Il ricordo dei valori degli antenati è sempre educativo
Ricordare i defunti non è un gesto marginale, né un residuo folcloristico di culture passate, ma un’operazione profondamente educativa e strutturante, inscritto nel cuore stesso dei legami sociali e familiari.
In una società che tende a rimuovere la morte, a ridurla a fatto clinico o burocratico, a coprirla di eufemismi e a consumarla in tempi rapidissimi, la pratica del ricordo appare spesso superflua, quasi imbarazzante.
Eppure, dal punto di vista socio-pedagogico, proprio il modo in cui una comunità tratta i propri morti dice moltissimo sul tipo di umanità che essa intende trasmettere alle nuove generazioni.
È nel rapporto con i defunti che si condensa una delle funzioni educative più decisive: la trasmissione di valori etici considerati non come mode effimere, ma come costanti, come elementi relativamente stabili che attraversano le epoche e che trovano nel loro permanere la loro più alta legittimazione.
Quando parliamo di “valori etici costanti” non alludiamo a un blocco monolitico di norme immutabili, ma a un nucleo di principi, dignità, responsabilità, giustizia, cura dell’altro, onestà intellettuale, fedeltà alla parola data, che, pur reinterpretati nei diversi contesti storici, non cessano di essere riconosciuti come desiderabili.
Il ricordo dei defunti è uno dei luoghi privilegiati in cui tali valori vengono narrati, esemplificati, verificati e, in qualche modo, consegnati.
Far comprendere ai giovani che questi valori non sono invenzioni contingenti, frutto di una sensibilità momentanea, ma linee di continuità che legano il loro presente al passato di chi li ha preceduti, significa offrire loro un orizzonte stabile in un mondo percepito come fluido, mutevole, precario.
Da una prospettiva sociale, i defunti non sono semplicemente assenti, ma presenze simboliche che continuano ad abitare lo spazio comunitario.
I riti religiosi, le commemorazioni civili, i monumenti, i cimiteri, le giornate della memoria, costituiscono una trama di dispositivi simbolici attraverso cui una società dichiara chi vuole ricordare e perché.
Ogni lapide, ogni celebrazione, ogni anniversario non è una mera evocazione del passato, ma una scelta operata nel presente: stabilisce quali esistenze siano reputate degne di memoria e quali invece precipiterebbero nell’oblio.
In questo senso, il ricordo dei morti è un potente strumento di costruzione della memoria collettiva e, al tempo stesso, una forma di pedagogia implicita.
I giovani che partecipano, anche solo marginalmente, a questi riti, vengono introdotti a una gerarchia di valori: apprendono quali comportamenti, quali scelte, quali impegni sono considerati esemplari, quali vite vengono indicate come “testimoni” e quali, invece, sono taciute.
Il lavoro educativo dovrebbe consistere proprio nel rendere esplicita questa dimensione, aiutando le nuove generazioni a comprendere che la memoria dei defunti è sempre selettiva, che essa può essere tanto luogo di verità quanto strumento di manipolazione, e che la responsabilità etica sta nel distinguere tra celebrazione acritica e riconoscimento autentico.
All’interno della famiglia, questa funzione si fa ancora più evidente.
Il ricordo dei nonni, degli antenati, di parenti prossimi e lontani, non si limita al piano affettivo; è un dispositivo di genealogia simbolica, un modo per dire: “tu non inizi da zero”.
I racconti familiari, le fotografie, le frasi “siamo fatti così da generazioni”, “nella nostra famiglia non si è mai tollerata l’ingiustizia”, “tu porti il nome di…” costruiscono una trama identitaria che offre continuità e collocazione.
Nel momento in cui un adulto narra a un bambino la vita di un nonno, le fatiche di una bisnonna, le scelte coraggiose di uno zio, non sta semplicemente rievocando un passato, ma sta collocando il bambino dentro una linea di senso, dentro una storia più grande di lui.
È in questo gesto che il valore etico assume consistenza storica: la coerenza, l’onestà, la capacità di sacrificio, la solidarietà non appaiono come concetti astratti, ma come tratti incarnati in persone reali che hanno vissuto, sofferto, amato.
Questa operazione, tuttavia, richiede un’attenzione pedagogica raffinata.
Se il defunto viene trasformato in icona idealizzata, priva di contraddizioni, si esercita una pressione eccessiva sulle giovani generazioni, costrette a confrontarsi con modelli irraggiungibili; se, al contrario, la sua figura viene utilizzata per colpevolizzare (“non sei all’altezza di tuo padre”, “stai tradendo la memoria di tuo nonno”), il ricordo diventa strumento di controllo e non di crescita.
Una pedagogia del ricordo autenticamente educativa deve invece accettare la complessità: restituire i defunti come persone, con le loro luci e le loro ombre, mostrando come anche nelle vite imperfette si possano rintracciare tracce di valore e occasioni di apprendimento.
In questo modo, i giovani possono comprendere che i valori etici sono costanti non perché incarnati da figure eroiche e impeccabili, ma perché attraversano la fragilità delle biografie reali, si affermano e si rinegoziano nella concretezza delle scelte quotidiane.
Sul piano dello sviluppo personale, il rapporto con i defunti assume forme diverse nelle differenti fasi della vita.
Per il bambino, la morte è spesso un concetto oscuro, difficilmente elaborabile.
È proprio qui che il ricordo può svolgere una funzione introduttiva alla finitudine: parlare dei nonni scomparsi, mostrare fotografie, raccontare episodi di vita permette di integrare l’idea di morte nella trama dell’esistenza, evitando che essa compaia improvvisa, traumatica, incomprensibile.
La scelta educativa non dovrebbe essere né quella di occultare la morte con silenzi o bugie rassicuranti, né quella di esporre il bambino a dettagli crudamente realistici, ma quella di accompagnarlo con parole misurate, sincere, simbolicamente adeguate.
Così il tema del limite, lungi dall’essere un tabù, diventa un elemento che dà valore al tempo e alle relazioni: ciò che finisce, proprio perché finisce, è prezioso.
Nell’adolescenza, il discorso si fa più complesso. Il giovane inizia a interrogarsi sul senso della vita, sulla propria identità, sul futuro, e il contatto con la morte, attraverso lutti reali, rappresentazioni mediali, cronache di guerre e catastrofi, può scatenare crisi, angosce, ma anche profonde aperture riflessive.
In questo contesto, il ricordo dei defunti può funzionare come luogo di confronto con l’eredità simbolica della propria famiglia e della propria comunità.
L’adolescente si chiede quali valori raccogliere, quali mettere in discussione, quali trasformare; può rifiutare alcuni modelli, percepirli come lontani, giudicarli inadeguati, ma proprio questo processo di confronto è il motore della costruzione identitaria.
L’educazione dovrebbe sostenere tale dialettica senza irrigidirla, evitando sia la retorica della “tradizione da difendere a tutti i costi” sia il mito della “libertà assoluta” sganciata da ogni radice.
È in questo spazio che diventa essenziale far comprendere ai giovani che i valori etici non sono arbitrari: la giustizia, il rispetto dell’altro, la responsabilità, la dignità della persona, attraversano le generazioni, sopravvivono ai cambiamenti di costume, si presentano, con espressioni differenti, come costanti antropologiche.
Il ricordo dei defunti offre esempi concreti di questa continuità: permette di vedere come quei valori siano stati vissuti ieri e di interrogarsi su come possano essere reinterpretati oggi senza tradirne il nucleo.
Per l’adulto, infine, il ricordo dei defunti si intreccia con il tema della responsabilità intergenerazionale.
Non si è più soltanto figli e nipoti, ma si diventa genitori, educatori, cittadini chiamati a trasmettere un’eredità.
Fare i conti con i propri morti, con ciò che hanno dato e con ciò che non hanno potuto o saputo dare, significa decidere quali elementi di quella eredità riproporre e quali rielaborare.
L’adulto che racconta ai figli la storia dei propri genitori, dei propri nonni, compie un atto educativo che colloca i giovani in una catena temporale: non esistono solo presente e futuro, ma un passato che continua a operare come matrice.
Ed è appunto qui che il discorso sui valori etici costanti assume una risonanza particolare.
L’adulto, se consapevole, non si limita a dire “si è sempre fatto così”, formula priva di spessore, ma può mostrare come certe opzioni etiche abbiano prodotto vita, coesione, dignità, e come il loro abbandono rischi di generare disorientamento e frammentazione.
La scuola e la più ampia comunità educante potrebbero svolgere un ruolo fondamentale nel dare forma pubblica a questo lavoro di memoria.
Tuttavia, troppo spesso la dimensione del lutto e del ricordo dei defunti è espulsa dagli spazi scolastici, come se fosse tematicamente “impropria”, relegata alla sfera privata.
Si partecipa a commemorazioni, a giornate della memoria, a eventi istituzionali, ma il rischio è che tutto si riduca a ritualità formale, priva di elaborazione.
Una prospettiva socio-pedagogica, invece, invita a considerare questi momenti come occasioni strutturate di educazione alla memoria: preparare gli studenti alla partecipazione, lavorare sui significati, proporre attività di ricerca storica, di raccolta di testimonianze, di narrazione.
Non si tratta soltanto di ricordare figure illustri o vittime di grandi eventi, ma anche persone ordinarie che hanno segnato la storia di un territorio: insegnanti scomparsi, amministratori locali, lavoratori morti sul lavoro, cittadini che hanno vissuto forme esemplari di impegno.
In questo modo i giovani possono cogliere che la memoria non è un museo di statue, ma una tessitura di vite, e che i valori etici su cui si chiede loro di costruire la propria esistenza non sono imposizioni astratte, bensì eredità concrete di altre esistenze.
In parallelo, la scuola può diventare un luogo in cui i lutti personali degli studenti trovano riconoscimento simbolico.
Non si tratta di trasformare l’istituzione in un luogo di terapia, ma di evitare che il dolore di chi ha perso una persona cara sia completamente invisibile.
A volte è sufficiente poter nominare il defunto, poterne parlare con un insegnante o con il gruppo classe in un clima di rispetto, per evitare che il lutto si trasformi in isolamento.
Anche in queste situazioni, far emergere il ricordo significa restituire continuità alla biografia: la persona amata è morta, ma non è cancellata; il legame continua in forme diverse, e in quel legame continuano a vivere valori, parole, gesti che possono ancora nutrire la crescita.
Tutto questo si colloca in un contesto culturale che tende, invece, a rimuovere sistematicamente la morte.
L’ospedalizzazione del morire, la professionalizzazione dei riti funebri, la riduzione della presenza dei morti nella vita quotidiana hanno reso la morte un evento marginale, confinato in spazi separati.
I media, pur parlando costantemente di morte, lo fanno spesso in forme spettacolarizzate, distaccate, che non favoriscono un vero confronto esistenziale.
Ne deriva una contraddizione evidente: i giovani sono esposti a un flusso continuo di immagini di morte, ma raramente vengono accompagnati a elaborare il senso della finitudine.
In questo scenario, il lavoro educativo sul ricordo dei defunti si configura come una scelta controcorrente, quasi come un atto di resistenza culturale.
Ricordare, nominare, raccontare le vite finite, soprattutto quando si tratta di vite vicine, significa reintrodurre nel discorso pubblico il tema del limite, della vulnerabilità, della dipendenza reciproca.
Ed è proprio in questo confronto con il limite che i valori etici costanti si rivelano per ciò che sono: non orpelli moralistici, ma criteri che aiutano a decidere come vivere, sapendo che il tempo è finito e che le azioni lasciano tracce.
In tale quadro non si può ignorare il ruolo dei media digitali e dei social network nel plasmare nuove forme di memoria.
Profili che restano attivi dopo la morte, pagine commemorative, archivi di fotografie e video accessibili in ogni momento producono una sorta di “presenza continua” dei defunti.
Questo fenomeno è ambivalente: da un lato consente una vicinanza rassicurante, la possibilità di rivedere e riascoltare la persona scomparsa, di condividere ricordi con una comunità allargata; dall’altro rischia di congelare la figura del defunto in un eterno presente digitale, rendendo più complesso il lavoro del distacco simbolico.
Dal punto di vista pedagogico, diventa allora indispensabile interrogare criticamente queste pratiche: chi gestisce questi spazi? come vengono utilizzati? sono luoghi di semplice accumulo emotivo o possono diventare occasioni per riflettere su come vogliamo essere ricordati e su quali tracce digitali lasciamo di noi stessi?
Anche qui, la questione dei valori etici costanti riemerge con forza.
I giovani, immersi in una cultura della visibilità e dell’istante, hanno bisogno di comprendere che ciò che resta di noi, anche nel mondo digitale, non sono solo le immagini e i like, ma la qualità etica del nostro passaggio: come abbiamo trattato gli altri, come abbiamo usato la parola, come abbiamo esercitato il potere e la responsabilità.
Tutte queste dimensioni convergono in una considerazione finale: educare al ricordo dei defunti significa, in ultima analisi, educare alla vita.
Il ricordo non è un nostalgico ripiegamento sul passato, ma una postura che permette di abitare il presente con maggiore consapevolezza e di progettare il futuro senza illudersi di ricominciare ogni volta da capo.
Le nuove generazioni hanno bisogno di radici non per rimanere inchiodate a un modello già scritto, ma per poter scegliere con cognizione di causa quali continuità mantenere e quali fratture introdurre.
Se vogliamo che i giovani non scambino il relativismo dei consumi per libertà, è necessario mostrare loro che esistono valori che attraversano le generazioni e che la loro permanenza è un bene prezioso, un patrimonio da custodire e rielaborare, non un peso da sopportare.
La memoria dei defunti, con la sua trama di storie, di volti, di gesti, è uno dei luoghi più fecondi in cui questa pedagogia della continuità può prendere forma.
In una società che spesso vive “come se non si dovesse mai morire”, la capacità di fare i conti con i propri morti diventa cartina di tornasole della maturità collettiva.
Laddove il ricordo viene coltivato in forme retoriche o manipolatorie, la memoria si irrigidisce e diventa ideologia; laddove invece viene vissuto come processo critico, affettivo e simbolico, essa si trasforma in sorgente di senso, in luogo in cui il passato dialoga con il presente per generare futuro.
E forse è proprio qui che si gioca la sfida più radicale: aiutare i giovani a comprendere che il rispetto, la giustizia, la responsabilità, la cura, quei valori che hanno animato le vite di molti che li hanno preceduti, non sono reliquie di un’altra epoca, ma costanti etiche senza le quali nessun futuro potrà essere veramente abitabile.
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