Mare Nostrum

Quel mare chiuso, così facilmente riconoscibile in tante foto satellitari del pianeta Terra, sarà per via dello stivale che vi stiracchia dentro tacco, punta e sperone, quel mare, dico, che orgogliosamente in Italia ancora viene detto ‘nostro’ da parte di chi, non so se più per convenzione imputabile alla scuola, o retorica, o ironia, o semplicemente a ragion poco veduta, si ostina a dirlo tale, nostro non lo è affatto.
O meglio non lo è più e da tempo.
E ciò non perché le cose siano necessariamente ed effettivamente cambiate da quando, vinti i Punici, i Romani lo dissero ‘nostrum’.
Ché ad essere onesti, quando si parla di fatti umani – tenendosi lontani dalla rivisitazione periodica delle pagine introduttive dei libri di storia e storiografia – si parla di fatti ‘finiti’, se non altro per un elemento imprescindibile.
Se la storia, infatti, è l’ambito di azione dell’uomo nella sua dimensione collettiva, questo agire ha una gittata che è strettamente misurata dal goniometro della sua capacità di previsione da un lato e di memoria dall’altro.
Tutto ciò che lungo la linea causa-effetto egli, uomo-collettività, riesce lucidamente, coscientemente e onestamente a inanellare è orizzonte d’azione di una generazione.
Quello che possiamo chiamare orizzonte storico di un uomo e della sua generazione solo apparentemente soffre di ipertrofia in direzione del passato.
Sempre solo apparentemente avvantaggiato dalla memoria figlia del lavoro di ricostruzione (ricostruzione ora lacunosa, ora interessata, ora ideologica, ora vile o servile), questo spazio orizzonte, per la dimensione del futuro, arriva lì dove l’uomo soggetto dell’azione storica può spingere le freccia delle sue congetture.
Non meno ignoto il futuro del passato.
Come Ulisse che attraverso i secoli, e sempre come fosse la prima volta, nel megaron del suo palazzo, non necessariamente li inanella tutti, ma tutti li vede quei dodici anelli alti di scure, così lo spazio storico, che si porti pace o si porti guerra entrando in una casa straniera, è uno spazio di visibilità.
Oltre quella linea è affare d’altri, la vicenda di uomini diversi da noi, il dominio dello studio storico, della funzione terapeutica e profilattica della storia, dell’eserciziario potente delle fattispecie del tempo.
Oltre quella linea non è più affare della storia come azione, e responsabilità, e colpa.
Ora quel Mediterraneo è nostro solo nell’orizzonte a noi visibile del diametro causa-effetto. Nostra causa-nostro effetto.
La bellezza della conoscenza ce lo mostra nel tempo, ci passa il testimone di una corsa battuta da altri, per sapere di correre a partire da dove altri hanno smesso esanimi di gareggiare.
Il loro guardarci madidi di sudore, le mani a uncino sulle ginocchia ossute, è condizione del nostro slancio, ma polvere, sete, vedute correnti, pensieri, rabbia e gioia della fatica di chi ci ha preceduto nulla tolgono e nulla danno alla nostra responsabilità di uomini che agiscono nell’orizzonte della propria staffetta, del proprio arco.
Alle Termopili della storia, dove la lezione del passato rinasce ogni volta dalle ceneri della ciclicità per essere rimangiata da sé stessa diventata più lucida e consapevole e amara, in queste gole strette qualcosa deve potersi dire “nostro”.
Nostro.
Mare nostro.
Nella città in cui sono nata, Manfredonia, le barche dei pescatori portano nomi di donna… Maria, Concetta, Siponta, Carmela… e poi Barbara, Martina, Federica…
Oscillano allineate nell’acqua verde del porto, docilmente tenute da cime torte e ruvide che a tratti cigolano.
Esse portano anche un linguaggio antico come il Mediterraneo, mare chiuso, fratello, lontananza su cui per secoli sono state gettate strade di schiuma salata.
Da Manfredonia, come da tante città e paesi sul mare Adriatico, i pescatori stanno scomparendo insieme al loro lavoro.
Eppure essi parlano ancora sulle banchine del porto vecchio una lingua meravigliosa come la sapienza ignorante di chi fatica per vivere.
Questa lingua ha parole precise, che purtroppo si vanno perdendo.
Nella loro fonetica stratificata sono come le cassette del pesce o le taniche fatte saltare dalla tolda sulla pietra del molo. In quel salto si sono tirate dietro radici e suoni di altre parole distrattamente strappate, come erba insieme a un cespo di insalata, ad altre lingue, di altra gente e di altre sponde.
Così, per fare un esempio, mentre si tira in secca l’arabo e poi francese sciabecco ai pescatori viene in mente, nel corpo, non nella testa, che quell’uomo solo e disperato, che se ne va dondolandosi nella vita per tenersi in equilibrio sul suo dolore inconcludente, “ì nu sciabbècche”, con la doppia “b”: suona quello che significa, suona quello che è.
Mi viene in mente “ṣumūd”, parola araba che ho imparato in questi giorni significare “resilienza” o “ferma perseveranza”, parte del nome della flotta alcune delle cui imbarcazioni giorni fa sono salpate da Genova.
Nella gittata di questo mezzo di soccorso c’è il diametro della storia-azione-responsabilità.
Deve esserci perché acquisti senso l’esserci.
Deve esserci perché suoni ‘nostro’: i portuali della flotta “șumūd” che salpa vedono l’ultimo anello appeso al soffitto del megaron di Ulisse.
Che si porti vendetta o si porti aiuto, l’azione è di chi la mette in atto perché ne ha concepito il termine, che è fine perché dà senso a quell’azione. Ne è causa finale, anche se si portasse guerra.
Il mare allora si fa nostro se ne vedi l’altra sponda già prima di salpare, ancora prima, a volte quando lo scafo è solo libro di tronco.
Genova-Gaza sono 1300 miglia di mare. 1300 miglia di mare pensate, volute, soprattutto sapute.
Questa cosa è pazzesca, a pensarla è pazzesca.
Volerla fare è assurdo.
Quanto costa, quanto non costa?
I canali istituzionali, non cambierà niente, gli altri popoli che soffrono, ci dimentichiamo degli altri che soffrono…
Diamine, sei un piccolo uomo mortale, ti senti caduto probabilmente per caso in un angolo di terra, in un cantuccio del tempo, nello scantinato infinitesimale del numero, se parliamo in questi termini, e proprio ora che ti viene data la possibilità di fare qualcosa di buono ti preoccupi del Tutto? Scuse, alibi.
Nel mare altro dell’assurdo immobilismo davanti all’orrore, Medusa proprio per questo, lei che ci fa statue di sale, questa gente dal porto di Genova ha fatto una cosa.
Ha saputo farla.
Ha saputo tendere quell’arco.
All’altro capo della sala una ciotola vuota di zinco sospesa sopra mani spesso di bambino.
In mezzo 1300 miglia di mare salato che torna a essere nostro perché se ne ha l’idea, la gittata, la portata, la realtà concreta delle cose, delle azioni fatte di cause e di effetti, di volontà e progettualità.
Colpa.
Responsabilità.
E che diamine, anche merito.
Meraviglioso, sacrosanto, ignorante e sapiente, ignaro teologo del Bene, cencioso principe della Giustizia!
Questa cosa non è da poco.
Il ministero della Sanità di Gaza il 4 dicembre 2024 aggiornava il bilancio delle vittime: almeno 16.248 persone uccise dal 7 ottobre 2023, se vogliamo fermarci all’ultimo dato possibile fornito dall’ISPI.
Non mi dite che dimentico gli altri, vi prego, a meno che non abbiate conquistato l’ubiquità espressiva del linguaggio del dolore…
Da allora ce ne sono volute migliaia e migliaia di altre per realizzare che ci separavano 1300 miglia di mare nostro.
Che quelle 1300 miglia di mare si fanno. Che si fa, si fa, si fa.
Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, ma non perché la otterranno: perché la credono possibile.
Ancora ritorna nella mente il suono della parola “şumūd”, “resilienza”, “ferma perseveranza”. E le parole prese in prestito dall’arabo, passate come clandestine sotto i calli delle mani dei marinai, sono finite dentro il linguaggio dei vecchi pescatori di Manfredonia: parole precise, sintassi essenziale, tutto accostato sullo stesso piano, senza gerarchie di pensiero.
Questa lingua porta per il mare, sulla chiglia di ogni barca, il nome di una mamma, una sposa, una figlia e una idea comune: la mano si tende, il giubbotto si lancia, la rete come appiglio si getta a salvare un uomo, lontano ignoto fratello.
Questa sapienza antica e ignorante che ci ha fatto diventare civiltà. Sopra il mare.
I portuali di Genova che giorni fa ho sentito accompagnare la partenza del convoglio italiano coinvolto in quella iniziativa umanitaria, portata avanti dalla società civile a favore di chi vive nella disgraziata terra di Gaza, queste donne e questi uomini partiti per un pezzo di Mediterraneo che soffre contro ogni umanità, leggeri di 45 tonnellate, così sembra, di aiuti, mi hanno fatto pensare a una preghiera sul mare, a una processione col Santo sulla barca dalla tolda adorna di ghirlande.
A Manfredonia le donne anziane ancora si commuovono quando la vedono scivolare sul mare la mattina del primo settembre: il santo bello e grande, felice anche lui della brezza del mare che gli arriva addosso dopo i mesi al chiuso nella sua campana di vetro, tende le mani e detta una costituzione di aiuto e solidarietà. Tira fuori l’uomo dalla caverna della bestia, l’uomo fuori da se stesso.
Anche queste barche della Ṣumūd Flotilla hanno un nome di donna sulla loro chiglia: Giustizia. Beati allora i portuali che hanno fame e sete di giustizia perché credono ci sia una possibilità per essa tra gli uomini.
Che siano protetti perché quella donna li aspetta a casa.
Evviva i mari, le terre, gli scafi, le strisce dei giusti.
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