Crisi demografica e lavoro delle donne: un nodo decisivo per il futuro del Paese
La crisi demografica non è più un fenomeno lontano o un’ipotesi statistica: è una realtà che sta già cambiando il volto dell’Italia.
Nel giro di uno o due decenni, la nostra piramide demografica sarà completamente rovesciata: sempre più anziani (dal 24% attuale al 34%) e sempre meno bambini (all’11% in uno-due decenni), e quindi sempre meno giovani a sostenere il tessuto sociale, economico e produttivo del Paese.
Oggi l’indice di natalità è in caduta libera e le proiezioni indicano una media che potrebbe stabilizzarsi tra 1 e 1,18 figli per donna (quest’ultimo è il valore odierno).
Una soglia che non permette nemmeno lontanamente il ricambio generazionale, per il quale la soglia minima di puro mantenimento statistico è di 2,1 figli per donna. Se questa tendenza continuerà, l’Italia rischia di scendere dagli attuali 60 milioni di abitanti a 50 o persino 45 milioni nell’arco di trent’anni.
Il risultato non sarebbe soltanto un Paese più piccolo: sarebbe un Paese più fragile. La forza vitale di una nazione, infatti, non si misura solo nella sua economia, ma anche nella capacità di rigenerarsi, di creare futuro, di mantenere vive le comunità.
Una società con pochi bambini e molti anziani è una società che si spegne lentamente. E non si può a questo riguardo invocare come soluzione l’arrivo di migranti che, teoricamente, si dice potrebbero sostenere le nascite, essendo al momento i paesi di provenienza (Africa, Asia, sud America) tendenzialmente più “fertili”.
Se la natalità fosse affidata agli immigrati, avremmo comunque e anzi a maggior ragione un profondo cambiamento, anzi un “tracollo” della società italiana con tutta la sua passata vitalità, le sue tradizioni, i suoi valori (anche religiosi) che verrebbero progressivamente sostituiti da quelli dei nuovi “italiani” arrivati sul nostro territorio.
Il ruolo delle donne: lavoro, dignità e maternità
Dentro questo scenario molto preoccupante, il nodo del lavoro femminile diventa centrale. Troppo a lungo la presenza delle donne nel mercato del lavoro è stata raccontata come una competizione diretta con quella degli uomini, quasi si trattasse di due mondi destinati a sottrarsi spazio a vicenda.
Ma il lavoro femminile non può essere letto in termini di antagonismo: esso va riconosciuto e valorizzato per competenze, formazione, passioni e attitudini personali. Il contributo delle donne alla società, all’economia e alla cultura non è inferiore né alternativo a quello degli uomini: è complementare, necessario, irrinunciabile.
Esiste però una differenza fondamentale tra uomini e donne, una differenza che non è sociale ma biologica, e che per questo non può essere ignorata: le donne possono diventare madri.
E proprio la maternità, nel nostro tempo, è diventata paradossalmente un fattore di penalizzazione.
Carriere rallentate, stipendi più bassi, part-time non sempre desiderati, interruzioni lavorative obbligate: tutto questo ha costruito, negli anni, la percezione – e spesso la realtà – che avere figli equivalga a rinunciare a qualcosa.
Una società che trasmette questo messaggio è una società che si condanna da sola alla sterilità demografica.
La maternità, invece, deve tornare a essere valorizzata, rispettata, sostenuta. Non come un obbligo, ma come una scelta libera e possibile, che non costringa le donne a sacrificare la propria dignità professionale o la propria sicurezza economica.
Un modello di sostegno concreto: tre anni di stipendio garantito
Affinché la maternità non sia più vissuta come una penalizzazione, occorre che lo Stato intervenga con misure incisive, semplici e strutturate.
Una proposta possibile – e culturalmente innovativa – potrebbe essere quella di garantire a ogni donna (lavoratrice, per le casalinghe si vedrà più avanti, ndr) che mette al mondo un figlio tre anni di sostegno economico pienamente retributivo, così articolato:
- Primo anno: stipendio garantito al 100%;
- Secondo anno: stipendio garantito al 65–70%;
- Terzo anno: stipendio garantito al 50%.
Tutto ciò accompagnato da contribuzione pensionistica al 100% per l’intero triennio, affinché la maternità non si traduca in buchi contributivi o penalizzazioni future.
Un sistema di questo tipo permetterebbe alle donne di vivere i primi anni di vita del bambino (anni che sono i più delicati e nei quali la presenza e la interazione affettiva con la madre risulta per molti psicologi dell’età evolutiva essenziale) senza ansia, senza corse impossibili tra lavoro e casa, senza dover rinunciare alla carriera o alla serenità familiare. Sarebbe un investimento sulla donna, sulla famiglia e sulla società.
E per le donne non lavoratrici? Un sostegno alla maternità in chiave sociale
Vi sono poi donne che non lavorano al di fuori del contesto domestico, ma che svolgono un ruolo fondamentale come pilastri della famiglia e della cura quotidiana, quelle che oggi vengono chiamate in senso quasi riduttivo “casalinghe”.
Anche per loro lo Stato dovrebbe prevedere un sistema di incentivi che renda la maternità un valore riconosciuto socialmente, non un peso da portare in solitudine.
Un modello possibile potrebbe essere il seguente (sempre per i primi tre anni di vita del bambino):
- 400 euro al mese per il primo figlio;
- 400 euro al mese per il secondo figlio;
- 500 euro al mese dal terzo figlio in poi.
Grazie a questo schema, una madre non lavoratrice potrebbe ricevere tra 800 e 1.200–1.300 euro al mese in caso di due o più figli, garantendo stabilità alla famiglia e riconoscendo il valore del lavoro domestico e di cura, che oggi spesso rimane invisibile.
Ridare dignità alla maternità, rafforzare il futuro del Paese
Sostenere la maternità non significa ridurre l’autonomia delle donne, né relegarle al ruolo di madri. Significa, al contrario, ampliare la loro libertà di scelta: permettere a ogni donna di conciliare lavoro, aspirazioni personali e vita familiare senza che nessuno di questi ambiti sia visto come un ostacolo all’altro.
La crisi demografica è un nodo storico che non si può sciogliere con campagne culturali o appelli morali, anche se questi ultimi non fanno male perché dare valore a una prerogativa come la maternità significa di fatto contrastare il concetto tutto “maschilista” che la donna debba puntare solo alla “parità”.
Il concetto della parità infatti va inquadrato sul piano logico: sono “pari” due cose o persone che abbiano le stesse caratteristiche funzionali o esistenziali.
L’uomo e la donna sono sì due esseri umani, ma non sono affatto “pari”: sono diversi per natura, per biologia, per finalizzazione sessuale e riproduttiva.
Vista così la questione, allora si deve dire che la parità è impossibile, non per inferiorità della donna ma semplicemente per la sua unicità e originalità che la vede come madre potenziale, cosa che non appartiene in alcun modo all’uomo. In una battuta: è solo la donna che può mettere al mondo un figlio, un uomo al più può impegnarsi come marito e padre, ma non potrà mai sostituire il ruolo gestazionale della moglie.
Quello è il dono e il compito unico che le donne posseggono e che si tenta di svalutare da parte del pensiero dominante, come fosse qualcosa di fastidioso e che impedisce alle donne di affermarsi “come i maschi”.
Davanti a tutta questa serie di considerazioni, che sono al tempo stesso di natura culturale, etica, sociale e anche religiosa, possiamo dire che serve una visione politica, cioè servono leggi che riconoscano la maternità come un bene per tutta la comunità e che restituiscano dignità e sostegno a chi sceglie di mettere al mondo un figlio.
Se l’Italia vuole continuare a essere una nazione viva, dinamica e capace di guardare avanti, deve tornare a investire sulle nascite, sulle donne e sulla famiglia come risorsa centrale.
Non si tratta solo di numeri: si tratta di futuro. Un futuro che può esistere solo se qualcuno è disposto a generarlo – e se la nostra società è finalmente pronta a sostenerlo. Da questo punto di partenza valoriale e politico si vedranno, da qui in avanti, i passi concreti che i partiti del nostro arco costituzionale proporranno per superare la drammatica fase di crollo demografico. Pensandoci bene, alla fine potrebbe essere più semplice di quanto si pensi: basterebbe favorire “davvero” le donne nella società, perché possano scegliere liberamente e consapevolmente di divenire madri, e non invece relegarle a delle “competitor” (lo diciamo all’inglese, termine che oggi va molto di moda) nei confronti degli uomini. Se infatti continuassimo su questa strada alla fine vedremmo avverarsi le fosche previsioni di caduta della popolazione e di potenziale scomparsa degli italiani, cosa che nessuno in cuor suo penso voglia augurarsi.
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