La porta Girevole: quando lo Stato dovrebbe fermarsi a 70 anni negli incarichi pubblici

Vi sono molti documenti ufficiali in rete in cui si può rilevare la nomina ad incarichi di governo o similari di persone con età che supera i settant’anni ma anche gli ottant’anni, la più recente del Ministero della Salute.
Atti perfettamente legittimi sul piano formale, ma che sollevano interrogativi sostanziali sul rapporto tra età, incarichi di Stato e rinnovamento della classe dirigente.
La questione non è tanto, o non solo, anagrafica.
L’esperienza, la competenza e la memoria storica di chi ha vissuto decenni di vita professionale sono risorse preziose, difficilmente sostituibili.
L’anzianità, se accompagnata da lucidità e competenze aggiornate, può essere un valore aggiunto.
Ma è proprio qui che si apre il tema: in un Paese che soffre di un ricambio generazionale asfittico, è opportuno affidare incarichi pubblici di responsabilità a chi ha superato abbondantemente i 70 anni?
In molti sistemi istituzionali, la soglia dei 70 anni rappresenta un limite naturale per incarichi di vertice: non per discriminazione, ma per garantire l’alternanza e l’apertura a nuove competenze (vedasi box fondo articolo).
In Italia, invece, la pratica degli incarichi a età molto avanzate è tutt’altro che eccezionale.
Spesso si tratta di figure che si muovono all’interno della cosiddetta porta girevole, quel meccanismo per cui gli stessi nomi circolano da un incarico all’altro, presidenti, amministratori, revisori dei conti, consiglieri e alla via così, tra politica, enti pubblici e società partecipate, senza che nuovi protagonisti possano emergere.
In Italia, il fenomeno della porta girevole è radicato e trasversale.
Lo stesso nome, mutuato dal mondo politico anglosassone, descrive il continuo passaggio di alcune figure tra incarichi politici, amministrativi e di vertice in enti pubblici o partecipati.
Il risultato è duplice: da un lato, un numero limitato di persone concentra per decenni potere e influenza; dall’altro, si blocca l’accesso alle nuove generazioni e alle competenze emergenti.
Negli ultimi anni abbiamo visto ex ministri diventare presidenti di enti pubblici, ex parlamentari passare a consigli di amministrazione di aziende partecipate e, viceversa, manager pubblici candidarsi alle elezioni per poi tornare a ruoli istituzionali.
Tutto ciò alimenta il sospetto, sospetto che è quasi una certezza, che le nomine non rispondano solo a criteri di merito, ma principalmente a logiche di fedeltà politica e/o di scambio di favori.
La “porta girevole” non è solo una questione di trasparenza, ma di efficienza del sistema: quando le stesse persone si avvicendano negli incarichi, le idee restano le stesse, i processi non si rinnovano e le riforme faticano a decollare.
Interrompere questo circuito vizioso significherebbe introdurre regole chiare: limiti di età, divieto di cumulo di incarichi e periodi di raffreddamento prima di passare da un ruolo politico a uno gestionale e viceversa.
Un’etica istituzionale moderna e lungimirante dovrebbe, appunto, prevedere una diversa distribuzione dei ruoli: a chi ha superato una certa età, e che può vantare una carriera ricca di esperienze, si potrebbe affidare un ruolo consultivo di alto profilo, come la partecipazione a comitati etici sub parte, pensati per supportare e indirizzare le decisioni, ma non per esercitare direttamente il potere gestionale.
Sarebbe una forma di rispetto reciproco: verso la loro competenza, e verso le nuove generazioni che cercano spazio.
Il problema non riguarda solo il merito, ma la percezione pubblica.
Quando un incarico importante viene affidato a una persona in età molto avanzata, la sensazione, spesso giustificata, è che si tratti di un atto di riconoscenza politica, di una ricompensa o, peggio ancora, di una manovra per mantenere consenso in determinati ambienti.
Uno Stato serio evita di dare incarichi “per ottenere voti”: la credibilità delle istituzioni passa anche dalla trasparenza e dall’equilibrio con cui vengono scelte le figure apicali.
La politica, se vuole riconquistare la fiducia dei cittadini, deve uscire dalla logica della rendita e investire nella formazione e nella crescita di una nuova classe dirigente.
Gli incarichi pubblici non possono essere interpretati come poltrone a vita, ma come responsabilità temporanee, da esercitare con spirito di servizio e da lasciare in eredità a chi viene dopo.
In sintesi, l’età può e deve essere un patrimonio per il Paese, ma a condizione di trovare il giusto equilibrio tra il passato che guida e il futuro che avanza.
Perché, se è vero che la saggezza non ha scadenza, è altrettanto vero che il rinnovamento non può attendere all’infinito.
Box di approfondimento
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