«Colpe senza responsabilità»: le colpe dell’Italia verso Kabul e la retorica dell’autoassoluzione

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Il ventennio afghano dell’Italia — dalla partecipazione a ISAF (2001–2014) alla missione “Sostegno Risoluto” (2015–2021), fino all’evacuazione di agosto 2021 — è stato accompagnato, a ondate, da una narrazione autocelebrativa: “missione di pace”, “ricostruzione”, “ponte aereo esemplare”, “comunità internazionale”.

Nel tempo breve della cronaca questa retorica ha prodotto un’asimmetria tra credit-claiming (attribuzione di meriti) e responsibility-taking (assunzione di responsabilità).

Nel tempo lungo della storia, invece, Kabul — metonimia dell’Afghanistan e della sua capitale — ci restituisce una domanda più scomoda: quali sono le colpe dell’Italia?

Non colpe penali, ma responsabilità politiche, morali e amministrative, maturate nel divario fra ciò che si è promesso di fare, ciò che si è realmente fatto e ciò che si è raccontato di aver fatto.

Questo brevi riflessioni propongono una lettura critica in tre passaggi: (1) il quadro fattuale minimo del coinvolgimento italiano; (2) le aree di responsabilità (strategie, governance della ricostruzione, protezione dei collaboratori locali, uso pubblico della memoria); (3) la stigmatizzazione della retorica dei meriti che — in assenza di accountability — funziona come dispositivo di autoassoluzione.

Il quadro fattuale: presenza, compiti, epilogo

Dal 2001 l’Italia opera in Afghanistan prima nel quadro ISAF e poi nella missione NATO di addestramento “Resolute Support”, assumendo la responsabilità del Regional Command/TAAC-West (Herat, Badghis, Ghor, Farah), con compiti di sicurezza, assistenza e addestramento alle forze locali.

La chiusura formale del dispositivo italiano a Herat avviene l’8 giugno 2021 (ammainabandiera), con successivo impiego di assetti per l’evacuazione di italiani e afghani collaboratori fino al 27 agosto 2021.

Nel bilancio umano, 53 italiani — tra militari e civili — hanno perso la vita in Afghanistan nell’arco di vent’anni.

Questo dato, spesso evocato in chiave commemorativa, non dice però nulla, da solo, sull’efficacia strategica e sulla sostenibilità politica dell’impegno. 

L’epilogo, nell’agosto 2021, è noto: Operazione “Aquila Omnia”, un grande ponte aereo che porta fuori dal Paese migliaia di persone.

Le cifre ufficiali comunicate in ambito istituzionale indicano 5.011 cittadini afghani evacuati (1.301 donne e 1.453 minori) oltre ai connazionali, in un’azione complessa che coinvolge il Comando Operativo di Vertice Interforze e assetti aeronautici dedicati. 

Questi elementi fattuali sono necessari, ma non sufficienti.

Su di essi si è stratificata, in Italia, una narrazione di successo che rischia di eclissare le responsabilità.

Le aree di responsabilità italiana

Di certo abbiamo una grossa ambiguità strategica e “stabilità di facciata”, infatti nel settore Ovest, l’Italia ha spesso coniugato un profilo militare relativamente prudente con un’ambizione politico-diplomatica di “stabilizzazione per contiguità” (sicurezza + ricostruzione).

La logica del “mantenere la calma” ha favorito una stabilità di facciata: si puntava a evitare il deterioramento visibile più che a strutturare capacità locali resilienti.

La conseguenza è una dipendenza dalla presenza internazionale e una scarsa interiorizzazione, da parte delle istituzioni afghane, di pratiche amministrative e di sicurezza autonome.

Le ricadute sono emerse alla prova del 2021: collasso repentino e asimmetria tra immagine e realtà.

Un episodio simbolico dell’ambiguità occidentale — e che lambisce anche l’Italia — è la vicenda delle presunte “tasse di protezione” ai talebani durante la fase ISAF.

Nel 2009 il Times accusò il contingente italiano di pagamenti informali per evitare attacchi; accuse respinte dalle autorità italiane e afghane.

Indipendentemente dall’esito fattuale, il solo fatto che una tale ipotesi fosse credibile nell’opinione pubblica segnala una zona grigia tra controllo del territorio e accomodamento tattico con attori ostili, che mina la legittimazione della presenza internazionale e confonde i confini etici dell’azione.

Ricostruzione “a progetto” e fragilità istituzionale

La cooperazione italiana (statale e non) ha realizzato interventi importanti nell’area Ovest (infrastrutture, sanità, istruzione, formazione di polizia locale, tutela del patrimonio).

Eppure, in troppi casi, la governance è stata “a progetto”, con cicli di finanziamento e rendicontazione funzionali più alle metriche dei donatori che al consolidamento di catene di responsabilità afghane.

La “visibilità” del progetto ha spesso prevalso sulla manutenzione istituzionale: quando i fondi cessano o il personale internazionale ruota, la struttura locale non regge.

Questo difetto non è solo “afghano”: riflette colpe europee (e italiane) nell’impostare la cooperazione come vetrina di bandiera.

Il capitolo più doloroso riguarda gli interpreti, i fixer, il personale locale che hanno lavorato con contingenti e agenzie italiane.

“Aquila Omnia” ha salvato migliaia di persone, ma la sequenza temporale è rivelatrice: segnali di crollo erano emersi già in luglio; la macchina italiana si è mossa con decisione dopo la caduta di Kabul, e non tutti i collaboratori storici sono riusciti a rientrare nei corridoi di evacuazione.

La cifra di 5.011 afghani evacuati va letta insieme alle liste di attesa e ai casi rimasti bloccati nei mesi successivi, che organizzazioni umanitarie e reti della diaspora hanno continuato a segnalare.

Il merito operativo del ponte aereo è reale; la responsabilità politica è non aver strutturato prima una policy di protezione robusta, basata su criteri trasparenti e procedure accelerate (visti, relocation, family reunification), per una platea prevedibile di beneficiari.

Uso pubblico della memoria: dal sacrificio al marketing

Il sacrificio dei 53 caduti è diventato, nel discorso pubblico, un sigillo etico frequentemente invocato per legittimare l’intera impresa.

Ma il sacrificio non surroga l’analisi di esito.

Commemorare è un dovere; far dipendere la valutazione strategica dalla retorica commemorativa è una colpa metodologica e politica.

Quando il lutto diventa scudo retorico, esso protegge da domande scomode: quali obiettivi misurabili sono stati raggiunti e consolidati?

Quali riforme di governance locale hanno resistito alla prova del 2021?

Quanti progetti hanno avuto ownership afghana reale e non meramente formale?

La macchina dei “meriti”: chi se li prende e perché

In democrazia, gli attori razionali massimizzano i ritorni reputazionali: ministri, militari, ONG, agenzie di cooperazione, media e perfino opinionisti.

Ognuno possiede un pezzo di verità operativa (un volo riuscito, un ospedale inaugurato, un corso di addestramento completato) che viene elevato a prova generale di successo.

Tre meccanismi spiegano questo fenomeno:

Credit-claiming selettivo: si comunica ciò che è visibile (foto-op, ribbon-cutting, atterraggi, numeri cumulativi) e si tace ciò che è processuale (riforme mancate, manutenzioni non finanziate, catene logistiche fragili).

“Aquila Omnia” è stato un risultato logistico importante; è anche la prova ex post che i meccanismi di protezione ex ante erano insufficienti. 

Blame-avoidance: quando il contesto degenera (2015–2021), la responsabilità viene esternalizzata: “decise la NATO”, “scelsero gli USA”, “era inevitabile”.

L’Italia, però, non è mero esecutore: ha responsabilità proprie di programmazione, monitoraggio e condizionalità su fondi e progetti in area Ovest.

Moral licensing: l’avere “fatto del bene” (ospedali, scuole, evacuazioni) viene usato come licenza a non discutere i costi non visibili (dipendenze create, leadership locali cooptate, aspettative tradite dei collaboratori).

In questo circuito, “tutti” si appropriano di meriti: decisori politici in cerca di dividendi simbolici, apparati che legittimano i propri budget, organizzazioni che devono mostrare impatto ai donatori, media che cercano storie positive in contesti tragici.

Il risultato è un capitale reputazionale distribuito a valle, e un debito morale lasciato a monte — spesso sulle spalle degli afghani che ci hanno creduto.

Che cosa significa “colpa” verso Kabul

Parlare di colpe dell’Italia non implica negare il valore personale di chi ha servito in teatro, né ignorare la complessità dello scenario.

Significa, al contrario, articolare quattro imputazioni strutturali:

Colpa di previsione: segnali d’allarme (fallita inclusione politica, resilienza talebana, dipendenza finanziaria di Kabul) erano noti.

Non aver ridisegnato per tempo il profilo della presenza italiana sulle evidenze costituisce una responsabilità di policy.

Colpa di protezione: la mancanza di una pipeline anticipata, stabile e trasparente per i collaboratori locali ha trasformato un dovere prevedibile in un’emergenza logistica.

Il ponte aereo ha salvato vite; non assolve dal ritardo con cui si è messo in sicurezza chi ci aveva dato fiducia.

Colpa di governance della ricostruzione: progetti talvolta ben concepiti hanno convissuto con logiche di visibilità e di spesa che non hanno radicato capacità locali durevoli.

Colpa di narrazione: l’uso del lessico del “successo” e dell’“esemplarità” ha compresso lo spazio critico in patria, impedendo un apprendimento istituzionale serio prima del 2021; e, dopo, ha orientato il dibattito verso la celebrazione dell’exit più che verso l’analisi delle cause del fallimento sistemico.

Linee per una responsabilità adulta

Se vogliamo che Kabul non sia soltanto il nome di una sconfitta, l’Italia ha bisogno di istituzionalizzare almeno cinque correttivi:

Audit pubblico ex post per ogni grande missione: obiettivi, indicatori, costi, risultati, lezioni apprese, con audizioni di personale afghano coinvolto.

Policy permanente per i collaboratori locali: canali di visto protetti, criteri chiari, monitoraggio indipendente, fondi pluriennali dedicati (non emergenziali).

Condizionalità intelligenti nella cooperazione: meno vetrina, più manutenzione istituzionale (registri civili, catene di approvvigionamento sanitario, bilanci locali), con exit strategy misurabili.

Trasparenza su “zone grigie”: regole stringenti e tracciabilità per rischi di accomodamento con attori ostili; comunicazione pubblica onesta su vincoli e compromessi, evitando tanto la retorica eroica quanto il negazionismo. 

Memoria civile plurale: commemorare i caduti insieme ai collaboratori afghani; raccontare successi e fallimenti come patrimonio cognitivo, non come marketing politico.

Le colpe dell’Italia verso Kabul non si esauriscono in un gesto o in un giorno; sono la risultante di scelte iterative che hanno privilegiato la stabilità percepita sulla resilienza reale, la visibilità sull’ownership locale, l’emergenza sulla prevenzione, i meriti sulla responsabilità.

“Aquila Omnia” e il lavoro di militari, diplomatici, cooperanti e giornalisti hanno salvato vite e meritano rispetto.

Ma il rispetto non è un alibi: chi si appropria dei meriti senza reggere il peso delle responsabilità contribuisce a riscrivere la storia come autoassoluzione.

Kabul ci consegna un compito: trasformare l’autocelebrazione in accountability, i numeri in diritti, i progetti in istituzioni.

Solo allora potremo dire di avere onorato davvero quella promessa implicita fatta a chi, in Afghanistan, ha scommesso sulla parola dell’Italia.

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