il silenzio degli innocenti … e dei colpevoli.

La strage degli innocenti, anziani, però…

Anziani, spesso con diverse patologie e non autosufficienti, ricoverati in strutture al massimo della loro capienza, con familiari e visitatori che entrano ed escono dall’edificio tutti i giorni.

Gli elementi per rendere le Residenze sanitarie assistenziali (Rsa) dei moltiplicatori del contagio c’erano tutti.

Ora, un’ indagine nazionale sul contagio COVID-19 nelle strutture residenziali e sociosanitarie realizzata dall’Istituto Superiore di Sanità, in collaborazione con il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, fotografa la situazione all’interno delle strutture.

Su un totale di 4629 Rsa in Italia, di cui 2166 contattate dall’Iss, 577 hanno risposto alle domande, il 24% sul totale delle strutture nel Paese.

Secondo la ricerca, su 44.457 residenti (in 572 strutture, al 1° febbraio 2020) fino alla data di compilazione del questionario (tra il 26 marzo e il 6 aprile) i morti sono 3.859, l’8,4% (nel calcolo del tasso di mortalità sono stati compresi i nuovi ingressi dall’uno di marzo).

La Lombardia, con 1.822 decessi calcolati da febbraio, è in assoluto la regione che ha registrato più morti nelle residenze, a grande distanza da tutte le altre regioni.

Il Veneto è seconda per numero di morti (760).

La Lombardia è anche la regione che in Italia presenta la maggiore concentrazione di case di cura per anziani (677), seguita sempre dal Veneto, che ne ha 521.

La percentuale di decessi sugli ospiti delle strutture in Lombardia è del 47.2%, quella del Veneto del 19.7%.

A livello nazionale, dei 3.859 soggetti deceduti, 133 erano risultati positivi al tampone e 1.310 presentavano sintomi simil-influenzali.

 Il 37.4% dei morti aveva i sintomi del Covid-19.

Il tasso di mortalità fra i residenti, considerando i decessi legati al Covid-19, è del 3.1% a livello nazionale, ma sale fino al 6.8% in Lombardia.

«Da un ulteriore approfondimento, risulta che in Lombardia e in Liguria circa un quarto delle strutture (rispettivamente il 23% e il 25%), presenta un tasso di mortalità maggiore o uguale al 10%», spiega il rapporto.

 

Il caso Lombardia 

In Lombardia, il 51.3% di coloro che erano positivi al Covid-19 e che presentavano sintomi, è morto.

Al 6 aprile, in Lombardia risultano ancora 163 positivi al Covid-19 (risultati da tampone) nelle strutture del territorio.

Nella regione, il 49,7% dei deceduti è morto tra il 16 e il 31 marzo.

L’assessore alla Sanità della Regione Lombardia, Giulio Gallera, in conferenza stampa ha dichiarato di aver diffuso un primo documento di linee guida destinate alle Rsa del territorio il 23 febbraio, indicando alle strutture di limitare fortemente gli accessi dei visitatori esterni.

Una seconda comunicazione l’8 marzo, per bloccare totalmente le visite dei parenti e prescrivere che tutti coloro che avevano una sindrome simil-influenzale fossero isolati, a prescindere dal tampone.

In alcune strutture la chiusura però è arrivata tardi: il quotidiano di Pavia La Provincia Pavese scriveva il 21 marzo «chiuse da oggi le Rsa Pertusati e Santa Croce».

A Milano sta facendo discutere il caso del Pio Albergo Trivulzio, la più grande residenza sanitaria assistenziale d’Italia, dove secondo un’inchiesta di Repubblica si è registrato un numero di morti anomale e i contagi non sono stati comunicati.

Il Trivulzio in una nota si è giustificato dicendo che su un totale di 1.012 persone all’interno della struttura, a marzo si sono registrati 70 decessi, in linea con quelli dell’anno precedente.

La procura di Milano ha aperto un’inchiesta mentre il viceministro alla Sanità Pierpaolo Sileri ha annunciato di avere mandato gli ispettori.

Anche la direzione regionale ha voluto istituire una commissione esterna di controllo, annunciata all’inizio di questa settimana.

 

Tamponi e mascherine: le Rsa senza protezioni 

Secondo l’Istituto superiore di sanità, le Residenze sanitarie assistenziali «sono strutture importanti e fragili nella dinamica di questa epidemia. Oltre alle misure in essere è molto importante adottare una speciale attenzione nella prevenzione e controllo».

Ma i problemi sono molti, in Lombardia e non solo.

Secondo la ricerca dell’Iss, a livello nazionale (547 Rsa rispondenti) l’85.9% delle strutture ha riportato la mancanza di Dispositivi di Protezione Individuale, mentre il 17.7% ha riportato una scarsità di informazioni ricevute circa le procedure da svolgere per contenere l’infezione.

L’11.9% segnala una carenza di farmaci, il 35.1% l’assenza di personale sanitario e l’11.3% difficoltà nel trasferire i residenti affetti da COVID-19 in strutture ospedaliere.

E’ evidente che le Rsa non erano preparate a gestire l’emergenza, le Rsa sono luoghi dove si accolgono persone anziane non autosufficienti e pluripatologiche, non sono ospedali.

Pensare che il Covid-19 non potesse entrare lì è stato l’errore più grave. Bisognava cominciare a preparare molto prima i gestori su cosa fare quando il contagio sarebbe arrivato.

Ma fino a due settimane fa, lo sguardo di Regione Lombardia, è andato solo in direzione degli ospedali, dopo quasi un mese e mezzo che il contagio era avviato», dice Valeria Negrini, presidente di Confcooperative-Federsolidarietà, l’ente che unisce 1200 cooperative che svolgono servizi nel terzo settore, tra cui l’ambito delle Rsa, nel territorio lombardo.

Nelle Rsa della cerchia di Confcooperative-Federsolidarietà, i problemi ricalcano quelli sollevati dall’Istituto superiore di sanità.

«Le consegne di mascherine e dispositivi di protezione stanno migliorando, ma non in maniera sufficiente. I tamponi sono ancora limitati, ci si è concentrati sui casi sintomatici e non c’è stato tracciamento dei potenziali positivi.

Solo dieci giorni fa si è iniziato con le ATS che hanno iniziato a chiedere alle strutture quanti tamponi avessero bisogno per avviare un primo screening di casi sintomatici, paucisintomatici e di contatti a rischio di queste persone», spiega Negrini.

Anche per il personale sanitario si riscontrano problemi simili a quelli degli ospedali.

«Non è così chiaro se il test sia estendibile a tutti gli operatori», dice Negrini.

«Le ATS chiedono la lista dei paucisintomatici da tamponare, ma ufficialmente solo il personale che rientra dalla quarantena va tamponato per essere sicuri che non sia più contagioso».

Secondo il sondaggio Iss, su 560 strutture sul territorio nazionale, il 17,3% ha dichiarato una positività per SARS-CoV-2 del personale della struttura. In Lombardia questa percentuale sale al 34.6%.

Anche l’isolamento costituisce un problema per molte strutture:

se a livello nazionale il 47% delle Rsa dichiara di poter disporre di una stanza singola per i residenti con infezione confermata o sospetta, o stanze dove poter mettere più di una persona (30%), il 24.9% dichiara di avere difficoltà nell’isolamento dei residenti affetti da Covid-19.

L’operazione è difficile soprattutto per le strutture più piccole (a livello nazionale, la media è di 80 posti letto a struttura).

«Nelle strutture con 40 o 50 posti spesso non ci sono gli spazi per riorganizzare», spiega Negrini.

Negrini denuncia inoltre come non sia stato fornito il personale medico adeguato a trattare i casi di Covid.

«Pneumologi e infettivologi sono figure fondamentali.

La Regione deve dire alle ASST (Aziende socio sanitarie territoriali, ndr) di fornire consulenza specialistica e personale specifico alle Rsa, e deve stabilire che vada fatta per tutto il territorio lombardo».

Nell’indagine dell’Iss, su 568 strutture che hanno risposto alla domanda, il 63.9% dice di non aver ricevuto una consulenza ad hoc per la gestione clinica e/o di prevenzione e controllo per COVID 19.

 

Negrini: «La Regione ha sbagliato a usare le Rsa per i pazienti Covid»

Negrini definisce inaccettabile la richiesta da parte di Regione Lombardia alle Rsa di accogliere pazienti Covid-19 per alleggerire la pressione sugli ospedali:

una questione sollevata anche dal vicepresidente del consiglio regionale lombardo Carlo Borghetti e dal capo delegazione Pd in commissione sanità Gian Antonio Girelli.

L’assessore Gallera, in conferenza stampa il 7 aprile, ha detto:

il numero di pazienti Covid positivi trasferiti in Rsa è stato «limitatissimo», 150 pazienti spostati in 15 strutture

le persone sono state collocate in palazzine e padiglioni separati, con personale dedicato e solo su disponibilità delle singole Rsa

questa scelta «ha salvato delle vite».

Ma per Negrini «la richiesta in sé aveva una logica sbagliata.

Qualche Rsa si è contagiata per aver accolto pazienti Covid».

Regione Lombardia, peraltro, ha chiesto disponibilità alle Rsa ad accogliere pazienti non classificati come Covid (ma potenzialmente positivi, provenendo dall’ospedale), il che potrebbe rappresentare un’ulteriore fonte di contagio all’interno delle strutture.

La situazione è ancora critica.

«Il tampone viene fatto solo in alcuni casi.

Le morti sono attribuite al coronavirus solo se risulta un tampone positivo.

Che ci sia una sottostima nel numero di morti è indubbio», ha detto Giovanni Rezza dell’Iss.

G.V., un infermiere di una residenza privata convenzionata a Cinisello Balsamo, racconta che un intero piano della Rsa in cui lavora è diventato un reparto Covid.

Ci lavorano 6 infermieri, un medico e operatori assistenziali (OSS e ASA), per 109 ospiti ed hanno cominciato a fare i tamponi ai pazienti soltanto a partire da questa settimana.

Per il momento ne sono stati selezionati 8, nonostante il numero dei sospetti sia molto superiore.

Tutti sono risultati positivi, e quattro di questi sono già morti.

I dpi inizialmente erano «inesistenti», dice G.V.

Avevano solo mascherine chirurgiche usa e getta che hanno tenuto per due giorni di fila.

Ogni settimana muoiono 3-4 persone, ma nessuno è ancora stato portato in ospedale, in parte perché i familiari si sono opposti, in parte perché la direzione sanitaria ha ritenuto che intubarli fosse inutile.

Lo stesso G.V. ha probabilmente contratto il Covid una decina di giorni fa. Con la febbre a 37,5, è stato mandato a casa e messo in isolamento fiduciario per 14 giorni.

Nel frattempo, un’altra sua collega si è ammalata.

Facevano già turni da 12 ore.

Lui dovrebbe tornare al lavoro alla fine di questa settimana: sarà tra i primi a cui viene fatto il tampone.

Nel frattempo, la struttura è stata segnalata all’ATS.

«A questo punto, al rientro mi aspetto di tutto», dice.

E noi di betapress con lui, perché la strage degli innocenti, anziani, continua, ora dopo ora, giorno dopo giorno…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Calo dei contagi???

I Conte non tornano… sapevamo già tutto dal 2006.




JON BON JOVI: I LUSTRI(NI) DELL’HAIR METAL

 

 

Molti anzi… moltissimi anni fa con la mia band di allora, i Casual Connection Crew, iniziavo a comporre testi e canzoni rigorosamente in inglese con l’inseparabile Gas (amico prima e tastierista poi, con cui collaboro dal lontano 1987).

Nei nostri concerti suonavamo però per la maggior parte cover di artisti internazionali come U2, Police, R.E.M., Ramones, AC/DC… e anche Bon Jovi!

Erano i tempi di Slippery When Wet e dell’esplosione dell’“Hair Metal” e in nessuna performance live dell’underground nostrano di quegli anni mancava in scaletta un brano di John Bongiovanni.

Origini siciliane Jon, nato e cresciuto nel New Jersey, iniziò sin da piccolo a cimentarsi con la chitarra e la voce, strumento che utilizza da allora in modo magistrale.

Profondamente radicato nella cultura americana, Jon cresce riflettendo la musica e soprattutto la moda del tempo ed ispirandosi a Mozart, Bach e a Big come Aerosmith e anche Bruce Springsteen, suo “vicino” di casa, con cui il prossimo 22 aprile suonerà assieme in remoto per raccogliere fondi da destinare agli ospedali del New Jersey in emergenza da Covid-19.

Oltre 130 milioni di dischi venduti nel mondo, Bon Jovi ha girato l’intero globo con oltre duemila concerti in 50 paesi, collezionando numerosi premi e guadagnandosi nel 2018 un posto di diritto nella Rock and Roll Hall of Fame.

Sono certo che i puristi del Rock e del Metal siano d’accordo con me nell’affermare che Jon Bon Jovi sia stato uno dei creatori di una nuova stagione della musica targata USA.

Già negli anni Settanta la rivoluzione del “Glam Rock” fece la fortuna di artisti e di band come i T. Rex, David Bowie, Roxy Music e perfino Queen e la novità era legata più al look (paillettes, trucchi esagerati, e frange colorate erano le divise dei glammers unite ad una sensualità quasi feminea; n.d.a.) che non alla musica.

Ma è nella seconda metà degli anni Ottanta che l’Heavy Metal inizia la sua deriva (se così si può dire) verso il Glam ed il Pop.

Così nasce l’”Hair Metal” che fu portato al successo dai Bon Jovi e da band che adoro come Def Leppard, Europe, Twisted Sister, Poison, Mötley Crüe, Krokus, Ratt, W.A.S.P., Skid Row, Cinderella e molte altre ancora. Caratteristica fondamentale di un “Hair Metal Band” che si rispetti è l’esaltazione della potenza sonora delle cosiddette “Ballads”, lentoni strappalacrime mielosi e sdolcinati che tradizionalmente erano legati quasi esclusivamente alla musica pop.

Voglio citare anche i Dokken di Don Dokken (voce) e George Lynch (chitarra), che sono una delle formazioni più longeve del genere “Hair Metal” nei quali all’inizio degli anni Duemila ha militato un mio caro amico Alex “Spillo” De Rosso (a breve su Betapress la sua intervista; n.d.a.).

Tornando a metà degli anni Ottanta, mentre Jon Bon Jovi riscuoteva un successo planetario, i Gun’s n’Roses spopolavano con Appetite for Destruction distanziandosi dal genere “Hair Metal”.

Il fenomeno iniziava infatti la sua rapida discesa fino a scomparire quasi del tutto soppiantato dal Grunge, fenomeno innovativo nato a Seattle nei gloriosi anni Novanta.

Un breve e fortunato ritorno dell’“Hair Metal” si è avuto pochi anni fa con l’avvento di successi planetari come quelli degli Ark e dei Darkness. Bon Jovi virando in modo molto intelligente ha mantenuto negli anni un sottile filo con le sue origini “Hair”, riconvertendo la sua musica che gli permette ancor oggi un grandissimo successo di vendite e pubblico.

Vi lascio con la splendida “Ballad” Wanted Dead or Alive, Rock Forever!

 

https://www.youtube.com/watch?v=SRvCvsRp5ho

 

PERTH

UN THE CON SKARDY: la musica del cuore.

 




Scuolexit???

Il ritorno a scuola

Sembra proprio che l’Europa non esista neanche più sulla carta.

Non c’è un punto di contatto, tra i diversi stati membri europei, né sulla gestione dell’emergenza sanitaria, né sulle risposte alla recessione economica, né sulla ripresa delle attività lavorative.

Basta guardare cosa sta succedendo alla scuola.

In Italia, epidemiologi e medici, chiamati a dare consulenza al governo italiano, propendono per la chiusura delle scuole fino a settembre.

Il Miur si interroga su come riprendere le attività scolastiche salvaguardando le misure di sicurezza, prima di tutte il distanziamento sociale, ma non ha né certezze sulla didattica a distanza, né verità sull’organico in presenza.

In Francia, invece, si ritorna a scuola a maggio.

Ad annunciare un graduale rientro in classe è stato il presidente francese Emmanuel Macron nel suo messaggio ai francesi.

Il ministro dell’Istruzione Michel Blanquer ha precisato che sarà progressivo e “non da un giorno all’altro”.

Il criterio seguito dal governo francese sarà soprattutto sociale: saranno gli alunni delle zone più in difficoltà a riprendere prima degli altri.

“Bisogna salvare gli studenti che potrebbero andare alla deriva a causa del confinamento”, ha avvertito Blanquer, aggiungendo “Sono le fasce più fragili che ho innanzitutto in testa”.

Viceversa, in Danimarca, tutti a scuola dal 15 aprile

 

A fare la scelta più drastica sono stati i danesi: la premier Mette Friedriksen ha annunciato di riaprire asili nido e scuole dell’obbligo da mercoledì 15 aprile.

L’idea del governo danese è che per riprendere una vita normale, chiedendo ai genitori di tornare a lavorare è necessario che i bambini e i ragazzi tornino in classe.

Il governo di Copenhagen è pronto a innestare la retromarcia nel caso in cui il numero dei contagi, ora basso, dovesse crescere di nuovo.

 

Da mercoledì dovrebbe scattare la fase due anche in Norvegia: riaprono asili nido e scuole primarie.

 

In Spagna, si spera di tornare a scuola tra maggio e giugno

 

La Spagna che è stata colpita gravemente dal Coronavirus come l’Italia sta da alcune settimane riflettendo sulla questione dei giovani e dell’educazione.

La settimana scorsa si è riunita la commissione che si occupa dell’emergenza e l’indicazione è di provare con aperture scaglionate, diverse da regione a regione a seconda della condizione dell’epidemia, a partire da maggio.

A Madrid sperano di cominciare a riaprire a giugno, non tutte le scuole ovviamente. Ma il messaggio è positivo.

 

In Germania la decisione definitiva non è stata ancora presa (è prevista mercoledì 15), ma l’accademia delle scienze nazionale, l’Accademia Leopoldina, ha raccomandato un graduale allentamento delle restrizioni.

 

Per le scuole si prospetta un rientro a scaglioni, per età:

prima i ragazzi delle elementari e quelli delle medie, perché sono quelli ai quali la chiusura delle scuole fa più danno esasperando il ritardo di chi è già svantaggiato.

Secondo l’avviso degli esperti si dovrebbe partire dagli studenti delle ultime classi di ciascun livello dividendoli in gruppi al massimo di 15 alunni e concentrandosi solo su alcune materie:

tedesco, matematica e per le scuole secondarie anche la lingua straniera.

Il rientro a scuola dei ragazzi delle superiori è visto come meno urgente: loro infatti sono quelli che possono continuare a giovarsi con maggior profitto della didattica a distanza.

Sono senza parole.

Ma perché mai gli altri stati europei hanno tutte queste certezze e verità?!?

Programmi, scadenze, priorità ed esecutività…

Se è vero che la scuola è palestra di vita, è mai possibile che in Italia alleniamo i nostri alunni all’incertezza sul da farsi, educhiamo i nostri allievi a procrastinare le scelte di campo:

insegniamo a temporeggiare per poi rincorrere gli eventi quando ormai la situazione è precipitata?!?

Se è vero che la scuola è un microcosmo sociale, allora è vero che in Italia navighiamo a vista, scorgendo sempre e solo la punta dell’iceberg?!?

Se il Titanic ha un so che di romantico, la nostra povera Italia, è proprio solo “nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di provincia, ma bordello…”

Mi auguro solo che i nostri cari politici che continuano ad invocare il modello Italia come esempio da seguire nella gestione dell’emergenza, inizino ad aprire gli occhi!

Direi anche che comincino a valutare se non c’ è forse un modello extra-Italia, più efficace ed efficiente, a cui conformarsi, perché anche noi italiani abbiamo tanto bisogno di certezze e verità, almeno tra i banchi di scuola…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

sdidatticamente parlando e non solo




L’origine di tutti i mali.

Sono convinto che l’origine di questa crisi sia stato il colossale fallimento del mercato e delle politiche neoliberali che hanno intensificato i profondi problemi socio-economici.

Si sapeva da tempo della possibilità che si verificassero pandemie dovute soprattutto alle trasformazioni dell’epidemia di SARS.

Per limitare i danni avrebbero potuto lavorare sui vaccini, sullo sviluppo di una protezione per potenziali pandemie da coronavirus, e con lievi modifiche avremmo potuto avere i vaccini disponibili oggi ma è più redditizio fare nuove creme per il corpo che trovare un vaccino che protegga la gente dalla distruzione totale.

La crisi sanitaria del coronavirus è molto grave e avrà gravi conseguenze, ma sarà temporanea, mentre ci sono altri due gravi orrori per l’umanità: la guerra nucleare e il riscaldamento globale.

Il problema più complesso da risolvere, però è quello che riguarda il cambiamento di mentalità, tema trattato ampiamente nella mia tesi di laurea.

Mi riferisco alla transazione di uno sviluppo sostenibile e non solo tanto all’attenzione a chiudere il rubinetto dell’acqua mentre si lavano i denti, a ridurre gli sprechi alimentari, a minimizzare il consumo di energia, ad avere migliori stili di vita, tutti elementi comunque importantissimi “a prescindere”, ma mi riferisco alla trasformazione della cultura e dei modelli con cui interpretiamo, e quindi trasformiamo nella direzione voluta, la realtà.

La trasformazione che dobbiamo operare riguarda i parametri con i quali misuriamo il successo di un Paese e il benessere collettivo e dei singoli, oltre che la sua equità e la sua sostenibilità nel tempo.

Non esiste nessun sistema economico sano se non c’è la biosfera sana. Perché per definire il “profitto” lo si trae dagli elementi economici e dal lavoro delle persone.

Non può crescere il PIL di una nazione all’infinito ma alla fine bisognerà fare i conti con quella stagnazione perché saranno finite le materie prime o le fonti di energia.

Affiancare al PIL indicatori di benessere “a tutto tondo” non è una pura operazione tecnico-statistica, ma un passo fondamentale verso un cambiamento della cultura dominante, il quale può avere impatti rilevanti sulle preferenze collettive e quindi sulle politiche, fermo restando che, per un Paese come l’Italia caratterizzato da un alto debito pubblico, l’esigenza di produrre il reddito necessario per farvi fronte si pone in maniera più pressante rispetto ad altri Paesi meno deboli.

Ci troviamo, quindi, in un momento critico della storia umana e non solo a causa del coronavirus.
Questo dovrebbe portarci alla consapevolezza dei profondi difetti del mondo, delle profonde e disfunzionali caratteristiche dell’intero sistema socio-economico, che deve cambiare se vogliamo sopravvivere nel futuro.

La crisi del coronavirus ci induce a pensare a quale tipo di mondo vogliamo, un mondo in cui dobbiamo assumerci le nostre responsabilità con la consapevolezza che senza un cambiamento radicale non riusciremo mai a realizzare la trasformazione al tempo dell’Antropocene.

D’altronde, questo è esattamente ciò che Papa Francesco intende quando si richiama alla necessità di una “ecologia integrale” in grado di tenere insieme l’ecosistema e quello che ho chiamato “sociosistema”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ing. Raffaele Falzarano




Conte ed i fantastici 17

A pensar male si fa peccato ma spesso  ci s’indovina.

Lo diceva uno che di politica e accordi di palazzo se ne intendeva.

Giulio Andreotti, un politico che ha attraversato oltre mezzo secolo di attività parlamentare ed istituzionale nei momenti più difficili della storia contemporanea del nostro paese, deve aver pensato male molte volte a giudicare dalla longevità della sua carriera.

E pensare male, oggi, purtroppo, è facile perché non mancano paradossi ed incompetenze a tutti i livelli amministrativi e di governo.

Così la decisione di dotare l’apparato politico di un team per la fase II costituito da 17 tecnici guidato dal manager Vincenzo Colao suscita qualche lecita perplessità.

È evidente che il mondo post covid sarà diverso da quello che abbiamo lasciato e che la società dovrà convivere con il distanziamento sociale, lo smart working e la de-globalizzazione.

È altresì facile da immaginare che via via che l’epidemia rallenterà la sua devastante corsa la riapertura delle attività diventi un soggetto di attualità che presupponga competenze e capacità manageriali non di poco conto.

Questo spiega gli intenti nobili alla base del gruppo tecnico che annovera:

top manager, economisti, sociologi, una psicologa ed uno psichiatra, un fisico, uno specialista del lavoro, un’avvocato, un commercialista ed un esperto di disabilità.

Perché pensare male, allora?

Il Governo fino ad oggi ha operato nel quadro dell’emergenza con lo strumento dei decreti legge che hanno  limitato la dialettica parlamentare.

Il Premier Conte ha esercitato con abilità le leve della comunicazione e la difficile partita in Europa con la consapevolezza che non sarà, tuttavia, possibile procrastinare all’infinito la chiusura delle piazze e le decisioni politiche fondamentali.

Le misure di sostegno all’economia  ed il nodo degli aiuti comunitari che è stato rinviato al Consiglio Europeo convocato per fine aprile sono ancora allo stato iniziale ben coperti da una sorta di segreto istruttorio.

La nomina di un super manager ed un team di esperti nasconde, per questi motivi, obiettivi ben più ampi del miglioramento dell’azione dell’esecutivo.

Vi sono almeno due strategie che possono riposare nell’intento di cementare il governo mettendolo al riparo dai giudizi dell’opinione pubblica, dai conflitti interni e dall’opposizione parlamentare.

La prima riguarda la tenuta e la popolarità dell’esecutivo di fronte all’agenda delle prossime scadenze.

L’emergenza virale è divampata in un quadro economico mondiale già in buona parte recessivo.

Le misure di sostegno verranno alla fine prese con o senza adesione al Meccanismo Europeo di Stabilità.

Il paese vedrà venire alla luce nuove tasse, una patrimoniale e tagli alla spesa pubblica ed alle pensioni.

Si tratterà di decisioni impopolari che colpiranno un sistema economico indebolito ed un quadro sociale instabile generando conflitti e vuoti di consenso che potrebbe essere più conveniente scaricare su una squadra di tecnici piuttosto che sul premier ed i suoi uomini.

Conte andrà al prossimo Consiglio d’Europa con le spalle più forti e sarà facile pretendere dal super manager Colao ed i suoi economisti una “moral suasion” sull’ineluttabilità delle decisioni da prendere in sede comunitaria, anche se assistite da ipotesi rigoriste.

Un modus operandi che troverà applicazione per tutte le manovre che si abbatteranno sui risparmi di famiglie ed imprese e che dovranno comunque essere assunte.

Si può pensare ad un modo politically correct di togliere le patate dal fuoco ad un governo segnato dall’insicurezza e travolto dalle emergenze delle ultime settimane.

C’è poi un secondo obiettivo non meno importante.

La necessità di portare a termine la legislatura con un governo “politico” e procedere all’elezione del Presidente della Repubblica in un quadro di maggiore stabilità.

Negli ultimi tempi, infatti, l’ipotesi di un ribaltamento di Conte in favore di un governo tecnico stava prendendo piede.

L’idea era quella di riconciliare l’azione politica intorno ad una figura di ampio respiro internazionale in grado di far contare di più l’italia in europa e sui mercati internazionali.

Una scelte dovuta alla luce del degenerare della situazione economica e delle scelte necessarie per il rilancio dell’economia.

È evidente che un governo tecnico avrebbe ri attualizzato le dinamiche politiche già in atto nel paese ed evidenziato lacune e ritardi nelle azioni assunte negli ultimi mesi.

Non è chiaro di chi sia stata la decisione di nominare una squadra di specialisti guidata da un manager già noto al mondo della finanza internazionale da affiancare al governo in carica, né i ruoli che verranno distribuiti per dotare il nascente team di poteri e ovviamente di centri di decisione e responsabilità.

Alcuni hanno già immaginato ad una polizza assicurativa offerta a Conte dal Quirinale.

Non è altre sì da escludere che l’iniziativa abbia messo d’accordo Partito Democratico e renziani   molto più disponibili ad una manovra economica a guida europea e certamente più spaventati di un ritorno di consenso negativo durante la Fase II.

Per capirci, quella, cioè, che dovrà misurarsi obbligatoriamente con le nuove regole della vita sociale ed economica ma anche con le maggiori tasse ed imposte.

La cosa certa è questa:

il Premier dovrà fare, ancora una volta, buon viso a cattivo gioco e confrontarsi con un un corpo tecnico che potrebbe rivelarsi utile per appannare la responsabilità delle scelte impopolari, ma anche fornire il profilo del prossimo Presidente del Consiglio e la lista dei nuovi ministri.

La politica è l’arte del possibile, ma le risposte non mancheranno ad arrivare e, come spesso accade, anche le sorprese.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Coronavirus, italiano addio, etica addio, riprendiamoci il paese, Avanti Savoia!

Coronavirus: l’Italietta, come al solito…

CORONABOND e ITALEXIT: FALSI PROBLEMI




CHI, COSA, QUANDO, DOVE, PERCHÉ …

“Oggi più che mai l’informazione influenza la nostra vita e la nostra sicurezza. Le notizie sono una cosa seria. Fidatevi dei professionisti dell’informazione…”

Questo è il testo di un comunicato che viene insistentemente diffuso da reti televisive, invitandoci a diffidare delle fake news, cioè delle false notizie o, più in generale, delle notizie inventate, in tutto o in parte, che danno dei fatti una versione distorta quando non addirittura ingannevole.

La pratica delle fake news spesso crea una verità fittizia adattata alle aspettative e alla emotività della gente.

L’avvertimento di fare attenzione all’informazione che viene divulgata sarebbe superfluo se chi fa di professione il comunicatore avesse sempre ben presente la Regola delle 5W  che viene dall’inglese come pure dall’inglese viene fake news.

Le 5W, come ogni giornalista ben sa, stanno per Who (chi), What (che cosa), When (quando), Where (dove) e Why (perché) e sono i pilastri sui quali poggia la notizia da diffondere.

Se ci si attiene a questa vecchia ferrea norma è ben difficile che si divulghino notizie fasulle.

Oltre che promemoria tecnico per determinare e mettere in sequenza i contenuti di un pezzo, la regola ha anche una valore morale, un metro deontologico cui si può aggiungere, volendo essere rigorosi, un ulteriore elemento:

le circostanze come indicava già otto secoli fa San Tommaso d’Aquino.

Nel suo libro Summa theologiae egli accanto agli elementi precursori dell’attuale Regola delle 5W poneva anche il Quantum (quanto), il Quomodo (in che modo) e il Quibus auxiliis ( con quali mezzi). 

Così impostata, l’informazione non poteva e non può che attenersi al corretto e lineare rendiconto della realtà. 

Il guaio è che oggi nel fornire notizie e dati su un certo argomento si è passati dall’informazione alla narrazione.

Quindi dalla esposizione chiara e ordinata dei fatti si è passati, per dirla in inglese, allo storytelling il cui scopo è anche quello di coinvolgere, affascinare e stupire: in definitiva, influenzare il pubblico cui le news sono dirette.

Un tempo questo obiettivo era appannaggio del marketing e della pubblicità per far incontrare la domanda e l’offerta di beni e servizi in un finale happy end.

Tutti contenti perché il valore percepito di una acquisto era soddisfacente per l’acquirente ed il prezzo pagato era remunerativo per il venditore.

Oggi, dello storytelling si è appropriata anche la comunicazione politica.

E qui sta il rischio perché la narrazione si distacca in tutto o in parte dal reale e spesso costruisce una verità sostitutiva, una “rappresentazione “ avvincente ma falsa.

Ci sono atti del Governo e del Parlamento che sbalordiscono per come sono presentati, si pensi a Salva Italia, Svuota carceri, Spazza corrotti, Pace fiscale ed altri che, più che provvedimenti normativi, sembrano accattivanti titoli di romanzi che affascinano le folle e ne catturano il consenso, agevolando chi governa nel mantenere e consolidare il proprio potere.

 

 

 

 

 

 

 

La libertà di stampa

L’indipendenza di Stampa

 




La meraviglia è dietro l’angolo

 

La nostra società era già intimamente infettata dalle disuguaglianze e dalle ingiustizie ben prima dell’arrivo del Covid-19.

Ed oggi, nel giorno di Pasquetta 2020, è solo tutto più evidente.

Pensavamo che i nostri tempi non ci avrebbero potuto riservare sorprese inedite ed invece eccoci giunti a un incrocio storico decisivo, a una crisi che ci domanda una presa di responsabilità collettiva.

Cosa ne sarà di me?

Del mio lavoro, del mio futuro, della mia vita e di quella dei miei cari?

Per tentare di calmare questa crisi d’ identità, continuano a dirci che siamo in una guerra, dove occorre sacrificarsi compatti, in nome del ritorno alla normalità, normalità che ci stiamo lasciando alle spalle, non per colpa nostra, ma per un microscopico virus.

Ma non è così!

Perché, oggi essere responsabili e realisti significa non voler più ritornare alla normalità, significa evitare di ricostruire quella normalità indesiderabile ed irrazionale antecedente il virus.

Andare avanti significa dare risposte nuove alle nostre vite singole e in comune, accompagnando studio tenace, impegno concreto e proposta realizzabile per ogni passo futuro. 

Dobbiamo avere il coraggio di dire che non è tempo di ricostruire una società malata, ma di costruire una società più giusta dove nessuno sia lasciato ai margini economici, sociali, territoriali.

Se dovessimo decidere di percorrere questa strada, potremo trovare sul nostro cammino alcune sfide irrimandabili, locali e globali al medesimo tempo.

Una è quella ecologica.

I virus sono connessi alla distruzione degli ecosistemi e delle biodiversità, all’urbanizzazione selvaggia, all’agricoltura e all’allevamento intensivo, all’inquinamento e ai cambiamenti climatici in generale.

Ci uccidono molto più queste cose che il Covid-19, che è soltanto l’ennesima dimostrazione di quanto vi sia la necessità irrimandabile, pena un futuro pieno di fenomeni catastrofici, di definire un modello di sviluppo generativo e non estrattivo, in grado di produrre salute e benessere e non più di sottrarne.

Un’altra riguarda il modello di lavoro e consumo.

In pochi giorni, la fragilità delle lunghe e disperse catene globali della produzione è emersa con forza.

La globalizzazione capitalistica, non solo non ha prodotto uno spazio liscio dove tutti abbiamo le stesse opportunità (moltiplicando forme di disuguaglianza e sfruttamento) …

ma sta dimostrando la sua incapacità di affrontare dei cambiamenti se non mettendo a rischio milioni di posti di lavoro.

Tutto il contrario dell’efficienza, tutto a discapito di chi lavora.

È tempo di mettere in discussione il cosa e il come si produce, puntando sull’innovazione tecnologica, la formazione permanente, i diritti e le tutele, la piena democrazia nei luoghi di lavoro.

In terzo luogo, se non stiamo attenti, anche a emergenza conclusa le nostre libertà continueranno a essere compromesse da misure straordinarie.

Lo erano già, sia per le disuguaglianze economiche e sociali, che impediscono di poter esercitare i propri diritti di cittadinanza e dunque di avere la stessa voce, che per lo strapotere dei grandi colossi del mondo digitale che mettono a valore i nostri dati e influenzano le nostre opinioni e comportamenti.

Sul controllo democratico dei dati e sulla trasparenza del web si giocherà un’altra sfida decisiva.

Per fortuna, la rinnovata fiducia nella scienza ci aiuterà a dare risposte migliori alle paure legittime, spazzando via al tempo stesso quelle indotte dalle balle xenofobe.

E soprattutto, stiamo capendo che le paure e l’incertezza si affrontano con più benessere e sicurezza collettiva, investendo sui servizi, sul lavoro, sul reddito delle persone, sulla sanità, l’istruzione, il welfare, la ricerca. 

Immaginare una nuova universalità della cittadinanza non sarà essenziale soltanto per migliorare materialmente le vite della maggioranza delle persone, ma anche per rafforzare la qualità della democrazia e della convivenza.

Anche nei piani alti della Bce e di tutti gli altri attori della governance europea e mondiale si stanno rendendo conto che non si può andare avanti in questo modo, ma è troppo tardi per dare loro credito.

Occorrerà dare battaglia per costruire un nuovo sistema economico, finanziario, fiscale a favore della maggioranza delle persone e non più di pochi privilegiati.

Infine, la sfida più importante siamo proprio noi.

Dobbiamo ingaggiare una lotta innanzitutto con noi stessi, con i sentimenti dominanti e diffusi che sono un misto di impotenza di fronte al mondo, anche quando siamo consapevoli che va male, e di paura di non riuscire a realizzarsi professionalmente e personalmente.

Ciò ci ha spesso costretto ad arrenderci e a conformarci agli eventi, anche a quelli più ingiusti e umilianti.

Ammettere a vicenda le nostre paure, i nostri problemi, i nostri desideri, è il primo passo per liberarci dalla zavorra del senso di impotenza, del sentirsi spettatori del mondo e unici responsabili del nostro destino individuale:

scoprendo che l’unico modo per cambiare anche le nostre singole vite è diventare attori, costruendo con tanta pazienza, solidarietà e cura, una nuova volontà collettiva.

Con il dolore per le morti e i contagi, la sofferenza per la perdita dei posti di lavoro, per le distanze, i progetti interrotti, lo smarrimento individualizzato ma condiviso, questo virus ci sta costringendo ad aprire gli occhi e a respirare aria nuova come mai avevamo fatto.

Probabilmente entreremo sul serio in una nuova recessione globale. Altrettanto probabilmente l’Europa per come l’abbiamo conosciuta non esisterà più.

Le premesse per alcuni cambiamenti epocali ci sono tutte.

O ci prendiamo in carico la costruzione dei giorni che verranno o purtroppo collasseremo insieme a chi ci proporrà strade già battute.

Siamo immersi in un mondo ingiusto e malato da ben prima dell’arrivo del coronavirus, dove tutto ciò che era tremendamente irrazionale veniva presentato quasi sempre come l’unica strada possibile e praticabile.

Ci sembrerà impossibile e servirà tanto impegno, entusiasmo e soprattutto tanta immaginazione per coniugare pragmatismo e utopia, ma …

ad ognuno di noi, segnato per sempre da questa emergenza, sta il compito di costruire, in ogni luogo, da quelli di lavoro alle città, dal più piccolo paese alle università, un’alternativa credibile, realistica e praticabile di società.

La storia non è finita e ci meritiamo molto di più dalla vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Coronavirus: andrà tutto bene?

 




Parma? of course…

 

Parma è da sempre un punto di riferimento per la politica nazionale ed in questo momento possiamo davvero ben sperare. Facciamo un passo indietro: abbiamo avuto qualche problema giudiziario finito per la gran parte nel nulla, un commissario prefettizio paragonabile al governo tecnico nazionale e poi la prima esperienza dei 5Stelle al governo di un capoluogo di Provincia, gli stessi che sono finiti al Governo dell’Italia.

A Parma l’esperienza è durata ben poco perché si sono dissociati da soli dal MoVimento formando una lista civica e ripresentandosi, vincendole, alle elezioni, in Italia vedremo…

 

Oggi però vorrei parlare di calcio perché negli ultimi anni il Parma, che a cavallo degli anni ’90 era uno dei club più forti in Italia ed in Europa, era arrivato fino al baratro della serie D per poi compiere uno straordinario percorso che lo ha riportato, con quattro promozioni in quattro anni, a giocarsi un posto in Europa. 

 

Venerdì il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha fatto una conferenza stampa dove prolungava le misure restrittive al 3 maggio, poi ha parlato di MES:

un tema molto dibattuto e attaccando alcuni esponenti dell’opposizione e, visto il modo, se n’è attirato, inevitabilmente, le critiche. 

 

Per fare chiarezza il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) non è altro che un fondo europeo al quale possono attingere gli stati che si trovano in situazioni di difficoltà.

Esiste dal 2011/2012!

Giusto per fare chiarezza sulle date:

è stato approvato dal Parlamento Europeo nel marzo 2011 – con relatore il nostro attuale Ministro dell’Economia e delle Finanze, Roberto Gualtieri, che allora era Parlamentare Europeo – poi approvato dal Consiglio Europeo (l’insieme dei capi di Stato e di Governo) due giorni dopo (Governo Berlusconi IV).

Nel dicembre 2011 lo stesso Consiglio Europeo (Governo Monti) ha deciso di anticiparne l’entrata in funzione da metà 2013 ad inizio 2012.

Infine è stato ratificato dai singoli stati, in Italia nel 2012, (Governo Monti), con l’astensione o il voto contrario di quasi tutto il centro-destra.

Senza addentrarsi nei tecnicismi che ci allontanerebbero dal cuore del discorso, un conto è permettere alla banca di prestare soldi, un altro è andare a stipulare il prestito.

Ad oggi il Governo italiano non ha chiesto alcunché. 

 

Ma torniamo alla conferenza stampa dove il Presidente del Consiglio ha “invitato a verificare” come erano andate le cose sul MES, lasciando spazio alla confusione tra istituzione e richiesta di soldi, e poi la domanda più semplice quella sulla “potenza di fuoco”:

i soldi che dovrebbero arrivare che ha trovato una risposta indefinita e tutta al futuro.

Ma io questa scena l’ho già vista!

 

E come un lampo diventa tutto più chiaro: ve lo ricordate quel signore, comparso dal nulla, che comprò il Parma Calcio con un Euro?

Quello che convocava conferenze stampa un po’ a caso, invitava i giornalisti ad andare a verificare circa le sue attività e dei soldi che avrebbe dovuto dare a calciatori e dipendenti non c’era traccia?

Il Presidente Conte non era certamente un esponente di spicco della politica prima della nomina, sui ritardi in conferenza Facebook (ehm stampa) ormai ci abbiamo fatto l’abitudine…

l’invito a verificare i propri dati c’è e dei soldi, dai 600 euro ai 400 miliardi, non c’è traccia.

Nessuno vuole naturalmente paragonare Mapi Group a SACE se non per il fatto che tutto ciò ci fa ben sperare…

se l’Italia seguirà ancora una volta l’esempio di Parma, o meglio in questo caso “del” Parma, può essere che tra qualche anno saremo nuovamente tra i grandi della terra! 

 




Easter egg

Siamo alle porte della Santa Pasqua e questo ci induce ad una seria riflessione sul significato più profondo di speranza verso la rinascita, la resurrezione, il rinnovamento.

Quest’anno la Pasqua verrà celebrata a porte chiuse,per dare il colpo definitivo al coronavirus, che sta calando sotto la pressione delle imponenti misure di contenimento che sembrano funzionare davvero.

Sorge a questo punto, da tutti noi spontaneo un ringraziamento per tutti coloro che hanno permesso questo notevole calo nei contagi e nelle morti: prima di tutto le forze dell’ordine ed il sistema sanitario, che hanno dato il meglio di sé, sacrificandosi fino allo stremo per mettere in sicurezza il Paese, poi i lavoratori del settore autotrasporti, che hanno rifornito i supermercati, i cassieri, gli impiegati delle poste e delle banche, i tabaccai, gli alimentari rimasti sempre aperti. Infine, alle società dei mezzi di trasporto pubblico ed urbano, che si sono occupate di fare restare in piedi un sistema che sembrava destinato al collasso e che invece sta risorgendo, lentamente, anche se c’è ancora molto,moltissimo da fare, insieme al cordoglio per chi è venuto meno e per le famiglie spezzate.

Un particolare grazie va poi a tutti coloro i quali, da semplici volontari della protezione civile ed altre strutture associative per l’emergenza si sono prodigati a titolo completamente gratuito per il Paese, mossi solo dalla voglia di dare una mano al prossimo, nel vero senso del Vangelo, che a Pasqua ci ricorda di “farci prossimi” ai nostri simili.

E’ una lezione dura quella del coronavirus, una lezione durissima: un intero sistema Paese,anzi l’intero sistema internazionale messo inginocchio da un semplice microbo…

ma al di la di tutto rimane, dentro al cuore di tutti noi, inestinguibile e continua, la forza ed il coraggio della speranza, la speranza che leggiamo negli occhi dei nostri figli, dei nostri cari, la speranza che insieme ce la stiamo facendo e possiamo farcela, perché, si, ne siamo sicuri, come dicono i cartelli appiccicati dietro alle finestre…

ANDRA’ TUTTO BENE.

 




Eurexit

Alla fine il nemico ha svelato il suo vero volto.

Come i migliori film dell’orrore, quegli che ci tengono incollati alle poltrone fino alla fine, anche il conflitto comunitario sembra avere trovato il suo epilogo.

Le ultime riunioni dell’Eurogruppo,  chiamato ad intervenire sull’emergenza sanitaria ed i rischi economici diretti, sembrano voler assumere posizioni condizionate all’adozione del Meccanismo Europeo di Stabilità, il MES.

Lo strumento, cioè, al quale il Regolamento Europeo n. 472/2013 affida le regole per rinforzare le modalità di sorveglianza sul bilancio pubblico dei paesi membri alle prese con difficoltà nel rispetto dei parametri di stabilità.

Infatti l’adozione del Mes impone ai paesi aderenti che ne facciano richiesta, con parametri di bilancio non in ordine, di adottare  il “Programma di Aggiustamento Macroeconomico”.

Programma messo a punto dalla Commissione Europea dalla Bce e dal FMI per il ripristino dell’equilibrio nei conti pubblici

Un intervento regolato da intenti rigoristi e che privano il paese assistito di ogni residua sovranità economica e quindi anche politica.

È accaduto alla Grecia nel 2009 che ha visto adottare nel triennio successivo tagli verticali alla spesa pubblica e nuove imposte fino alla rinegoziazione del debito con un taglio di oltre il 53% al crediti detenuti dal settore privato (Haircut).

Il Premier Conte tranquillizza il paese sostenendo che sarà il Consiglio Europeo a sigillare le decisioni definitive.

Eppure, un senso di amarezza affiora e le parole non convincono più.

Non è questa l’europa che abbiamo studiato da ragazzi nei libri di scuola.

 

Non è questa neanche l’europa sognata dai padri nobili di un progetto così importante.

 

L’Unione Europea nasce da lontano ed ha radici profonde nei valori della pace, della libertà e della cooperazione.

Valori che grandi uomini politici hanno immaginato e realizzato con dedizione ed impegno:

Altiero Spinelli, Alcide De Gasperi, il francese Jean Monnet, il tedesco Konrad Adenauer, il lussemburghese Joseph Beck ed il belga Paul H. Spaak, tra i più citati.

Uomini che hanno condiviso paure prima che sogni di grandezza.

La Guerra ha segnato molti di loro unendoli in una visione di pace e di libertà .

La paura dei conflitti bellici e della distruzione non è l’unica pietra angolare delle motivazioni  dei padri fondatori.

Beck e Spaak comprendono il senso  di vulnerabilità dei loro rispettivi paesi chiusi tra potenze militari, la perenne condizione di soggiogamento e l’importanza dei principi di sostegno reciproco.

L’europa non nasce su progetti complessi ma su sentimenti reali, pietre d’inciampo dell’umanità uscita dalla guerra:

pace, libertà, cooperazione e tutela di tutti i paesi soprattutto di quelli più esposti al rischio d’invasioni e soprusi.

Queste sono le fondamenta.

Nella riunione dell’Eurogruppo, l’Unione Europea ha toccato il suo punto di minimo ed il suo cuore ha cessato di battere.

Le contraddizioni, per anni nascoste da una diplomazia astuta e da un’opinione pubblica distratta, sono esplose all’improvviso come la Pandemia che ne ha fornito la base d’innesco.

Capire nel profondo come si è arrivati a questo punto è importante.

L’Unione Europea è rimasto un progetto incompiuto e nomade.

 

È stata realizzata l’Unione Monetaria e con essa ci si è dotati di istituzioni farraginose e regolamenti  complicati.

L’Unione politica, intesa come sovranità condivisa, non è, forse, mai entrata nelle agende dei paesi aderenti.

Un punto non secondario perché il dibattito sull’unione “politica” dell’Europa avrebbe dovuto risolvere nodi centrali.

Ad esempio la condivisione di sovranità nelle sue espressioni rilevanti, un progetto unico di finanza pubblica, un’idea comune di politica estera e di sicurezza esterna.

Questioni irrisolte che hanno caricato l’unione monetaria di effetti collaterali di cui, oggi, alcuni paesi mostrano di volersi avvantaggiare.

Un’Europa a sovranità ridotta, senza un bilancio ed un sistema di finanza pubblica comune con un sistema di cambi fissi, ha lasciato che fossero i singoli paesi a reagire alle fasi recessive facendo ricorso all’unico strumento rimasto:

l’innalzamento dei livelli di indebitamento pubblico.

Il collocamento del debito nazionale sul mercato europeo ed internazionale a tassi via via più elevati se da un lato ha reso più agevole la provvista per i paesi finanziariamente più fragili dall’altro ha fornito

ad alcune economie, Germania in testa, un formidabile strumento di crescita e di cooptazione progressiva di sovranità a danno dei sistemi periferici.

È evidente che la necessità di completare l’obiettivo di un’europa politica, in questo contesto, ha perso di portanza.

Le politiche espansive della Bce dal 2008 in risposta alla grave recessione mondiale sono state utilizzate in modo abile dai paesi del blocco nordico.

Paesi che ne hanno usufruito per proteggere industrie e banche nazionali lasciando che fossero le economie periferiche ad assumerne oneri e  responsabilità.

Il Mes nasce, in questo contesto, con il peccato originale di perseguire un sistema di aiuti asservito al controllo economico e politico di alcuni stati a danno di altri.

Un controllo di natura immediata posto in essere attraverso automatismi giuridici maturati all’interno di situazioni di emergenza asimmetriche e gravi per le popolazioni coinvolte che richiederebbero, al contrario, una visione condivisa, uno slancio solidale.

L’europa è caduta ma ora occorre rifondarne i contenuti e l’impianto fiduciario anche con l’avvio di una fase costituente che aggiorni e semplifichi istituzioni e meccanismi di funzionamento.

L’italia può dare impulso ad un confronto politico ampio che sul piano nazionale sia in grado di rimettere in moto l’economia e di riportare nei confini del paese la titolarità del debito pubblico.

Sterilizzando, altresì, la dipendenza dallo “spread” (differenziale di rendimento tra il titolo di stato italiano con scadenza decennale ed il suo corrispondente tedesco) vera arma in mano alla speculazione estera.

Cosa ci attende adesso?

L’europa continentale ha bisogno di una struttura istituzionale e di politiche condivise capaci di resistere alle pressioni geopolitiche in atto e mantenere pace e stabilità.

Per questo sarà importante non lasciarsi sedurre da intenti secessionisti privi di progettualità.

L’idea di un’Unione europea nella quale si specula su sistemi impositivi ingiusti e s’impongono sacrifici ai più deboli, potrebbe finire per sempre.

Certamente dalle sue ceneri dovrà costruirsi un soggetto politico capace di riscrivere i contenuti del quadro costituente aggiornandoli ai bisogni delle comunità locali.

Helmut Kohl, cancelliere tedesco fino al 1998, nel dibattito finale relativo all’adozione della valuta unica, non esitò a sostenere che il

“Futuro” avrebbe visto nascere una “Germania europea e non un’Europa germanica”.

Son passati oltre 20 anni, ma le decisioni dell’eurogruppo  avrebbero deluso anche lui.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pandemia Finanziaria, cui prodest?

Piano Marshall oggi più che mai!!