Quarticciolo: dieci molotov in un secchio, o l’arte di chiamare “ordinario” ciò che dovrebbe far tremare

Roma, si sa, ha il talento innato di trasformare tutto in palcoscenico.
Ma al Quarticciolo, il sipario si è alzato su una scenografia che nemmeno il più creativo regista avrebbe osato immaginare: dieci molotov adagiate in un secchio dei rifiuti.
Non un reperto archeologico, non un oggetto di scena mal riposto, ma ordigni artigianali ben confezionati, pronti a trasformare un cassonetto in un rogo improvviso.
La scena è grottesca, eppure descritta con la consueta sobrietà burocratica: artificieri al lavoro, bonifica completata, indagini in corso.
Tre passaggi, quasi una formula magica, che servono più a rassicurare che a spiegare. Un rito che ci ripetiamo con la stessa serenità con cui annunciamo che domani farà bel tempo.
I telegiornali hanno fatto la loro parte: hanno raccontato l’accaduto, con immagini, cronache, testimonianze.
Hanno acceso i riflettori, ricordando a tutti che no, non si trattava di un dettaglio marginale, ma di dieci ordigni pronti all’uso in un secchio di quartiere.
È il compito dell’informazione, e in questo hanno fatto ciò che dovevano.
Ma resta il dubbio: quante di quelle parole sono rimaste davvero impresse allo spettatore, e quante sono scivolate via subito dopo, sommerse dalla valanga delle notizie successive?
Ecco il vero nodo: non tanto la qualità del racconto, quanto la capacità di noi, cittadini, di ascoltarlo. Perché a furia di abituarci all’assurdo, rischiamo di non distinguere più ciò che dovrebbe indignare da ciò che possiamo archiviare con leggerezza.
Il rischio non è tanto la fiamma che quelle bottiglie avrebbero potuto generare, ma il gelo con cui le osserviamo.
L’assuefazione è il combustibile più pericoloso: dieci molotov in un secchio non ci sorprendono più, diventano un dettaglio tra tanti, un inciso da dimenticare alla prossima edizione del telegiornale.
Ma il punto è proprio questo: se un quartiere può contenere un arsenale incendiario tra sacchi dell’umido e bottiglie di plastica senza che la città ne resti turbata, allora forse la vera bomba non è nel secchio, ma nella nostra coscienza.
Quella che si rassegna, che archivia, che lascia correre.
E allora, con sottile ironia ma sincera inquietudine, la domanda finale si impone: cosa brucia davvero di più?
Le molotov abbandonate tra i rifiuti o la nostra attenzione che si lascia scivolare via, come se anche l’allarme più grave fosse destinato a durare lo spazio di un servizio televisivo?
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