Vittorio Emanuele III e il tradimento ambiguo di Mussolini: tra potere, protezione e silenzi.

Il 25 luglio 1943 segna una delle svolte più drammatiche e decisive nella storia italiana del Novecento.
In quella data, Vittorio Emanuele III, re d’Italia, ordinò l’arresto di Benito Mussolini, il capo del regime fascista che aveva dominato il paese per vent’anni.
Una decisione che, se da un lato rappresentò il tradimento politico più clamoroso, dall’altro è avvolta da un alone di ambiguità, calcoli personali e strategici che ne hanno modellato il significato storico.
Un tradimento necessario ma calcolato, il re non volle perdere l’occasione che lui stesso aveva fortemente caldeggiato negli ultimi mesi.
La monarchia, nel luglio del 1943, era messa alle strette: l’Italia stava perdendo la guerra, il consenso verso il fascismo era ormai evaporato, e la nazione rischiava il collasso totale.
In questo contesto, il re si trovò di fronte a una scelta che avrebbe cambiato per sempre il destino del Paese: rimuovere Mussolini per salvare la monarchia e l’istituzione stessa della corona.
Non si trattò però di un tradimento improvvisato o emotivo.
Vittorio Emanuele III agì con freddezza e pragmatismo, attendendo il voto del Gran Consiglio del Fascismo, che nella notte tra il 24 e il 25 luglio presentò la mozione che di fatto delegava al re il potere supremo.
Fu su quella base, che il re considerava come una legittimazione politica, che il sovrano convocò/ricevette Mussolini, annunciandogli la sua rimozione e facendo arrestare il Duce.
Nel suo rapporto ufficiale, il re descrive così l’incontro: “Gli comunicai la mia decisione di sostituirlo. Egli rimase esterrefatto” (Archivio di Stato, Roma, 25 luglio 1943).
Mussolini viene immediatamente arrestato e trasferito in varie località segrete, ultima delle quali il rifugio del Gran Sasso.
L’arresto non è frutto di un accordo tra i due, ma di una decisione unilaterale del re, spinto dall’urgenza di salvare la monarchia e il paese dal disastro totale.
la reazione del duce infatti, citata da molti testimoni, non fu quella di chi se lo aspettava, ma di una persona tradita nella fiducia che si mise subito a contestare l’azione; il duce smise solo nell’ambulanza quando capì l’inevitabile.
La mossa fu un gesto di potere, ma non di annientamento
Il gesto del re tradiva Mussolini, ma non voleva essere una distruzione definitiva.
Questa ambivalenza è una delle chiavi per comprendere la complessità di quella scelta.
Vittorio Emanuele III non consegnò Mussolini agli Alleati, nonostante sarebbe stato possibile farlo, e non lo mise nelle condizioni di diventare una vittima di un processo pubblico o di un’esecuzione politica, anche perché il re sapeva bene delle capacità del duce di volgere a suo favore una siffatta situazione, considerando inoltre che ancora il duce godeva di importanti sostenitori.
Invece, Mussolini fu trattenuto in una sorta di prigionia “protetta”, in località isolate come Campo Imperatore, dove le condizioni di detenzione erano dure ma non mortali, e dove il Duce rimase distante dalla scena politica ma senza che il re decidesse di disfarsene completamente.
Quando Mussolini fu trasferito al rifugio di Campo Imperatore, sul Gran Sasso, in una prigione quasi “naturale”, il re Vittorio Emanuele scelse di fuggire verso il Sud, lasciandolo in balìa del suo destino.
Questo episodio alimentò il dubbio espresso da storici come Indro Montanelli e Aldo Cervi: perché non liberare il Duce, suo cugino, e portarlo con sé?
La risposta potrebbe risiedere nella complessità delle relazioni familiari e nelle considerazioni politiche.
Da un lato, mantenere Mussolini isolato significava allontanare un pericolo politico; dall’altro, consegnarlo agli Alleati o eliminarlo avrebbe avuto implicazioni legali e morali che il re non poteva o non voleva affrontare.
Così, l’ombra di un legame di sangue e di un rispetto residuale impedì la “morte” politica definitiva di Mussolini nelle mani italiane.
Qui sta il nodo della questione, ma la risposta non è poi così complessa.
La monarchia aveva intrecci troppo significativi con il fascismo per potersene tirar fuori solo tradendo Mussolini.
Se il re avesse voluto realmente “liberarsi” di Mussolini, avrebbe potuto consegnarlo agli Alleati come criminale di guerra, ponendolo così sotto la giurisdizione internazionale e distanziandosi definitivamente dal regime e dalle sue responsabilità.
Ma questa scelta non fu fatta. Le ragioni sono molteplici e intrecciate.
Mussolini e Vittorio Emanuele III erano legati da una relazione complessa, fatta anche di rispetto e di rapporti indiretti attraverso famiglie reali europee alleate o imparentate (come Franco in Spagna o Pio XII in Vaticano).
Il re, pur tradendo Mussolini come capo politico, non volle trasformarlo in una vittima politica da consegnare senza protezione.
Non mancarono in aggiunta significativi calcoli politici e giuridici.
Nel 1943 il diritto internazionale era ancora inadeguato nel gestire i criminali di guerra.
L’armistizio non prevedeva protocolli precisi, e consegnare Mussolini agli Alleati avrebbe potuto esporre la monarchia a pesanti accuse e a un processo per crimini di guerra contro la monarchia stessa.
La volontà della monarchia di mantenere un controllo indiretto sul duce fu chiara dal meccanismo di protezione che venne attivato immediatamente.
Tenendo Mussolini prigioniero, il re conservava una sorta di controllo sul suo destino, evitando che diventasse un martire o un simbolo per la resistenza fascista, ma anche che cadesse completamente nelle mani dei nemici.
Nei giorni successivi, Mussolini invia una lettera a Pietro Badoglio, nuovo capo del governo, dichiarandosi disponibile a “collaborare per la salvezza della patria” (Lettera di Mussolini a Badoglio, 2 agosto 1943, Archivio Centrale dello Stato).
Questa dichiarazione appare quasi surreale, dato che Badoglio era stato il primo a tradire Mussolini e a ordinarne l’arresto.
Storici come Claudio Pavone interpretano questa lettera come un tentativo disperato di Mussolini di salvare la propria vita e dignità, più che un vero accordo politico (Una guerra civile, 1991).
A nostro avviso in realtà quella lettera, scritta certo dopo un arresto inaspettato e giorni convulsi per il duce, fu in realtà un ultimo gesto di orgoglio nella sua forzata prigionia.
Una prigionia che anticipò la liberazione tedesca, infatti questo equilibrio precario durò fino all’operazione tedesca “Quercia” nel settembre 1943, quando Mussolini fu liberato dai comandi speciali di Hitler, dando vita alla Repubblica Sociale Italiana, un regime fantoccio sotto controllo nazista.
La mancata consegna di Mussolini agli Alleati e la sua successiva liberazione tedesca rivelano quindi un intreccio di strategie, paure e alleanze ambigue, in cui il re scelse di tradire il Duce ma senza consegnarlo a un destino di vittima politica, mantenendo così un ambiguo rapporto di protezione e controllo.
La decisione del re Vittorio Emanuele III non fu dunque un atto di semplice tradimento, né un’azione finalizzata alla cancellazione completa di Mussolini.
Si potrebbe anche pensare ad una componente umana nella decisione del re: impedire a Mussolini una fine violenta e assicurargli una detenzione protetta, lontano dal caos e dalle rappresaglie.
Fu piuttosto una mossa calcolata, fatta di tradimento e di tutela, di potere e di protezione, che rispecchia l’ambivalenza di un’Italia a un passo dal crollo.
Il tradimento ambiguo di Vittorio Emanuele III rappresenta il coronamento di un comportamento politico del re che rimase per tutto il ventennio ai margini delle scelte politiche, demandando al fascismo fin troppe decisioni.
In questa scelta si riflettono i limiti e le fragilità della monarchia, impegnata a salvare se stessa ma incapace di liberarsi definitivamente del proprio passato fascista.
Così, l’arresto di Mussolini appare come un tradimento ambiguo, una condanna senza esecuzione, una fine incompleta di un regime destinato a lasciare un’eredità complessa e difficile da definire.
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