viceversa. 

Per ottenere successo bisogna applicarsi, allenarsi, migliorarsi e questo richiede tempo sia nello Studio che nello Sport. Per potersi cimentare in entrambi è necessario il sacrificio che significa organizzare al meglio il proprio tempo e rinunciare a molte delle attività ludiche che normalmente si presentano ai ragazzi.

Io sono sempre stato un privilegiato in questo senso, non per meriti particolari ma per un mix di fortuna ed intuizione dei miei genitori. Nella scuola dove ho frequentato le elementari e le medie, la Laura Sanvitale di Parma, la mia attività sportiva e soprattutto i risultati positivi che ne conseguivano, è sempre stata supportata. All’ingresso della scuola c’era una bacheca dove venivano affisse notizie ed avvisi riguardanti la scuola. Un giorno, entrando, ho visto appeso un articolo che parlava dell’ultima gara che avevo vinto e questo mi ha riempito di orgoglio. 

Molto simile è stata la situazione al liceo, lo scientifico “San Benedetto”, sempre a Parma, dove, anche se le giornate di assenza da scuola inevitabilmente aumentavano perché le trasferte erano sempre più lontane, ho trovato sempre professori che vedevano di buon occhio la pratica sportiva. Importante è stato instaurare, fin da subito, un rapporto di estrema trasparenza e in questo sono stato facilitato dal fatto che il Prof. di Educazione Artistica, Antonio Figna, giocava a golf e quindi poteva comprendere la lunghezza delle trasferte e il Prof. di matematica, Gino Passigatti, è un appassionato nuotatore, oltre che un tifosissimo della Roma. Il clima di comprensione dello Sport unito a risultati mediamente buoni hanno sicuramente aiutato il mio percorso scolastico.

Dopo il liceo ho proseguito alla facoltà di Ingegneria, dell’Università degli Studi di Parma. Anche in quel caso sono stato molto fortunato e ho trovato professori disponibili come la prof di disegno o quello di informatica. Tuttavia seguire le lezioni ed essere presente ed attivo agli allenamenti non era certamente facile. Ad un certo punto, considerando le normali sessioni d’esame diventava particolarmente difficile. 

Nel 2008, con l’infortunio, temevo che lo studio avesse perso ogni speranza di continuare a far parte della mia vita. Gli allenamenti dovevano essere doppi, inizialmente per riabilitarmi poi per recuperare uno stato di forma accettabile. Ho sempre mantenuto attiva la mia iscrizione universitaria, con la speranza che prima o poi sarei stato in grado di fare qualcosa di più. 

Sulla porta della mia stanza in casa ho una frase che racconta la vita di Abraham Lincoln e dice così:

He failed in business in ’31. He was defeated for state legislator in ’32. He tried another business in ’33. It failed. His fiancee died in ’35. He had a nervous breakdown in ’36. In ’43 he ran for congress and was defeated. He tried again in ’48 and was defeated again. He tried running for the Senate in ’55. He lost. The next year he ran for Vice President and lost. In ’59 he ran for the Senate again and was defeated. In 1860, the man who signed his name A. Lincoln, was elected the 16th President of the United States. The difference between history’s boldest accomplishments and its most staggering failures is often, simply, the diligent will to persevere. 

Ecco che forse la voglia di perseverare ha avuto ragione anche questa volta. L’occasione è arrivata nel 2014 quando, per la mia passione politica ho iniziato a seguire un corso intitolato la Politica 2.0 all’Università Telematica Pegaso. Ero veramente felice quando ho scoperto di poter studiare nuovamente e da li ho ripreso il mio percorso di studi passando da ingegneria a giurisprudenza. 

Non so se nel 2003, quando i Ministri Moratti e Stanca vollero aprire la possibilità anche in Italia alle Università Telematiche o nel 2006 quando il dott. Danilo Iervolino, l’ideatore e presidente di UniPegaso, avessero o meno in mente il mondo dello Sport. Sta di fatto che, anche se ancora troppo poco pubblicizzato e con qualche luogo comune di troppo, hanno creato dal punto legislativo i primi, da quello imprenditoriale pratico il secondo uno strumento che potrà cambiare drasticamente il rapporto tra gli sportivi e l’Università. 

In occasione di una delle lunghe e proficue chiacchierate con il dott. Roberto Ghiretti, titolare dell’omonimo studio che si occupa di sport advisoring, ho ricevuto in regalo un libretto intitolato “secondo tempo” commissionato dalla Associazione Italiana Calciatori ed incentrato sulle prospettive che si presentano ai calciatori che terminano la loro attività professionistica. 

La lettura, come prevedibile, mi ha coinvolto particolarmente sia per la mia passione per i libri, sia per la materia sportiva. Tuttavia, ho dovuto rileggere più volte la pagina dove si parlava della percentuale di atleti che conseguivano una laurea, circa il 3%*. Secondo i dati ISTAT del 2017, pubblicati nel 2018, la percentuale di laureati in Italia si attesta al 15,7% e ci posiziona al penultimo posto in Europa. Il mondo del Calcio in Italia è, per numeri, il più rappresentativo e constatare quanto nei suoi principali atleti, quelli che raggiungono il professionismo, il dato sia un quinto di quello nazionale è emblematico.  

Premesso che sono fermamente convinto che la laurea non sia indice di intelligenza, anzi molte delle persone che hanno dimostrato di avere capacità oltre la media non sono laureate a partire da William Henry Gates III (Bill Gates) che grazie alle sue intuizioni ha di fatto rivoluzionato il mondo. Tuttavia, preso con le dovute cautele, il dato è quasi drammatico perché non tutti sono Bill Gates, o Steve Jobs anche perché molti degli atleti in questione sono già stati “fuori dalla norma” nella loro disciplina. 

La formula telematica per lo studio può diventare una soluzione ottimale per gli sportivi. Questo si può verificare spiegandone le potenzialità per quanto riguarda il tempo. Nella mia esperienza all’UniPegaso, ho potuto visualizzare le lezioni comodamente dal computer in casa o in una camera d’albergo durante le gare, ho potuto scegliere fra le molte opzioni di date e sedi per sostenere gli esami e, forse una cosa ancora più importante, ho avuto degli insegnanti straordinari. Un altro punto a favore delle università telematiche è proprio quello di poter avere dei docenti di altissimo livello, in quanto anch’essi non sarebbero più obbligati alla presenza in aula ad ogni lezione ma possono comodamente registrarla e lo studente, come detto, può visualizzarla quando è più opportuno. Ritengo questo punto estremamente accattivante per gli sportivi in quanto uno atleta è abituato a competere e vuole vincere per questo cerca di circondarsi sempre del meglio: dal tecnico al preparatore atletico, dal caddie nel golf al procuratore nel calcio e sapere anche nell’università di poter apprendere dal meglio sicuramente gli consente di sentirsi soddisfatto. Non intendo dire che nelle università convenzionali i professori siano meno capaci. Sicuramente quanto detto è un valore aggiunto per l’attrattiva delle telematiche verso il mondo sportivo. 

Non tutto è “rose e fiori”. Naturalmente si contrae il rapporto ed il confronto con gli altri studenti che, così come alcune attività laboratoriali, possono essere dei momenti estremamente formativi che, per ora, sono riservati alle Tradizionali. Spero tuttavia che ci possa essere più sinergia tra entrambe le modalità per agevolare gli sportivi, non certo per i profitti, quanto per concedere la possibilità di proseguire gli studi a tutti quelli che hanno anche altre attività, in particolare quelle sportive che hanno in media una continuità molto ridotta nel tempo ma che richiedono il massimo della dedizione. 

 

*3,8% riferito ai calciatori professionisti nella stagione sportiva 1992/1993

 




Sono tornati i Beatles, ma si chiamano Beatbox!

Milano, Teatro Nazionale, i Beatles sono tornati, si chiamano Beatbox.

Durante un’entusiasmante serata i Beatles sono tornati per raccontare a loro storia, tre ore di canzoni dagli esordi fino al triste momento della separazione.

Uno spettacolo emozionante che scorre sulle note delle canzoni che durante un decennio hanno emozionato milioni di persone.

Mauro Sposito, Riccardo Bagnoli, Federico Franchi, Filippo Caretti sono bravissimi, sia musicalmente che nel rappresentare l’essenza della band anche e sopratutto durante le loro performance.

Il teatro era tutto esaurito a dimostrazione non solo della bravura dei quattro ragazzi, ma anche del fascino che ancora i Beatles rappresentano per tutte le generazioni, un fascino indiscusso, eterno ed immortale.

Inutile ripercorrere i motivi che hanno reso i Beatles eterni, ma c’è qualcosa nel loro sound che colpisce il nostro dna musicale, una sorta di riconoscimento naturale delle armonie da loro create, una identificazione emotiva innata a cui pochi sono immuni.

Lo spettacolo dei Beatbox è proprio una prova del DNA che riconosce in chi vi partecipa la vicinanza genetica a quel codice musicale che ti fa scattare in piedi a cantare Love me do, o Help, senza nemmeno accorgersene.

Ottima l’ambientazione e la scenografia, i costumi e la maniacale ricerca del dettaglio, perfetta la scelta delle canzoni, anche se la mancanza di qualche classico è stata notata dal pubblico in uscita, ma la cosa veramente simpatica è stata la consapevolezza di tutti, terminato lo spettacolo, di aver visto i Beatles suonare.

Per me i Beatles hanno significato la musica dei miei anni “verdi” quando ancora il vento della vita ti fletteva ma non ti spezzava, quando ancora le tue forze ti convincevano di poter andare avanti senza paura e senza timori, la loro musica mi faceva vedere il futuro come un mondo che stava diventando migliore.

Oggi è rimasta la loro musica come il segno di una possibilità ancora da sfruttare, forse non più da me, ma di certo da quei giovani che ancora sentono il dna dei Beatles, voglia di cambiare in meglio senza paura, che ancora hanno il privilegio di credere di poter essere e fare la differenza.

I Beatbox mi hanno riportato il ricordo di una speranza che ha mosso la mia anima giovanile, mi hanno ricordato che guardando avanti, correndo per le strade della vita vedevo qualcuno fermo che mi incitava a proseguire, oggi quel qualcuno devo essere io, dobbiamo riprendere quella gioia di vivere e trasmetterla ai giovani di oggi affinché loro possano continuare a correre.

Grazie Ragazzi.

 




Ogni cosa è fulminata…

Luciana Littizzetto a Novara.

Che tempo fa, a Novara, quando per le vie del centro passa Luciana Littizzetto, scortata dall’amico e collega scrittore Luca Bianchini?

Che cosa succede in una sonnolenta città di provincia, quando arriva lei per presentare il suo ultimo libro “Ogni cosa è fulminata?” edito Mondadori, nell’ Arengo del Broletto?

Succede che sia lei a dare la scossa, ad elettrizzare il pubblico, con quella passione, fatale, presa dal bisnonno materno, il gusto di prendere la scossa elettrica…

Facciamo ordine, però, se si può.

Il bisnonno è proprio morto fulminato, nel tentativo di recuperare un ombrello volato sui fili dell’alta tensione.

 E, lei cerca di stare lontana dalla corrente elettrica. Ma, in realtà, passa il tempo ad elettrizzare, con la sua verve, il pubblico.

Luciana è uno tsunami interattivo, mediatico ed umano al contempo. Arriva e non si siede sulla poltroncina rossa preparata, ma preferisce accovacciarsi sul muretto vicino al pubblico.

Legge il suo curriculum vitae, che conferma le competenze certificate per svolgere egregiamente il suo mestiere “di fare la scema”. Ad ogni diploma ed esperienza dichiarata, il pubblico la interrompe con un applauso, ed i suoi un metro e 58 centimetri, diventano davvero gli 1 metro ed 85 dichiarati.

Luciana istrionica entra ed esce da sé stessa e trascina il pubblico in quella che lei stessa definisce la bipolarità del palco.Dagli aneddoti di vita a quelli del libro e viceversa. Da come si riconosce un uomo che fà la pipì in mare, al mare del cuore, il luogo dove si sente a casa, la sua grande terrazza dove si dedica alla passione del giardinaggio.

E’ incredibile come Luciana riesca a passare dal problema ambientale del capodoglio spiaggiato, morto soffocato dalla plastica “Anziché mangiare bastoncini di pesce, adesso mangiamo pesce pieno di bastoncini”, alla storia della pulizia delle orecchie, con l’attuale uso ed abuso dei cotton-fiocc “Certo che se uno ha le orecchie come Berlusconi, i cotton- fiocc, li deve comprare a mazzi, come gli asparagi!”

E così non c’è ambito che sfugga alla sua disamina dei piccoli grandi fastidi quotidiani, dalle padelle che “si suicidano “ribaltandosi per via del manico troppo pesante”, all’inventario dei gel detergenti “al legno di rose, per le classiche fighe di legno”, oppure al mentolo, che è “come mettere il culo nel freezer o una manciata di vigorsol nelle mutande”.

La nevrosi della idropulizia del colon diventa il clistere con la piantana che campeggia nel bagno dell’amica che si era messa con uno stonato, malato di pulizia interna, “a tal punto che anziché andare a letto insieme, facevano il clistere insieme”.

Il thè con le amiche, diventa la teiera che piscia da tutte le parti, fuorché nella tazza “Figurarsi quello che succede ad un uomo che non riesce a pisciare neanche nella tazza del water “ed i tovagliolini del bar, per asciugare il disastro, che, invece di asciugare, pattinano sul tavolo.

Scegliere la pizza implica consultare un menù ciclopico, come una guida del telefono, per poi finire con l’ordinare una margherita. Ed assumere un badante si converte nel telefonare ad uno sconosciuto di nome Darwin ed iniziare la telefonata con “Ciao Darwin”.

Fare lo shampoo dalla parrucchiera significa spezzarsi l’osso del collo sul lavatesta e ritrovarsi con una fastidiosa cervicale.

Tutta la realtà diventa una rocambolesca avventura tragico comica. Persino il pedaggio del successo, è ridicolizzato.  Come quella volta del viaggio con le zie per andare alla fiera dei fiori a Genova. In autogrill, tutti guardavano lei e le zie che portavano lo stesso none che il nonno aveva voluto dare a tre galline. Bene lo sguardo degli sconosciuti è diventato tanto insistente, che una zia si è convinta che fosse per colpa della sottoveste che pendeva ad una di loro.

In famiglia, nessuno si è montato la testa. Una parente, quando si è diffusa la voce della sua presenza al festival di Sanremo le ha persino detto in faccia che “non era adatta”, che” a Sanremo ci vanno quelli bravi…”

Suo figlio, però, dopo solo due settimane che era stato dato in affido a Luciana, ha pensato bene di strappare degli angoli del diario, per vendere gli autografi della madre. Mica male il ragazzo, considerata l’età, in quarta elementare. “Uno zingaro” per i parenti. “Un genio “per la madre…

Ma, a proposito del dibattito sulle casa famiglia, la voce di Luciana si fa forte ed impassibile. Non si devono chiudere. Sono fondamentali per tutelare quei bambini riconosciuti dalla famiglia di origine e, dunque non adottabili. Ma soli, sostanzialmente non seguiti e curati per mille motivi dai loro genitori naturali. E, Dunque , ancor più bisognosi di supporto e di protezione nel limbo della non adozione, in attesa e a sostegno dell’ affido.

E qui, il pubblico, applaude, concorde al suo impegno come madre affidataria di due ragazzi, ormai grandi, per la sua coraggiosa testimonianza di donna a 360°

Antonella Ferrari

 

 




Il riflesso condizionato ai tempi di facebook

“Se mi ami, mettiti nudo”

Il riflesso condizionato ai tempi di facebook: siamo partiti dalla campanella di Pavlov e ora scriviamo Amen sotto ai post.

 

Non so se chi legge ricorda ancora quel vecchio slogan:

“se mi ami, mettiti nudo”.

Era la pubblicità di una marca di preservativi.

Al di là del prodotto reclamizzato, la frase imprimeva nella mente di chi ascoltava uno dei capi saldi della logica occidentale: il principio di causa ed effetto.

Se vuoi che una cosa avvenga, fanne un’altra in qualche modo ad essa collegata.

Erano gli anni ’80.

Non c’erano gli smartphone, non c’erano i social e i reality sembravano ancora una aberrazione della morbosità umana.

A guardarli così potrebbero sembrare anni innocenti dal punto di vista della manipolazione mediatica adesso così di moda e inflazionata.

In realtà, però, già gli inizi del ‘900 avevano dato lustro agli esperimenti di Ivan Petrovič Pavlov famoso per l’induzione del riflesso incondizionato sui suoi cani.

E Pavlov non era certo il solo.

Fate pure un giro su internet per vedere cosa combinavano John Watson, Stanley Milgram, Bibb Latané e John Darley, Harry Harlow o il più recente Philip Zimbardo…

Durante il ‘900 una delle grande domande di chi per dritto o per traverso studiava la mente umana, era perché le persone si comportassero in determinato modo e se fosse possibile riprogrammarle.

Che la risposta fosse è stato subito chiaro.

Le uniche variabili erano il tempo e l’etica.

Persino di strumenti ce n’erano a bizzeffe e, successivamente, lo svilupparsi e capillarizzarsi dei media ha dato una mano in più.

Di certo ci si ricorda degli studi e delle riflessioni sulla propaganda di regime.

In quegli anni, l’arrivo massiccio dei media aveva concentrato molto l’attenzione sui comportamenti umani, il modo di manipolarli e sulle tecniche di propaganda.

Il ‘900 è stato il secolo durante il quale l’uomo si è chiesto come dominare la mente degli uomini.

È stato il secolo durante il quale gli studi sulla mente umana sono nati e fioriti.

Nel ‘900 nasce la psicologia (per noi normalissima ma allora rivoluzionaria).

Più la comunicazione entrava nella vita quotidiana delle persone, più i comunicatori hanno sentito il bisogno di affermare il loro potere a proprio vantaggio.

La propaganda (diventato argomento delicato) si trasformava in pubblicità dicendoci cosa comprare e cosa desiderare.

Poi, col XXI secolo ecco la nuova sfida: insegnarci come pensare e – meglio ancora – insegnarci come reagire agli stimoli emotivi (come osserva spesso il filosofo Umberto Galimberti).

Siamo tutti sotto esperimento, a volte li facciamo noi, altre li subiamo.

Siamo tutti dei cagnolini di Pavlov che reagiscono sincronicamente al suono della campanella; oppure siamo Pavlov che misura l’aumento della salivazione della cavia dopo aver lanciato lo stimolo.

Affascinante a guardarlo da fuori, annichilente se si riuscisse a guardarlo dal di dentro.

E noi che possiamo fare?

Innanzitutto accorgercene è un gran passo avanti.

Questo ci permette di guardare le cose da un passo di distanza.


Fatto questo, prese il possibile le distanze, proviamo a recuperare la più antica delle domande filosofiche: “perché?” e assolviamola dalle paure da benpensanti ben educati ben adattati che negli anni ci hanno impedito di usarla.

Senza cadere nella trappola psicologica del complottismo, proviamo a guardare le cose chiedendoci: “perché?”

Perché penso questo?

Perché desidero quello?

Perché reagisco così?

Perché faccio cosà?
Perché…?

E non sarebbe male neppure condividere queste domande con qualcuno che vuole fare lo stesso esperimento.

Non so se ci si salva del tutto però in compenso di passa il tempo molto gradevolmente e si può anche stare lontani dagli stimoli induttori che, bisogna dirlo, sono naturalmente molto ben fatti.

La prima volta che abbiamo risposto a uno stimolo, è stato perché ci è sembrato molto utile e innocuo.

I social, sotto questo punto di vista, sono un interessantissimo campo di addestramento umano.

Chi sui propri profili social non ha mai fatto degli esperimenti per vedere cosa portava maggiore approvazione?
Chi non si è naturalmente adattato alle regole non scritte che portano ad attirare più “like” o cuoricini?

Fa parte del nostro essere animali social – i 

Proprio sui social ci sono decine di campanelli attivi che ci fanno piegare al volere del nostro Pavlov di turno, che non deve necessariamente essere il sistema, a volte basta anche liberarsi da quello che una sola persona vuole indurci a fare.

Non si chiamano più “campanelli”, si chiamano “call to action” “chiamate all’azione”; ed effettivamente il nome è onesto perché si capisce che, checché se ne dica, non si tratta dell’azione che vorremmo che il nostro interlocutore facesse spontaneamente ma è proprio l’azione che vorremmo che facesse quasi a qualunque costo.

Ovviamente alla call to action reale tipo “compra adesso (anche se non ti serve adesso)” ci si arriva perché ci si è prima allenati.

E come ci si allena?

Con le buone cause: il vantaggio comune.

Chi non ha mai visto (condividendoli o meno) post del tipo “preghiamo per questa povera anima, scrivi amen nei commenti”; oppure “questa cosa è vergognosa, condividila affinché tutti lo sappiano”.

Il passo sucessivo è il vantaggio personale:

Selezioni per fantomatici posti di lavoro (la leva più forte in questo periodo sociale):

“se vuoi essere selezionato fai la giravolta, la riverenza e la scappellenza e sbagli una sola cosa sei escluso”

“compila il seguente form: qualunque candidatura giunta diversamente non verrà tenuta in considerazione”

“se vuoi ottenere del materiale esclusivo scrivi SCEMOCHILEGGE nei commenti”

Abbiamo visto tante volte tutto questo in giro.

Abbiamo fatto anche noi azioni induttive di questo tipo.

Ed è normale.

Il terreno dei social è il campo nel quale siamo più disposti a seguire le indicazioni.

Ma adesso, provando a guardare tutto questo (che è normale, che fa parte della nostra quotidianità e che, comunque, non possiamo del tutto rinnegare), ci viene da pensare “ma PERCHÉ devo fare come dicono loro?
Perché devo abituarmi a parlare, scrivere, procedere come gli altri?

Perché non posso avere un tipo di comunicazione eterogenea e imprevedibile fatta da modi diversi di rapportarsi e reagire?”

Scegliere di uscire dai social per non essere manipolati è quasi come non uscire di casa per paura di essere investiti.

Non dobbiamo orientarci alla sospensione delle attività (a meno che non abbiamo animi da eremita) ma dobbiamo abituarci a chiederci cosa davvero vogliamo fare.

 

Crediti: ?

 

Link Esperimento di Pavlov sui cani: scheda

John Watson: scheda

Stanley Milgram: scheda

Bibb Latané: scheda

John Darley: scheda

Harry Harlow: scheda

Philip Zimbardo: scheda e ancora il mio articolo La bellezza salverà il mondo

 

 

 




Italia fanalino di coda per il riconoscimento delle responsabilità…

Come sempre Ancodis stigmatizza con efficacia le storture del mondo della scuola…

 

 

COMUNICATO STAMPA del 22 marzo 2019

 

ANCoDiS: il futuro CCNL 2019-2021 della scuola in edizione….rétro?

 

Da qualche settimana si è aperto il tavolo del confronto per il rinnovo del CCNL Comparto “Istruzione e ricerca” relativo al triennio 2019-2021.

Tra le priorità emerge la revisione delle tabelle stipendiali che dovranno prevedere risorse aggiuntive per retribuire adeguatamente il lavoro professionale di TUTTO il personale (è stato già fatto per i DS), con l’obiettivo – condiviso – di avvicinarsi alla media dei paesi europei dell’area euro.

E’ importante ricordare quanto recita l’articolo 36 della Costituzione: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla QUANTITA’ e QUALITA’ del suo lavoro ……..” cioè ancorata a parametri che sono la qualità del servizio reso, la quantità di lavoro svolto, il tempo impiegato per lo svolgimento.

Per noi Collaboratori dei DS – e lo sappiamo bene – questo articolo è disatteso nonostante l’importante lavoro che svolgiamo quotidianamente per le nostre Istituzioni scolastiche.

Siamo l’unica categoria nella scuola per la quale alla regola si fa eccezione!

Per l’assunzione di incarichi e di responsabilità nella governance affidati dal DS ai sensi del art. 25 comma 5 del D.Lvo 165/2001, il vigente CCNL non riconosce di fatto il lavoro aggiuntivo e straordinario di questi docenti specializzati se non per la inadeguata retribuzione di due Collaboratori a carico del FIS (art. 88 comma 2 lettera f del CCNL 2006/2009) senza alcun effetto nella progressione di carriera.

E’ noto a tutti – MIUR, OO.SS. ed Associazioni dei DS – che in molti paesi europei si riconoscono incrementi stipendiali per l’assunzione di responsabilità aggiuntive, per la disponibilità a svolgere ore di lavoro straordinario, per l’insegnamento in aree geografiche disagiate, per la partecipazione ad azioni di formazione professionale, per la partecipazione ad attività extracurricolari.

In particolare, secondo il Rapporto Eurydice del 2013, le responsabilità aggiuntive sono riconosciute in 26 paesi e soltanto in 3 (tra cui l’Italia) sono considerate esclusivamente a livello di contrattazione di istituto: infatti, nei pochi sistemi d’istruzione basati su una struttura di carriera piatta, per le responsabilità aggiuntive sono previsti soltanto modestissimi incentivi economici determinati e contrattati a livello di istituzione scolastica.

In Europa, alla definizione della progressione della carriera e delle indennità concorrono diversi

fattori tra i quali un rilevante peso hanno l’assunzione di incarichi aggiuntivi con ulteriori

responsabilità, la formazione professionale continua, l’anzianità di servizio.

E di norma, in diversi paesi europei, ai docenti vengono attribuite indennità integrative allo stipendio determinate a livello nazionale, regionale o misto con certezza di prospettive di carriera: si tratta di “incentivi” per incoraggiare i docenti ad assumere responsabilità ed incarichi, a svolgere lavoro straordinario, ad accogliere favorevolmente proposte di azioni formative professionali.

In Italia, invece, è da rilevare (e contestare) che tutto questo importante e fondamentale lavoro non è connesso a nessuna prospettiva di progressione di carriera nell’ambito della professione docente né in quella dirigenziale.

Deve essere a tutti chiaro: in Italia, un Collaboratore del DS che insegna Lettere per 18 ore (e magari in scuola con DS reggente) con un’anzianità di servizio di 15 anni ed un docente con la stessa anzianità di servizio che insegna per 18 ore la stessa materia PARI sono.

In Italia, un Collaboratore del DS che insegna Matematica per 18 ore – a parità di requisiti di servizio con un altro docente – nella graduatoria interna ed ai fini della mobilità PARI sono!

In Italia, per l’accesso alla carriera dirigenziale un docente con esperienza pluriennale nell’attività di collaborazione al DS ed un docente con 5 anni di servizio (incluso il servizio da precario) e senza alcuna esperienza nella governance di un’autonoma Istituzione scolastica PARI sono!

Si tratta ovviamente di un’evidente discriminazione…ma a danno del docente Collaboratore del DS! Siamo di fronte ad una irragionevole condizione professionale per la quale Miur ed OO.SS. devono trovare soluzione.

(Al Ministro Bussetti (ex DS), al Vice Ministro Giuliano (DS in aspettativa) ed ai loro collaboratori al Miur (alcuni DD.SS. in aspettativa), ai tanti sindacalisti (alcuni DS distaccati) il tema che poniamo risulta molto chiaro poiché hanno avuto al fianco ed hanno lasciato le loro scuole affidate ai loro (validi) Collaboratori ed a DS reggenti).

Non esistono – ed è il vulnus dello status giuridico dei docenti italiani – differenziazioni della retribuzione né possibilità di diversa progressione di carriera!

In questo, dunque, l’Italia è davvero un paese europeo?

ANCODIS ritiene di no!

E propone al MIUR ed alle OO.SS. che nel prossimo CCNL si passi da una struttura di carriera piatta, iniqua ed arcaica (fondata cioè solo sull’anzianità di servizio!) alla struttura differenziata e moderna fondata anche su:

–        assunzione di responsabilità aggiuntive;

–        formazione in temi legati alla governance ed alla gestione di sistemi complessi;

–        complessità dell’Istituzione scolastica;

–        anzianità nello svolgimento dell’incarico;

–        valutazione professionale così come avviene per i Dirigenti scolastici.

Per i Collaboratori dei DS occorre prevedere – come avviene in molti paesi europei – la diversificazione dell’orario di lavoro in orario didattico ed orario aggiuntivo nel quale è riconosciuta la presenza a scuola per lo svolgimento di tutte quelle attività che oggi sono comunque realizzate ma che rimangono contrattualmente sommerse!

Occorre procedere – ed è arrivato il tempo – ad una coraggiosa innovazione contrattuale che determini per questi docenti specializzati modalità condivise di accesso (ferme restando le prerogative del DS previste dal 165/2001), la progressione di carriera e gli incentivi economici sulla base di criteri generali previsti nel prossimo CCNL ai quali le autonome Istituzioni scolastiche dovranno fare riferimento.

In questo modo – per i Collaboratori dei DS – si renderebbe davvero onore all’articolo 36 della nostra bellissima Carta Costituzionale!

In caso contrario non possiamo più stare a guardare…

 

Prof. Rosolino Cicero, Presidente ANCODIS Palermo