Uomini uccisi da donne: silenzi, disuguaglianze e una verità scomoda

Una riflessione lucida e coraggiosa, pubblicata nei giorni scorsi da Corrado Faletti su Betapress, ha offerto il punto di partenza per questo articolo. Nell’analizzare le dinamiche di potere affettivo e la violenza intra-relazionale, Faletti ha sollevato un interrogativo che molti evitano: perché la violenza esercitata nella coppia, anche nei casi più estremi, è trattata in modo così diverso a seconda del genere?
Come osserva Faletti, semplificare analizzando solo un lato della questione è più dannoso che la questione stessa, perché si viene meno ad un obbligo nei confronti di un percorso educativo e sociale necessario specie verso le giovani generazioni, che devono essere maggiormente educate a temi di affettività e rispetto.
Uomo e donna non sono meno colpevoli quando si applica una qualsiasi forma di violenza nei confronti del proprio partner, che sia fisica o psicologica.
Entrambe portano a disastrose conseguenze, ed è interessante notare come il Direttore abbia fatto emergere che entrambe le forme di violenza spesso sono interconnesse e parimenti agite nei vari casi di applicazione del cosiddetto potere affettivo.
Quindi che la vittima sia uomo o donna nello stesso modo vanno analizzate le cause alla base del fatto e non basta semplicemente incapsularle in uno stereotipo obsoleto.
Le sue parole mi hanno spinto ad affrontare apertamente questo nodo, ancora troppo trascurato.
«Ho fatto una cosa mostruosa». Così Lorena Venier, madre di Alessandro Venier, ha confessato l’omicidio del figlio trentacinquenne, ucciso e smembrato insieme alla compagna Magdalena Castro Monsalvo in un appartamento di Gemona del Friuli, in provincia di Udine.
Il corpo è stato nascosto in un bidone e coperto di calce viva. Una tragedia agghiacciante, ma che non ha scatenato le stesse ondate di indignazione, dibattiti pubblici e proclami politici che seguiamo con attenzione – e giustamente – ogniqualvolta a cadere sotto i colpi di un uomo è una donna.
Il caso Venier è emblematico di una disuguaglianza che raramente si osa nominare: la morte di un uomo per mano di una donna non genera la stessa reazione collettiva di un femminicidio.
Non esiste un termine paragonabile per indicare la sistematica uccisione di uomini all’interno delle mura domestiche, e questo silenzio selettivo si riflette nel modo in cui la società elabora – o ignora – certi crimini.
Eppure i numeri parlano chiaro.
Nel 2023 in Italia si sono registrati 334 omicidi: 217 vittime erano uomini. E se è vero che nella stragrande maggioranza dei casi gli assassini erano altri uomini, non mancano i delitti commessi da donne, spesso in contesto familiare.
Sei uomini, nel solo 2023, sono stati uccisi da partner o ex partner donne. In proporzione possono sembrare pochi, ma sarebbe accettabile dirlo se le vittime fossero donne? Ogni morte merita attenzione, non solo quelle che confermano un certo schema narrativo.
La narrazione mediatica, invece, tende ad assumere toni radicalmente diversi a seconda del genere.
Quando un uomo uccide una donna, il racconto si fa giustamente acceso, intriso di condanna morale, analisi di sistema, appelli all’educazione e al rispetto.
Quando è una donna a uccidere – e ancor più se la vittima è maschio – le parole si smorzano. Compare la “fragilità psichica”, il “disagio”, il “burnout”. L’assassina diventa una figura da compatire, più che da condannare.
Nel caso di Alessandro, si è parlato di “madre depressa”, di “disagio familiare”, di “crisi psichiatrica”.
Ma lui? Chi dà voce ad Alessandro?
Questo doppio binario nel giudizio sociale è stato analizzato dalla criminologia: Otto Pollak, negli anni ’50, formulò la teoria della “cavalleria giudiziaria”, secondo cui le donne – anche quando colpevoli di reati gravi – ricevono un trattamento più indulgente da parte dei tribunali e della società, in quanto considerate per natura più vulnerabili e meno pericolose.
Una visione stereotipata che, paradossalmente, danneggia anche le donne stesse, negando loro piena responsabilità come soggetti morali e giuridici.
Una riflessione approfondita su questo squilibrio è al centro dell’articolo di Faletti, che sottolinea come la violenza agita dalle donne venga spesso ricondotta alla sofferenza, mai al dominio o alla volontà di annientare.
Eppure, scrive, «la diversa tolleranza sociale nei confronti della violenza esercitata da una donna su un uomo produce un silenzio che fa rumore». Un’affermazione che fotografa perfettamente il clima in cui è maturato il trattamento del caso Venier: pochi titoli, ancora meno domande.
E non è solo la giustizia a inciampare: anche i servizi di assistenza sono spesso sbilanciati. In Italia esistono centinaia di sportelli antiviolenza per donne – una rete sacrosanta e necessaria – ma pochissimi spazi dedicati a uomini vittime di violenza domestica.
Eppure, come sottolineato in diversi rapporti internazionali, gli uomini raramente denunciano per paura del ridicolo o per la totale assenza di supporto dedicato.
La retorica polarizzata che dipinge le donne solo come vittime e gli uomini solo come carnefici non rende giustizia alla realtà complessa delle relazioni umane.
La violenza non ha un solo volto, né un solo sesso.
Non si tratta di fare concorrenza al dolore, ma di ampliare lo sguardo, di riconoscere ogni vittima, di rifiutare ogni forma di cieco automatismo culturale.
L’uguaglianza non consiste nel contare quanti muoiono da una parte e quanti dall’altra. Consiste nel riconoscere la dignità e il diritto alla verità di ogni vita spezzata.
Alessandro aveva trentacinque anni. Era un uomo. È stato ucciso da sua madre e dalla compagna. Nessuno chiede a gran voce giustizia per lui. Nessuno proclama “mai più”. Forse è ora di cominciare.
Le dinamiche di potere affettivo e la violenza intra-relazionale
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