Il professor Michele D’Angelo: un caso che interpella la coscienza collettiva
Da oltre un mese, il professor Michele D’Angelo, docente di Biologia all’Università dell’Aquila, si trova detenuto in un carcere albanese. La sua vicenda, al tempo stesso surreale e drammatica, solleva interrogativi che vanno ben oltre il semplice ambito giuridico: interroga la nostra coscienza civica, la nostra capacità di solidarietà e il nostro senso di giustizia.
Tutto è iniziato l’8 agosto, nei pressi di Tirana, quando il professor D’Angelo è rimasto coinvolto in un incidente stradale. La sua auto, una Lancia Ypsilon, è stata centrata da un altro veicolo. Dopo l’impatto, D’Angelo si sarebbe allontanato dall’auto, come gesto istintivo dettato dallo shock e dal timore di ulteriori conseguenze immediatamente percepite come pericolose. Questo comportamento, per le autorità albanesi, si è tradotto in accuse gravi: abbandono di veicolo e violazione delle norme sulla circolazione. Una serie di circostanze che, pur essendo di natura eminentemente tecnica, hanno avuto conseguenze enormi: da quel momento, il docente è rinchiuso in carcere, lontano dalla sua famiglia, dai colleghi e dagli studenti che lo stimano e lo rispettano, privato della sua libertà senza che siano state chiarite in modo definitivo le responsabilità reali dell’incidente.
Il professor D’Angelo non è solo un accademico di riconosciuto valore scientifico. È un uomo che ha dedicato la vita all’insegnamento e alla ricerca, guidando con passione e competenza le nuove generazioni e contribuendo al prestigio della sua università. Vederlo trattenuto in circostanze così incerte non può lasciare indifferente chi crede nella dignità della persona e nello Stato di diritto. La sua detenzione ci interpella come cittadini e come comunità accademica: non si tratta di una vicenda privata, ma di un caso che riguarda l’integrità della giustizia e la tutela dei diritti di chi si trova improvvisamente in una situazione di estrema vulnerabilità.
L’Università dell’Aquila, con il rettore Fabio Graziosi in prima linea, ha già manifestato la propria preoccupazione, sollecitando le autorità italiane e albanesi a intervenire con urgenza. Anche il senatore Luciano D’Alfonso ha presentato un’interrogazione parlamentare al Ministro degli Esteri, chiedendo chiarezza e una rapida soluzione della vicenda. Tuttavia, azioni istituzionali e diplomatiche, seppur necessarie, non possono sostituire la pressione morale e civile che ogni comunità deve esercitare: la voce della società, quando solleva questioni di giustizia e dignità, ha un peso che nessuna procedura burocratica può ignorare.
La vicenda mette in luce, inoltre, la fragilità di chi si trova all’estero in circostanze impreviste e drammatiche. Un cittadino italiano, lontano dalla propria rete familiare e professionale, rischia di essere giudicato con modalità che non tengono conto del contesto umano e psicologico in cui si è trovato a operare. In un momento di shock e confusione, un gesto istintivo può essere interpretato come una violazione intenzionale della legge, trasformando un incidente minore in una detenzione prolungata e ingiustificata.
È fondamentale che la comunità accademica, le istituzioni e la società civile facciano sentire la propria voce con chiarezza e determinazione. Ogni gesto di vicinanza, ogni appello pubblico, ogni iniziativa volta a mantenere alta l’attenzione mediatica diventa un passo concreto verso la giustizia. Non si tratta di semplice compassione: è un imperativo morale e civile. È nostro dovere chiedere che il professor D’Angelo riceva un trattamento giusto, equo e umano, e che le autorità albanesi valutino la situazione con la necessaria proporzione e senso di responsabilità.
Il caso di Michele D’Angelo richiama anche un principio più ampio: la tutela dei cittadini all’estero, la responsabilità delle istituzioni nel garantire diritti fondamentali, e la necessità che la giustizia sia accompagnata dalla comprensione delle circostanze e delle dinamiche umane. Non possiamo accettare che un cittadino italiano diventi vittima di un meccanismo rigido e insensibile, che trascura la complessità della vita reale e il valore intrinseco della persona.
Non possiamo restare spettatori. La società civile deve esercitare la propria responsabilità morale. Mobilitazioni, lettere di sostegno, appelli pubblici e raccolte di firme non sono gesti simbolici, ma strumenti concreti per mantenere alta l’attenzione e richiedere un intervento rapido e risolutivo. Ogni iniziativa che sottolinei l’ingiustizia subita dal professor D’Angelo contribuisce a rafforzare la pressione affinché il suo diritto alla libertà e alla dignità venga rispettato.
La vicenda di Michele D’Angelo ci ricorda che la giustizia non è un concetto astratto, ma una responsabilità concreta di ciascuno di noi. Sosteniamolo con fermezza, determinazione e dignità. La sua liberazione non sarà solo un atto di giustizia personale, ma un segnale forte che lo Stato e la società riconoscono il valore della persona e la necessità di proteggere chi si trova in difficoltà in circostanze straordinarie.
Non lasciamo che l’indifferenza prevalga: oggi è un cittadino italiano, domani potrebbe essere chiunque di noi. In un mondo in cui la legalità e la responsabilità civile sono continuamente messe alla prova, la vicenda di D’Angelo ci chiede di agire, di mobilitarci, di fare sentire la voce della ragione, della giustizia e della solidarietà umana. La società, l’accademia, le istituzioni e ogni cittadino hanno il dovere morale di intervenire, affinché la verità, la ragione e la giustizia prevalgano.
Fonti:
ANSA, “Docente dell’Università dell’Aquila detenuto in Albania da agosto”, 26 settembre 2025. Disponibile su: [ansa.it](https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2025/09/26/docente-universita-dellaquila-detenuto-in-albania-da-agosto_ef960bd4-c7fb-4083-9473-1437f175c6c6.html)
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