chi sta per nascere, è?
Una sentenza della Cassazione potrebbe far riaprire il dibattito sulla legge dell’aborto

“Anche la morte del feto va risarcita per la perdita del rapporto parentale”: è questo il titolo dell’articolo a firma di Antonio Serpetti di Querciara apparso sul Sole 24 Ore di martedì 7 ottobre. Perché lo citiamo? La risposta è che tratta di un tema tra i più stimolanti collegati alla difesa della vita. E diciamo questo in relazione – come qualcuno avrà forse già intuito – alla legge sull’aborto in vigore nel nostro paese.
Cominciamo dall’articolo sul “Sole”.
“La morte di un feto per responsabilità sanitaria causa ai genitori un danno da perdita del rapporto parentale – così si apre la cronaca -. Lo ha deciso la Cassazione (Terza sezione civile, ordinanza 26826/2025 depositata ieri) sul caso di una giovane donna, giunta alla 41ª settimana di gravidanza e ricoverata con chiari segni di sofferenza fetale”. Il giornale sottolinea che, “nonostante le evidenze cliniche e le ripetute richieste di intervento, i sanitari avevano omesso di procedere tempestivamente al parto cesareo, eseguendolo solo la mattina successiva. Il feto nasceva ormai privo di vita per grave asfissia perinatale”.
La morte del nascituro aveva provocato, oltre alle immaginabili ripercussioni psico-affettive sui genitori, la madre in primis, un seguito legale. La sentenza di primo grado aveva stabilito che ai genitori fossero attribuiti “165.000 euro ciascuno, importo poi dimezzato in appello, dove la perdita era stata qualificata come relazione affettiva solo potenziale”.
Nel sintetizzare la decisione della Cassazione su questo curioso (e drammatico) caso, il “Sole” precisa che “la relazione genitoriale nasce già durante la gestazione e si consolida progressivamente, sicché la morte del feto per condotta colposa dei medici lede un rapporto affettivo reale ed attuale, radicato nella sofferenza interiore dei genitori e nella loro quotidianità futura”.
L’aborto provoca un “danno relazionale”?
Ai fini della nostra riflessione sugli aspetti etici connessi alla morte fetale, la Corte ha evidenziato “da un lato la sofferenza morale soggettiva (dolore e lacerazione interiore), dall’altro il danno dinamico-relazionale (alterazione di abitudini e percorsi di vita)”. Il tutto collegato ai principi costituzionali sulla tutela della maternità e della vita (articolo 2, 29, 30 e 31) oltre che – nota il “Sole” – “all’articolo 8 della Cedu (Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo), che protegge la vita familiare”. La querelle legale della quale si è occupata la Cassazione riguardava la decisione se dimezzare oppure dare a ciascuno dei due genitori la somma suddetta (165 mila euro). Questione risolta con il pronunciamento n. 26826 già citato.
A questo punto a noi però interessa l’altro aspetto implicito in questa decisione della Corte. Visto che nel pronunciamento si riconosce – come osserva il giornale – che “la sofferenza per la perdita del figlio, anche non nato, è danno parentale pienamente risarcibile, poiché il legame genitoriale si radica ben prima della nascita”, come la mettiamo con lo “spirito” e la pratica della legge sull’aborto oggi in vigore in Italia?
La sentenza della Corte in pratica afferma che c’è una dimensione affettiva della genitorialità che si instaura sin dal concepimento, da riconoscere ad entrambi i genitori e da compensare, in caso di perdita colposa, a tutti e due.
Questo assunto pone l’esigenza di riprendere i principi ispiratori e la “lettera” della legge sull’aborto, per capire se essi rispettino o meno questo principio, insieme a quello fondamentale del diritto alla vita. Tutti sappiamo che la legge n. 194 del 22 maggio 1978 ha legalizzato l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) in Italia, sancendo il cosiddetto “Diritto all’autodeterminazione”, ovvero il fatto che la decisione di interrompere la gravidanza spetta esclusivamente alla donna. Dal che deriva che nessun altro soggetto, incluso il partner, può impedirle di esercitare questo diritto. Sappiamo ancora che l’aborto è consentito entro i primi 90 giorni (circa 12 settimane) di gestazione e dopo tale termine, è ammesso solo in caso di grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna o anche per gravi malformazioni del feto (aborto terapeutico).
Sin dal varo della legge c’è stata una vera e propria battaglia per difendere la vita dei nascituri e quindi contro la stessa “194”. Tale battaglia è stata avviata soprattutto da parte di realtà cattoliche, prima fra tutte il Movimento per la Vita guidato dall’onorevole Carlo Casini, per il quale in queste settimane si è avviata la procedura per la causa di beatificazione.
La visione cattolica sull’aborto volontario
Le principali obiezioni di carattere religioso sono le seguenti: al primo posto la “sacralità della vita”, in quanto secondo la dottrina cattolica la vita umana inizia dal concepimento e va tutelata in ogni fase. Il secondo aspetto è che l’aborto è considerato un peccato tra i più gravi. La Chiesa infatti da sempre definisce l’interruzione volontaria della gravidanza un atto moralmente inaccettabile, equiparabile all’omicidio. In terzo luogo, c’è la realtà della sofferenza derivante dall’aborto volontario, da una parte del bambino che finisce bruscamente di vivere e dall’altra della madre che decide di rinunciare alla gravidanza affidandosi ai sanitari per interromperla con modalità chirurgiche o chimiche. Dal che le riflessioni di teologi e moralisti che sottolineano, in alternativa, che affrontare una gravidanza difficile, resistendo alla tentazione di abortire, è un percorso da tentare per evitare i danni fisici e morali per madre e feto, con il corollario che la donna in questione va certamente aiutata a scegliere la vita piuttosto che la sua interruzione.
Occorre anche tenere presenti altre obiezioni che non vengono soltanto dal mondo religioso, ma anche da realtà culturali, politiche o comunque ispirate da valori umanitari. Eccole: la prima è che esistono dei diritti del nascituro, di fatto negati con l’aborto deciso soltanto dalla donna/madre. Il primo di tali diritti è quello alla vita, cioè a poter continuare a crescere nell’utero materno fino a piena maturazione. Come evidente, tale diritto primordiale e fondamentale viene totalmente negato dall’aborto. Partendo da questa constatazione, nel tempo sono state avanzate alternative all’aborto: ad esempio portare a termine la gravidanza, partorire in forma anonima e poi dare in adozione il bimbo “non voluto”. Oppure sono venuti avanti alcuni modelli e iniziative di sostegno economico alla maternità, quali il “Progetto Gemma”, grazie al quale sono potuti nascere alcune migliaia di bambini e bambine che altrimenti, per gravi difficoltà delle gestanti, sarebbero stati abortiti.
Al fondo delle visioni contrarie alla “194” c’è una critica alla cosiddetta “cultura dello scarto”, per la quale alcuni settori dell’opinione pubblica vedono l’aborto come parte di una mentalità che tende a eliminare ciò che è considerato “scomodo” o “imperfetto”. Di questo aveva parlato Papa Francesco, definendo i medici che praticano l’aborto dei “sicari” e alienandosi così le simpatie dei sostenitori (per lo più a sinistra) della stessa legge sull’aborto in Italia. Papa Leone, dal canto suo, ha ribadito in più occasioni che la vita è sacra sin dal concepimento e fino alla morte naturale, con ciò lanciando un messaggio esplicito riguardo alle discussioni in corso nel nostro paese sull’eutanasia e il suicidio assistito.
Il nascituro ha diritto alla personalità giuridica?
E ora veniamo al punto conclusivo di questa riflessione: la questione se sia giusta in sé la libertà di abortire, e inoltre se sia accettabile che la decisione di interrompere la gravidanza spetti soltanto alla donna, tagliando fuori il marito/compagno che eventualmente fosse contrario e perciò deciso a tenere il figlio in arrivo.
Ebbene, leggendo attentamente il pronunciamento della Corte di Cassazione, parrebbe emergere una contraddizione o almeno una incongruenza all’interno del dettato della “194”. Se infatti si afferma che una morte del feto per cause colpose (medici che sbagliano, come nel caso in oggetto) provochi un danno da perdita del rapporto parentale; se ancora si nota che la relazione genitoriale insorge già durante la gestazione e si consolida progressivamente con l’avanzare della gravidanza, allora tale riconoscimento di un rapporto affettivo reale e attuale nei confronti del nascituro non configura pienamente e chiaramente che quello che sta per nascere è un soggetto umano a tutti gli effetti?
La risposta non può essere che affermativa, perché altrimenti sarebbe difficile pensare di attribuire ai genitori che perdono il feto una forma di “affetto” verso un oggetto privo di caratteristiche umane, in pratica un qualcosa di non meglio identificabile se non per qualche sparuta forma vitale comunque non ancora “umana”.
La sentenza riconosce una forma di sofferenza morale soggettiva per il figlio non nato, e un conseguente danno “dinamico” di tipo relazionale (vale a dire l’impossibilità futura di avere un rapporto affettivo forte con un bambino che non ha potuto nascere). Di fatto questo pronunciamento ci induce a riconoscere, per logica interna, che anche l’aborto è una scelta volontaria che pone fine a un bambino che avrebbe avuto tutti i diritti di nascere e che avrebbe suscitato sin dalla gravidanza una relazione affettiva di tipo dinamico, che comunemente conosciamo come affetto paterno e materno.
Sembra di capire che la sentenza di cui stiamo parlando potrebbe far riaprire il dibattito sull’essenza filosofica ed etica della legge sull’aborto, in quanto va a riconoscere a entrambi i genitori un danno parentale pienamente risarcibile. Ma allora non vi sembra che, se il legame genitoriale con il nascituro si radica ben prima della nascita, bensì dal momento in cui i due genitori prendono atto che sta arrivando un figlio o una figlia nella loro vita, allora quello che sta per nascere è un essere umano a tutti gli effetti e ha diritto alla piena personalità giuridica sin da dentro il seno materno?
E’ chiaro che, messa così la questione, potrebbe voler dire di riconsiderare la legge sull’aborto in termini costituzionali, richiamando il valore umano del concepito e collegandolo con la Costituzione italiana che tutela la vita (già citati art. 29-30-31). Ne deriverebbe che il tanto strombazzato “diritto all’aborto”, come libertà di scelta esclusiva della donna, dovrebbe essere riconsiderato, inserendo in esso il “diritto” di altri due soggetti: quello del coniuge/compagno, al momento non previsto e che viene comunque conculcato a favore della donna nel caso che l’uomo sia contrario; e soprattutto quello del nascituro che non viene affatto considerato, come non fosse un “uomo/donna in potenza”.
Ci fermiamo qui, lasciando al lettore di proseguire nel ragionamento. Aggiungiamo soltanto che, se tali presupposti fossero accettati, verrebbe meno il diritto assoluto della donna di decidere se abortire o meno, perché a quel punto la donna/madre si troverebbe di fronte alla domanda non etica ma giuridica: che diritto ho io donna di far finire la vita dia un altro essere umano, indipendente da me e di cui non posso disporre?
Luigi Crimella già giornalista presso Agensir, agenzia di stampa della CEI (Conferenza Episcopale Italiana)
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