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In un’estate già segnata da conflitti, dazi internazionali e un generale clima d’incertezza, la notizia, che alcuni studenti abbiano rifiutato di sostenere il colloquio dell’Esame di Stato come forma di protesta, fa discutere.
Per alcuni una scelta infantile di non riconoscere l’importanza della valutazione, per altri una scelta coraggiosa, non priva di conseguenze sul voto finale. In ogni caso questa forma di “protesta” porta però al centro della scena un tema ormai annoso: il senso e l’equità dell’attuale sistema di valutazione scolastica.
Gli studenti contestano un impianto, che riduce il percorso scolastico a una somma aritmetica di voti e punteggi, ignorando la complessità del vissuto individuale, i contesti sociali, le passioni, gli sforzi non quantificabili.
È una critica forte, che mette in discussione non solo l’Esame di Stato, ma l’intera visione di scuola come “misurificio” piuttosto che come comunità educativa.
Eppure il D.Lgs n. 62/2017 – norme in materia di valutazione ed esami di Stato – all’art.1, comma 1 dispone che la valutazione ha per oggetto il processo formativo e i risultati di apprendimento,
ha finalità formativa ed educativa e concorre al miglioramento degli apprendimenti e al successo formativo degli studenti.
Il Decreto segna quindi il passaggio dalla valutazione dell’apprendimento (Assessment of Learning) alla valutazione per l’apprendimento (Assessment for Learning).
La principale differenza risiede nel loro scopo principale.
L’Assessment of learning valuta ciò che è stato appreso, è una valutazione sommativa per certificare il livello di competenza raggiunto.
L’Assessment for learning mira a migliorare l’apprendimento in corso,
è una valutazione formativa, che avviene durante il processo di apprendimento, per fornire feedback e aggiustamenti.
In sintesi, l’assessment of learning guarda indietro per valutare ciò che è stato appreso, mentre l’assessment for learning guarda avanti per supportare l’apprendimento in corso
E allora? Allora occorre che la scuola innanzitutto promuova il successo formativo e l’esame di Stato non sia solo una somma di punteggi.
Ma come si fa?
Certamente l’esame di Stato rappresenta molto più di una prova scolastica: è un vero e proprio rito di passaggio verso la vita adulta. Simboleggia la fine di un percorso formativo e l’inizio di nuove responsabilità, aprendo le porte al mondo del lavoro o agli studi universitari. Affrontarlo con impegno significa acquisire consapevolezza di sé, delle proprie capacità e del proprio futuro.
Tuttavia occorre cambiare formula.
E non è la prima volta che la scuola cambia grazie al dissenso giovanile.
Era il 1968 quando gli studenti riempivano le piazze chiedendo una scuola più democratica, meno autoritaria, più attenta alla formazione critica dei cittadini. In risposta a quelle agitazioni, il ministro Fiorentino Sullo introdusse una riforma epocale dell’Esame di Maturità, allineandolo a una nuova visione pedagogica più aperta e meno selettiva.
L’esame di Stato introdotto in forma sperimentale con la legge n. 119/69, e applicato per la prima volta nell’anno scolastico 1968/69 rappresentava una nuova concezione dell’esame di maturità, più incentrato sulla valutazione globale del percorso scolastico.
Tale formula rimase applicata fino all’anno 1998/99, quando entrò in vigore la Legge n.425/97 del Ministro Luigi Berlinguer, che all’art.1 dispone che l’esame di Stato ha come fine l’analisi e la verifica della preparazione di ciascun candidato.
Si abbandona il concetto di “maturità” e si introduce il sistema del credito scolastico e i punteggi alle prove d’esame. Legge che con successive modifiche e integrazioni è attualmente in vigore e di cui gli studenti oggi criticano la formula.
La riforma dell’esame di Stato di Fiorentino Sullo fu il frutto di una stagione politica e culturale in cui si riconosceva ai giovani non solo il diritto, ma anche la capacità di cambiare la società.
Oggi, come allora, gli studenti scendono simbolicamente in piazza, e lo fanno nel momento forse più solitario del loro percorso scolastico: il giorno del colloquio finale.
Rifiutare l’esame non è rifiutare la conoscenza, ma opporsi a un modello di valutazione che si percepisce come ingiusto e disumanizzante.
In un Paese che spesso etichetta i giovani come “bamboccioni”, incapaci di prendersi responsabilità, fa riflettere che proprio loro siano gli unici, oggi, ad avere il coraggio di alzare la voce. Non si tratta solo di una rivendicazione scolastica, ma di una richiesta di ascolto, di partecipazione, di dignità.
Chi sminuisce queste proteste non coglie il senso più profondo del gesto: non è un capriccio di giovani viziati, ma una richiesta di riforma.
E forse, come nel ’68, anche questa volta toccherà partire dal coraggio degli studenti per ripensare l’esame di Stato e con esso la scuola intera.

Pio Mirra
DS IISS Pavoncelli – Cerignola (FG)

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