Ovunque Elena

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Elena Drommi dimostra mano sicura, immaginario coerente e intelligenza del supporto. Le opere convincono perché non “imitano” Oriente e natura, ma li traducono in un lessico personale, dove il contorno governa il colore e l’ornamento diventa narrazione continua. Con piccoli affinamenti (gerarchia del dettaglio, micro-ombre selettive, sperimentazione di finiture) il lavoro è pronto per dialogare a pieno titolo con il circuito delle gallerie che curano il ritorno al bello colto, a cavallo fra arte, design e artigianato d’autore.

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L’itinerario artistico di Elena Drommi, a giudicare dalle opere, parla innanzitutto di riconoscimento di sé prima ancora che di rappresentazione del mondo.

Non è un percorso psicologistico, bensì etico-poetico: la forma non illustra semplicemente valori, li esercita.

Tre sono i piani su cui questa ri-trovata identità appare con chiarezza: il rapporto con il tempo, la cura del vivente e la scelta di una genealogia culturale non egemonica.

Il tempo come disciplina di libertà.
Le superfici curve delle uova e il campo bidimensionale delle pitture costringono a una pratica lenta, iterativa, quasi liturgica.

Qui la “decorazione” non è una cornice che abbellisce, è una ascesi del gesto: ripetere foglie, bacche, piume, squame significa allenare l’attenzione e, con essa, la presenza a sé.

In termini pedagogici, potremmo dire che l’opera agisce come dispositivo di regolazione dell’attenzione: il ritmo del segno seleziona ciò che conta e lascia cadere il superfluo.

In questa assiduità Drommi si ritrova non perché afferma un io, ma perché lo misura su una regola: il contorno fermo, la coerenza delle campiture, la pazienza del lucido finale.

La libertà non si oppone alla regola: nasce dalla regola.

La cura del vivente come etica implicita.
La scelta iconica – vegetali, uccelli, insetti, il drago come animale della soglia – non è casuale. Il vivente, piccolo e non monumentale, viene messo in primo piano e circondato da un ambiente che non è sfondo ma habitat.

Ciò che altri trattano come ornamentale, qui diventa ecologia del dettaglio: ogni foglia sostiene l’insieme, ogni diramazione “nutre” l’occhio. È una postura valoriale: riconoscere la dignità del minimo, ricucire le relazioni, far vedere la interdipendenza.

Dentro questo sguardo c’è un’idea di responsabilità: prendersi cura della forma equivale a prendersi cura del mondo. Per questo le opere hanno un’aura di serenità vigile, mai sentimentalista: sono oggetti pazienti che chiedono uno sguardo paziente.

Un’autobiografia culturale: Mediterraneo e Oriente parlati in prima persona.
Il sincretismo di miniature persiane, lacche eurasiatiche, bordure “chinoiserie” e cromie mediterranee non suona come moda esotista.

È piuttosto una scelta di appartenenza plurale: collocarsi in una genealogia alternativa a quella occidentale accademica “di potenza”, scegliendo tradizioni in cui ornamento è conoscenza.

È un atto identitario: Drommi trova se stessa facendo parlare linee madri che la precedono, l’arte tessile, la miniatura, l’arte applicata, e che storicamente sono state sminuite rispetto alla grande pittura.

Assumere quelle genealogie significa dare valore a ciò che è stato marginale: è una posizione etica e, insieme, una politica del gusto.

Simboli come auto-narrazioni.
L’uovo: archetipo di nascita e promessa. Sceglierlo come supporto è dichiarare che l’arte è un contenitore di rinascite, non un piano di facili effetti.
La processione: la bellezza come evento comunitario; l’io che si ritrova camminando con altri, dentro rituali condivisi.
Il drago: guardiano della soglia, figura di energia custodita.

Non un mostro aggressivo, ma una forma di forza disciplinata: ciò che l’artista chiede a sé stessa nel facendo.

La tecnica come forma di verità.
La verità, qui, non è proclamata ma verificata dal mestiere.

Il contorno saldo, la saturazione uniforme dei campi caldi, la lucidatura che sigilla il lavoro in un tempo compiuto: tutti questi elementi sono prove di carattere.

L’identità non si confessa; si costruisce con coerenza di scelte, con il coraggio di ripetere, correggere, togliere. In questo senso la lucidatura finale non è solo finitura: è promessa mantenuta.

Una nota sul “femminile del fare”.
Senza cadere in essenzialismi, vale la pena osservare che l’opera prende sul serio pratiche storicamente associate al lavoro femminile – ricamo, lacca, miniature, pattern – e le rilancia come saperi alti.

Ritrovare sé significa anche sottrarre queste grammatiche al destino di “artigianato minore” e mostrarne la potenza conoscitiva.

Che cosa impariamo dai suoi principali valori? di certo una Lentezza competente contro la velocità distratta, la Relazione contro individualismo estetizzante, la Memoria ospitale per far convivere tradizioni diverse non per accumulo, ma per accordo, ed infine la Sobrietà nel rinunciare all’effetto teatrale della profondità per scegliere un chiaro sistema di superfici parlanti.

Nelle opere di Elena Drommi il “ritrovarsi” non è un esito psicologico ma un metodo: attenzione, misura, fedeltà a genealogie scelte, responsabilità verso il minimo.

L’artista si riconosce perché si impegna: nel segno che non esagera nel colore, che non tradisce nella pazienza, che non cede alla fretta.

Ed i valori che la muovono – cura, relazione, memoria, disciplina – non stanno attorno alle opere, sono le opere, nella loro forma.

Il lavoro si colloca in quella fascia virtuosa di confine fra arti applicate e arti visive in cui, dalla seconda metà dell’Ottocento in poi (Arts & Crafts, Fortuny, fino a certi ritorni neo-decorativi tardo-Novecento), l’ornamento torna a farsi discorso e non mera superficie.

Drommi pratica un sincretismo mediterraneo-asiatico aggiornato al gusto contemporaneo per il pattern e per l’oggetto domestico che è anche reliquia estetica.

È una direzione oggi appetibile da gallerie che lavorano sul dialogo tra craft e fine art, su boutique museum shop e su residenze d’artista con vocazione textile/ceramic.

Le uova laccate/dipinte (fondi rosso cinabro e giallo zafferano)

Queste due sculture-ornamento sono il nucleo più compiuto del corpus. L’oggetto-ovale, per tradizione un “supporto problematico” (assenza di perno assiale, curvatura continua, impossibilità di un vero fronte/retro), è assunto dall’artista come volume narrativo avvolgente. La pittura non “occupa” la superficie: la organizza secondo una logica di arabesco vegetale che si avvolge spiraliforme, senza cesure. Ne risultano opere a horror vacui controllato: la densità del fogliame, i grappoli di bacche, gli inserti entomologici e ornitologici riempiono lo spazio ma lasciano respirare la forma grazie a diramazioni che funzionano da pause ritmiche.

Sul piano genealogico, l’immaginario convoca tre tradizioni:
a) la miniatura islamica e indo-persiana (Kashmir/Mughal) per il vigoroso linearismo nero e l’uso del fondo saturo come campo pittorico autonomo;

b) la cultura delle lacche eurasiatiche (da certe prove russe di scuola Palekh alle carte “cinese” e alle laccature ottocentesche europee) per la finitura lucida e la resa smaltata dei colori;
c) il naturalismo illustrativo ottocentesco alla William Morris e compagni Arts & Crafts, nelle silhouette della vegetazione e nella lettura quasi tassonomica di uccelli, frutti e insetti.

Eccellenti le linee maestre ferme, non tremule, con passaggi tonali essenziali (più che modellare, Drommi ritaglia forme nella luce), e un vernice/finitura che, oltre a proteggere, amplifica la saturazione cromatica. La resa del giallo e del rosso, campiture rare da gestire su superfici curve perché tendono a “striare”, è pulita; le micro-sbavature puntiformi visibili in controluce appartengono più al respiro dell’esecuzione manuale che a imprecisione.

Sul piano iconografico, la scelta del melograno/fiore pendulo e del passeriforme (sulla sfera gialla) rivoca simboliche di fecondità, abbondanza e rinascita care sia al Mediterraneo sia alla Persia; la sfera rossa, con brattea, bacche bianche e insetti, ha una cifra più “autunnale” e medica il rosso in una dialettica vita/maturazione. Sono opere che funzionano sia come oggetti d’arte applicata sia come micro-pitture da contemplazione, con un punto di forza nella continuità del segno lungo la curvatura (difficile da ottenere).

La scena processionale su fondo rosa carminio

Qui Drommi esplicita la matrice della miniatura moghul/persiana traslata su formato tessile o parietale. La processione di cavalieri e dignitari procede da sinistra verso un’architettura fantastica a cuspidi e losanghe: non realismo ma 

architettura-pattern, che raddoppia la natura ornamentale del bordo inferiore. Il rosa caldo (tra cochineal e lacca di garanza) è usato come campo tonale dominante e volutamente piatto, su cui le figure stagliano per contorni netti e campiture di valore medio-alto: scelta coerente con la grammatica della miniatura, dove la luce “viene” dal colore più che dal chiaroscuro.

Elegante la sfasatura verticale fra il tronco vegetale di destra e lo stendardo di sinistra, che costruiscono un arco visivo entro cui si incastra il corteo, mentre la scala gerarchica misurata (montati più grandi, astanti compatti), senza cadere nel caricaturale diventa introduzione e corpo con la bordura inferiore trattata come tappeto, cerniera fra racconto e decoro.

Qui la sfida è la gestione della profondità: l’artista sceglie la bidimensionalità come cifra programmatica.

   Il drago su campo avorio con partitura di cornice

Opera più simbolica, di ascendenza sino centrica (drago longiforme, testa leonina, baffi fluttuanti, quattro arti con artigli).

Il segno è calligrafico, con una linea madre sicura che disegna l’intero rettile in un’unica corsa elastica; le maculature verdastre sono modulazioni sobrie che evitano l’effetto cartoon. Il bordo scallop e gli inserti laterali dialogano con la grammatica decorativa “islamicate” già vista: è un sincretismo orientale che Drommi controlla con misura. Ottimo il rapporto tra vuoto attivo (il campo avorio) e serpentina del corpo: la figura respira e “suona”.

Qui l’attenzione s’appoggia, in prospettiva, alla variazione degli spessori di linea (calligrafia con penne più morbide e pennelli a punta lunga) per accentuare ulteriormente la percezione del movimento.

Le fotografie delle opere sono del fotografo internazionale Pepito Torres.

C’è una coerenza profonda tra il lavoro di Drommi e la regia di Torres: entrambe le pratiche sono arti della misura. L’artista compone con ripetizione paziente e contorno fermo; il fotografo risponde con luce disciplinata e tono cromatico contenuto.

Si ottiene così un dispositivo etico-estetico condiviso: la cura.

La fotografia, lungi dal rubare spazio all’opera, ne esplicita i valori, lentezza competente, attenzione al minimo, rispetto delle genealogie, e li rende trasmissibili senza perdita di senso.

Dire che “le opere sono state fotografate da Pepito Torres” equivale, criticamente, a dire che l’intero ecosistema di visibilità è stato pensato con standard alti, rafforzando la leggibilità dei tratti distintivi di Drommi (ornamento narrativo, cromie identitarie, sincretismo mediterraneo-orientale), consolidando la credibilità curatoriale e, non ultimo, depositando un valore d’archivio per un futuro catalogo ragionato.

L’incontro tra l’etica della forma di Elena Drommi e l’etica della luce di Pepito Torres produce non “belle fotografie di belle opere”, ma un atto congiunto di riconoscimento: l’artista si ritrova nelle sue opere, e l’opera si ritrova nella fotografia che la racconta con verità.

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