O con me o contro di me: il governo che teme il confronto

La revoca della commissione sui vaccini da parte del ministro Orazio Schillaci non è un dettaglio tecnico, ma un atto politico che grida fragilità.
La ragione, a parte quelle montate per l’occasione?
All’interno dell’organismo sedevano due membri che non la pensavano esattamente come il governo.
Due voci critiche, due teste pensanti.
In qualunque Paese democratico e maturo sarebbe stato considerato un valore aggiunto; in Italia, sotto questo esecutivo, è stato invece un difetto da correggere.
Eppure, la filosofia della scienza lo dice chiaramente: senza contraddittorio non c’è progresso, ma solo dogma.
Karl Popper ricordava che il sapere cresce nel confronto tra ipotesi contrapposte.
Allo stesso modo, la politica si rafforza non eliminando il dissenso, ma includendolo.
Norberto Bobbio ci ammoniva: la democrazia è governo delle regole, non degli uomini.
E le regole esistono per garantire pluralismo, non per assicurare unanimismi artificiali.
Revocare una commissione perché non perfettamente allineata significa certificare la propria debolezza politica.
È la scelta di chi non sa reggere la prova del dubbio e preferisce il rassicurante silenzio uniforme.
Il dissenso, che in teoria dovrebbe essere la cartina al tornasole della serietà di una decisione, diventa invece il nemico da cacciare.
Ma non si tratta di un episodio isolato.
Il metodo è sempre lo stesso: “ripulire” organismi e istituzioni da figure considerate scomode.
Lo abbiamo visto nella scuola, con riforme annunciate e calate dall’alto, senza un vero confronto con docenti e studenti.
Lo abbiamo visto nella cultura, con nomine che hanno privilegiato fedeltà e appartenenza invece di competenza.
Lo abbiamo visto nella comunicazione istituzionale, trasformata in uno spot permanente, dove lo slogan vale più dell’interlocuzione con la società civile.
Noi di Betapress lo abbiamo subito sulla nostra pelle.
Il paradosso è evidente: questo governo si proclama “del merito” e “della competenza”, ma in realtà marginalizza proprio quelle voci che incarnano il merito e la competenza critica, il rigore del dubbio e la serietà del contraddittorio.
Ed eccoci al punto più inquietante: dopo la stampa, adesso si vuole controllare anche la scienza. Un potere che teme i giornalisti liberi e ora teme persino i ricercatori critici, mostra la sua vera natura: quella di un governo che non sopporta spazi di autonomia intellettuale.
Albert Einstein scriveva: “La libertà di ricerca è la base di ogni progresso.” Galileo Galilei ammoniva che “non si può insegnare nulla a un uomo, si può solo aiutarlo a trovare la verità dentro di sé.”
E Richard Feynman, premio Nobel per la fisica, ricordava che “la scienza è la credenza nell’ignoranza degli esperti”: cioè la continua messa in discussione di ciò che appare scontato.
Eliminare le voci fuori dal coro significa rinunciare a questa dimensione essenziale del sapere: la capacità di dubitare, di mettere in crisi, di verificare.
Nell’attuale delirio di onnipotenza non c’è più solo il tentativo di manipolare la narrazione giornalistica, ma l’ambizione di imbrigliare anche il metodo scientifico.
Ed è forse questo il segnale più grave: quando uno Stato non tollera il pluralismo della scienza, tradisce la propria debolezza culturale e democratica.
È la vittoria apparente del pensiero unico, che però si traduce in un impoverimento del dibattito e, di conseguenza, in scelte fragili e poco credibili.
La vicenda della commissione vaccini è allora un simbolo: dimostra che l’esecutivo non ha la forza di governare la complessità e che, di fronte a due semplici voci fuori dal coro, preferisce epurare piuttosto che ascoltare.
In una parola: incapacità politica.
Perché il problema non erano i due commissari critici.
Il problema, semmai, è un governo che ha paura di chi non applaude.
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