Ashampoo_Snap_lunedì 21 aprile 2025_22h54m29s

Nel Deserto dei Tartari Dino Buzzati costruisce un dispositivo narrativo di straordinaria precisione: una fortezza ai margini del nulla, un presidio armato che attende un nemico forse reale, forse immaginario, ma certamente necessario.

La Fortezza Bastiani non è soltanto un luogo: è una forma mentale che organizza il tempo, conferisce senso alla disciplina, distribuisce ruoli e gerarchie, giustifica l’esistenza di un apparato.

Il punto, tuttavia, non è l’eventuale arrivo dei Tartari; è la maniera in cui l’attesa li rende indispensabili anche quando non ci sono.

Nel romanzo, l’assenza del nemico non dissolve il sistema: lo costringe, al contrario, a produrre significato mediante la vigilanza e la ritualità, trasformando l’“evento” in un orizzonte che non deve realizzarsi davvero, perché la sua realizzazione farebbe crollare l’architettura dell’attesa o ne rivelerebbe la natura fittizia.

Questa logica, l’economia politica del nemico, è sorprendentemente utile per leggere una tendenza ricorrente dell’Europa contemporanea: la pulsione, in tempi di crisi, a identificare un “nemico” totalizzante capace di semplificare l’angoscia, unificare la narrazione pubblica, e rendere governabile ciò che è strutturalmente complesso.

In questa prospettiva, il “nemico” non è necessariamente un soggetto concreto; è una funzione.

Serve a convertire problemi stratificati (transizione demografica, vulnerabilità energetica, stallo produttivo, disuguaglianze, fratture territoriali, precarietà esistenziale, crisi della rappresentanza, fragilità dell’ecosistema mediale) in un racconto più facile: qualcuno “ci minaccia”, quindi “dobbiamo” reagire così.

Il nemico diventa la scorciatoia interpretativa che consente di evitare la fatica di una diagnosi impopolare e di una terapia lunga.

Buzzati mostra come l’attesa del nemico abbia un potere seduttivo: dà alla vita un’aria di destino.

Giovanni Drogo, arrivando alla Fortezza, intuisce subito che la sua permanenza potrebbe essere breve; eppure resta.

Resta perché la Fortezza gli offre ciò che la vita ordinaria spesso nega: un significato coerente, una traiettoria, la promessa di un “giorno grande” in cui la sua identità sarà ratificata.

L’Europa, oggi, attraversa un vuoto simile: non un vuoto di eventi (gli eventi sono fin troppi), ma un vuoto di senso condiviso.

La crisi non è soltanto economica o geopolitica: è anche cognitiva e simbolica.

In questa condizione, l’invenzione o la sovra-rappresentazione del nemico diventa un modo di ritrovare unità: l’identità politica si riorganizza non attorno a un progetto di crescita civile, ma attorno a una paura comune.

Il romanzo è impietoso nel descrivere la grammatica della Fortezza: una burocrazia dell’allarme che non può ammettere la propria inutilità.

Qualunque segnale ambiguo viene trattato come presagio; ogni piccolo scarto nel deserto viene interpretato come prova.

È una semiotica della minaccia: non si comprende il reale, lo si adatta al bisogno di confermare l’attesa.

Analogamente, nelle crisi contemporanee le democrazie – soprattutto quando indebolite da frammentazione e sfiducia – possono scivolare verso una semiotica emergenziale: si selezionano indizi, si amplificano episodi, si incasellano fenomeni eterogenei sotto la stessa etichetta, e si produce una narrazione per cui la complessità è ridotta a un antagonista unico.

La funzione politica di questa operazione è evidente: se il problema è un nemico, allora la soluzione può essere rapida, dura, visibile; e soprattutto può essere comandata dall’alto senza troppe mediazioni.

Qui il parallelismo con Buzzati diventa più tagliente.

L’attesa del nemico, nella Fortezza, non fonda soltanto un sistema di difesa: fonda un sistema di carriere, di riconoscimenti, di senso della vita. Il nemico è la moneta che compra la legittimità dell’istituzione.

In Europa, la costruzione di un nemico – quando eccede la necessaria prudenza geopolitica e diventa schema mentale – rischia di svolgere la stessa funzione: re-legittimare apparati, disciplinare il dissenso, rendere moralmente sospetta la complessità (“chi problematizza è ambiguo”, “chi distingue è complice”).

È un meccanismo psicologico e politologico: l’insicurezza collettiva cerca un oggetto su cui fissarsi, e la politica può trasformare quell’oggetto in una piattaforma di consenso.

Ma il cuore del Deserto dei Tartari è la tragedia dell’esistenza delegata.

Drogo rinuncia progressivamente al proprio tempo reale per un tempo promesso. Non vive, attende di poter finalmente vivere “quando” accadrà. Il nemico immaginato colonizza la biografia.

Nella dimensione pubblica, qualcosa di analogo accade quando una comunità politica, invece di investire in riforme lente e strutturali, sposta la propria energia nell’immaginario del conflitto: si vive in funzione di una minaccia che spiega tutto e autorizza tutto.

Il risultato è una società in cui l’urgenza diventa permanente, e la politica si trasforma in amministrazione dell’allarme.

L’operazione è doppiamente falsa. È falsa, anzitutto, perché semplifica: tratta come “nemico” ciò che spesso è un intreccio di cause endogene ed esogene, e dunque impedisce la responsabilità interna.

Il nemico esterno (o astratto) è comodo: assorbe le colpe, evita di nominare gli errori, permette la retorica del “non dipende da noi”.

È falsa, inoltre, perché pretende governabilità dove servirebbero invece pazienza istituzionale, negoziazione, cultura della complessità.

La crisi europea richiederebbe competenze, pianificazione industriale, coesione sociale, politiche di lungo periodo, infrastrutture cognitive (scuola, università, ricerca, informazione).

La fabbrica del nemico, al contrario, tende a produrre scorciatoie: misure simboliche, posture muscolari, polarizzazione.

Buzzati, però, non si limita a denunciare l’inganno: mostra la sua attrazione.

La Fortezza è anche una comunità; l’attesa è anche una forma di appartenenza.

E proprio qui si colloca la pericolosità della gestione politica fondata sul nemico: essa genera una identità reattiva, un “noi” costruito contro qualcuno.

È un’identità fragile, perché dipende dall’esistenza continua dell’altro come minaccia.

Se la minaccia svanisce, il “noi” si sfilaccia; se la minaccia diminuisce, la si deve ingigantire; se la realtà non conferma, la si forza.

È un meccanismo che tende naturalmente all’escalation simbolica, e talvolta materiale.

Il danno a lungo termine, in un’Europa che ha già vissuto il prezzo delle mitologie antagonistiche nel Novecento, è grave e triplice.

Primo: erosione democratica.

La politica dell’emergenza costruita sul nemico tende a normalizzare eccezioni: compressione del dibattito, sospetto verso la critica, scorciatoie procedurali, delega crescente a tecnocrazie o apparati di sicurezza.

Anche quando tutto ciò nasce “per necessità”, col tempo modifica gli standard di ciò che la comunità considera accettabile.

Secondo: impoverimento cognitivo.

Se la realtà viene ridotta a un conflitto morale tra buoni e cattivi, si perde la capacità di diagnosi. Le istituzioni e l’opinione pubblica diventano meno abili nel distinguere, nel misurare, nel valutare trade-off.

La complessità, invece di essere governata, viene espulsa come fastidio. Questa è forse la forma più sottile di decadimento: una civiltà che smette di pensare bene smette, lentamente, anche di vivere bene.

Terzo: rischio di profezia che si auto avvera.

Un nemico “inesistente” costruito come necessario può diventare reale, perché l’ostilità simbolica produce ostilità politica, che produce reazioni, che producono nuove ostilità. L’immaginario prepara il terreno al fatto.

Buzzati suggerisce qualcosa di simile: l’attesa, prolungata e ritualizzata, crea nelle menti l’inevitabilità dell’evento.

E quando un sistema ha bisogno del nemico per giustificarsi, tende, consapevolmente o no, a muoversi verso condizioni che rendano plausibile lo scontro.

Il finale problematico del romanzo, la vita di Drogo che si consuma mentre l’evento decisivo resta sfuggente, e la grande occasione si trasforma in una sorta di destino privato più che in una gloria pubblica, è la lezione più politica che Buzzati possa offrire: l’attesa del nemico non salva dal vuoto, lo abbellisce.

Gli dà una cornice, non una sostanza.

Allo stesso modo, l’Europa che oggi cercasse un nemico “utile” per governare la crisi compirebbe un’operazione ingannevole: trasformerebbe un problema di costruzione (riforme, coesione, modello sociale, cultura, produttività, demografia, autonomia strategica, credibilità delle istituzioni) in un problema di contrapposizione.

E questo spostamento, anche quando produce consenso nel breve periodo, corrode le fondamenta nel lungo.

Il punto conclusivo, allora, è semplice e severo: è pericoloso governare attraverso una finzione, anche quando la finzione sembra ordinare il caos.

Perché la finzione, per reggere, chiede alimento: chiede paura, chiede polarizzazione, chiede l’abitudine all’urgenza.

E un continente che si abitua a pensarsi come Fortezza Bastiani, a vivere di allarmi, a misurare la propria identità in funzione di un nemico, a custodire la propria energia nell’attesa di uno scontro chiarificatore, rischia di perdere ciò che, storicamente, lo ha reso Europa: la capacità di trasformare il conflitto in diritto, l’angoscia in progetto, la complessità in istituzioni.

Buzzati, con la crudeltà elegante della sua allegoria, ci avverte che la minaccia più grande non è il nemico che arriva dal deserto; è il tempo che consegniamo al deserto mentre lo aspettiamo.


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