Il Giano Bifronte: l’Italia tra armi, slogan e subalternità, dov’è il progetto?

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Roma proclama pace ma invia armi. Una contraddizione che svuota di senso la diplomazia e riduce il nostro Paese a gregario obbediente.
Dai ricordi del colonialismo alle relazioni internazionali, l’Italia continua a raccontarsi storie edificanti per coprire la realtà: ieri “missione civilizzatrice”, oggi “difesa della democrazia”. Ma dietro le parole resta sempre la logica della forza.

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Il governo italiano ama parlare di pace, ma intanto spedisce armi con la puntualità di un corriere espresso.

È un po’ come se un piromane si presentasse a un incendio con una tanica di benzina e dicesse di voler aiutare a spegnere le fiamme.

La contraddizione è talmente lampante che non servono trattati di filosofia politica per smascherarla: basta il buon senso.

La premier Meloni si riempie la bocca di parole come “responsabilità”, “diplomazia” e “pace giusta”, ma alla prova dei fatti il suo governo si limita a ratificare forniture militari, a inviare munizioni e missili, a garantire il proprio “fedelissimo sostegno” all’alleato americano.

Il paradosso è che questa non è una novità per la nostra storia.

Già nei primi decenni del Novecento l’Italia amava raccontarsi come “portatrice di civiltà”.

Così fu in Libia nel 1911, quando la propaganda parlava di liberare le popolazioni dal dominio ottomano, e così fu nel 1935 in Etiopia, quando si sbandierava una “missione civilizzatrice” mentre in realtà si massacrava la resistenza locale con i gas chimici.

Oggi non si parla più di civiltà, ma di democrazia e libertà; allora era “la missione italiana”, oggi è “la pace europea”.

Ma la sostanza non cambia: ieri come oggi si travestono interessi di potenza sotto un manto di nobili intenzioni.

La differenza è che, almeno allora, l’Italia aveva un disegno di politica estera, per quanto aberrante.

Oggi invece non c’è nemmeno quello.

La linea di Palazzo Chigi è semplice: obbedire a Washington, non disturbare il manovratore, farsi trovare sempre presenti quando c’è da dire “sì” agli ordini della NATO.

Nessuna idea autonoma, nessuna iniziativa di mediazione, nessun tentativo di riportare l’Europa al tavolo dei negoziati.

E dire che l’Italia avrebbe tutte le carte in regola per giocare un ruolo da protagonista: siamo la cerniera del Mediterraneo, il Paese che più di altri potrebbe farsi ponte tra est e ovest.

Invece preferiamo restare silenziosi, muti, ridotti a retrovia obbediente.

E mentre la Germania ondeggia tra realpolitik e timori economici, e la Francia prova di tanto in tanto a sganciarsi dal coro e a cercare un contatto diretto con Mosca, Roma si limita a fare la brava scolara che ricopia gli appunti.

La parola “pace” viene ripetuta come un mantra, ma è svuotata di senso, perché quando si forniscono armi a chi combatte si sceglie da che parte stare in guerra, non certo in diplomazia.

Eppure l’Italia potrebbe davvero essere un mediatore credibile.

Lo è stata in passato: ricordiamo il ruolo svolto a Helsinki nel 1975, quando la distensione Est-Ovest passò anche attraverso la capacità italiana di fare da ponte nella Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa.

Lo è stata nel Mediterraneo, con l’Ostpolitik italiana degli anni Settanta, che permise dialoghi impensabili con Paesi allora considerati “nemici” del blocco atlantico.

Lo è stata persino durante la guerra fredda, quando governi italiani seppero mantenere rapporti con Mosca senza mai rinnegare l’appartenenza alla NATO.

Questa “duplice lealtà” era la chiave della credibilità: essere affidabili con gli alleati, ma capaci di parlare anche con chi stava dall’altra parte della cortina.

Oggi si potrebbe replicare quella linea, con una diplomazia che non si limiti a dire “dialogo” ma lo pratichi davvero: promuovere conferenze multilaterali sotto l’egida ONU, offrire Roma come sede di un tavolo permanente di mediazione, investire capitale politico per proporre corridoi umanitari, tregue temporanee, accordi su scambi di prigionieri.

Non sarebbero gesti simbolici, ma il segnale che l’Italia non è solo retrovia militare ma attore capace di parlare con entrambi i fronti.

Sarebbe una diplomazia “mediterranea”, che fa della geografia un vantaggio: non siamo né Washington né Mosca, ma la terra di mezzo che può permettersi di tessere fili.

Il conflitto in Ucraina è molto più di uno scontro regionale: è il teatro dove Stati Uniti e Russia regolano i conti della loro influenza globale, con la Cina spettatrice attenta e pronta a trarre vantaggio da ogni errore.

L’Italia avrebbe potuto alzare la testa e dire: “Noi vogliamo essere la voce del Mediterraneo, il ponte tra Europa e Oriente, l’attore capace di aprire un varco nei muri della propaganda di guerra”.

Non lo ha fatto e non lo farà, perché il governo Meloni ha scelto la via più comoda: piegarsi senza discutere, consegnando la propria politica estera nelle mani degli alleati.

Il risultato è che la parola pace, oggi, nel lessico governativo, non è altro che una foglia di fico per coprire un imbarazzante vuoto politico.

Si parla di “pace giusta”, ma non si dice mai cosa significhi davvero, perché nel frattempo il flusso delle armi continua, senza sosta, senza dibattito reale, senza una visione che guardi oltre l’emergenza.

È la stessa logica del colonialismo: raccontare una storia edificante per nascondere la brutalità dei fatti.

E allora serve dirlo con chiarezza, senza mezzi termini: la pace non si costruisce con i droni, i missili e le forniture militari.

La pace non è un’arma con il silenziatore, ma un progetto che richiede diplomazia, coraggio politico, capacità di visione.

L’Italia, se vuole contare davvero, deve uscire dal ruolo di gregario e tornare a essere ciò che la sua storia e la sua posizione geografica le consentono: un ponte, non una retrovia.

Finché questo non accadrà, ogni volta che un ministro o la stessa premier pronunceranno la parola “pace”, dovremo ricordarci che in realtà stanno parlando di tutt’altro.

Non si porta la pace con i carri armati: o l’Italia torna ponte di dialogo, o resterà solo un magazzino di armi.

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