L’Eterna connessione

Come in alto, 

così in basso.

Come dentro,

così fuori.

Come è il piccolo, 

così è il grande.

Chi è fedele nelle piccole cose,

è fedele nelle grandi.

Chi riesce a dire una piccola bugia, non esiterà nel dirne una più grande

Chi calpesta un sentimento piccolo, non esiterà a non riconoscere l’umanità.

Così, 

di contro.

Chi dona una carezza potrà salvare una vita

chi mantiene una promessa insignificante è la persona a cui affidare il futuro.

L’uomo è un animale simbolico che rappresenta sé stesso e l’universo

Discipliniamoci nelle piccole cose per poterne fare di grandi.




Le incomprensioni ci rendono poveri

Il sempre caro, 

allora anziano e 

ormai defunto 

Raimundo Panikkar 

diceva che, prima di imbastire qualunque dialogo con qualsivoglia interlocutore, è importante mettersi d’accordo sul glossario da usare.

È bene infatti che entrambi i soggetti dichiarino esplicitamente il significato che hanno per loro le parole che useranno per scegliere quindi assieme le parole migliori.

Questo perché una parola che per me ha un senso preciso,

Un senso costruito sulla base della definizione di un vocabolario, dalla mia esperienza personale, delle mie aspettative e riflessioni…

Può assumere un significato differente rispetto a quello elaborato dal mio interlocutore 

Ecco alcuni esempi di parole controverse:

– felicità 

– religione

– amicizia

– normalità 

– verità 

– amore 

– famiglia 

– relazione 

-…

Quello che sarebbe quindi utile fare prima di iniziare qualunque confronto, è dichiarare il significato che hanno per noi le parole che useremo 

O finiremo per trasformare quello che doveva essere un confronto costruivo in uno sterile scontro.

Il rischio, altrimenti, è quello di trovarsi a parlare due lingue diverse.

Ed è un peccato.

Perché quando troviamo una persona che ci apre il suo cuore e ci vuole parlare di sé, è un peccato rovinare tutto per una incomprensione ottusa.

Quando qualcuno ci parla e capiamo che ci sta dicendo molto di più di quello che appare, anche se non ci siamo prima accordati sul glossario, facciamo noi autonomamente lo sforzo in più dell’amore 

Questo è lo strumento che abbiamo per comprendere ciò che altrimenti non capiremmo.

Abbiamo troppo da perdere per rinunciare a farlo.

————-

Tratto dal dialogo tra un uccellino e una donna umana: 

“- come faremo a capirci se parliamo due lingue diverse?

– sarà l’amore a renderci complici”

Da il Libre de amic i amat 

di Raimundo Lullo. 

1232 – 1316




La mafia culturale

Noi siciliani la mafia l’abbiamo in testa e lo sforzo più grande che facciamo quando capiamo questa cosa, è distinguere i comportamenti mafiosi dai comportamenti umani.

Ma ci vuole tempo,

ci vuole frequenza.

Noi siciliani la mafia l’abbiamo nello sguardo,

quando guardiamo con superiorità chi ci sta di fronte e accettiamo la sfida di mostrare chi è più forte.

Noi siciliani la mafia l’abbiamo nell’incedere,

quando passiamo avanti e crediamo che tutto ci sia dovuto.

Quando non sbagliamo e sbagliano sempre gli altri.

Quando chi sbaglia paga ma l’errore è opinabile.

E ci vuole tempo

ci vuole frequenza.

Noi siciliani la mafia l’abbiamo nell’amico dell’amico

quando risolviamo problemi e accettiamo lo scambio.

Noi siciliani la mafia l’abbiamo nella strafottenza,

quando pensiamo che le regole degli altri non valgono per noi.

Quando il vanto è il privilegio.

E ci vuole tempo,

ci vuole frequenza.

E noi li abbiamo avuti

Abbiamo avuto secoli e secoli in una società incomprensibile per tutti fuorché per noi.

Siamo corrotti e compromessi.

Abbiamo la mente lurida di mafia e ormai non dormiamo la notte.

Ma proprio per questo

noi siciliani siamo avvantaggiati

Perché abbiamo avuto tempo

perché abbiamo avuto frequenza

e anche se tutto quello che abbiamo vissuto ha fatto schifo, ora abbiamo il dovere di non rendere tutto inutile.

Adesso, chi ci ha fatto attenzione, arriva prima;

chi è cresciuto circondato, oggi può scegliere e ha il dovere morale di avvisare gli altri.

E così noi siciliani la mafia la vediamo prima e la riconosciamo in fretta.

La riconosciamo ai primi posti agli eventi mondani,

nelle tribune d’onore,

nei biglietti al botteghino e nei nomi in lista.

La riconosciamo nel sorriso ammiccante e nel favore disinteressato … e sappiamo che disinteressato non lo sarà mai veramente.

Nel delirio di onnipotenza e nel sorriso astuto, quello che nessuno vede tranne noi.

Noi siciliani la mafia la riconosciamo anche nel ringraziamento di chi crede di aver ricevuto un favore e invece si è compromesso.

E ci dispiace per loro.

Noi siciliani la mafia la vediamo nella promessa del potere e nella sua ostentazione,

nel gesto di onnipotenza e nella spavalderia.

Nell’onore che deve essere protetto.

Nell’arroganza che diventa legge.

Riconosciamo il rumore dei soldi che vendono l’umanità e ne siamo addolorati.

Noi siciliani la mafia la sentiamo all’olfatto perché riconosciamo l’odore e sappiamo che puzza.

E abbiamo e sentiamo il dovere di dirvelo,

di mettervi in guardia.

Ma che ne sarà altrimenti di voi che la incontrerete senza riconoscerla?

Di voi che cercate compagnia agli angoli delle strade cercando l’amore nel posto sbagliato?

La mafia è una prostituta che si improfuma per nascondere l’olezzo nauseabondo.

È malata e contamina ogni cosa che tocca.

Che ne sarà di voi sempliciotti quando la incontrerete e vi sedurrà?

La mafia scappa da chi può riconoscerla e condannarla e cerca rifugio in chi non la conosce ancora e ha sete di fama e potere.

Badate

Badate.




Dove nessun uomo è mai giunto prima…

Se penso a com’era ieri, oggi siamo nel futuro.

Eppure io il futuro me lo immaginavo diverso.

Sui giornali si legge la notizia del primo turista nello spazio e il suo nome giapponese; mi guardo intorno e vedo dispositivi che ci connettono con persone in ogni parte del mondo e macchine che scrivono le nostre parole sotto dettatura.

Per quanto ci siamo abituati subito a tutto questo, possiamo dire che il futuro di oggi è davvero stupefacente.

Eppure io, il futuro me lo immaginavo diverso.

Sì, è vero: oggi voliamo, respiriamo sott’acqua, proiettiamo le nostre fantasie sugli schermi rendendole reali… attendo ancora il teletrasporto anche se ci sono situazioni olografiche che riproducono davanti a noi in dimensioni reali le persone richieste.

Ma non mi basta… io immaginavo altro…

La colpa è dei film che guardavo da bambina.

La colpa è del modo in cui tutto mi sembrava plausibile.

Erano i tempi di star Trek, che guardavo la mattina quando non andavo a scuola e restavo a letto a far passare la febbre.

Guardavo e aspettavo.

Di recente, nell’età delle stagioni televisive a disposizione su Netflix, io e il mio fidanzato abbiamo preso l’abitudine di guardare la sera, stagioni di vecchi telefilm.

Abbiamo iniziato con Star Trek e, vista l’infinita quantità di stagioni, ci accompagnerà anche nella nostra vecchiaia.

Ma il punto è che io il futuro me lo immaginavo proprio come quello di Star Trek.

Non parlo nello specifico delle navi spaziali e del lavoro nella flotta stellare (ah come mi sarebbe piaciuto!) e neppure del ponte ologrammi (tanto figo ma che porta solo rogne) e neanche del teletrasporto (che aspetto con un prossimo iPhone)… io parlo delle tante specie differenti all’interno della sala mensa.

Gente proveniente da ogni pianeta che lavora assieme sull’Enterprise, combatte e si incontra, che fa nuove alleanze e che esplora spazi sempre più lontani.

Il mio futuro era sconfinato.

Il futuro per me era quello: conoscere e convivere in piena integrazione universale con altre specie (non inteso come etnia o razza ma come estrazione umana).

Mi aspettavo che da grande sarei stata circondata da persone diverse da me e che ognuno avrebbe mostrato chiaramente la propria originalità (intesa nel doppio senso di origine e di peculiarità) e pensavo negli anni della mia crescita di prepararmi a questo.

Mi sembrava tutto così plausibile…

E invece no.

Ho capito che non era così un giorno che ero “fuori città” per lavoro.

Prima di rinchiudermi in hotel e impallidirmi alla luce del neon, mi ero fermata a pranzare in una piazza affollata in una zona di uffici.

Ero di buon umore perché avevo sete di guardare le persone attorno a me e immaginarne le vite.

Ho scelto un posto che mi permettesse di guardarmi bene intorno, mi sono seduta e ho ordinato.

Mentre aspettavo il mio pranzo ho cominciato a guardarmi attorno.

E ho sentito un crack, come di una corteccia dentro di me.

Ho provato un senso di grande disagio vedendo che erano tutti uguali.

Tutti gli uomini erano uguali, tutte le donne erano uguali.

C’erano di ogni specie un paio di versioni diverse ma sempre omologati.

Tutti gli uomini sembravano alti con l’abito coordinato e tutti le donne magre con borse firmate e un po’ di tacco; anche i bassi sembravano un po’ più alti eppure non sembrava puntassero al cielo.

Altri uomini avevano un abbigliamento più casual con maglia fuori dai jeans e scarpe comode che accompagnavano una postura rilassata, certe donne professavano l’anticonformismo nei capelli arruffati e i vestiti colorati non abbinati tra loro.

Al di là dei vestiti, però, si vedeva che facevano parte tutti della stessa specie… a prescindere dal colore della pelle e dall’accento.

E anche io ero come loro, omologata a loro.

E mi sono sentita incredibilmente sola perché attorno a me c’erano solo persone a cui somigliavo e in quella collettività mi sentivo sparire.

Quel fine settimana sono stata molto triste, perché avevo scoperto che nel mio futuro di quel momento, a pranzo non era possibile incontrare Klingon, Vulcaniani, Romulani o Ferenghi e, in più, come “terreste” non ero neppure troppo distinta.

…Peccato…

Tornando a casa, nel consueto appuntamento serale, mi ha molto colpito una specie di nome Borg.

I Borg sono una Collettività, ovvero sono un sistema composto da parti chiamate droni, una sorta di persone senza un pensiero personale ma che opera e si muove in funzione dell’insieme; i droni operano in comunione e accordo, senza alcun tipo di conflitto.

I Borg, ovviamente avendo tutti le stesse idee e le stesse esigenze, sono potentissimi: è quasi impossibile sconfiggerli e quando l’Enterprise li ha incrociati, la migliore soluzione si è sempre rivelata l’allontanamento strategico.

Il Borg tipo, quando incontra qualunque organismo diverso da sé dice: “Noi siamo Borg, voi sarete assimilati, la resistenza è inutile” (We Are the Borg. You Will be Assimilated. Resistance is futile”) e poi lo assimilano ovvero lo trasformano in Borg acquisendo, a favore della Collettività, tutte le conoscenze di quella specie.

E così, grazie a tutta questa esperienza assimilata, i Borg sono potentissimi e il loro obiettivo finale è la Perfezione.

Non verrebbe neppure da dire che sono cattivi, sono una Collettività e, in quanto tale, è difficile stabilirne la moralità: la morale ha a che fare col bene di uno e col male di un altro, in un viaggio per il miglioramento collettivo, il bene ultimo, che è nobilissimo, è il solo che conta.

I Borg sono quelli che certi filosofi contemporanei chiamerebbero “la specie” intendendo una collettività che opera e agisce all’interno dell’organismo epocale.

I Borg, quando per una serie di motivi si trovano ad essere tirati fuori dalla Collettività, soffrono tantissimo trovandosi a dover pensare a loro stessi come individuo.

Eppure, dopo che provano l’Individualità, ne restano in qualche modo diabolicamente sedotti.

L’individuo ai loro occhi è completamente smarrito: deve innanzitutto trovarsi un nome, accettare di essere un IO e non un NOI, scoprire di avere desideri differenti da quelli della Collettività, dover formulare pensieri propri e, quel che è peggio, si trova a confrontarsi con la contingenza della morte… cosa impensabile all’interno della collettività dove, se un drone smette di funzionare, le esperienze restano comunque nella collettività.

Ogni aspetto di questa specie offre spunti di riflessione e i Borg si rivelano un Simbolo potentissimo, laddove chiamiamo simbolo quel “piccolo” e “limitato” che si rivela universale, il granello di sabbia che rivela l’universo mondo.

Gli autori di Star Trek hanno tutta la mia stima e ammirazione, tra loro, vorrei poter avere ogni sera a cena chi ha inventato il personaggio dei Borg per poter parlare bevendo del buon vino rosso di come questa specie abbia tanto a che fare con noi e con la crescita spirituale e umana.

Noi che ci sentiamo al sicuro solo nelle collettività di un team di lavoro o di un gruppo Facebook, che siamo un unico organismo senza rendercene conto, che non vediamo la morte e, quando la contempliamo, ci spaventa, che non abbiamo idee difformi da quella dei nostri leader spirituali e miriamo a una perfezione senza contraddittorio; noi che cerchiamo la verità che ci dà un organismo fantastico più grande di noi e del quale ci fidiamo (chiamiamolo internet, tv, società, bibbia, corano…)

Noi che sentiamo che, se saremo tutti uniti, saremo invincibili e che ignoriamo e mettiamo a tacere le scomodità della nostra anima perché ogni giorno che passa il pensarla in modo diverso ci sempre inconcepibile.

Noi adesso siamo Borg e siamo stati assimilati, la nostra resistenza è stata inutile.

Ma se ne esce.

Quando incontriamo degli individui, possiamo essere salvati.

In genere sono gli umani che hanno questo desiderio tirare fuori l’Uno.

Non ci piacerà, ma l’ebrezza di sceglierci un nome che sia nostro e non dato da chissà chi, sarà così seducente che di nuovo, con grandissima difficoltà, confusione e paradossi, cercheremo la nostra perfezione che è da tutt’altra parte anche se non sappiamo neppure com’è fatta e in che consiste… e, nell’attesa di capire, si può andare in sala mensa a bere qualcosa con Klingon, Vulcaniani, Romulani o Ferenghi.

 


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Essere Principessa: la scomodità della vita.

C’era una volta un principessa,

questa principessa si trovava nel cuore di una tempesta.

Non sapeva ben dire come si era trovata in quella situazione ma, a dirla tutta, non era neppure troppo a disagio.

 Il vento soffiava, la pioggia cadeva e lei non vedeva a un palmo dal suo naso.

Era sola ma non aveva paura e sapeva bene cosa fare anche se non le era immediatamente visibile.

Ad un certo punto, durante il suo cieco vagare, iniziò a scorgere qualcosa che sembrava un castello.

Quando si avvicinò abbastanza da bussare alla porta, chi le aprì le chiese chi fosse.

“Sono una principessa”.

 Caso volle che in quel castello abitasse un principe che da tanto tempo cercava senza fortuna una vera principessa; tutte le principesse che gli si erano presentate come tali, non si erano rivelate all’altezza di quello che lui cercava.

Non erano abbastanza principesse.

 Il principe allora, dopo tanto cercare, e quando sembrava che fossero finite tutte le principesse del mondo, fu molto contento di accogliere la sedicente principessa e sperava che fosse la volta buona.

 La regina però, che era una donna navigata, prudente e furba, smorzò l’entusiasmo del figlio e gli disse che prima di sposare quella sconosciuta, lei avrebbe verificato che fosse veramente una principessa.

 Fece così preparare per la notte il letto della loro ospite:

 fece mettere 20 morbidissimi materassi per farla stare comoda e alla loro base, nascose un piccolo pisello secco, poi fece mettere sui 20 materassi venti grossi cuscini di piume e così la camera fu pronta.

 Si fece ora di andare a dormire e il mattino dopo il principe chiese alla sua ospite come avesse dormito.

 “in effetti, non bene.

Per tutta la notte non ho chiuso occhio, era come se qualcosa fosse sotto quei materassi, non ho trovato una sola posizione comoda, una situazione alla quale era impossibile abituarsi e, in più, quel qualcosa sotto quei materassi mi ha provocato un enorme livido blu e marrone”.

Fu così che la regina capì che quella era una vera principessa, infatti solo una principessa poteva avere una pelle così sensibile e acconsentì alle nozze.

 In effetti, la cosa migliore che ci possa capitare è di essere anche noi come la principessa.

La cosa migliore che possa accaderci è accorgerci che stiamo scomodi, che dormiamo male e sentiamo sempre qualcosa che ci lascia i lividi, nonostante i 20 materassi e i 20 cuscini.

 Perché le tante comodità delle nostre vite, le conciliazioni, le regole, le cose che “è meglio fare così” per non disturbare, le frasi che “è meglio non dire” per non essere sconvenienti… tutto quello che rende la vita più comoda e conciliante, più rassicurante, tutto quello che ci anestetizza (il letto), che copre le storture… tutto questo ci fa accettare uno stato che non è normale… ha come unico obiettivo quello di distrarci dal nostro essere “principesse”, creature che non hanno a che fare con le altre persone ormai inserite nel meccanismo del mondo.

 Non è normale che ci sia qualcosa sotto al materasso e probabilmente lo avremmo sentito anche noi; anzi, probabilmente lo abbiamo sentito anche noi, ma ci è sembrato così strano doverlo dire: abbiamo preferito stare zitti e sorridere dicendo “ho dormito benissimo, grazie”, per non dispiacere il nostro ospite, perché abbiamo pensato di essere noi esagerati, per buona educazione, perché “non era così importante”…

 E invece era importante.

 Auguro a tutti noi di essere perennemente scomodi, di non essere soddisfatti del proprio letto e di saperlo dire con fastidio, perché solo così saremmo in grado di essere delle “vere principesse” e affrontare le tempeste della vita senza quasi accorgercene, quasi con divertimento e spirito di avventura e di vedere chiaramente la strada anche se è nascosta.

 Come è il piccolo, così è il grande; come è la fiaba, così è la vita.


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Rincorrere sé stessi

La professoressa di Italiano ci aveva insegnato a cercare in ogni cosa, in ogni argomento, in ogni analisi, tre cose positive e tre cose negative.

È un grande esercizio di imparzialità, soprattutto se inizi a farlo da adolescente.

Sempre da adolescente ho deciso lucidamente che sarei stata felice e da allora mi sono impegnata sistematicamente a vedere il buono anche dove non c’era.

Ne sono soddisfatta.

La crescita però è fatta di tante fasi e sono sempre più raffinate.

Ad un certo punto bisogna essere pronti a chiudere la fase dell’”abbraccio incondizionato” e ad iniziare la fase del dissenso.

Capire quando esercitare questo diritto è facile: ci si basa sull’esperienza diretta e sull’ascolto.

Quando scegli di trovare sempre il buono e di farti piacere le situazioni a tutti i costi, rischi di trovarti anche in situazioni sbagliate che vanno contro il tuo essere.

Ed è giusto va fatto.

E poi bisogna smettere.

A lungo andare, inizi a sentire una crepa dentro di te e questa crepa mina l’integrità il tuo IO che piano piano minaccia di crollare.

Se nel corso della vita ti sei anche impegnato ad essere la persona che volevi essere, la tua concentrazione è su di te e le bricioline poi diventano una “spina nel fianco” che non ti fanno dormire la notte e così capisci che devi uscire da quella situazione e abbandoni relazioni, incarichi e luoghi.

Va bene, è come deve essere,

si tratta dell’unico modo per costruire esperienze.

Bisogna però fare attenzione a non crollare prima di andare via perché in quel caso, si resterà corrotti.

Sulla base dell’ascolto di noi e delle esperienze raccolte, ad un certo punto della nostra vita, è importante iniziare a dire “no a priori”, perché ormai sappiamo cosa ci piace e cosa no e cosa ci fa bene e cosa no.

Così io da oggi divento un po’ più intollerante.

Dico no alle forme urlate, ai camuffamenti, alle bugie, alle furbizie, alle scorciatoie, alle aggressioni, ai pettegolezzi, alle parole non mantenute, alle licenze poetiche, alle paure e alle minacce, a ciò che mi è scomodo, lontano e opposto.

Non vuol dire che siano in assoluto sbagliate, ma che non mi piacciono e quindi non mi ci avvicinerò facilmente e non mi farò avvicinare.

Senza giudizi universali, solo personali.

Da oggi mi avvicino più velocemente a me e metto da parte le esperienze già fatte.

Vi auguro, come capita a me, di avere tante persone che vi vogliano bene, che la pensino in modo diverso da voi ma che rispettino sempre la vostra opinione pur non abbandonando la propria.




Impresa sì, ma umanamente…

Team building e licenziamento 

i valori umani dell’imprenditrice Elisabetta Ruffino.

Le coincidenze sono degli avvenimenti che accadono normalmente ma che regolarmente ci lasciano senza parole.

Il termine coincidenza deriva dal latino “cumincidere” ovvero cadere insieme.

E così avviene che degli avvenimenti apparentemente separati e distanti cadono insieme davanti ai nostri occhi e lasciano un segno profondo nelle nostre vite.

Sono cose che ci stupiscono ma che, a conti fatti, sono perfettamente normali, comuni.

Sappiamo che accadono ma ci piace sempre fermarci a guardarle stupiti, un po’ come facciamo davanti ai fenomeni naturali: li guardiamo ammirati ma sappiamo che non c’è nulla di magico dietro, solo natura.

Bellissima, perfetta natura.

“Caso”, “fato”, “coincidenze”, “sincronie”, “ananke” … sono tutti termini filosofici e letterari che raccontano lo stupore di vedere l’armonia degli avvenimenti e la constatazione lucida della perfezione della realtà.

Personalmente a me le coincidenze piacciono, le aspetto proprio per guardare dove mi porteranno e a che punto arriveranno.

Le aspetto pronta e fiduciosa come Benjamin Franklin aspettava i fulmini col suo aquilone.

Questo articolo parla di un incontro casuale e di quello che mi ha insegnato.

Scrivo di questo insegnamento perché credo che possa essere uno spunto di riflessione, un esempio interessante e una boccata di buona speranza per chi legge.

Voglio raccontare questa storia perché porta in sé delle tracce, qualcosa che può riecheggiare nelle orecchie di chi legge e dare una prospettiva in più.

Chi cerca risposte, la maggior parte delle volte le trova per caso, spesso nelle parole che avrebbero dovuto avere tutto un altro contesto, a volte in un articolo.

Ma andiamo alla storia che voglio presentare.

È una storia che parla di persone che hanno delle aziende e che, attraverso questo strumento, lasciano un segno nella vita di altre persone.

Le riflessioni che riporterò non sono fantasticherie ma riflessioni concrete che hanno riscontro in circostanze effettive ed è questo il motivo della loro eccezionalità.

Mi piace osservare la vita umana e professionale di chi “costruisce lavoro”, scrutarne la realtà e cercare di guardare oltre, perché spesso parla di persone straordinarie.

In una società ideale, l’imprenditore ha una responsabilità sociale importante: deve migliorare la propria vita, quella dei propri dipendenti e quella dei propri utenti finali, i cosiddetti clienti.

La sfera del lavoro, dell’impiego, nell’economia del tempo e dello spazio, interessa una fetta della nostra vita molto grossa e “chi vuol fare la differenza” è chiamato a muoversi anche all’interno di questo campo.

Esistono persone che la pensano così e a me piace andare ad osservarle.

Lei si chiama Elisabetta Ruffino e siamo diventate amiche per caso.

Lei di Torino, io di Palermo, per qualche anno ci siamo incontrate per caso in giro per l’Italia, ci salutavamo da lontano ma niente di ché.

Era sempre così: lei arrivava e io andavo via.

Poi un giorno, per caso e senza un motivo, le ho mandato tramite un amico un biglietto con dei saluti, lei non lo sapeva e il giorno prima di riceverlo, senza un motivo, mi ha chiamata chiedendomi di incontrarci vicino Lugano pochi giorni dopo.

Così, per una serie di coincidenze, abbiamo iniziato a lavorare assieme.

Prima di allora non sapevo molto di lei, la conoscevo come “quella che faceva leggere ai suoi dipendenti i libri motivazionali prima di farli cominciare a lavorare”.

Lei non so come mi vedesse.

Elisabetta Ruffino, assieme a Paolo Pollacino il suo socio e complemento umano e professionale, si occupano di esami dei componenti per il settore dell’automotive.

Detta in parole più semplici, Motivexlab, la loro azienda, si occupa di fare dei test di sicurezza ai componenti dei macchinari in modo da evitare e prevenire eventuali malfunzionamenti pericolosi per l’utente finale e per l’azienda produttrice.

L’ulteriore particolarità di Motivexlab rispetto alle altre aziende dello stesso settore, è la velocità: gli esami richiesti vengono infatti consegnati entro 24 ore contro i giorni o le settimane richieste da altri.

Però quando ho iniziato a conoscere Elisabetta non si parlava di automotive, non lavoravamo neppure per una azienda italiana.

Lei era in un periodo di pausa e di ricerca di nuove sfide, io seguendo il filo della sua telefonata e mi ero fatta portare via dal mio vecchio lavoro e così, dalla Sicilia, ero andata a respirare un po’ di quell’aria alpina che, si diceva, facesse tanto bene.

Lavorare con Elisabetta è stata per me una delle tante cose belle della mia vita.

In termini concreti potrei dire che da Elisabetta, durante quei giorni, ho imparato come gestire uno staff, come prendermene cura, come interessarmi alle persone, come fare le riunioni, come delegare, come fare in modo che le persone diano sempre il meglio e seguano le loro vere vocazioni…

In termini concettuali ho imparato la fiducia, la stima, il tempo dedicato e la comunicazione, la voglia di fare andare le cose per il meglio, il piacere di godere di quello che ho attorno.

Non esiste miglior insegnamento dell’esempio.

E anche di questo che parliamo quando ci sentiamo: “team bulding e licenziamento”.

Due argomenti apparentemente in contrasto tra loro che in lei diventano la caratura umana e l’esempio imprenditoriale.

Senza ipocrisie, senza sotterfugi, senza bugie.

Una volta le ho chiesto: “come devo fare che tenere unita una squadra di persone che devono lavorare assieme?”

“Devi fidarti di loro, stimarle, dirglielo e pensarlo veramente”.

E, devo dire, che ha funzionato, perché quello che mi diceva aveva senso:

quando accettiamo le persone per quello che sono e ne vediamo il vero valore al di là delle nostre fantasticherie ed aspettative, capiamo che per fare un buon lavoro non dobbiamo cambiare chi ci sta attorno ma cambiare la nostra prospettiva.

Ovviamente può capitare che le persone non ci piacciano, ci facciano antipatia perché, magari, ci ricordano il compagno antipatico delle elementari, ma questo non ha a che fare con il lavoro che svolge quella persona ma con noi.

È questo il dovere del Leader: guardare le persone e vederle come tali, non come quello che noi vorremmo che fossero.

Tutti quanti vorremmo un nostro clone a fare le cose al posto nostro, ma non abbiamo a che fare con automi bensì con persone che, spesso, sono spaventate dai nostri atteggiamenti e dalla nostra insicura aggressività e, per questo, non eseguono un lavoro nel migliore dei modi.

Quando invece diamo fiducia alla persona e glielo diciamo, quella non solo si sentirà più sicura ma avrà voglia di dimostrarci che la nostra fiducia è ben riposta.

Forse il punto di vista di Elisabetta sembrerà un po’ troppo filosofico ma quando si ha a che fare con le persone, è importante uscire dagli schemi meccanici e guardare gli aspetti umani.

Ma entriamo un po’ più nello specifico, qualcos’altro che possa essere riprodotto anche all’interno dello staff di persone con le quali interagiamo normalmente.

Il presupposto fondamentale è che le persone, per lavorare bene, devono stare bene.

Quindi, in ingresso, dobbiamo considerare che, se quella persona ci piace e desideriamo che lavori con noi, deve essere pagata, deve avere delle sicurezze e un piano di crescita all’interno dell’azienda e non deve pensare di star subendo delle ingiustizie.

Sappiamo benissimo che, al di là delle belle parole dette da tanti, questo non è affatto un presupposto scontato.

Una volta definita questa base andiamo a vedere come Elisabetta si occupa di gestire il fattore umano all’interno dell’azienda e costruire così di una squadra.

Lei lo sa (e si comporta di conseguenza) che le persone che lavorano sono fondamentali per il buon esito dell’azienda.

Lei sa (anche se spesso le dispiace) che le persone non sono automi programmabili da lei, che ognuno ha il proprio carattere e le proprie vite.

Più persone lavorano all’interno dell’azienda, più saranno i caratteri diversi, in conflitto e le possibili antipatie.

Questa è una cosa da evitare e può essere fatto con la condivisione di un obiettivo.

La prima cosa che trasmette è che non bisogna temere se “l’ultimo arrivato” viene ad imparare il “tuo lavoro” perché chi apparentemente ti toglie lavoro, ti da al possibilità di crescere, di fare altro.

La paura che prende tutti quando arriva qualcuno a fare il nostro lavoro che rischiamo diventare inutili ma non vediamo che con più tempo a disposizione possiamo dedicarci ad incarichi e percorsi molto più gratificanti.

Dobbiamo accettare, per crescere, che tutti sanno fare il nostro lavoro meglio di noi.

È un concetto difficile da accettare ma è la strada per poter fare sempre meglio.

Team building è anche questo: permettere all’altra persona di farci crescere.

Spiega sempre Elisabetta e probabilmente è la strada giusta se Motivexlab, viene definita dai giornali la “piccola Google”.

Un’altra delle cose che hanno reso famosa l’azienda è il fatto che al suo interno ci sia una piccola palestra a disposizione dei dipendenti.

Il fatto di poter fare dell’attività fisica, oltre a tutti i vantaggi noti (abbassamento dello stress, aumento del benessere fisico, produzione di serotonina, ovvero del buon umore, la crescita dello spirito di squadra…), porta un altro vantaggio più sottile profondo e umano: improvvisamente il luogo di lavoro non è più il posto in cui il dipendente si sente “spremuto” per poter portare soldi al “datore di lavoro sfruttatore”, ma diventa il luogo in cui il tuo datore di lavoro ti permette di stare bene per poter dare il meglio di te.

E l’attiva età fisica non è l’unica delle attenzioni legate al benessere.

Mens sana in corpore sano scriveva Giovenale e, infatti, oltre a fare attività fisica, in azienda, si legge pure.

Ogni mattina, a Torino, prima di iniziare a lavorare, viene fatta una riunione alla quale partecipano tutti i dipendenti dell’azienda, si condividono successi e obiettivi, si pianifica la giornata lavorativa e si leggono dei brani di libri utili per indicare l’obiettivo comune del gruppo.

Da un po’ di tempo, c’è da dire, il momento della lettura del mattino ha assunto una conformazione vagamente campanilistica: in azienda si legge “Tutto e Subito” di Elisabetta Ruffino e Paolo Pollacino, è la storia di Motivexlab, di come è nata e come ha fatto a diventare quello che è.

Una squadra, per essere tale, ha bisogno di condividere uno scopo e questo non può essere solamente un valore economico o un oggetto.

L’obiettivo è quello di “salvare il mondo” come diciamo ogni tanto, scherzando ma non troppo, con Elisabetta.

L’obiettivo è cambiare la vita delle persone, cambiarla in meglio e ogni volta che uno dei suoi dipendenti lavora, pensa a questo: fare qualcosa di buono per sé e per gli altri.

Per Elisabetta e Paolo, fare impresa oggi in Italia vuol dire cambiare la vita a un piccolo numero di persone che entrano in contatto con loro e ne escono più simili a loro stesse.

E il licenziamento?

Il licenziamento, non ci si pensa mai, ha a che fare con l’identità della persona.

L’identità più profonda, quella che ha a che fare con le proprie ambizioni personali e con i propri desideri.

Spesso con Elisabetta ci siamo trovate a parlare di questo argomento.

Licenziare una persona è, per il tipo di imprenditori come lei e Paolo, un momento difficile e di crisi umana.

E così il momento in cui si capisce che una persona all’interno dell’azienda non è al suo posto, si affronta il problema e si guarda l’aspetto umano.

Sì perché, alla fine il punto è proprio questo.

Non si parla di lavoratori universalmente capaci o incapaci, ma si persone che sono al proprio posto o meno in quel ruolo o in quell’azienda.

Spesso ci troviamo a fare lavori che in realtà non ci piacciono, che non hanno a che fare con noi, li facciamo solo per accontentare mamma e papà, i coniugi e gli amici.

Spesso accettiamo un lavoro solo per la busta paga.

Ma tutti questi non sono ragioni valide per il nostro Essere, per la nostra Identità.

Un lavoro che non vogliamo fare ci logora e non viene bene come dovrebbe.

Ogni giorno diventa pesante e vedere i colleghi una tortura.

Ogni notte è insonne perché vediamo i nostri sogni allontanarsi.

Ovviamente alle persone arriva solo l’ultima parte: un lavoratore che non svolge bene il suo incarico oppure un lavoro odioso e annichilente.

In realtà c’è un aspetto umano molto più profondo.

E l’aspetto umano della filosofia aziendale e professionale di Motivexlab è l’attenzione per la persona prima che per l’incarico che ricopre.

In tanti fanno questa riflessione, di Elisabetta e Paolo a me piace che loro lo fanno per davvero.

Il momento del licenziamento non è un momento di fallimento del datore di lavoro e dell’impiegato.

Il momento del licenziamento è un momento di scoperta della propria vocazione per il dipendente e di sostegno per l’azienda.

Tante volte Elisabetta mi ha raccontato storie belle di dipendenti andati via per inserire un ipotetico sogno e poi tornare in azienda (dove vengono riaccolti a braccia aperte), di dipendenti che vanno via perché desiderano mettersi in proprio o seguire altri sogni, oppure di ex dipendenti aiutati da loro a reinvestirsi in altre aziende.

Storie belle di una Italia che fa impresa in modo bello, umano, storie che ci dicono che esistono aziende in cui è bello lavorare e persone che pensano ancora che è bello  (anche se difficilissimo) lavorare in squadra.

Apparentemente sembrano poche ma mi riservo di raccontare altre belle storie come questa.

Storie che raccontano di aziende che non annichiliscono ma arricchiscono.

Esempi veri di una speranza ben riposta.

 


Puoi leggere altri post di Chiara Sparacio su https://chiarasparacio.wordpress.com

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Riferimenti.

È possibile avere ulteriori informazioni su Elisabetta Ruffino e Paolo Pollacino a questi link

www.motivexlab.com

https://www.amazon.it/Tutto-subito-Paolo-Pollacino/dp/B071S6RKZC




Chi ha ferito il Garibaldi?

Storia di come, forse, quando si parla  dell’Istituto agrario di Roma, il primo pensiero non è che venga fatto il bene della scuola.

Questo è il primo di una serie di interventi / interviste che Betapress farà nel prossimo periodo per sostenere la scuola agraria Garibaldi, che merita di esistere e di essere riconosciuta sia nella sua storia che nell’impegno che centinaia di persone negli anni hanno messo per mantenerla al massimo dell’eccellenza. (NdR)

In principio sembrava una storia facile.

Pareva che si dovesse raccontare la bella storia di uno storico e prestigiosissimo istituto agrario delle capitale italiana.

Si era pianificata una storia di crescita, lustro e buone speranze per il paese; una di quelle storie da leggere con leggerezza e speranza sotto l’ombrellone.

Le professioni del futuro che faranno grande il nostro paese: il ruolo dell’agronomo.

E invece è bastato andare a guardare un po’ più da vicino fatti e numeri per vedere che dietro la storia dell’Istituto Agrario Garibaldi di Roma c’è del marcio.

Tanto marcio.

Talmente tanto che abbiamo dovuto rinunciare alla storia da ombrellone e sperare di fare in fretta a districarci tra la marea di notizie che hanno iniziato a venir fuori ogni giorno.

È bastato sollevare appena il coperchio di questa storia per essere letteralmente investiti da informazioni, telefonate (alcune anche che ci invitavano a desistere dallo scrivere l’articolo), documenti e materiali di ogni tipo.

L’istituto nasce alla fine del 1800, con i primi del 1900 trova una sulla collocazione geografica definita e diventa fiore all’occhiello della formazione tecnica.

È bello il Garibaldi.

Circa 100 ettari di terreno produttivo sul parco dell’Appia Antica, attraversamenti con sentieri, integrato nella vita dei quartieri limitrofi, convitto, scuola, maneggi, stalle e spazi costruiti per la  miglior crescita e formazione dei periti agrari.

Era bello il Garibaldi.

All’inizio del 2000 qualcosa cambia.

Nell’estate del 2005, all’interno del piano di cartolarizzazione dell’allora ministro Tremonti, i terreni del Garibaldi, vengono messi all’asta.

Per puro caso un gruppo di docenti si accorge del bando e si mobilità immediatamente: telefonate, riunioni e azioni concrete; chi amava quell’istituto non ha permesso che venisse chiuso.

Questa è una cosa che troveremo tante volte nel corso di questa storia (che non racconteremo tutta oggi): chi ha frequentato l’istituto ha con esso un debito di fedeltà e amore che non intende tradire.

Tanti di quelli che hanno studiato al Garibaldi sono tornati ad insegnare lì spendendosi attivamente e hanno con esso un legame quasi filiale.

Il Garibaldi salvato cresce.

Una delle persone che si era occupata di salvare i terreni dall’asta, viene nominata dirigente scolastico.

È il prof. Franco Sapia, ex studente del Garibaldi perito agrario e dottore in Agraria.

Intanto, non senza qualche ragionevole problema, l’Istituto cresce: cresce l’azienda agricola, crescono le attività, si collabora con una cooperativa sociale, viene creata una fattoria didattica, arrivano premi per il latte e per i prodotti, i capi di bestiame crescono e prosperano, alcune associazioni animaliste, addirittura, affidano dei capi all’Istituto affinché li protegga dalla vendita o dal macello, ci sono inoltre borse di studio e progetti internazionali: 

l’Istituto Garibaldi è una eccellenza. 

Gli studenti iscritti superano nel 2016 il numero di mille.

Terminato il mandato del prof. Sapia, riceve l’incarico la prof.ssa Patrizia Marini, diplomata presso l’Istituto Superiore di Educazione Fisica e laureata in scienze motorie.

Come è prevedibile che accada quando cambia il dirigente scolastico, cambiano anche le priorità e le modalità gestionali del Garibaldi.

La professoressa Marini dal 2017 traccia e segue un nuovo piano.

Noi di betapress.it abbiamo intervistato la professoressa Marini e molti degli attori coinvolti, ed in questo primo articolo pubblichiamo proprio l’intervista all’attuale Dirigente del Garibaldi, prima fra tutte quelle che abbiamo realizzato, per avere un bilancio delle sue azioni, dei suoi motivi e delle sue operazioni, nel corso dei primi due anni pieni di mandato come dirigente scolastico. Proseguiremo poi per capire come mai questa scuola è in declino, o almeno così sembra, terra di vendette e giochi di potere, abusi e soprusi.

 


Nota bene:

La professoressa è stata con noi gentilissima e disponibilissima ma, stranamente, non terminerà i tre anni di mandato quindi non sarà lei la preside del Garibaldi per l’anno scolastico  2019-2020.


Ovviamente, per prepararci all’intervista, per evitare di fare domande banali e annoiare così chi ci ha dedicato il suo tempo, abbiamo studiato, indagato (sì, ci siamo rivolti anche ad una agenzia di investigazioni private) e letto più informazioni possibili, cosa della quale, ovviamente, era stata informata anche il dirigente scolastico.

Ed ecco che arriva il nostro imbarazzo e sfuma il progetto di scrivere un articolo leggero e positivo.

Il fatto è che su molti punti le informazioni in nostro possesso e le risposte del dirigente scolastico non erano perfettamente in linea.

Noi di Betapress.it riteniamo che la riflessione sul Garibaldi non debba avere una matrice da curva da stadio con schieramento per l’una o per l’altra parte, o tifo per il personaggio più simpatico; ci sforzeremo quindi in questo e nei successivi articoli, di tenere una linea quanto più possibile neutrale anche perché, su molti punti, dovrà essere poi la legge a dire l’ultima parola.

Riportiamo qui l’intervista come è stata fatta.

Domanda: Come mai il numero dei iscritti al Garibaldi nel corso di questi  ultimi due anni è calato da 1200 a 900?

Risposta: il Garibaldi non ha mai avuto 1200 iscritti, questa è una informazione errata. Quando sono arrivata io c’erano circa 950 iscritti, lo scorso anno erano circa 900. La differenza di 50 studenti fa parte dei normali  andamenti dovuti al calo demografico.

Nota di ricerca: nel 2017 dai registri di Istituto risultano più di 1000 iscritti

Nel suo piano di riorganizzazione ha deciso di chiudere l’azienda agricola: le vacche sono deperite, il frantoio chiuso, il bestiame sparito, quali sono i motivi di queste scelte?

Le scelte sono dovute ai problemi di gestione non adeguata degli anni precedenti che sono state in passivo ininterrottamente per 15 anni. (questo fatto è strano perché per i regolamenti di contabilità delle scuole dopo tre anni si sarebbe dovuta chiudere l’azienda agraria. NdR)

Da quest’anno, invece, con la mia gestione, per il primo anno, abbiamo chiuso in attivo.

Non c’è bestiame perché la stalla non era a norma ed era tenuta aperta senza tener conto delle indicazioni dell’ASL.

In più ho scelto di dedicare tutti i terreni per i seminativi così da poterli utilizzare a pieno.

Le vacche erano un investimento deficitario perché avevano bisogno di mangimi mentre i seminativi sono una azione in attivo.

Per quanto riguarda il frantoio, è chiuso ma ne verrà aperto uno nuovo tecnologicamente più avanzato.

Il mio lavoro in questi anni è stato quello di rimettere in sesto il  business plan del Garibaldi.

Nota di ricerca: dalle nostre ricerche risulta che le stalle non erano a norma perché, tra le altre cose, la dirigente chiedeva ai dipendenti la pulizia di queste a mano con le pale anziché l’utilizzo di appositi bobcat.

Alcuni dei capi affidati all’istituto con l’impegno di prendersi cura di loro a vita, sono stati invece ceduti.

Dal primo anno dei suo incarico ad oggi circa 60 persone tra docenti e personale di segreteria hanno fatto domanda di trasferimento, come mai?

Non mi risulta siano andate via tutte queste risorse; alcuni sono andati in pensione, altri si sono avvicinati a casa loro, nulla che non abbia a che fare con la normale vita delle scuole

Nota di ricerca: ecco i numeri risultanti delle richieste di trasferimento dai documenti consultati

26 docenti in uscita nel corso dell’anno scolastico 2017/2018

11 docenti in uscita nel corso dell’anno scolastico 2018/2019

13 ATA in uscita nel corso dell’anno scolastico 2018/2019.

Prima di fissare l’intervista mi ha chiesto di anticiparle a grandi linee i punti di interesse e quando ho nominato la cooperativa, lei mi ha detto che non esiste nessuna cooperativa.

A me, dalle informazioni raccolte, risulta l’esistenza della cooperativa, può chiarirmi questo punto?

La cooperativa c’è ma non ha nulla a che fare con il Garibaldi. Già l’ex dirigente scolastico Franco Sapia aveva interrotto i rapporti con essa.

Ho però attivato rapporti per la creazione di una nuova cooperativa da inserire all’interno delle attività del Garibaldi.

Nota di ricerca: in questa sede riportiamo solo quando indicato sul sito della cooperativa “fantasma”:

“La storia della Cooperativa sociale integrata agricola Giuseppe Garibaldi è parte ormai della centenaria storia dell’Istituto Tecnico Agrario “Giuseppe Garibaldi” […] è nata come laboratorio della scuola per rispondere alle esigenze degli allievi con disabilità e delle loro famiglie, […] è nata […] per la realizzazione di un progetto di inclusione scolastica degli allievi con Autismo iscritti all’Istituto “Garibaldi”. (https://garibaldi.coop/cosa-facciamo/)

È chiaro a chi ha avuto la pazienza di leggere fino a questo punto che la comunicazione non è così collimante con i fatti e non è facile definire la verità.

La verità per noi sta solo nelle carte ufficiali e contiamo di trovarla nelle sentenze dei giudizi in corso.

L’impressione però che si ha leggendo le carte relative alla storia del Garibaldi (e non delle persone) è che forse sull’Istituto ci sono interessi ben più grossi; è ricorrente infatti l’idea di far chiudere il Garibaldi per poter prendere, vendere e riutilizzare quei 100 ettari di terreno nel centro di Roma (a chi non interesserebbero??? NdR) che già due volte si è cercato di mettere all’asta.

Sarebbe brutto se fosse così (ma sembra proprio così NdR), perché con quelle proprietà verrebbero venduti anche l’impegno, la fatica e le grandi speranze degli studenti, dei professori e di chi, fino ad oggi ha amato questo Istituto.

“C’è del marcio in Danimarca”, Betapress andrà avanti e scoverà tutto quello che c’è da scoprire, non ci fermeremo, abbiamo già ricevuto telefonate con velate minacce per desistere … lasciate stare, vi mettete contro i potenti, non sapete cosa vi possono fare … ebbene lo sappiamo benissimo lo hanno già fatto non è la prima volta, ma ci siamo stufati marci di vedere questo malaffare imperversare, coperto da mantelli di ermellino che nascondono cadaveri puzzolenti, noi tireremo fuori tutto, per la scuola, per chi ci lavora e ci ha buttato l’anima, per il nostro paese che può davvero farcela solo se la scuola sarà sempre più efficace, raggiungendo quell’eccellenza che era tipica del Garibaldi. (NdR)

Richiesta ai lettori:

betapress.it pubblicherà altri articoli sul Garibaldi, sulla sua storia e sulle sue sorti.

Chiediamo a chiunque abbia notizie e voglia collaborare anche in forma anonima di contattare l’indirizzo info@betapress.it 




La verità ha tante bocche

– Oh… Come è bello… Come hai detto che si chiama?

– Oceano 

– … Oceano… E hai detto che lo hai inventato tu?

– Propriamente 

– … Che meraviglia… Ma come hai fatto?

– Ho studiato, ho viaggiato molto, ho fatto esperimenti sulla mia pelle.

Quindi ho creato l’oceano.

– Oh… 

– Non è stato facile sai?

Questo oceano è unico.

– Una volta però ho sentito parlare di qualcosa del genere… Non ricordo bene… è possibile?

– Certo che no. 

– Eppure… Mare… Si chiamava così…

– Ah il mare… Ma quello lo conoscono tutti e oltre a non essere niente di speciale è pure tutto sbagliato.

– Tutto sbagliato? Che vuol dire?

– Vedi, tu adesso sei qui con me e stai osservando l’oceano. 

L’oceano è una enorme distesa di acqua salata che io ho alimentato goccia dopo goccia inserendo pesci di vario tipo, alghe e crostacei di ogni forma

– Capisco 

– Per non parlare dei coralli e dei molluschi, riesci a vederli?

– Bhé non riesco ad avere una visione di insieme perché è la prima volta che mi trovo davanti all’oceano ma è senza dubbio impressionante.

– Beh imparerai a conoscere l’oceano col mio aiuto e vedrai che ho ragione:

dietro questa massa d’acqua c’è proprio un gran lavoro.

– Ok, ma qual è la differenza tra questo è il mare?

– Hai detto che non hai mai visto il mare?

– Mai 

– Ma ne hai sentito parlare?

– Sì ma non ricordo bene, in modo confuso

– Bene, il mare è una enorme distesa di fango marrone, ha acqua salmastra e non ha vita al suo interno. 

Le acque sono torbide e se provi a bagnarti vai incontro a morte certa.

 

– Davvero?!

– Davvero.

– Io però avevo capito che il mare era bello e faceva pure bene, ti dirò che dalle descrizioni me lo immaginavo anche un po’ come questo oceano…

– Ti hanno ingannato! 

Venditori di fumo. 

La verità l’hai davanti ai tuoi occhi: questo è l’oceano e l’ho fatto io. 

Il mare è un abbaglio per allocchi e tu stai cadendo nella trappola di chi ti vuole ignorante.

– Povero me 

– Sí povero te, ma ci sono qua io e c’è l’oceano. 

Vuoi fare un bagno?

– Posso?

– Ma certo.

– Come è bello e come fa star bene, mi sento leggero e posso fare cose che non ho mai fatto.

– Vero, ma devi stare attento; ci sono delle regole per nuotare ed io te le insegnerò.

– Come fai a conoscere queste regole?

– Le ho create io quando ho creato l’oceano.

– Sono stato proprio fortunato a conoscerti 

– Puoi dirlo forte.

E ora lascia che ti racconti con la mia voce la verità… Bada però: non avrai anche tu intenzione di creare l’oceano?

– No, in verità… E poi mi è parso di capire che l’hai inventato tu…

– Proprio così infatti…

E ora siediti qui senza muoverti e ascolta la mia verità.

—–

Racconto fantatico ispirato a chi vuol far credere di aver inventato l’Oceano e vuol metterci paura del mare.




Guardando il Vajont

La brama di denaro compra l’intelletto dei vanesi a scapito della vita degli innocenti.

Guardiamoci da noi stessi quando accettiamo condizioni che comprano la nostra anima perché le nostre coscienze dovranno sostenere il prezzo che innocenti fiduciosi hanno pagato.
Badiamo bene a ciò che siamo perché se cederemo, non saranno loro gli scemi creduloni ma noi i colpevoli predatori sanguinari.

Diga del Vajont
9 ottobre 1963
Disastro causato dalla cupidigia umana.