Olimpiadi, il k.o. tecnico della logica

Alle Olimpiadi di Parigi la boxe femminile ha regalato un incontro che passerà alla storia non per il talento tecnico, né per la resistenza degli atleti, ma per la sua brevità: meno di un minuto.
Angela Carini, pugile azzurra, è uscita dal ring con le lacrime agli occhi, dopo aver ricevuto due colpi devastanti dall’algerina Imane Khelif.
Non un abbandono per mancanza di coraggio: Carini non è una pugile amatoriale della domenica.
È stata piuttosto la resa di fronte a un paradosso che nessuna preparazione atletica poteva colmare.
Un minuto scarso, e il pubblico ha visto chiaramente ciò che il Comitato Olimpico Internazionale continua a fingere di non vedere: la differenza fisica che separa un corpo femminile da un corpo con caratteristiche maschili.
Una differenza che non si cancella con la bacchetta magica della burocrazia sportiva.
Imane Khelif non è nuova ai riflettori.
Nel 2023 era stata esclusa dai Mondiali per non aver superato il cosiddetto “test di genere”. Un verdetto scomodo, che sembrava porre fine alla sua carriera internazionale.
Ma bastano dodici mesi e una benevola interpretazione del regolamento del CIO per compiere il miracolo: Khelif non solo è di nuovo ammessa, ma lo è in piena regola.
È la nuova incarnazione dell’uguaglianza, una pugile donna a tutti gli effetti, almeno secondo i documenti.
La definizione coniata per descriverla è un capolavoro di comicità involontaria: “iper-androgina”.
Un termine che non esiste in nessun manuale scientifico, ma che suona abbastanza tecnico da far credere che si tratti di qualcosa di neutro.
In realtà, significa solo che i suoi livelli di testosterone e la sua struttura fisica si collocano molto più vicino a quelli maschili che a quelli femminili. Una differenza che sul ring non resta un dettaglio, ma si traduce in colpi che fanno più male, più in fretta, più a fondo.
Per giustificare queste situazioni, il CIO si appella alle sue linee guida del 2021 . Dieci principi solenni: inclusione, dignità, salute, non discriminazione, equità, approccio scientifico…
Una sorta di decalogo morale che avrebbe potuto uscire da un congresso delle Nazioni Unite. E come ogni buon decalogo politico, si conclude con la frase più importante: “decidano le federazioni”.
In altre parole: ci riempiamo la bocca con parole altisonanti, ma la responsabilità è sempre di qualcun altro. Una lavata di mani elegante, con tanto di guantoni ben allacciati. È la vera disciplina olimpica del nostro tempo: la ginnastica retorica.
Il problema, tuttavia, resta lì.
La boxe non è una conferenza accademica. Non si discutono teorie, ma si prendono colpi veri, che arrivano da corpi reali. La densità ossea, la massa muscolare, la potenza fisica: sono dati che non si annullano a colpi di comunicato stampa.
Si può anche decidere che “l’identità di genere” prevalga sulla biologia, ma allora si abbia il coraggio di abolire tutte le categorie.
Non più maschile e femminile, non più peso piuma e peso massimo. Solo una grande, gloriosa divisione universale: la quindicenne di cinquanta chili contro il culturista di centodieci, la maratoneta minuta contro il lanciatore di martello.
Sarà uno spettacolo memorabile, e i telecronisti potranno raccontare con entusiasmo la “meravigliosa inclusione”.
La verità, però, è che nessuno ci crede davvero. Nemmeno il CIO, che continua a mantenere le categorie separate, salvo poi giocare con i confini quando conviene.
In questa commedia, la parte più tragica l’ha recitata Angela Carini.
Una giovane donna che ha dedicato anni al sacrificio, alla fatica, alla disciplina di uno sport durissimo.
Il suo pianto sul ring non era quello di una sconfitta qualsiasi: era il simbolo di un sistema che l’ha abbandonata, lasciandola a combattere contro un avversario che non apparteneva alla sua stessa categoria biologica.
La sua resa è stata un atto di lucidità, non di debolezza.
Ha detto “non ce la facevo”. E in quel momento, ha detto anche qualcosa di più: non ce la faceva a reggere un incontro che non era mai stato equo dall’inizio.
Il paradosso di fondo è questo: in nome dell’inclusione, si sacrifica l’equità e si sentimenti e diritti.
Lo sport, che dovrebbe essere il regno della chiarezza e delle regole limpide, diventa il teatro di una pantomima ideologica.
E così, mentre il CIO celebra i suoi principi e le federazioni si lavano le mani, gli spettatori restano a guardare un gioco che ha perso la sua credibilità.
Perché la verità, nuda e semplice, è che le donne devono gareggiare con le donne e gli uomini con gli uomini. Non per discriminazione, ma per rispetto della realtà.
Il k.o. tecnico, a Parigi, non lo ha subito Angela Carini. Lo ha subito lo sport stesso.
Quando la logica si piega alla retorica, quando i colpi reali vengono sostituiti dalle acrobazie linguistiche, il ring smette di essere un campo di lealtà e diventa un palcoscenico grottesco.
Così, sul ring olimpico, più che boxe si è vista la vera disciplina del nostro tempo: la ginnastica retorica.
E in quella, il CIO è già campione mondiale.
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