Le dinamiche di potere affettivo e la violenza intra-relazionale

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La violenza intra-relazionale e di genere richiede di tenere insieme più fili: la differenza media nei tipi di aggressione espressi da uomini e donne, la struttura dei rapporti di potere nelle relazioni intime, le dinamiche di escalation e saturazione del conflitto familiare, e infine le manifestazioni estreme come il femminicidio e gli omicidi di partner maschili.

Il presente pensiero parte da un’osservazione empirica largamente discussa nella letteratura psicologica e sociologica, ovvero che, pur essendoci sovrapposizioni e eccezioni, gli uomini tendono ad esprimere forme di aggressione più fisiche e dirette, mentre le donne più frequentemente adottano modalità relazionali, indirette o psicologiche, per interrogarsi su come queste differenze si intersechino con i fenomeni più drammatici di uccisione di partner, e su come la saturazione del conflitto in contesti familiari, quando non rientra in una logica “razionale” di negoziazione, amplifichi i rischi di degenerazione violenta.

Una vasta letteratura psicologica ha documentato che, in media, gli uomini manifestano livelli più elevati di aggressione fisica rispetto alle donne, mentre le donne spesso usano forme di aggressione relazionale o indiretta, come l’esclusione sociale, la diffusione di pettegolezzi, il danno all’immagine dell’altro o manipolazione psicologica, nei loro conflitti interpersonali (il famoso “dobbiamo parlare”, tanto ben spiegato dal comico romano Enrico Brignano e che l’immagine di copertina stigmatizza ironicamente).

Studi meta-analitici e sviluppi teorici lo confermano come ad esempio, ricerche basate sul modello di Social Information Processing mostrano che differenze nei pattern cognitivi e nell’interpretazione delle intenzioni altrui contribuiscono a tali divergenze espressive tra sessi, con le ragazze che “incanalano” conflitti in forme relazionali, e i ragazzi che più frequentemente ricorrono a modalità fisiche e dirette.

Analisi empiriche e survey su popolazioni studentesche evidenziano differenze medie significative in aggressione fisica tra uomini e donne, con effetti di dimensione media a favore di una maggiore aggressività fisica maschile, mentre l’aggressione relazionale non mostra sempre pattern così netti e può dipendere dal contesto culturale e di età.

Funzioni evolutive e neurobiologiche sono state invocate per spiegare questa distribuzione, revisioni ampie indicano che attraverso culture diverse gli uomini sono più propensi all’aggressione fisica, mentre in alcune fasi dello sviluppo le differenze si attenuano e forme indirette si manifestano anche tra i maschi.

Va sottolineato che l’aggressione psicologica o relazionale non è meno dannosa: studi mostrano come la violenza psicologica nelle relazioni intime (isolare, invalidare, manipolare l’autostima) produce effetti cronici su salute mentale, senso di sé e capacità di reazione, e può incorporarsi in meccanismi di controllo coercitivo che preludono pericolose escalation.

Comunque l’ipotesi che una forma di violenza più “psicologica” da parte femminile si traduca più facilmente in femminicidio richiede una decostruzione: i dati globali e nazionali mostrano che il femminicidio, inteso come omicidio di donne determinato o aggravato dal loro genere, spesso da partner o ex partner, è fortemente legato a dinamiche di controllo, possessività, gelosia patologica, e una escalation che include sia violenza psicologica che fisica, ma è soprattutto l’asimmetria di potere (e l’uso strumentale della violenza fisica estrema) a risultare letale.

Le statistiche internazionali evidenziano che, sebbene globalmente la maggior parte delle vittime di omicidio siano uomini, le donne sono sproporzionatamente vittime di omicidi da parte di partner intimi: nel 2017, circa l’82% degli omicidi in ambito di partner intimo aveva come vittima una donna.

In Italia, il fenomeno è particolarmente acuto: nel 2022 le donne rappresentavano il 91% delle vittime di omicidi da parte di partner intimi e il 74% delle vittime di omicidi domestici complessivi, nonostante rappresentassero una porzione molto più piccola di vittime totali di omicidio.

I fattori di rischio per il femminicidio includono storia di violenza precedente, escalation di controllo, isolamento sociale della vittima, uso di sostanze da parte del perpetratore, e presenza di attaccamento patologico o gelosia estrema.

In molti casi, la violenza psicologica e il controllo coercitivo sono stadi precursori in una catena che sfocia nel femminicidio, ma è l’esercizio di violenza fisica estrema (spesso improvvisa e brutale) che pone fine alla vita.

Dall’altra parte, gli uomini possono essere vittime di violenza da parte di partner femminili, incluso l’omicidio, ma le dinamiche e la frequenza sono differenti; la letteratura mostra che, sebbene esista violenza verso partner maschili, essa ha tipicamente pattern diversi in termini di esito letale e che la percezione e la segnalazione di tale violenza è spesso ostacolata da norme di genere che stigmatizzano la vittimizzazione maschile (l’uomo tende meno a parlare di essere vittima di violenza per vari motivi anche di “immagine”).

Un elemento cruciale è che i femminicidi, nella vasta maggioranza dei casi documentati in studi recenti, avvengono in contesti dove l’uomo agisce da soggetto con senso di possesso, rabbia incontenibile e talvolta accompagnato da eventi scatenanti (separazione, rifiuto).

La combinazione di controllo coercitivo (che spesso include violenza psicologica prolungata) con capacità e tendenza verso la violenza fisica, produce l’esito più estremo.

I casi di Giulia Cecchettin, Sara Campanella e Ilaria Sula (2023–2025) sono emblematici per comprendere il legame tra dinamiche intime, escalation e risposta pubblica.

Il caso di Cecchettin, trovata uccisa con oltre 70 coltellate e avvolta in plastica, ha scatenato un’ondata di indignazione nazionale e una discussione non solo sulla punizione, ma sulla necessità di prevenzione culturale; la famiglia stessa ha invocato un cambiamento profondo nelle relazioni e nei discorsi sulla gelosia e il possesso.

Nel 2025, gli omicidi delle studentesse universitarie Sara Campanella e Ilaria Sula hanno dato origine a richieste di “ribellione culturale” contro la violenza di genere.

Il dibattito si è concentrato non soltanto sull’applicazione normativa (come l’introduzione giuridica più chiara del concetto di femminicidio), ma sull’educazione preventiva nelle scuole e sull’emersione di atteggiamenti che interiorizzano un’idea di dominio relazionale maschile.

Questi casi testimoniano come la violenza letale sia spesso preceduta da pattern in cui la vittima è stata gradualmente isolata, invalidata, controllata, ovvero da una combinazione di violenza psicologica e segnali d’allarme che, se non riconosciuti e interrotti, convergono in una crisi fatale.

Allo stesso tempo, l’attenzione pubblica tende a polarizzare: da un lato richieste di pene esemplari, dall’altro (soprattutto nei casi di partner maschili vittime) un silenzio o una minimizzazione che impediscono una risposta sistemica.

Una chiave interpretativa utile per comprendere come conflittualità quotidiana possa degenerare è data dai modelli del cycle of violence e dagli studi sulle dinamiche di escalation emotiva nei conflitti di coppia.

L’interazione tra emozioni negative reciproche, percezioni distorte delle intenzioni partnerali, e la saturazione relazionale, cioè, il punto in cui i canali normali di comunicazione e negoziazione si saturano e cessano di funzionare, genera un “fondo di pentola” emotivo che rende più probabile l’espressione aggressiva.

Quando il conflitto non è trattato con strumenti razionali (ascolto, mediazione, riconoscimento degli schemi di potere e responsabilità), le coppie rimangono intrappolate in circuiti in cui l’affetto negativo si amplifica a vicenda e l’aggressione, fisica o psicologica, si auto-legittima come risposta utile o necessaria.

In questo senso, la “saturazione” può essere vista come un accumulo di frustrazioni, ferite relazionali non risolte, e percezioni di minaccia esistenziale del sé relazionale che abbassa la soglia per comportamenti distruttivi.

La violenza psicologica, se protratta, erode gradualmente le difese cognitive ed emozionali della persona vittima, diminuendo la capacità di valutare il rischio e di cercare aiuto; la violenza fisica intensa può comparire in momenti di rottura, separazione o rifiuto percepito come definitivo, quando il sistema di regolazione emotiva del perpetratore è già compromesso da cicli reiterati di controllo e frustrazione.

Questo quadro spiega perché spesso non vi sia “un solo evento”, ma una traiettoria cumulativa.

Il termine “maschicidio”, pur esistendo, non è consolidato nella letteratura accademica con il significato che talvolta gli viene attribuito mediaticamente (uccisione di uomini in contesti familiari o intimi), ma è utile distinguere: gli uomini possono essere vittime di violenza estrema da parte di partner femminili, ma i pattern di potere, le motivazioni e la frequenza sono diversi.

La ricerca rileva che gli uomini spesso subiscono meno frequentemente forme letali di controllo coercitivo a lungo termine, e che la loro vittimizzazione è meno segnalata per via di norme di genere che stigmatizzano la richiesta d’aiuto.

Inoltre, mentre nel femminicidio è comune un continuum che parte da violenza psicologica e controllo e culmina in un’espressione letale della violenza fisica da parte di soggetti con senso di possesso e rivendicazione, nei casi in cui la vittima è un uomo spesso si riscontrano altri contesti, ad esempio reazioni isolate, problematiche mentali acute, o contesti meno sistematici di controllo esercitato dalla partner.

Questo non deve sminuire la gravità di ogni omicidio, ma aiuta a capire che la “traduzione” da aggressione psicologica a esito letale ha configurazioni differenti a seconda della struttura di potere e dell’interpretazione culturale del conflitto.

Nel dibattito pubblico si tende ancora a misurare la violenza soprattutto dalla traccia visibile: lividi, fratture, ferite.

Ma chi osserva con attenzione le relazioni che s’inceppano sa che il terreno più insidioso è quello dell’aggressione che non lascia segni immediati sulla pelle ma erode lentamente l’autonomia, l’identità e la percezione del sé.

Il “controllo coercitivo”, fatto di isolamento, sorveglianza, minacce sottili, umiliazioni sistematiche, regolazione dei comportamenti quotidiani, è descritto da fonti operative italiane e internazionali come il nucleo centrale di molti percorsi che sfociano nel femminicidio, perché imposta una dinamica di potere asimmetrica che normalizza la legittimazione della violenza.

Riconoscere precocemente queste forme miste non è semplice: richiede strumenti strutturati di screening, formazione capillare di operatori (forze dell’ordine, servizi sociali, medici, psicologi) e protocolli che non riducano la violenza alla sola componente fisica.

Le linee guida di organizzazioni come Differenza Donna e i materiali della magistratura evidenziano che molte vittime subiscono solo violenza psicologica per lunghi periodi prima che si arrivi all’esplosione fisica, con una sottovalutazione sistemica che aumenta il rischio di escalation.

Il problema è anche culturale: la normalizzazione di comportamenti controllanti come “gelosia” o “preoccupazione affettiva” può camuffare segnali d’allarme oggettivi e rallentare l’attivazione di reti protettive.

Per questo, la prevenzione efficace parte dall’adozione diffusa di check-list valutative, formazione obbligatoria e procedure di “costruzione del rischio” che integrino variabili psicologiche, relazionali e contestuali, come raccomandato anche dai monitoraggi sulla efficacia delle normative da parte dell’Osservatorio sulla violenza di genere del Ministero della Giustizia.

Negli spazi pubblici e nelle cronache dei femminicidi, si ripete un copione: rifiuto percepito come perdita di diritto, gelosia trasformata in controllo e la supposta “proprietà” su un’altra persona mascherata da amore.

La polarizzazione della reazione collettiva, tra chi chiede solo punizione esemplare e chi, in modo più sottile, cade nel fatalismo culturale (“era una relazione travagliata”, “lui era innamorato”), sottrae aria a una trasformazione preventiva.

Il cuore della sfida sta nell’inserire nei percorsi educativi precoci una consapevolezza relazionale capace di distinguere tra affetto sano, confini, libera scelta e imposizione narcisistica.

Documenti recenti, come quelli del Gruppo CRC o di Save the Children, insistono su un punto chiave: l’educazione all’affettività e alla sessualità non è un “di più” curricolare, ma un antidoto strutturale alle logiche di dominio che si sedimentano già nell’adolescenza.

Si tratta di insegnare, con linguaggio concreto e laboratori esperienziali, il riconoscimento del consenso, la gestione dei rifiuti relazionali senza attribuirne colpe, la decostruzione degli stereotipi di genere che legittimano il possesso e l’idea che “amare significa controllare”.

A livello istituzionale, la discussione parlamentare su educazione sessuale e affettiva è ancora frammentata: ci sono spinte verso una sistematizzazione (come si vede nei documenti di advocacy e proposte legislative del 2024–2025), ma rimane forte una resistenza che lascia la materia alla discrezionalità locale, alimentando disuguaglianze geografiche e lacune nei messaggi. Il ritratto che emerge è di un terreno di prevenzione potenziale ancora sottoutilizzato, con programmi che potrebbero agire molto prima dell’accendersi dei segnali più visibili di crisi.

L’immaginario collettivo tende a incasellare la vittima di violenza domestica come una figura femminile, e il carnefice come maschile.

Questo schema, oltre a esistere perché statisticamente il femminicidio è un fenomeno con precise dinamiche di potere sistemiche, produce un effetto collaterale non trascurabile: le vittime maschili spesso restano invisibili, non denunciano, si sentono delegittimate e si trovano intrappolate in una rete di stigma che considera inammissibile che un “uomo subisca”. Ricerche qualitative e review internazionali indicano barriere forti nella ricerca d’aiuto per uomini maltrattati, che includono vergogna, paura di non essere creduti, e mancanza di servizi adeguati.

In Italia, nonostante sia meno frequente rispetto alla violenza contro le donne, la violenza domestica verso uomini è documentata e spesso avvolta dal silenzio.

La carenza di canali di ascolto specifici e l’assenza di una narrazione pubblica che ne riconosca la legittimità amplificano l’isolamento.

I pregiudizi descritti in studi psicopatologici mostrano che anche l’offerta dei servizi, psicologici, legali, sociali, può essere inconsapevolmente parziale, perché non costruita per intercettare e sostenere uomini che hanno subito abusi non conformi agli stereotipi.

La risposta di sistema deve quindi essere duplice: da un lato continuare a mantenere e rafforzare la protezione per le vittime di genere più esposte (in primis le donne), dall’altro sviluppare percorsi di accoglienza che siano neutri rispetto al genere, che riconoscano la complessità delle dinamiche e che riducano la vergogna che impedisce la denuncia.

Questo include formazione degli operatori su bias di genere e campagne di comunicazione pubblica che raccontino il fatto che essere uomo non esclude di essere vittima.

Gran parte delle spirali che portano alla violenza estrema non è frutto di un singolo evento isolato, ma di un accumulo: frustrazioni, incomprensioni, ferite relazionali non riparate, minacce sottili reiterate.

Quando una relazione entra in uno stato di saturazione emotiva, i canali normali di negoziazione, dialogo, mediazione, autoregolazione, si bloccano.

I modelli della psicologia clinica e della terapia focalizzata sulle emozioni parlano di cicli in cui il negativo si autoalimenta: l’aggressione (fisica o psicologica) diventa risposta percepita come necessaria, e la vittima si retrae, amplificando il senso di minaccia e legittimando ulteriormente il comportamento distruttivo.

L’intervento preventivo efficace richiede figure formate non solo a “spezzare” la violenza manifesta, ma a riconoscere quei segnali precoci di saturazione: escalation verbale circolare, ritiro affettivo alternato a esasperazione emotiva, perdita di empatia reciproca, distorsioni interpretative delle intenzioni.

Strumenti come la terapia focalizzata sulla coppia, reti di supporto esterne (familiari, peer support), interventi di de-escalation psicologica e “pause relazionali” strutturate possono operare come “interruzioni” del ciclo prima che diventi irreversibile.

Formare mediatori familiari, psicologi e operatori sociali a questo sguardo richiede aggiornamenti curriculari e protocolli multidisciplinari che includano, ad esempio, l’attivazione di piani di sicurezza non solo in presenza di violenza conclamata, ma anche quando emergono segnali di saturazione cronica: sessioni di prevenzione che agiscano sui “pattern” più che sull’evento singolo, coinvolgendo anche la rete sociale attorno alla coppia.

L’evoluzione normativa italiana sul femminicidio compie un passo significativo quando non si limita a catalogare l’omicidio come “differente” ma ne scompone la matrice motivazionale: l’ultima formulazione del 577-bis, approvata nel 2025, include esplicitamente la nozione di atto commesso per possesso, controllo o in risposta al rifiuto della donna, segnando un riconoscimento giuridico delle dinamiche relazionali e simboliche che conducono all’estremo.

Tuttavia, la definizione formale è efficace solo se accompagnata da protocolli operativi concreti che traducano il rischio, che nasce spesso da anni di violenza psicologica e controllo, in interventi differenziati e proattivi.

Il Rapporto GREVIO del 2024 ha messo in luce un paradosso italiano: nonostante una cornice legislativa relativamente avanzata, solo una frazione dei fondi previsti per la prevenzione viene effettivamente impiegata in azioni di riduzione del rischio e in rafforzamento delle reti territoriali.

Questo gap tra “legge scritta” e “pratica attiva” indebolisce la capacità di intercettare percorsi di escalation prima che diventino irreversibili.

La sfida è costruire un sistema dove la sensibilità di genere non significhi solo etichettare, ma valutare: strumenti di risk assessment validati, protocolli di protezione precoce, condivisione informativa tra forze dell’ordine e servizi sociali, e un’integrazione tra prevenzione (educazione e riconoscimento), intervento (supporto immediato) e tutela legale (misure cautelari, allontanamenti, monitoraggio) che considerino il profilo di rischio individuale e relazionale.

Solo così la legge smette di essere una dichiarazione e diventa ingranaggio operativo

È fondamentale evitare letture deterministe: le differenze medie non significano che tutti gli uomini siano fisicamente aggressivi né che tutte le donne usino solo aggressione psicologica.

I contesti culturali, le esperienze individuali, la socializzazione, le traiettorie familiari (inclusa l’esposizione a violenza nel nucleo di origine) influenzano profondamente comportamenti e percezioni.

Inoltre, la “traduzione” della violenza psicologica in esiti estremi passa per molte variabili intermedie: resilienza della vittima, interventi esterni, accesso a reti di supporto e la presenza di segnali di allarme riconosciuti.

L’assenza di uno di questi fattori può fare la differenza tra un conflitto contenuto e un tragico esito.

La distinzione, semplificata ma empiricamente fondata, tra violenza maschile tendenzialmente più fisica e violenza femminile tendenzialmente più relazionale/psicologica non può essere usata per giustificare né minimizzare alcuna forma di abuso.

Piuttosto, serve da lente per comprendere come nelle relazioni intime si costruiscono e si sedimentano dinamiche di potere e controllo che, se non interrotte, possono convergere in esiti letali molto diversi.

Nel femminicidio, spesso attraverso una combinazione di controllo psicologico prolungato e capacità/propensione verso la violenza fisica estrema da parte del partner; in altri casi, in forme meno sistematiche che però richiedono attenzione anch’esse.

Il contrasto efficace passa attraverso cultura, prevenzione, capacità di riconoscere la saturazione emotiva nei rapporti, e sistemi che siano contemporaneamente sensibili alle differenze di genere e rigorosi nel proteggere chi è a rischio.

Senza una tale visione integrata, si rischia di ridurre fenomeni complessi a stereotipi e di perdere le possibilità concrete di intervenire prima che una relazione degeneri in tragedia.

 

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