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L’8 settembre 1943 rappresenta una delle giornate più tragiche e decisive della storia italiana contemporanea.

È la data che segna la fine del ventennio fascista come esperienza politica organica al potere e l’inizio del drammatico sbandamento militare e istituzionale che condusse il Paese alla guerra civile, alla divisione territoriale e morale, e a una lunga stagione di occupazione tedesca.

n questo scenario, la figura del maresciallo Pietro Badoglio emerge come simbolo ambiguo e controverso: uomo di apparato, militare cresciuto nella logica delle gerarchie sabaude e fasciste, privo di genio strategico e di autentica statura politica, ma assurto al ruolo di capo del governo dopo la caduta di Mussolini, si trovò a gestire il momento più delicato della storia nazionale con una combinazione di indecisione, segretezza e incapacità organizzativa.

La giornata dell’8 settembre fu preceduta da settimane convulse.

Dopo lo sbarco alleato in Sicilia e la caduta di Mussolini (25 luglio 1943), il re Vittorio Emanuele III affidò a Badoglio la guida del governo.

L’illusione di molti italiani era che si potesse uscire rapidamente dalla guerra, siglando un accordo con gli Alleati e ridando al Paese una prospettiva di pace.

Ma la realtà fu ben diversa.

L’armistizio con gli angloamericani, firmato a Cassibile il 3 settembre, venne reso pubblico soltanto il giorno 8, quando Dwight Eisenhower lo annunciò alla radio.

Badoglio, preso alla sprovvista, si limitò a una dichiarazione laconica che avrebbe fatto storia per la sua vaghezza: “Ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo.

Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”. Parole confuse, che lasciarono senza ordini chiari milioni di soldati al fronte e nelle caserme.

La mancanza di direttive precise trasformò l’Italia in un Paese allo sbando.

L’esercito, già provato da anni di guerre disastrose, si ritrovò privo di comando.

I reparti furono lasciati a sé stessi: alcuni tentarono di resistere ai tedeschi, altri si arresero senza combattere, molti si dispersero cercando di tornare a casa.

Il re e Badoglio, invece di coordinare una strategia difensiva, fuggirono da Roma nella notte tra l’8 e il 9 settembre, rifugiandosi a Brindisi sotto protezione alleata.

La capitale, simbolo del potere e della nazione, venne abbandonata al suo destino, cadendo nelle mani delle truppe tedesche. In quell’assenza di guida, il Paese si divise: al Nord nacque la Repubblica Sociale Italiana sotto l’egida di Hitler, mentre al Sud l’Italia divenne cobelligerante con gli Alleati.

La figura di Badoglio appare, alla luce dei fatti, come il paradigma del burocrate militare che non seppe mai trasformarsi in leader politico.

Già durante la Prima guerra mondiale aveva mostrato limiti gravi: fu tra i responsabili della disastrosa disfatta di Caporetto, anche se seppe abilmente scaricare le colpe su altri generali e sulla stessa condizione morale delle truppe. Eppure la monarchia lo premiò con onori e promozioni, tipico segnale della logica di sopravvivenza delle élite militari italiane.
Negli anni del fascismo, Badoglio non fu mai un oppositore: collaborò con il regime, ne condivise la politica coloniale in Libia e in Etiopia, distinguendosi per ferocia e per la gestione di campagne militari spesso condotte con metodi brutali, compreso l’uso dei gas.

Era dunque l’uomo perfetto per rappresentare quella continuità istituzionale che il re cercava dopo il 25 luglio: un militare fedele, ma non carismatico, capace di garantire una transizione senza scossoni.

Tuttavia, quando si trattò di affrontare una prova storica, Badoglio dimostrò tutta la sua pochezza.

Non pianificò con lucidità la gestione dell’armistizio, non predispose una strategia per difendere la capitale, non fornì ordini chiari alle truppe.

La sua decisione di fuggire da Roma insieme al sovrano segnò l’immagine della monarchia e dell’intero Stato come entità incapace di guidare la nazione nel momento della crisi.

Le conseguenze furono devastanti: centinaia di migliaia di soldati italiani furono catturati dai tedeschi e deportati nei campi di prigionia, gli IMI (Internati Militari Italiani), che costituirono uno dei capitoli più drammatici della guerra.

La popolazione civile, lasciata senza protezione, visse mesi di occupazione caratterizzati da rastrellamenti, rappresaglie e violenze.

L’Italia si divise in due, inaugurando una stagione di guerra civile che avrebbe lacerato il tessuto sociale del Paese per anni.

L’8 settembre italiano rimane dunque il simbolo del fallimento di un’intera classe dirigente, ma anche il marchio indelebile della mediocrità di Pietro Badoglio.

Non seppe essere stratega, non seppe essere capo politico, non seppe incarnare la responsabilità verso un popolo che attendeva ordini e protezione.

La sua figura rimane quella di un uomo che, pur trovandosi al centro della storia, preferì il silenzio e la fuga all’assunzione di responsabilità.

Così, il giorno dell’armistizio resta, nella memoria collettiva, non soltanto la data dell’inizio della Resistenza e della rinascita democratica, ma anche la data della vergogna, della confusione e del tradimento.

E al centro di quel dramma, il nome di Badoglio continua a evocare l’immagine di chi non seppe essere né condottiero né statista, ma solo l’emblema di una nazione abbandonata al proprio destino.

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