Branca Branca Branca, Leon Leon Leon … Flottiglia per Gaza: tra bluff, ingenuità e il rischio della farsa

0
6abf449b-2d43-4393-a172-a4f9ec87a767

Si chiama Global Sumud Flotilla e dovrebbe portare aiuti a Gaza.

Diciamo “dovrebbe” perché, guardando i fatti, viene da chiedersi se si tratti davvero di un’operazione umanitaria o piuttosto dell’ennesima passerella politica travestita da gesto di solidarietà.

Barche civili, equipaggi improvvisati, partenze rimandate per maltempo, imbarcazioni colpite da droni prima ancora di lasciare le coste tunisine: basta scorrere le cronache di questi giorni per capire che l’operazione non è nata sotto una buona stella.

E forse il problema è proprio a monte: non si può affrontare un blocco navale militare con mezzi da crociera civile e aspettarsi di passare indenni.

Lo spettacolo che ne è venuto fuori assomiglia più a una parodia che a una missione umanitaria.

Navi mal equipaggiate, ciurme eterogenee, proclami roboanti e risultati modesti: l’immagine che viene in mente è quella dell’Armata Brancaleone, il celebre film di Monicelli in cui un manipolo di avventurieri improvvisati parte alla ventura con più illusioni che mezzi.

E come per l’Armata Brancaleone, anche qui il rischio è che il mondo rida invece di indignarsi, che l’opinione pubblica veda più la goffaggine del gesto che la tragedia della causa.

Perché se la solidarietà appare come un corteo improvvisato di “pellegrini del mare”, il messaggio politico e umanitario si annacqua, appunto, e si perde nel ridicolo.

La verità è che questa flottiglia non ha mai avuto un obiettivo chiaro.

Da una parte si è detto: “portiamo aiuti concreti”.

Ma chi conosce, anche solo superficialmente, la situazione sa che nessuna nave potrà mai attraccare a Gaza senza il via libera di Israele.

Dall’altra parte, allora, si è puntato tutto sul gesto simbolico, sulla foto da prima pagina, sulla retorica della resistenza civile.

Peccato che così facendo si siano ingannati non solo i partecipanti, molti dei quali in buona fede, ma anche l’opinione pubblica internazionale.

Perché un conto è dire “facciamo un’azione simbolica”, un altro è promettere ciò che si sa già di non poter mantenere.

Il punto più grave, però, non riguarda gli attivisti, ma la politica.

Ci sono stati leader, parlamentari, esponenti di partiti che hanno deciso di imbarcarsi o di sostenere apertamente l’iniziativa.

Una scelta che può sembrare coraggiosa, ma che in realtà rivela un vuoto enorme di responsabilità.

La politica non può fare il mozzo sulle navi: deve agire nei palazzi, nei consessi internazionali, nelle sedi diplomatiche dove si decidono i corridoi umanitari, i cessate il fuoco, le risoluzioni vincolanti.

Se i politici rinunciano al loro ruolo istituzionale per indossare i panni degli attivisti, allora chi porta avanti le trattative, chi costruisce le alleanze, chi esercita pressioni diplomatiche?

Un conto è testimoniare, un altro è abdicare al proprio compito.

Il Mediterraneo non ha bisogno di nuovi Brancaleone, ma di politici che sappiano esercitare il peso della loro funzione.

Il ricordo della Freedom Flotilla del 2010 dovrebbe bastare: allora, nove attivisti morirono sull’onda di uno scontro frontale con la marina israeliana.

Eppure, a distanza di quindici anni, siamo di nuovo al punto di partenza: barche civili contro navi da guerra, dichiarazioni altisonanti contro realtà militare.

Si poteva imparare, invece si è replicata la stessa scena, senza calcolare i rischi e senza costruire alternative più solide e credibili.

C’è poi un aspetto di cui nessuno parla: i costi.

Organizzare una spedizione del genere, con navi, carburante, equipaggi, sicurezza e logistica, significa spendere centinaia di migliaia di euro, addirittura milioni di euro.

Denaro che, se incanalato nei canali tradizionali di cooperazione — Croce Rossa, Nazioni Unite, Ong realmente operative sul territorio — avrebbe moltiplicato il valore degli aiuti, invece di disperderlo in un’avventura tanto rischiosa quanto inefficace.

È la dimostrazione plastica di come spesso la ricerca del gesto clamoroso valga più della sostanza.

Infine, la domanda più scomoda: c’era davvero bisogno di dare ulteriore evidenza al conflitto di Gaza?

Non stiamo parlando di una guerra dimenticata, oscurata dai media: Gaza è sui telegiornali di tutto il mondo, ogni giorno, a ogni ora, con immagini che scuotono e indignano.

L’idea di “accendere i riflettori” non regge, perché i riflettori sono già accesi da mesi.

Forse quello che manca non è la visibilità, ma la volontà politica di tradurre quella visibilità in soluzioni reali.

E questo non si conquista con un corteo di barche, ma con diplomazia, pressioni internazionali e accordi concreti.

Il rischio più grande è che queste missioni, invece di aiutare davvero i civili di Gaza, finiscano per indebolire la causa umanitaria stessa.

Perché quando la solidarietà diventa spettacolo, quando l’attivismo si trasforma in parata ideologica, allora la credibilità si sgretola.

La Global Sumud Flotilla passerà forse alla cronaca come un gesto coraggioso.

Ma agli occhi di molti resterà soprattutto l’immagine di un’Armata Brancaleone in salsa mediterranea, dove si confonde la politica con l’attivismo e si scambia la protesta per aiuto concreto.

Gaza ha bisogno di corridoi sicuri, di negoziati internazionali seri, di diplomazia che funzioni.

Non di bandiere al vento e di politici in cerca di ribalta sui ponti delle navi.

Betapress non ha paura di dirlo: così si rischia di trasformare la solidarietà in farsa.

 

About The Author


Scopri di più da Betapress

Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.

Rispondi