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… perché quel reel sul “costrutto femminista” https://www.instagram.com/reel/DQ6GCsKDJHt/?igsh=a3JvYWRhbjBnOTlr

che sta spopolando in  rete è un trucco retorico (e cosa racconta davvero la storia italiana).

L’editoriale che non si accontenta del “taglia e cuci”.

Se un frammento televisivo del 1976, incollato in un reel da 30 secondi, pretende di dirci la verità sul presente, abbiamo un problema.

Non di opinioni, quelle sono legittime, ma di metodo.

E, quando il tema è la cosiddetta “costruzione ideologica” del femminismo, il metodo è l’unico discrimine tra analisi e cabaret.

L’attacco: il fascino tossico dell’archivio “a effetto”.

Domanda iniziale, brutale ma necessaria: un’immagine d’epoca fa verità o fa atmosfera?

Il reel pesca dal ciclo RAI La questione femminile (1976) e lo brandisce come randello culturale: “ecco la prova che tutto era un costrutto fuori luogo”.

In realtà, è un modo di fare cherry picking emotivo: evocare un passato ingiallito, creare l’aura della testimonianza “autentica”, e saltare a piè pari i fatti.

Il fatto numero uno: nel decennio 1970–1979 l’Italia riscrive i diritti

Nel giro di pochi anni, il Paese cambia la cassetta degli attrezzi con cui sta in piedi la cittadinanza delle donne:

  • 1970: legge sul divorzio, confermata dal referendum del 1974.

  • 1975: riforma del diritto di famiglia, fine della potestà maritale e pariteticità coniugale.

  • 1977: parità di trattamento nel lavoro (retribuzione, qualifiche, carriera, licenziamenti).

  • 1978: legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza.

Chiamiamole pure “narrazioni” se ci piace la caricatura; in tribunale, al lavoro, in ospedale, quelle “narrazioni” sono norme esigibili.

E una norma esigibile non si smonta con un montaggio.

davvero è “fuori luogo” ciò che ha tradotto in diritti praticabili conflitti sociali concreti, salari, orari, potestà coniugale, tutela della salute, che altrimenti restavano lettera morta?

cambia la struttura, non solo il racconto.

Lo si vede dove fa male: nei numeri, non nelle posture.

Dalla fine degli anni ’70 cresce l’istruzione femminile, si allarga l’occupazione delle donne (con cicli irregolari, certo), si trasforma l’economia verso il terziario.

Non è un dogma: è un trend di lungo periodo che l’Italia condivide con le altre democrazie industriali.

Possiamo litigare sulla velocità, sulla qualità dei contratti, sulla conciliazione; non sul verso di marcia.

Il trucco del reel: tre fallacie in 30 secondi.

  1. Selezione confermativa: prendo ciò che conferma l’assunto (“era tutto un frame”), scarto le voci dissonanti, nascondo le fratture interne al femminismo (che è sempre stato plurale).

  2. Spostamento di scala: dall’aneddoto alla diagnosi. Una frase di una puntata diventa “l’essenza eterna”.

  3. Presentismo: giudico il 1976 con categorie 2025. Comodo, ma intellettualmente pigro.

“Ma allora va tutto bene?” No: e proprio per questo servono politiche, non slogan.

I nodi che restano sono serissimi: divari retributivi corretti per caratteristiche, carichi di cura asimmetrici, segmentazione del mercato del lavoro, qualità dei servizi 0–6, congedi, natalità in caduta.

Appunto: materia e istituzioni, non caricature.

Se riduco tutto al “costrutto ideologico”, do alibi perfetti all’inazione.

Se tutto è “retorica femminista”, niente è competenza fiscale, welfare locale, contrattazione, investimenti nei servizi.

 Il montaggio può far piangere, indignare, ridere. Le leggi cambiano le vite. Scegliamo da che lato stare.

Una domanda agli “smontatori” di professione

Se davvero il femminismo fosse un “costrutto fuori luogo”, come spieghiamo che le più importanti riforme italiane sui diritti delle donne siano passate dal Parlamento, dai referendum, dalla giurisprudenza, e non da un collettivo di sceneggiatori televisivi?

E perché dinamiche simili si sono viste, con tempi diversi, in tutta l’Europa occidentale?

Un costrutto fuori luogo abbassa la qualità del dibattito: sostituisce l’analisi con l’impatto emotivo, legittima soluzioni sbagliate (o l’inazione), e oscurando i meccanismi reali, impedisce politiche efficaci.

È come usare una lente da vicino per leggere le stelle: vedi qualcosa, ma capisci male.

Possiamo credere al complotto coordinato di mezzo continente per mezzo secolo; oppure possiamo ammettere che la modernizzazione economica e culturale abbia spinto in quella direzione, con mille contraddizioni.

Un confronto serio non teme i dossier: timeline, dati, comparazioni internazionali, analisi per coorti e territori.

Soprattutto, non teme la complessità: non esiste “il” femminismo, esistono culture politiche, generazioni, saperi diversi che hanno litigato e prodotto esiti differenti.

Il reel, per costruzione, comprime: bene per l’engagement, pessimo per capire.

Chi vuole “smontare il costrutto” porti tavola numerica, sentenze, dossier su servizi e contratti, non reliquie televisive come santini laici.

Il 1976 ci parla solo se lo ascoltiamo per intero e lo mettiamo nel suo tempo, non se lo usiamo come meme.

Il resto è teatro: spettacolo legittimo, ma non prova.

Se proprio dobbiamo scegliere tra la verità comoda del montaggio e la scomodità della storia, scegliamo la seconda.

Costa fatica, non fa like immediati, ma è l’unica che rende liberi: di criticare, di correggere, persino di cambiare idea quando i fatti, quei maleducati, bussano alla porta.

I costrutti servono: senza, brancoliamo.

Ma sono strumenti, non oracoli.

Chiamarli “fuori luogo” non è delegittimarli; è un invito a riportarli al loro posto giusto: definizioni chiare, periodizzazioni corrette, dati alla mano, linguaggio prudente.

Solo così la discussione su famiglia, educazione, diritti, temi enormi e sensibili, resta seria, verificabile e utile.

Estrapolare spezzoni di dichiarazioni di 50 anni or sono senza contestualizzarle è un falso ideologico, che sempre più denota la limitazione degli strumenti di comunicazione moderni.

Alla fine di tutto resta da osservare che la Famiglia è il primo “istituto” che non ha bisogno di timbro.

E il solo che, se fallisce, non si sostituisce davvero, ci avete mai pensato??

Una famiglia che fallisce è insostituibile nella dimensione emotiva che distrugge.

Una società che discute all’infinito di diritti, mercato del lavoro e welfare ma smarrisce la famiglia come luogo di amore ed educazione, diventa un gigante con i piedi d’argilla.

Perché scuola, terzo settore, servizi sociali, persino le migliori politiche pubbliche arrivano seconde; la regia dei sentimenti, delle regole non scritte e della grammatica morale avviene tra le mura di casa.

Non è moralismo: è pedagogia di base.

Amore non come sentimento, ma come compito educativo

L’amore familiare non è una vaga tenerezza: è progetto. Significa stabilità delle cure, coerenza tra parole e azioni, rituali che danno sicurezza (orari, pasti, studio, sonno), confini chiari (no non negoziabili su pericoli e rispetto), e apertura progressiva all’autonomia.

Se vogliamo usare una formula volutamente spiazzante: l’amore ben dato è un contratto pedagogico, che promette cura e chiede responsabilità, promette ascolto e chiede verità.

Nel linguaggio dei giovani: “so che ci sei, so chi sono, so cosa è atteso da me, e so che posso fallire senza essere scartato”.

Educare è fare alleanze, non guerre domestiche.

La famiglia dovrebbe essere luogo di mediazione, non di battaglia.

La dialettica tra i genitori non è un problema: è un’occasione per mostrare ai figli che i conflitti si gestiscono senza umiliare, senza urlare, senza usare l’altro come clava identitaria.

Ogni volta che trasformiamo la casa in un tribunale, madre contro padre, nonni contro genitori, adulti contro scuola, stiamo insegnando non la giustizia, ma la vendetta; non il diritto, ma la fazione.

Ai ragazzi resta l’arte dell’evitamento (mentire, compiacere, disertare) e si atrofizza la competenza più preziosa in democrazia: la negoziazione ragionata.

Autorità o autoritarismo? La differenza è tutta nella credibilità

Autorità è il risultato di regole poche, chiare e applicate con equità; autoritarismo è imporre la stessa regola a caso, a orologeria, o solo quando siamo stanchi.

Autorità è prevedibilità: il giovane sa che non tutto si baratta, che l’adulto è affidabile, che gli errori hanno conseguenze commisurate (e spiegate).

Autoritarismo è capriccio con badge. I ragazzi, che hanno un radar finissimo per l’ingiustizia, non perdonano il capriccio travestito da principio.

Famiglia e differenze: “complementarità” non è gerarchia.

Difendere la famiglia come luogo dell’amore e dell’educazione non significa restaurare gerarchie stantie.

Significa riconoscere che ruoli diversi possono essere complementari (tempo, sensibilità, competenze), ma non diseguali in dignità, parola, responsabilità.

In casa la differenza è ricchezza, quando non diventa asimmetria di potere.

Se la famiglia si fa luogo di reciproca cura (non di prestazioni unilaterali), il giovane impara che la parità non annulla le persone: le libera ad essere migliori.

Tre pratiche concrete (non slogan) che cambiano il clima educativo:

Rituali deliberati: un tempo settimanale di consiglio familiare (30–40 minuti) in cui si rivedono regole, si pianificano impegni, si ascoltano bisogni.

Non terapia, governance.

Vocabolario dell’empatia: quando scatta il conflitto, prima si nomina l’emozione (“sei arrabbiato?”, “ti senti ingiusta la regola?”), poi si discute il comportamento. Separare persona e condotta evita etichette (“sei il solito…”).

Contratti di autonomia: obiettivi chiari (studio, sport, digitale), criteri trasparenti, riconoscimenti espliciti (fiducia, libertà) quando gli obiettivi sono rispettati; non solo sanzioni quando falliscono.

Digitale, scuola, gruppo dei pari: la famiglia come infrastruttura di senso.

Il digitale moltiplica esperienze, amici e ferite.

La famiglia non può ridursi a polizia degli schermi: serve alfabetizzazione emotiva (imparare a fermarsi prima della tempesta), metrica condivisa del tempo online, trasparenza sui rischi (contenuti, denaro, reputazione).

E poi alleanza con la scuola: il figlio non è cliente che “ha sempre ragione”, né capro espiatorio dei limiti degli adulti.

La famiglia forte costruisce ponti, non circolari di scaricabarile.

Il punto politico (sì, politico): sostenere la famiglia vuol dire scegliere priorità.

Se crediamo davvero che la famiglia sia luogo primario di amore ed educazione, allora le politiche devono essere coerenti: congedi fruibili, servizi 0–6 di qualità, sostegni al reddito mirati a chi educa davvero, orari urbani compatibili, fiscalità che non punisce chi investe nel tempo familiare.

Tutto il resto è retorica domenicale.

La famiglia è un bene pubblico prodotto in contesti privati: se lo Stato lo ignora, paga due volte, oggi in solitudini, domani in marginalità.

Una provocazione finale:

Famiglia non è “zona franca” dall’etica: è il suo banco di prova.

Se in casa mentiamo, screditiamo, denigriamo, non stupiamoci se i ragazzi porteranno la stessa grammatica nelle relazioni, a scuola, online.

E se trasformiamo la famiglia in campo di battaglia identitaria, con ruoli usati come armi, non chiediamo poi a scuola e società di riparare ciò che noi adulti abbiamo insegnato col cattivo esempio.

Difendere la famiglia come luogo di amore e educazione non è un ritorno all’ordine: è un avanzamento di civiltà.

È dire ai giovani: qui impari a fidarti e a discutere, a chiedere scusa e a rialzarti, a riconoscere i limiti e a sfidare le ingiustizie senza trasformare ogni relazione in guerra.

In famiglia l’uguaglianza non è uniformità: padre e madre hanno pari dignità e responsabilità, pur esprimendo stili diversi.

Questa complementarità, se coordinata, diventa risorsa educativa: messaggi coerenti danno sicurezza emotiva, regole chiare sostengono autocontrollo e autonomia, il confronto civile tra adulti insegna la negoziazione.

Ciò che conta è la regia condivisa: poche regole comuni, decisioni concertate, rispetto reciproco anche nel dissenso.

Quando invece uno domina o i genitori si contraddicono davanti ai figli, nascono triangolazioni, ansia e opportunismo.

Pratiche semplici aiutano: una breve riunione periodica tra genitori, un vocabolario educativo comune, “contratti di autonomia” con obiettivi e riconoscimenti firmati da entrambi.

In sintesi: uguali nel mandato, diversi nello stile, uniti nelle scelte, così i figli crescono più sicuri, responsabili e capaci di amare senza trasformare ogni relazione in battaglia.

Non c’è femminismo o maschilismo, c’è l’armonia della famiglia, senza prevaricazioni.

Il resto, leggi, dati, riforme, serve eccome.

Ma senza questo primo “istituto”, nessuna politica regge.

E, soprattutto, nessun ragazzo cresce davvero libero.

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